
Dino Buzzati (nato a San Pellegrino di Belluno il 16 ottobre 1906 – morto a Milano il 28 gennaio 1972) è stato scrittore, giornalista, pittore. Il suo è un mondo magico, misterioso. In particolare nei suoi racconti, che muovono per lo più da episodi tratti dalla quotidianità, improvvisamente la trama prende vita; l’atmosfera diviene surreale e in un attimo accade l’incredibile. Dietro l’apparente leggerezza della narrazione fiabesca si celano le importanti tematiche affrontate dall’autore.
Nel racconto “I sette messaggeri “ l’obiettivo del protagonista è quello di raggiungere l’estremo confine del Regno. Egli si allontana dalla casa natale e conduce con sè sette uomini il cui compito è quello di avvicendarsi nel tornare alla città di origine per raccogliere notizie e recapitarle a lui, ovunque egli si trovi. E’ la metafora dell’uomo che si separa dalle sue origini, da ciò che è sicuro, per andare alla ricerca di sè stesso. I sette messaggeri, che devono affrontare un percorso sempre più lungo per raggiungere la città e per tornare dal loro signore, sono appunto il legame con la propria tradizione, i ricordi sempre più sbiaditi di un mondo che è appartenuto all’uomo e che ora ritorna a tratti soltanto nella sua memoria. Domenico, tra i sette messaggeri, costituisce – afferma il protagonista – il «superstite legame con il mondo che un tempo fu anche il mio.». Comprendere, dopo tanto vagare, che è inutile cercare l’ultima frontiera significa ammettere che l’uomo non cessa mai di cercare sè stesso fino alla fine dei suoi giorni; l’iniziale paura dell’ignoto si trasforma nell’inquieto desiderio di scoprire cosa ci sarà oltre, sempre più oltre.
Buzzati è connaturato ai temi geografici della “ricerca del confine” (ne parleremo assai, in questo blog, nell’anno che sta nascendo, il 2010). Nel precedente Natale (2008) vi abbiamo presentato un racconto (“la parabola del deserto”) mai pubblicato in Italia, di Gabriel Josipovici https://geograficamente.wordpress.com/2008/12/24/racconto-geografico-di-natale/ : un’immagine del deserto sia reale che come simbolo di ricerca metafisica della persona. Qui, con i “sette messaggeri”, è in definitiva la stessa cosa… la ricerca del CONFINE reale, simbolico, come prospettiva progettuale futura dell’uomo, come acquisizione piena del passato, delle proprie esperienze.
Ne “La parabola del deserto” Josipovici parla del “territorio” (il deserto) come di un grande cerchio dove “la circonferenza è dovunque e il centro in nessun luogo, che i limiti sono dovunque, che dovunque vi sia la presenza del deserto”. Lo stesso sembra fare Buzzati in questo magnifico racconto che andiamo a presentarvi. E’ un tema caro questo (del cerchio, della circonferenza e del centro che è ovunque), ripreso dal pensiero di Nicola di Cusa (1401–1464, cardinale, teologo, filosofo neoplatonico, umanista rinascimentale, giurista, matematico e astronomo tedesco) che affermava la necessità di far sì che il centro sia in ogni luogo e la circonferenza in nessun luogo. Non vi tediamo oltre… Buon Natale, buona lettura.
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I SETTE MESSAGGERI
di DINO BUZZATI – da : La boutique del mistero – (prima edizione Oscar Mondadori, Milano, 1968)
Partito ad esplorare il regno di mio padre, di giorno in giorno vado allontanandomi dalla città e le notizie che mi giungono si fanno sempre più rare. Ho cominciato il viaggio poco più che trentenne e più di otto anni sono passati, esattamente otto anni, sei mesi e quindici giorni di ininterrotto cammino.
Credevo, alla partenza, che in poche settimane avrei facilmente raggiunto i confini del regno, invece ho continuato ad incontrare sempre nuove genti e paesi; e dovunque uomini che parlavano la mia stessa lingua, che dicevano di essere sudditi miei.
