Geofilm – “Gran Torino”: la convivenza pacifica è un fatto di testa e non di etnia

"Gran Torino" di Clint Eastwood
"Gran Torino" di Clint Eastwood

Nel contesto del bellissimo ultimo film  di Clint Eastwood (appena uscito nelle sale), tra la vicenda bella, difficile e dolorosa, si può anche dare un senso di come si sta realizzando una nuova geografia del mondo.   E che questa cosa, il “miscuglio” di etnie, è “meno male” di quel che si pensi. Se ne accorge il protagonista del film che qui vi proponiamo Walt Kowalski (di origine polacca, pertanto lui stesso “prodotto” del Melting Pot statunitense, miscuglio questo quasi perfettamente riuscito…). Kowalski, razzista e all’origine chiuso verso ogni forma di novità, si accorge che i suoi nuovi vicini di casa (vietnamiti di etnia “Hmong”, popolazione questa che all’epoca del conflitto in Indocina si allearono con gli americani, e furono uccisi o fuggirono) sono molto meglio dei suoi apatici ed egoisti figli e nipoti. E se ne affeziona totalmente.

Prima di darvi una critica cinematografica a questo bel film, vogliamo dire qualcosa (in due righe, senz’alcun piglio scientifico) sull’origine che può esserci nel cosiddetto “conflitto etnico”. Esso spesso nasce da motivi di chiusura verso il nuovo, di rifiuto di ogni diversità. Ma alla base del conflitto che a noi geografi interessa esaminare in questo momento, c’è anche la “disposizione urbanistica, stanziale” dei nostri paesi, delle nostre città.  Cioè “dell’abitare”.    Spesso la vita in luoghi concentrati (che peraltro noi auspichiamo, per evitare una città diffusa che ha portato fin qui a guasti e problemi notevoli all’ambiente e al territorio), la vita in aree residenziali, zone di edilizia popolare, condomini, palazzi e centri delle città… insomma tutta un’urbanistica (a volte bella, a volte -spesso- mediocre), può portare a “incomprensioni” quotidiane con i propri vicini di casa.

Facciamo un esempio banale. Se la bambina del piano di sopra sta imparando a suonare il violino, ci possono essere due atteggiamenti diversi da parte di chi, vicino di casa è, volente o no, costretto ad ascoltare quel suono:

1) se i rapporti con la famiglia della aspirante musicista sono buoni, allora ci sarà sicuramente una partecipazione serena a quella musica, o perlomeno una sopportazione benevola;

2) se i rapporti non sono buoni, allora ci sono liti e arrabbiature (pertanto la reazione è contrapposta a seconda dell’equilibrio o meno del vissuto quotidiano di buono o cattivo vicinato).

E, nel caso di accadimenti “molesti” – come i suoni o i rumori- tra vicini non in buoni rapporti, se questi rumori “molesti” provengono da una famiglia di immigrati stranieri, allora, oltre all’arrabbiatura, alla lite, vi è pure (e qui sta il punto) un problema di “conflittualità etnica” (“loro” sono diversi da noi, ed è impossibile viverci assieme…).    Il film di Eastwood smonta completamente questo meccanismo psicologico razziale (razzista):  fa vedere i due diversi piani di rapporto con un vicinato “straniero”, il primo appunto negativo (di chiusura) e il secondo (quello definitivo) di grande e totale amicizia.     E’ da chiedersi cosa fare per creare comprensione, serenità, nelle nostre città, nei condomini, in qualsivoglia aggregato abitativo, perché il rapporto tra persone e famiglie che all’origine non si conoscono sia improntato ad arricchimento e socialità. Un tema-proposta da trattare (a questo proposito) di integrazione, può essere quello di introdurre modi comuni e condivisi di “cultura all’abitare“, di “educazione all’abitare“…. specie di regole indotte e condivise per un comune rispetto (che peraltro si possono anche in modo soft insegnare a chi arriva da realtà urbane completamente diverse: pensiamo alla gestione dei rifiuti, o appunto alla limitazione dei rumori molesti… o a forme di conoscenza e integrazione attraverso piccole feste o giochi per bambini etc,  di condominio o di quartiere… cose queste che stanno faticosamente affermandosi in alcune realtà).   Resta altresì la necessità di un atteggiamento mentale “positivo” e di sana “curiosità” verso chi ha cultura, lingua e tradizioni diverse dalle nostre.

Ma diamo qui di seguito conto del film “Gran Torino”, attraverso la critica cinematografica di Roberto Pugliese, ripresa da “il Gazzettino” del 13-3-2009.

La rabbia etica di Clint Eastwood contro il razzismo

Il vecchio Walt Kowalski è un uomo corroso dalla rabbia. Ringhioso e diffidente, razzista e solitario, è in rotta con i figli (e con buona ragione…) e odia quei “musi gialli” di coreani che ha combattuto in guerra e che ora sono suoi vicini di casa, invadendo il quartiere con la loro presenza e osando attentare alla sua preziosissima macchina “Gran Torino” (un modello Ford anni ’70 reso popolare dalla serie “Starsky & Hutch”).

Ma sarà proprio prendendo istintivamente sotto la propria ala di ispida protezione uno di loro, un ragazzo fragile e vessato da una gang non a caso multietnica, che Walt riscoprirà da che parte stanno i veri valori e fino a che punto val la pena di spendersi per difenderli.

Aspettando la biografia di Mandela con Morgan Freeman, il nuovo Eastwood, duro e puro come la faccia ormai scolpita dell’instancabile quasi ottantenne regista-protagonista, sembra uscire da una costola di “Letters from Iwo Jima”: per la capacità, sublime e radicale, di adottare il punto di vista dell’”altro” fino a farlo coincidere e trionfare con il proprio.

A ciò contribuiscono il bel copione di Nick Schenk e Dave Johannson, e l’asciuttezza classica, quasi hawksiana di un andamento narrativo preciso, che ha toni netti da commedia nella prima parte, in cui Clint rifà il verso al suo Callaghan o al protagonista della “Trilogia del dollaro”, e vira inesorabile verso la tragedia rituale nel finale.

Aperto e chiuso da un funerale, storia di un uomo che si redime, “Gran Torino” è la metafora stessa del cinema di Eastwood, il più duramente e intransigentemente “etico” che ci sia oggi negli Usa; spietato contro i poteri forti, come in “Changeling” (si veda l’attrazione-repulsione verso la Chiesa, qui esplicitata dalla figura del giovane sacerdote), proteso sino all’estremo verso i giusti e i deboli, severo con se stesso almeno quanto con il resto del mondo.

Roberto Pugliese (il Gazzettino del 13-3-09)

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