G20: prove di Governo mondiale (delle nazioni) (ma dei popoli sarà mai possibile e praticabile?)

obama

Vi proponiamo qui tre articoli di analisi (geopolitica) sull’ “avvenimento G20” di Londra; tratti dal quotidiano “La Stampa”. Questo summit ci cambierà la vita? è in grado di risolvere la crisi economica che non è ancora giunta all’apice? Riuscirà finalmente a innestare lo sviluppo economico, in un grande piano di conservazione e risanamento ambientale, dando valore ad esempio alle energie da fonti rinnovabili? Riuscirà a dare risposte concrete ai due terzi dell’umanità che mancano di acqua e di alimentazione?

Tutto questo è difficile che accada; al di là delle possibili buone intenzioni. Se la crisi attuale (che si immette in una crisi ambientale e di sottosviluppo diffuso del pianeta di origine ben lontana) è data da un sistema finanziario scellerato (e da un mercato senza alcun controllo), secondo molti analisti ed esperti l’unico modo per uscirne è partire con l’aiutare concretamente i Paesi in via di sviluppo (che stanno subendo, anche “se non si sente da noi”, il maggior peso della recessione). E, appunto collegare l’economia a un nuovo modo di rapportarsi al nostro Pianeta e alle persone che lo vivono.

Qualcuno già dice che le vere decisioni si prenderanno al G8 che si terrà in Italia (all’isola della Maddalena dall’8 al 10 luglio prossimi): e questo vuol dire “stringere” il potere di decidere ai paesi tradizionalmente più ricchi, lasciando fuori della porta l’India e la Cina e tutte le nuove potenze economiche ed intellettuali che il pianeta esprime. E, ancor di più, lasciando completamente fuori i paesi poveri, come chi combatte nei propri Stati contro dittature sanguinarie…

G20 a Londra, G17 (voluto da Obama) dedicato ai cambiamenti climatici a Washington il 27-28 aprile (in preparazione della Conferenza di Copenhagen di dicembre dove lì ci saranno ben 191 Paesi presenti), G8 a luglio a La Maddalena… vien da pensare alla necessità di uno stabile e operativo Governo mondiale, dell’Economia, dell’Ambiente, dello Sviluppo e del superamento del Sottosviluppo; dove, in una logica il più possibile democratica, e federalista (cioè che riconosca la presenza di ogni “potere” vicino al problema che deve risolvere -mondiale come l’effetto serra, o continentale, o delle nazioni, delle regioni, delle città, dei villaggi…-), possa esso (Governo mondiale) fare sintesi efficace di questa attuale fase di trasformazione (che speriamo virtuosa) del nostro pianeta.

SCHEDA:

Il Gruppo dei 20 (o G20) è un forum creato nel 1999, dopo una successione di crisi finanziarie per favorire l’internazionalità economica e la concertazione tenendo conto delle nuove economie in sviluppo. Esso riunisce perciò i 19 paesi più industrializzati (quelli del G8 in primis) con l’Unione europea.

Il G20 rappresenta i due terzi del commercio e della popolazione mondiale, oltre a più del 90% del PIL mondiale. Paesi membri del G20: Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito, Russia, Stati Uniti, Australia, Arabia Saudita, Argentina, Brasile, Cina, Corea del Sud, India, Indonesia, Messico, Sudafrica,  Turchia, Unione europea.

IL G20 CAMBIERA’ LA NOSTRA VITA?

perché le decisioni che saranno prese condizioneranno il futuro di tutti

“domande e risposte” di Maurizio Molinari sul tema G20 di Londra – da La Stampa del 1-4-2009

Prima un G8 per l’economia, in futuro un G17 per l’ambiente, a che cosa serve il G20?