Penso talora che la bussola del mio geografo sia impazzita e che, credendo di procedere sempre verso il meridione, noi in realtà siamo forse andati girando su noi stessi, senza mai aumentare la distanza che ci separa dalla capitale; questo potrebbe spiegare il motivo per cui ancora non siamo giunti all’estrema frontiera.
Ma più sovente mi tormenta il dubbio che questo confine non esista, che il regno si estenda senza limite alcuno e che, per quanto io avanzi, mai potrò arrivare alla fine.
Mi misi in viaggio che avevo già più di trent’anni, troppo tardi forse. Gli amici, i familiari stessi, deridevano il mio progetto come inutile dispendio degli anni migliori della vita. Pochi in realtà dei miei fedeli acconsentirono a partire. Sebbene spensierato – ben più di quanto sia ora! – mi preoccupai di poter comunicare, durante il viaggio, con i miei cari, e fra i cavalieri della scorta scelsi i sette migliori, che mi servissero da messaggeri. Credevo, inconsapevole, che averne sette fosse addirittura un’esagerazione.
Con l’andar del tempo mi accorsi al contrario che erano ridicolmente pochi; e si che nessuno di essi è mai caduto malato, né è incappato nei briganti, né ha sfiancato le cavalcature. Tutti e sette mi hanno servito con una tenacia e una devozione che difficilmente riuscirò mai a ricompensare.
Per distinguerli facilmente imposi loro nomi con le iniziali alfabeticamente progressive: Alessandro, Bartolomeo, Caio, Domenico, Ettore, Federico, Gregorio. Non uso alla lontananza dalla mia casa, vi spedii il primo, Alessandro, fin dalla sera del mio secondo giorno di viaggio, quando avevamo percorso già un’ottantina di leghe.
La sera dopo, per assicurarmi la continuità delle comunicazioni, inviai il secondo, poi il terzo, poi il quarto, consecutivamente, fino all’ottava sera di viaggio, in cui partì Gregorio. Il primo non era ancora tornato.
Ci raggiunse la decima sera, mentre stavamo disponendo il campo per la notte, in una valle disabitata. Seppi da Alessandro che la sua rapidità era stata inferiore al previsto; avevo pensato che, procedendo isolato, in sella a un ottimo destriero, egli potesse percorrere, nel medesimo tempo, una distanza due volte la nostra; invece aveva potuto solamente una volta e mezza; in una giornata, mentre noi avanzavamo di quaranta leghe, lui ne divorava sessanta, ma non di più.
Così fu degli altri. Bartolomeo, partito per la città alla terza sera di viaggio, ci raggiunse alla quindicesima; Caio, partito alla quarta, alla ventesima solo fu di ritorno. Ben presto constatai che bastava moltiplicare per cinque i giorni fin lì impiegati per sapere quando il messaggero ci avrebbe ripresi.
Allontanandoci sempre più dalla capitale, I’itinerario dei messi si faceva ogni volta più lungo. Dopo cinquanta giorni di cammino, I’intervallo fra un arrivo e l’altro dei messaggeri cominciò a spaziarsi sensibilmente; mentre prima me ne vedevo arrivare al campo uno ogni cinque giorni, questo intervallo divenne di venticinque; la voce della mia città diveniva in tal modo sempre più fioca; intere settimane passavano senza che io ne avessi alcuna notizia.
Trascorsi che furono sei mesi – già avevamo varcato i monti Fasani – I’intervallo fra un arrivo e l’altro dei messaggeri aumentò a ben quattro mesi. Essi mi recavano oramai notizie lontane; le buste mi giungevano gualcite, talora con macchie di umido per le notti trascorse all’addiaccio da chi me le portava.
Procedemmo ancora. Invano cercavo di persuadermi che le nuvole trascorrenti sopra di me fossero uguali a quelle della mia fanciullezza, che il cielo della città lontana non fosse diverso dalla cupola azzurra che mi sovrastava, che l’aria fosse la stessa, uguale il soffio del vento, identiche le voci degli uccelli. Le nuvole, il cielo, I’aria, i venti, gli uccelli, mi apparivano in verità cose nuove e diverse; e io mi sentivo straniero.
