Geolibri – l’AGRICOLTURA che cambia – “I NUOVI CONTADINI” di Jan Douwe Van Der Ploeg – le campagne e le risposte alla globalizzazione

Jan Douwe Van Der Ploeg, olandese, è più che un ricercatore-sociologo rurale: analizza la situazione, il ruolo e il senso dell’agricoltura contadina in un contesto di globalizzazione, in particolare quello degli “imperi” dei mercati agricoli e delle multinazionali dell’agro-industria. E le risposte da dare.

    Jan Douwe Van Der Ploeg è più che un sociologo rurale; forte di un’esperienza più che trentennale in diverse parti del mondo, questo ricercatore olandese dell’università di Wageningen è stato consigliere del ministro italiano dell’agricoltura e coordina attualmente diversi progetti europei di ricerca. Il libro che presentiamo qui è stato tradotto in italiano nel 2009, mentre l’edizione in lingua inglese, a cui si fa riferimento, risale al 2008.

   Jan Douwe Van der Ploeg analizza la situazione, il ruolo e il senso dell’agricoltura contadina in un contesto di globalizzazione, in particolare quello degli “imperi” dei mercati agricoli e delle multinazionali dell’agro-industria. L’autore difende l’esistenza di una condizione contadina caratterizzata dalla lotta per l’autonomia, attraverso l’autogestione di risorse condivise e le iniziative associative.

   Questa condizione contadina conduce a adottare o adattare un modo di produzione contadino che è fondamentalmente diverso da quello dell’impresa agricola o dell’agribusiness. L’argomentazione si basa su tre studi longitudinali (su 30 anni) in Perù, in Italia e nei Paesi Bassi, che offrono un materiale originale in situazioni contrastate in materia di sviluppo rurale e di evoluzione delle strutture agrarie.

   Con grande efficacia, J. D. Van der Ploeg mostra come le agriculture familiali del Nord e del Sud confrontate alla dipendenza crescente di mercati globalizzati adottano o riattualizzano delle forme di resistenza o di distanziazione dalla logica produttiva capitalista. Il nuovo Impero è costituito, tra le altre cose, dalle imprese transnazionali che praticano un capitalismo selvaggio, predatore di risorse naturali e per lo meno aggressivo, anche nei paesi industrializzati (per esempio le relazioni dei produttori con le grandi centrali d’acquisto delle reti di ipermercati). Queste diverse pratiche di resistenza caratterizzano secondo l’autore, un processo di ricostruzione contadina o “ri-contadinizzazione”, anche nei paesi europei industrializzati, laddove le società contadine sono scomparse da tempo.

JAN DOUWE VAN DER PLOEG: The new peasantries: struggles for autonomy and sustainability in an era of Empire and Globalization, London, Sterling, Earthscan, 2008, 356 pp. ; edizione italiana : I nuovi contadini, le campagne e le risposte alla globalizzazione, Roma, Donzellie Editore, 2009, 403 pp., euro 39,50

   D’altronde, Van der Ploeg considera che questo processo costituisce una delle alternative alle crisi economiche, sociali, alimentari ed ecologiche alle quali conduce inevitabilmente la globalizzazione capitalista dei mercati e dei sistemi di produzione agricoli.

   Le caratteristiche di questo processo di ricostruzione contadina che sembra a prima vista paradossale, tengono a diversi fattori. Ma il primo dei paradossi che pone Van der Ploeg è di capire perché questo processo è fino ad oggi stato ignorato dalla scienza (pp. 18-19), come se esso fosse nascosto o invisibile. Diverse spiegazioni pertinenti sono avanzate.