Prima un G8 per l’economia, in futuro un G17 per l’ambiente, a che cosa serve il G20?
Il G8 riunisce gli Stati Uniti, il Giappone, la Russia e le maggiori economie europee. Manca dunque una rappresentanza delle grandi economie emergenti del pianeta. La creazione di un forum per far incontrare questi due gruppi di Paesi si concretizzò nel 1999, quando si svolse il primo G20 a Berlino, ma solo nel novembre scorso a Washington, sulla scia della pesante crisi economica globale, vi fu il primo vertice che ratificò l’importanza di coinvolgere le nuove economie per risolvere gli equilibri del Pianeta. L’iniziativa presa dal presidente americano Barack Obama sull’ambiente è una conseguenza del «modello G20» perché i 17 Paesi invitati a confrontarsi su clima ed energia sono in gran parte gli stessi. Stiamo assistendo all’impatto delle sbarco delle nuove Potenze regionali sugli equilibri internazionali usciti dalla Seconda Guerra Mondiale.
Se i Paesi emergenti sono così importanti perché il summit si svolge a Londra?
Per due motivi. Il primo, tecnico, è che la Gran Bretagna è il presidente di turno del G20. Il secondo, politico, ha a che vedere con il fatto che Gordon Brown, premier britannico, condivide l’idea di dare una «risposta globale alla crisi» che l’ex presidente americano George W. Bush espose in novembre a Washington e che ora il successore Barack Obama declina nella richiesta alla comunità internazionale di varare uno “stimolo globale” per tentare di rilanciare la crescita del pianeta.
Quali sono gli aspetti della vita dei cittadini che più saranno affrontati dai leader del G20?
Sono due: occupazione e protezione di depositi e investimenti. L’occupazione è prioritaria per Stati Uniti, Gran Bretagna e Cina, accomunati dal fatto di aver varato pacchetti di stimoli per l’economia basati sull’idea che lo Stato debba intervenire per sostenere l’occupazione, facendo pesanti investimenti anche se questo significa aumentare il debito pubblico. Per i Paesi europei, a cominciare da Francia e Germania, la priorità invece è di modificare le regole della finanza internazionale per scongiurare il ripetersi del terremoto di questi mesi che ha divorato depositi bancari e investimenti tanto di singoli come di aziende. La differenza di approccio al summit fra gli angloamericani e i cinesi da un lato e gli europei dall’altro rischia di portare ad un corto circuito.
Le decisioni del G20 avranno conseguenze concrete nei singoli Paesi ?
Dipenderà dal testo che leggeremo nei documenti finali. In caso di accordo su uno «stimolo globale» molti Paesi potrebbero nell’arco di pochi mesi varare significativi piani di investimenti pubblici. Sul fronte finanziario invece potrebbero nascere nuovi enti per sorvegliare le transazioni, con il fine di evitare abusi. Il pericolo sta nel fatto che i disaccordi politici portino a non centrare nessuno dei due obiettivi, diluendo troppo i testi finali.
È vero che siamo di fronte alla prima riforma della finanza internazionale dalla Seconda Guerra Mondiale?
È una sensazione condivisa da molti dei leader che si ritrovano questa sera a Londra, accomunati dalla sensazione di essere protagonisti e al tempo stesso testimoni delle doglie di un sistema economico che sta per partorirne un altro. Il termine «Nuova Bretton Woods» evoca la nascita delle istituzioni finanziarie – Fondo monetario internazionale e Banca Mondiale – frutto dell’accordo raggiunto alla fine della Seconda Guerra Mondiale e se ricorre spesso, nei discorsi ufficiali come nei corridoi, è perché c’è consenso sulla necessità di disegnare un’architettura istituzionale capace di includere le nuove potenze economiche, assegnandogli anche più responsabilità.