Avanti, avanti! Vagabondi incontrati per le pianure mi dicevano che i confini non erano lontani. Io incitavo i miei uomini a non posare, spegnevo gli accenti scoraggiati che si facevano sulle loro labbra. Erano già passati quattro anni dalla mia partenza; che lunga fatica. La capitale, la mia casa, mio padre, si erano fatti stranamente remoti, quasi non ci credevo. Ben venti mesi di silenzio e di solitudine intercorrevano ora fra le successive comparse dei messaggeri. Mi portavano curiose lettere ingiallite dal tempo, e in esse trovavo nomi dimenticati, modi di dire a me insoliti, sentimenti che non riuscivo a capire.
Il mattino successivo, dopo una sola notte di riposo, mentre noi ci rimettevamo in cammino il messo ripartiva nella direzione opposta, recando alla città le lettere che da parecchio tempo io avevo apprestate.
Ma otto anni e mezzo sono trascorsi. Stasera cenavo da solo nella mia tenda quando è entrato Domenico, che riusciva ancora a sorridere benché stravolto dalla fatica. Da quasi sette anni non lo rivedevo. Per tutto questo periodo lunghissimo egli non aveva fatto che correre, attraverso praterie, boschi e deserti, cambiando chissà quante volte cavalcatura, per portarmi quel pacco di buste che finora non ho avuto voglia di aprire. Egli è già andato a dormire e ripartirà domani stesso all’alba.
Ripartirà per l’ultima volta. Sul taccuino ho calcolato che, se tutto andrà bene, io continuando il cammino come ho fatto finora e lui il suo, non potrò rivedere Domenico che fra trentaquattro anni. Io allora ne avrò settantadue. Ma comincio a sentirmi stanco ed è probabile che la morte mi coglierà prima. Così non lo potrò mai più rivedere.
Fra trentaquattro anni (prima anzi, molto prima) Domenico scorgerà inaspettatamente i fuochi del mio accampamento e si domanderà perché mai nel frattempo, io abbia fatto così poco cammino. Come stasera. il buon messaggero entrerà nella mia tenda con le lettere ingiallite dagli anni, cariche di assurde notizie di un tempo già sepolto; ma si fermerà sulla soglia, vedendomi immobile disteso sul giaciglio, due soldati ai fianchi con le torce, morto.
Eppure, va, Domenico, e non dirmi che sono crudele! Porta, il mio ultimo saluto alla città dove io sono nato. Tu sei il superstite legame con il mondo che un tempo fu anche mio. I più recenti messaggi mi hanno fatto sapere che molte cose sono cambiate, che mio padre è morto che la Corona è passata a mio fratello maggiore, che mi considerano perduto, che hanno costruito alti palazzi di pietra là dove prima erano le querce sotto cui andavo solitamente a giocare. Ma è pur sempre la mia vecchia patria.
Tu sei l’ultimo legame con loro, Domenico. Il quinto messaggero, Ettore, che mi raggiungerà, Dio volendo, fra un anno e otto mesi, non potrà ripartire perché non farebbe più in tempo a tornare. Dopo di te il silenzio, o Domenico, a meno che finalmente io non trovi i sospirati confini. Ma quanto più procedo, più vado convincendomi che non esiste frontiera.
Non esiste, io sospetto, frontiera, almeno non nel senso che noi siamo abituati a pensare. Non ci sono muraglie di separazione, né valli divisorie, né montagne che chiudano il passo. Probabilmente varcherò il limite senza accorgermene neppure, e continuerò ad andare avanti, ignaro.
Per questo io intendo che Ettore e gli altri messi dopo di lui, quando mi avranno nuovamente raggiunto, non riprendano più la via della capitale ma partano innanzi a precedermi, affinché io possa sapere in antecedenza ciò che mi attende.
Un’ansia inconsueta da qualche tempo si accende in me alla sera, e non è più rimpianto delle gioie lasciate, come accadeva nei primi tempi del viaggio; piuttosto è l’impazienza di conoscere le terre ignote a cui mi dirigo.