1. La prima tiene all’assimilazione rapida ma “virtuale” del fatto che l’agricoltura costituirebbe un settore economico come gli altri (commercio e industria) ignorando per esempio le riflessioni, peraltro non nuove (Polanyi, 1944), sui fallimenti della mercificazione della terra e del lavoro (pag. 20). Van der Ploeg constata al contrario:

– che esistono dei limiti nella transizione del modo di produzione contadino al modello dell’imprenditore agricolo, i quali tengono alle differenze essenziali (ma il più delle volte negate o ignorate) tra la teoria economica e le pratiche imposte dalla natura dell’attività agricola: quella delle realtà biologiche, ma anche sociali e umane, inerenti alla produzione agricola;

– la contraddizione fondamentale tra queste pratiche inconturnabili e l’identità recente d’imprenditore agricolo conduce a delle devianze rispetto alla teoria economica;

– il fatto che queste devianze, interpretate come delle imperfezioni temporali, siano sistematicamente ignorate da un punto di vista teorico, ha condotto a creare delle realtà virtuali e un modello di “agricoltore virtuale”, che, in tal modo, non permettono di adattare le politiche pubbliche alle situazioni concrete e non contribuiscono in niente allo sviluppo di unità di produzione sostenibili.

2. La seconda spiegazione risiede nell’inadeguatezza dei “peasant studies” – studi contadini – (pag. 21):

– attraverso la separazione artificiale tra un sistema contadino di autosussistenza “sottosviluppato” e un sistema agricolo d’impresa detto “sviluppato” e legato al mercato capitalista, mentre i due sistemi evolvono secondo un’articolazione dinamica;

– attraverso la sopravvalutazione del modello della società contadina, trascurando lo studio delle pratiche specifiche del modo di produzione contadino (tecniche, istituzionali e simboliche);

– attraverso l’insistenza data alla subordinazione dei contadini piuttosto che alle loro capacità di resistenza e di organizzazione al Nord come al Sud;

– attraverso le difficoltà dell’analisi marxista come dell’approccio neo-classico a integrare la capacità di modernizzazione del modo di produzione contadino: adattamento e diverse categorie di mercati, mobilizzazione di sorgenti eterogenee di reddito tramite attività complementari (pluriattività), valorizzazione di attività multilivello, multidimensionali e multifunzionali;

– attraverso la difficoltà nel comprendere i sistemi contadini come dei processi dinamici ed differenziati e dunque, diversi “gradi di contadinità”.

   Van der Ploeg insiste sul bisogno di una definizione positiva e sostantiva dei contadini, in funzione di quel che effettivamente sono e non “di quel che non sono”.

   Egli propone una definizione della condizione contadina, definita da sei caratteristiche : una relazione di coproduzione con la natura (pag. 24) ; la costruzione e l’autogestione di una base di risorse autonoma (terra, fertilità, lavoro, capitale) (pag. 25) ; una relazione differenziata con dei mercati diversificati che autorizza una certa autonomia (pag. 27) ; un progetto di sopravvivenza e di resistenza legato alla riproduzione dell’unità familiale (pag. 30); la pluriattività ; la cooperazione e le relazioni di reciprocità (pag. 48).

   E’ dunque l’espressione diversificata della natura eterogenea di questa condizione contadina che conduce a diversi tipi di modo di produzione contadino, costruiti intorno a caratteristiche comuni: una relazione con delle risorse naturali viventi, ma limitate (capitale ecologico) ; l’intensificazione del lavoro e la valorizzazione dell’aiuto reciproco; una presa di distanza istituzionalizzata dalle regole del mercato capitalista associata alla capacità di autonomia rispetto al mondo capitalista.

   Ma il principale interesse dell’opera è che a partire di questa riflessione teorica e metodologica critica, in ciascuno dei tre casi, Van der Ploeg arriva a costruire i fondamenti di un principio contadino che è arricchito e sviluppato, approfondendone le basi teoriche proposte in partenza. Questo arricchimento è possibile a partire di studi di caso estremamente lavorati e documentati dalla ricchezza del materiale analizzato sul tempo lungo, in particolare le pratiche contadine e le ragioni o giustificazioni di queste pratiche, in particolare di fronte al sistema agro-industriale transnazionale.