Ciò significa che India, Cina, Indonesia e Sud Corea conteranno di più nella nostra vita di tutti i giorni?
In parte già avviene. Basta andare a controllare le etichette di molti dei prodotti che acquistiamo per accorgersi che vengono da alcuni di questi Paesi, che di conseguenza si rafforzano economicamente a dispetto delle vecchie potenze industriali. Il mutamento di equilibri sui mercati è già avvenuto. Non averlo trasformato in nuove istituzioni ha creato un pericoloso squilibrio. Basti pensare al motivo che ha portato al collasso del Protocollo di Kyoto sul taglio delle emissioni di gas nocivi nell’atmosfera: non includeva giganti come India, Cina e Russia che inquinano assai più di molti Paesi occidentali a causa del fatto che producono di più.
La Cina pretende più importanza nel Fmi; perché pone condizioni prima ancora di arrivare?
Il Fmi è uno dei fronti più caldi della trattativa. Se gli Stati Uniti hanno proposto di decuplicare le riserve del Fmi, a cui spetta rispondere alle crisi monetarie, la Cina ha fatto sapere che in cambio dell’adesione a tale iniziativa vuole avere maggiore voce in capitolo sulla gestione dello stesso Fmi. E’ la riedizione del braccio di ferro sulle riforme al Fondo che il direttore, Dominique Strauss Kahn, pensava di aver risolto con un compromesso che ora viene di nuovo messo in discussione.
Oggi le comunicazioni avvengono con la rapidità di un’email. Ha ancora senso un summit di 20 ore con 20 leader dentro una sala?
Le comunicazioni elettroniche servono per velocizzare le trattative, la scrittura dei documenti e il lavoro degli sherpa, i consiglieri che sono poi i veri protagonisti di ogni summit. Ma anche la più veloce, e meglio riuscita, delle trattative per concludersi con successo ha bisogno dell’avallo personale dei leader. Ed è qui che entra in gioco la «chimica» dei rapporti personali. Una stretta di mano, uno scambio di battute o uno sguardo d’intesa possono superare ostacoli di fronte ai quali gli sherpa avevano dato forfait. Se la durata complessiva di 20 ore può apparire a prima vista molto ridotta in realtà è un periodo che consente ai leader di interagire il periodo necessario per stabilire intese o dissensi.
Chi è il personaggio del summit che gli inglesi aspettano con maggiore curiosità?
Michelle Robinson Obama. Il debutto della First Lady afroamericana svetta nell’attenzione del pubblico su ogni altro evento del summit, ufficiale o meno. Non solo per la curiosità nei confronti dello stile presenzialista di Michelle, i suoi abiti senza maniche e le indiscrezioni sulla forte influenza che avrebbe sul marito. Ma anche per il fatto che molti sospettano che sia anti-inglese a causa del ruolo che svolse l’Impero britannico nella colonizzazione dell’Africa e nella tratta degli schiavi. Michelle ci ha messo del suo regalando alla moglie di Brown, durante la recente visita a Washington del premier, un modellino del «Marine One», con un gesto che è stato considerato offensivo dai tabloid.
Se il G20 è così importante perché ancora non si sa neanche se ci sarà un prossimo summit?
Perché ancora non sappiamo se questo G20 avrà successo o fallirà.