Vado notando – e non l’ho confidato finora a nessuno – vado notando come di giorno in giorno, man mano che avanzo verso l’improbabile mèta, nel cielo irraggi una luce insolita quale mai mi è apparsa, neppure nei sogni; e come le piante, i monti, i fiumi che attraversiamo, sembrino fatti di una essenza diversa da quella nostrana e l’aria rechi presagi che non so dire.
Una speranza nuova mi trarrà domattina ancora più avanti, verso quelle montagne inesplorate che le ombre della notte stanno occultando. Ancora una volta io leverò il campo, mentre Domenico scomparirà all’orizzonte dalla parte opposta, per recare alla città lontanissima l’inutile mio messaggio. (Dino Buzzati)
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In viaggio con Dino Buzzati: il nulla regna oltre il confine
I sette messaggeri
di Giuseppina Giacomazzi, da http://www.repubblicaletteraria.it/
Tema centrale, archetipo, è il viaggio, il cammino del protagonista verso una destinazione poco precisa, verso una frontiera che confina con la morte. Al raggiungimento di tale confine invalicabile, il personaggio protagonista risulterà profondamente modificato dal crollo di quella speranza-attesa che lo ha accompagnato nel cammino della vita, attesa che è un altro archetipo. La situazione iniziale, in cui il protagonista si trova, è diversa da quella finale e il viaggio avviene in uno spazio e un tempo onirici e surreali. Questo tema è legato a quello archetipo dell’errante ed è comunque progresso verso un punto atteso e rincorso, la cui esistenza e consistenza non sono certe. Nel percorso verso tale abisso, il protagonista non può che provare angosce, incertezze, dubbi che lo portano a tentativi vani di tornare indietro o comunque di fermare il tempo. Come il personaggio centrale de I sette messaggeri cerca di mantenere un contatto con la vita attraverso i messi che gli portano notizie, sempre più vaghe, della città che apparirà lontanissima, così Drogo ne Il deserto dei tartari, mano mano che inizia la salita, si rivolta a guardare la città che intravede ormai tra i fumi.
Lo spostamento dalla situazione iniziale ne I sette messaggeri e ne Le mura di Anagoor procede orizzontalmente, avvolto nella indeterminatezza di uno spazio-tempo vago, dilatato, surreale. Ne I sette piani tale movimento avviene verticalmente: è caduta dall’alto in basso, dalla luce al buio.
Come ne Il deserto dei tartari alla salita che accompagna l’attesa succede una discesa verso la pianura e la morte, così accade nel Poema a fumetti, in Ragazza che precipita e in Viaggio negli inferni del secolo.
La rappresentazione spaziale assume significati metaforici e simbolici, soprattutto nelle relazioni tra gli spazi_ alto-basso, finito-infinito, luce-buio, giorno-notte_ nell’uso dei colori, dei rumori e nelle atmosfere cariche di messaggi. Gli spazi sono descritti con accuratezza e ricchezza di particolari: sono il deserto, la città, l’altezza della clinica dalla quale G. Corte precipita ne I sette piani e che ha la stessa funzione delle montagne in altri racconti. Anche ne Il deserto dei tartari la fortezza è in alto e per raggiungerla si deve salire. La montagna è la liberazione, l’ascesa è il momento magico in cui si può agire e sperare nella positività della profonda solitudine che spinge alla meditazione; la città invece rappresenta la moltitudine, spesso la disperazione o la stasi come in Barnabo delle montagne, oppure il locus amoenus, utopia di una possibile realizzata armonia.
I sette messaggeri portano al protagonista notizie, sempre più vaghe, di una città che sta svanendo, ma che ne Le mura di Anagoor è chiusa da porte che rappresentano il limite, la frontiera oltre la quale può essere anche il nulla. Il deserto è presente in molti altri racconti. Esso dà il senso dell’infinito, dell’attesa, del cammino che procede spesso senza punti di riferimento. Questi topoi, ricorrenti in Buzzati, simboleggiano le prospettive diverse attraverso le quali il tempo può essere contemplato, ma anche lo sradicamento dell’uomo del Novecento. L’organizzazione temporale imprime senso alla narrazione, il cui ritmo è lento, ricco di pause descrittive e di strategie testuali atte ad evidenziare la ripetizione e l’angoscia dell’attesa. L’idea del vago e dell’indeterminato è rafforzata anche dalla ripetizione ossessiva di alcuni numeri: sette sono i messaggeri, sette i piani.