   Questo principio contadino corrisponde a un progetto economico e sociale rustico ma robusto poiché rodato su pratiche millenarie di pratiche e di resistenze, e in questo senso da’ un’orientazione alla nozione di condizione contadina : « The peasant condition assumes agency in order to realize the choreography… It is only through active and goal-oriented involvement that the peasant condition will progressively unfold ».

   Van der Ploeg oppone continuità e robustezza dei sistemi contadini alla fragilità o alla precarietà del sistema degli imperi agroindustriali che in qualche decennio sono riusciti a distruggere una grande parte delle risorse naturali agrarie del nostro pianeta. L’autore mostra come l’Impero Parmalat distruggeva ugualmente il valore del lavoro contadino e il valore aggiunto delle cooperative o delle agro-industrie di taglia umana (pp. 98-99).

   Questo principio contadino è anche caratterizzato da una serie di risposte degli agricoltori coinvolti nella ondizione contadina. La prima è la capacità di coordinazione e di cooperazione in materia di resistenza all’Impero (lotte collettive, comunitarie, difesa di patrimoni comuni naturali o identitari (pag. 260). In questo senso l’Impero provoca nuove aggressioni, dunque nuove resistenze che conducono alla ricostruzione di forme contadine attraverso le lotte, come nel caso dei perimetri irrigati di Piura nel Perù, o dei Sem Terra in Brasile (pp. 261-262). Nei diversi casi studiati, la resistenza non si limita alla difesa dei fattori di produzione, ma riguarda anche e soprattutto la relazione identitaria e simbolica alla terra, che talvolta per perpetuarsi deve adottare delle strategie di aggiramento attraverso la pluriattività o la migrazione.

   Tra le risposte “nuove” (novelties) o moderne, il principio contadino annovera delle innovazioni tecnologiche di natura contadina come l’agroecologia o di natura istituzionale come le cooperative territoriali in Frisia, le reti di semi contadini, o i mercati contadini. Si tratta di iniziative “solidali” che danno visibilità ai contadini (creano reputazione e prestigio, come nel caso dei dispositivi di qualificazione geografica dei prodotti) al contrario delle strutture dell’Impero che li mantengono anonimi, invisibili e sfruttati (pag. 269).

   Il principio contadino è ugualmente associato alle performances superiori del modo di produzione contadino rispetto a quelle dell’impresa agro-industriale in termini di efficacità di utilizzazione delle risorse (acqua, terre, lavoro), di relazione natura/società, di qualità dei prodotti, di qualità della vita e d’integrazione o d’inclusione sociale (cf. casi citati – pag. 276 e seguenti).

Una prima sintesi delle caratteristiche del progetto contadino per il terzo millenario, rigorosamente esposto da Van der Ploeg nei tre casi, porta invariabilmente a due principali tipi di relazione: cooperazione e reciprocità da una parte e condivisione di risorse dall’altra, i quali possono essere considerati, in base alla loro ricorrenza, come delle strutture sociali e economiche dei mondi contadini. Ma i tre casi di studio fanno tutti ugualmente riferimento a una serie di valori condivisi:

valori comunitari a Catacaos in Perù (pag. 61): unità e indistuttibilità della comunità, responsabilità democratica di tutti i membri, uguaglianza dei diritti e dei doveri, accesso alla ricchezza attraverso il lavoro, priorità alla soddisfazione dei bisogni elementari di tutti, solidarietà di classe;

valori condivisi in Frisia, nei Paesi Bassi (pag. 190): forza della comunità, unità tra uomo e natura, responsbilità verso le risorse naturali, del territorio e delle generazioni future, efficacità nell’uso delle risorse e qualità dei prodotti, fiducia tra partenaires e resilienza dell’organizzazione cooperativa, solidarietà, qualità della vita e amicizia; “soddisfazione e gioia” o ancora valori estetici come “la bellezza dell’impegno profuso nella produzione agricola” (pag. 275).

economia morale degli imprenditori agricoli e dei contadini di Parma (pp. 114, 140 e 162): qualità di un lavoro ben fatto, qualità dei prodotti, qualità della vita, riferimenti alla tradizione e al savoir-faire ancestrale, rispetto delle norme, dei contratti (compresi quelli del mercato)…