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OBAMA CREA IL G17 PER L’ALLARME CLIMA

La Casa Bianca vuole “risultati positivi” per la conferenza di Copenhagen a dicembre (da La stampa del 2-4-2009)

Un Forum su energia e clima fra le 17 più importanti economie del Pianeta: è questa l’iniziativa che il presidente americano Barack Obama lancia sul fronte della tutela dell’ambiente alla vigilia della partenza per il suo primo viaggio in Europa.
Tutto è iniziato tre giorni fa con l’invio di una lettera al presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, nel quale Obama delineava l’iniziativa del Forum proponendo di far svolgere un summit a livello di capi di Stato e di governo a La Maddalena in coincidenza con il G8. Incassato l’avallo dell’Italia, il presidente americano ha avviato un breve giro di consultazioni al termine del quale la Casa Bianca ha reso noto ieri sera di aver formalmente esteso gli inviti ai leader di Australia, Brasile, Canada, Cina, Unione Europea, Francia, Germania, Gran Bretagna, India, Indonesia, Italia, Giappone, Corea, Messico, Russia e Sud Africa ai quali si aggiungeranno la Danimarca, in qualità di presidente della Conferenza Onu sui cambiamenti climatici che avrà luogo a Copenhagen in dicembre, e il Segretario generale dell’Onu, Ban Ki moon.
L’intenzione di Obama, come ha scritto nella lettera a Berlusconi, è di «facilitare un dialogo diretto fra i Paesi più importanti fra quelli sviluppati e in via di sviluppo» al fine di «generare la leadership politica necessaria per ottenere un positivo risultato ai negoziati sul clima» che avranno luogo a Copenhagen, puntando a «avanzare l’esplorazione di concrete iniziative e passi congiunti» per «aumentare le forniture di energia pulita mentre si tagliano le emissioni inquinanti nell’atmosfera». La Casa Bianca vuole insomma accelerare il confronto fra le 17 maggiori economie per raggiungere un accordo forte su energia pulita e difesa dell’ambiente a Copenhagen.
Al fine di centrare questo obiettivo l’amministrazione Usa disegna un percorso a tappe. La prima sara a Washington, il 27 e 28 aprile, quando al Dipartimento di Stato avrà luogo un incontro fra «rappresentanti speciali» indicati dai singoli governi. Si verrà così a creare un gruppo di lavoro ad alto livello capace di preparare – anche attraverso nuovi appuntamenti – l’accordo che i leader dei 17 potrebbero discutere in coincidenza con il summit del G8 in Sardegna.
La coincidenza fra il passo di Obama e l’imminente partenza per Londra, prima tappa del viaggio nel Vecchio Continente, conferma l’intenzione della Casa Bianca di sfruttare la missione europea per porre sul tavolo tutti i temi prioritari per la nuova amministrazione al fine, come anticipa il portavoce Robert Gibbs, di «ascoltare e guidare».
L’agenda è fitta di impegni. A Londra Obama firmerà con il russo Dmitry Medvedev una dichiarazione sul disarmo, affronterà con il cinese Hu Jintao le tensioni finanziarie e strategiche, e quindi parteciperò al summit del G20 per concordare una risposta globale alla recessione prima di volare a Strasburgo e Kehl per il vertice del 60° anniversario della Nato, dove a tenere banco sarà la guerra ad Al Qaeda in Afghanistan e Pakistan. A Praga è in programma il summit Usa-Unione Europea e Obama vi pronuncerà un discorso sui pericoli della proliferazione nucleare per poi affrontare le ultime tappe in Turchia, prima ad Ankara e infine a Istanbul, dove c’è grande attesa per quanto il presidente dirà sui rapporti fra America e Islam. In tale prospettiva aver lanciato l’iniziativa del Forum su clima ed energia lascia intendere che Obama, durante gli incontri, chiederà da subito ai singoli leader impegni concreti per porre le basi di un successo alla conferenza di Copenhagen.

L’AMERICA E GLI ALTRI

È difficile prevedere come finirà la riunione del G20 che si apre oggi a Londra, la cui vigilia è stata caratterizzata non solo da violente manifestazioni, ma anche da forti differenze d’opinione tra i partecipanti. È però già possibile dire che cosa non succederà: da questa tempestosa conferenza non verrà fuori, come per colpo di bacchetta magica, la soluzione della crisi in atto. Nel migliore dei casi, a un accordo sui principi farà seguito una fase, più o meno lunga, di messa a punto tecnica di provvedimenti concordati, destinati a rimettere in pista l’economia globale.
Questo scenario è però di difficile realizzazione. Il problema, infatti, non è quello di gonfiare allegramente la spesa pubblica americana nella speranza (flebile) che un simile gonfiamento basti da solo a far ripartire l’economia mondiale senza provocare un’inflazione globale; si tratta invece di decidere se sia possibile e desiderabile la continuazione del primato finanziario del dollaro. Si è voluto paragonare la riunione di Londra alla conferenza di Bretton Woods del 1944, ma allora la conferenza monetaria era funzionale al nuovo ordine mondiale che gli eserciti alleati stavano costruendo.