Trentuno e più di otto anni sono passati, sei mesi e quindici giorni di ininterrotto cammino_ scrive Dino Buzzati ne I sette messaggeri. Il numero, che dovrebbe offrire senso di precisione, di definitività, in questi casi ha una funzione di opposto, di contrasto: invece di fissare la realtà la dilata, conferendole vaghezza e imprecisione. La numerazione segue a volte una scansione di ascendenza numerico-cabalistica: sette e tre diventano segno di un destino extra-umano.
Ne I sette messaggeri la narrazione procede in prima persona. Il protagonista è in viaggio verso una meta, una frontiera aldilà della quale c’è un regno, la cui esistenza è sospettata. Tutta la vita è giocata nella rincorsa di tale obiettivo; ma il dubbio corrode e tormenta il personaggio che, nonostante l’incertezza, continua il suo percorso scandito da calcoli precisi, basati su numeri che dovrebbero stabilire i tempi esatti, impiegati dai sette messaggeri nella andata-ritorno, per portare il messaggio alla città e dalla città.
Lo spazio è vago, onirico, surreale, ed il tempo intercorso dilatato. La frontiera tanto attesa, che dovrebbe coincidere con i confini del regno, è molto più lontana del previsto e l’idea di questa progressione infinita è rafforzata da quella alfabetica delle lettere iniziali dei nomi dei sette messi. Le notizie portate da questi ultimi si fanno sempre più rare. La bussola è impazzita, come dice Eugenio Montale, ed in realtà non facciamo che girare su noi stessi, senza mai aumentare la distanza che ci separa dalla capitale.
I sette messaggeri che s’incontrano lungo il viaggio conducono inesorabilmente il protagonista verso l’abisso, verso quella tentazione-attrazione che lo induce a lasciare senza rimpianto la gioia passata. Alla fine gli ultimi legami con la vita scompariranno, i sospirati confini risulteranno sempre più nebulosi e confusi e le azioni da compiere saranno poche o nulle.
Con l’andar del tempo mi accorsi che […] nessuno è mai caduto malato, né è mai incappato nei briganti, né ha sfiancato la cavalcatura. (I sette messaggeri)
Non ci saranno state azioni eroiche e il protagonista assaporerà la consapevolezza che quella frontiera o non esiste, o non può essere travalicata, almeno nel senso da noi immaginato. Come Drogo ne Il deserto dei tartari, in attesa dell’impresa eroica che lo riscatti, come Stefano nel racconto di Buzzati Colombre e come in molti personaggi di Franz Kafka, il protagonista del racconto di Dino Buzzati sentirà aumentare il senso paralizzante dell’angoscia, comprendendo che non ci sarà più una speranza nuova a trarlo avanti e che forse la morte lo coglierà prima di poter rivedere l’ultimo messaggero, ultimo legame con il passato che, portando ormai la notizia di un tempo già sepolto, si fermerà sulla soglia, trovandolo immobile, sul giaciglio, morto. (I sette messaggeri)
Ne I sette piani l’inizio del viaggio avviene di mattina, procedendo in verticale, dalla luce verso il buio e l’attrazione dell’abisso. Anche in Ragazza che precipita la protagonista cade inesorabilmente verso il basso, ed i vari piani del grattacielo dal quale si getta rappresentano i diversi momenti della vita che la ragazza contempla durante il percorso verso la morte. Il grattacielo è molto simile al sanatorio del racconto I sette piani. Lo spazio surreale, onirico, crea anche in questo caso un’atmosfera da incubo. Ne I sette piani si tratta di uno spazio chiuso, di una clinica dove deve essere curata una malattia dai connotati e dalla sintomatologia poco chiari, e che in ultima analisi è la stessa vita, vita che è estranea e ci trascina inesorabilmente e contro la nostra volontà, verso la frontiera che confina con la morte.