   Tutti questi valori, anche se hanno certamente un’incidenza diretta sulla produzione, la circolazione dei prodotti e sul benessere delle famiglie, vanno considerati prima di tutto come dei valori morali, etici o affettivi. E’ in effeti sulla base di questi valori  che le strutture socio-economiche fondate su reciprocità e cooperazione si sono  perpetuate o possono essere ricostruite e attualizzate dai contadini nel corso  dei secoli. Solo gli agricoltori che  hanno fondato i loro progetti attorno a questa base di valori, alla base del  patrimonio locale, riescono a aggirare i meccanismi di esclusione e gli  ostacoli posti dall’Impero.

   E’ d’altronde questo tipo di  approfondimento della nozione di “principio contadino” che l’autore invita a  fare in conclusione del suo lavoro. Per Jan Douwe Van der Ploeg il principio contadino deve essere  considerato come la capacità della condizione contadina a progettarsi nel  futuro, ovvero a difendere dei valori materiali, ma anche etici e morali, a  difendere insomma un progetto sociale.

   Tra le caratteristiche del  principio contadino l’autore identifica dei “meccanismi alternativi di conversione del valore” (pag. 269), cioè  dei dispositivi che permettono ai contadini (e ai consumatori), per mezzo delle  relazioni di reciprocità (pag. 270), di non aver ricorso al mercato di scambio  capitalista nel quale l’Impero trasforma ogni bene e ogni relazione in valore  di scambio mercantile.

   L’espressione “conversione del  valore” si traduce in due principali tipi di dispositivi. Da un lato si trovano  dei meccanismi fondati sulle relazioni di reciprocità simmetrica (aiuto,  condivisione di risorse, mututalizzazione di servizi) che associano la  produzione di valori etici alla produzione o alla circolazione di valori  materiali. Dall’altro lato appaiono dei dispositivi “di conversione” o  d’interfaccia che permettono un’articolazione tra sistema di scambio mercantile  e sistema di reciprocità, come la vendita diretta (relazione interpersonale  produttore/consumatore), la qualificazione dei prodotti attraverso Indicazioni Geografiche (che protegge  dalla concorrenza del sistema di scambio capitalista e crea identità) o ancora  delle forme ibride che combinano scambio mercantile e reciprocità, come il  movimento Slow Food (pag. 270). In conclusione, tra i principali  contributi del libro, si possono ricordare tre elementi chiave:

– la critica dei “peasant studies” mostra che la fine delle società contadine non significa automaticamente la fine  dei contadini e la loro trasformazione in imprenditori agricoli o familiali  al Nord come al Sud. E questo, per fare un parallelo, equivale al fatto che un  indigeno delle Ande peruviane emigrato nelle barriadas di Lima non si trasforma  neanche lui in modo automatico in proletario mobilizzato nella lotta delle  classi;

– la costruzione del concetto di  condizione contadina e l’attualizzazione al contesto del terzo millennio,  del modo di produzione contadino come antitesi del modello dell’impero agroindustriale: “Parmalat ha prodotto del valore?” (pag. 96);

– un abbozzo di un principio  contadino, con l’identificazione ricorrente di strutture di reciprocità (solidarietà, condivisione di  responsabilità e di risorse, etc.) associate alla produzione di valori etici (amicizia, uguaglianza, fiducia,  impegno, etc.) considerate dalle comunità rurali o contadine come dei valori  condivisi (per chi ha letto Carlo Petrini vien da pensare alle Comunità del  Cibo).

   Infine, per quel che riguarda la  forma, questo libro è scritto come un romanzo sfaccettato, in cui ogni capitolo  racconta una storia, quella di contadini, d’imprenditori e d’imprese, a cui si  aggingono delle analisi lucide e brillanti, illustrate de numerosi dati e  testimonianze di attori, oltre che a una bibliografia che attinge ad autori di  ongi dove, dall’Olanda all’America Latina, senza dimenticare l’Italia. (Luca Piccin)

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