Oggi invece, molti, soprattutto a Washington, vorrebbero cambiare il sistema monetario lasciando invariato l’ordine mondiale. Per l’interazione di motivi economici e politici il vertice si presenta articolato a diversi livelli. Il più importante è quello dell’incontro-scontro tra Stati Uniti e Cina: tra il maggiore debitore del mondo e il suo maggiore creditore, due accaniti avversari che competono per la supremazia economica (e politica) ma che si trovano sulla stessa barca e devono cooperare perché la barca non affondi. Gli Stati Uniti non possono fare a meno dell’impegno della Cina a non vendere i titoli in suo possesso emessi dal Tesoro di Washington e a sottoscriverne altri; per continuare a crescere con l’elevata velocità di cui ha bisogno, la Cina, dal canto suo, difficilmente può fare a meno delle esportazioni verso gli Stati Uniti, destinate a essere pagate in dollari.

Basterà quest’interesse comune a farli andare d’accordo? È molto difficile dirlo. Gli Stati Uniti danno per scontato che il dollaro continui a essere la stella fissa dell’universo delle valute, i cinesi hanno già fatto sapere che vorrebbero sostituirlo con una «moneta artificiale», una sorta di «paniere di monete», delle quali il dollaro rimarrebbe la più importante, perdendo però le sue caratteristiche di unicità. Una nuova moneta per gli scambi dell’economia globale sarebbe forse la soluzione migliore per cancellare il recente passato monetario, i mutui subprime e i titoli tossici. Rappresenterebbe però un’evidente riduzione del potere finanziario americano ed è molto dubbio che il neo-presidente degli Stati Uniti possa accettarla. Dalla definizione di questi rapporti complessi sapremo se esistono davvero le condizioni politiche per un’uscita dalla crisi, senza le quali gli esercizi dei tecnici della finanza paiono di scarsa utilità. La risposta, però, non l’avremo dal comunicato stampa ma dal comportamento concreto dei governi e delle banche centrali nelle prossime settimane e nei prossimi mesi.

Il secondo livello è quello delle regole per la finanza mondiale. Come unico Paese veramente «sovrano» gli Stati Uniti sono molto riluttanti ad accettare che un organismo internazionale possa estendere i suoi controlli alle banche americane, così come resistono all’idea che i tribunali internazionali possano giudicare cittadini americani. Su questo punto insistono gli europei, e in particolare i francesi, forse nel tentativo di mostrare che gli Stati Uniti sono «un Paese come gli altri», forse per giustificare, in caso di un «no» americano, l’adozione da parte dell’Unione Europea di misure protezionistiche. Questa spaccatura di fondo potrebbe risultare paralizzante e costituisce il maggior rischio di fallimento del vertice.

Esiste poi il livello dei problemi specifici, marginali in questo convegno ma fondamentali per gli equilibri del pianeta, in cui i progressi sembrano meno difficili: per essere efficaci, le politiche ambientali ed energetiche devono poter contare su una solida base di finanziamenti internazionali; settori molto diversi, da quello della farmaceutica a quello della musica, necessitano di normative mondiali sui diritti d’autore; l’emergenza africana non può essere affrontata con successo in ordine sparso. Qui le convergenze appaiono maggiormente possibili e contribuiscono a non far perdere le speranze. Settantasei anni fa, nella stessa Londra, si svolse un’analoga conferenza, a pochi chilometri dalla sede di quella attuale, convocata per porre rimedio ai guasti della crisi mondiale iniziata nel 1929. Essa fallì, perché gli Stati Uniti del presidente Roosevelt rivendicarono, anche allora, l’«eccezionalità» americana. E i partecipanti, lasciata la capitale inglese, imboccarono ciascuno la via del proprio protezionismo; una via che contribuì a portarci alla seconda guerra mondiale. I capi di Stato che si riuniscono oggi dovrebbero avere sempre davanti gli occhi questo precedente storico.

Mario Deaglio (da La Stampa del 2-4-2009)

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