Il concetto di malattia, quale estraneità e disagio dell’anima, ricorre in molta letteratura del Novecento, basti pensare ad Italo Svevo, a Robert Musil, o a Thomas Mann. Quella di G. Corte è una discesa agli inferi che conduce il protagonista verso la sua degradazione e fine, attraverso gli orrori dell’esistenza.
Il tema della progressione è rovesciato: il punto di partenza è certo, quello di arrivo è indefinito e collimante con il degrado fisico-morale. I piani sono terribili muraglie fra sé e il mondo; ma anche ne I sette messaggeri esistono barriere, distanze poste dal loro percorso. Il sanatorio ha nella strategia testuale la stessa funzione della fortezza dei Bastiani ne Il deserto dei tartari, del robot del Grande ritratto o delle mura che delimitano la città di Anagoor. Il senso di ansia, di angoscia, di degrado aumenta nella discesa verso il buio della morte. G. Corte precipita senza sapere perché, senza conoscere la sua malattia, verso una fine circondata dal mistero e dal non senso. La discesa è determinata da un intervento tragico del destino, al quale è inutile ribellarsi, nella speranza disattesa di poter guarire.
Tragicità e angoscia paralizzanti percorrono il racconto. I personaggi e l’ambiente sono avvolti nel mistero: il medico, deus ex machina e quasi nuovo Minosse, sentenzia la discesa di G. Corte nei piani-gironi infernali, senza ritorno. Come Joseph K, il protagonista è condannato senza appello, senza speranza di salvezza, alla morte e alla degradazione totale. Ne Le mura di Anagoor l’ambientazione è magica, surreale, onirica: gli stessi nomi dei personaggi e dei luoghi conferiscono un senso di indeterminatezza, di lontananza, di magia. Le porte e le mura sono l’ostacolo posto sul cammino degli uomini, attraverso i quali Dino Buzzati travasa in noi la sensazione del mistero, portatore dell’interrogazione metafisica.
I personaggi buzzatiani sono sempre l’immagine emblematica della solitudine e li riconosciamo perché sono in noi, sono parte di noi. I riferimenti spaziali del racconto sono vaghi: la città di cui si parla è nel lontano Tibesti, ma non è segnata sulle carte geografiche. Il suo nome è esotico, fortemente evocativo e ricco di suggestioni: Anagoor. Non c’è sulla carta e non può esserci, perché il governo la ignora o finge di ignorarla, proprio come i governi ignorano la destinazione di Drogo o di Ismani nel racconto Il grande Ritratto. La città non ha contatti con gli altri paesi, è isolata e, come la fortezza Bastiani, è ai bordi del deserto. Anche la guida ha un nome strano, esotico, indigeno, straniero: Magalon.
La partenza, come in quasi tutte le opere buzzatiane, avviene all’alba, perché il chiarore della luce del sole ci carica di speranze e ci proietta verso il futuro; avviene in macchina, quasi per ristabilire un contatto con la moderna temporalità. Gli spazi attraversati sono immaginari, difficoltosi: deserti ostili, paludi, rocce, laghi ma senza acqua, solo sassi e sabbia incandescenti. Le mura sono il confine, la frontiera_ archetipo e limite invalicabile_ trasgredendo la quale c’è solo la morte. Esse sono simili a quelle che circondano una fortezza militare ed appaiono a chi le guarda alte ed ininterrotte, impenetrabili nel colore giallastro della negatività.
Le mura di Anagoor, come ne Il grande Ritratto e nel Poema a fumetti, sono attraversate da porte, aldilà delle quali è la rivelazione del mistero. Esse non si aprono mai o quasi mai. La guida dice che in un tempo lontano e magico, forse tre secoli fa, un sultano dallo strano nome forse le aprì, o meglio dicono che le abbia aperte. Chi lo disse? Il verbo, privo di soggetto e usato in senso vago, conferisce alla narrazione un senso di disorientamento, di durata infinita, e i fatti diventano approssimativi, riportati solo dalla memoria che si perde in un tempo indefinito e lontano.
Molti sono i personaggi in attesa di un’apertura, di un varco: beduini sparuti, mendicanti, donne velate, monaci, guerrieri armati fino ai denti, perfino un principe con la sua piccola scorta personale. Non c’è distinzione tra gli uomini, tutti impegnati nella ricerca affannosa e inutile di trovare un varco che permetta loro di oltrepassare la frontiera. Tale tensione angosciosa richiama alla mente Eugenio Montale e quel varco desiderato e intravisto, aldilà dei cocci aguzzi di bottiglia che separano l’uomo dall’eterno. Anche per Buzzati forse un senso esiste, ma non come ce lo figuriamo: da qui la drammatica condizione umana.
Le porte sono moltissime, lungo il perimetro delle mura della città; grandi e piccole, ma non sono aperte quasi mai. Dietro ad esse c’è il silenzio del mistero e l’eroe è in esilio, in attesa di quel varco, di quello spiraglio di luce. Un uomo solo, dicono, è riuscito ad entrare verso la sera, annunciatrice del mistero: è entrato da una porta piccola e stretta. Quell’uomo non si aspettava nulla di speciale, era là per caso e forse per questo gli hanno aperto. Il mistero non può essere avvicinato da una razionalità che ha fretta e che pretende troppo dalle sue possibilità; al mistero può accedere forse chi si avvicina con un altro tipo di atteggiamento interiore e di approccio conoscitivo.
Come nel film Stalker del regista russo Tarkovski, solo la bambina innocente può compiere il miracolo di muovere gli oggetti: solo la purezza del cuore e la fede sanno riconoscere i limiti e la presunzione della razionalità. La porta stretta e difficile, attraverso la quale lo sconosciuto può entrare, è quella non vista dagli altri che attendono invano dall’altra parte. Questo pellegrino è forse il povero di spirito, al quale il Vangelo annuncia il Regno dei cieli.
Ma lo scacco non è eluso, perché le porte si aprono a caso, o di fronte a qualcuno che non ha atteso in modo attento e perseverante. Per quest’ultimo, per l’intellettuale in cui Dino Buzzati si riconosce non c’è speranza: non gli resta che il buio della degradazione in cui precipita G. Corte, o l’accettazione dignitosa del proprio destino in Drogo. Dio è assente, ma desiderato. La frontiera conduce all’assurdo, ma senza il desiderio di oltrepassarla non c’è salvezza, perché incarna il mistero. Grandezza e dignità si manifestano nella tensione verso il mistero, che è sofferenza e angoscia.
Giuseppina Giacomazzi (Dino Buzzati 180 racconti, Mondadori, 1982).
Cari “Geografi”,
nel conteggio dei lettori affezionati forse non tenete conto di quanti vi seguono tramite gli RSS, io sono fra questi. In tutto ciò che proponete trovo spesso, “troppo spesso”, validi elementi da approfondire e sui quali varrebbe veramente la pena di discutere. Con cruda sincerità devo ammettere che, per com’è la mia vita in questo momento, non ho il tempo per commentare questa come altre ottime “finestre” sul mondo. Altrettanto sinceramente però, devo dire che sarei profondamente dispiaciuto se, per qualche motivo, Geograficamente dovesse restare un giorno “senza voce”.
Grazie quindi a tutti voi per il vostro ottimo lavoro e … Buone Feste.
Quando ho letto il titolo di questo post sono rimasto molto sorpreso (conoscendo, da admin, il numero medio di visitatori) ed ho dovuto chiedere spiegazioni all’autore (da dove saltava fuori quel 25?).
In realtà si tratta di una citazione dal Capitolo Primo dei Promessi Sposi di Manzoni [“Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull’animo del poveretto, quello che s’è raccontato“].
Colgo l’occasione per ringraziare tutti i nostri lettori (affezionati o casuali) per la grande spinta che ci avete dato quest’anno (più di 90 mila visite). Speriamo di migliorare ulteriormente il nostro servizio per essere all’altezza del vostro affetto. Buone Feste a tutti!
ciao a tutti,
volevo chiedervi una cosa:i monti fasani esistono veramente o sono stati inventati dall’autore?
grazie a tutti!
Non credo esistano veramente.
nono i monti fasani sono immaginari