L’EUROPA nella bufera (economica, finanziaria…), con gli stati nazionali tutti in crisi (pure la Germania adesso) – Può salvarla solo l’UNITÀ POLITICA, nel federalismo, degli STATI UNITI D’EUROPA (il ruolo strategico dell’Italia)

In blu i 17 paesi aderenti all'euro (Eurozona), che formano con gli altri 10 i paesi della Unione Europea

   Quel che stiamo assistendo è una specie di gioco a “battaglia navale”; dove ogni giorno c’è la notizia di un “colpito” tra gli stati-nazione che compongono l’Eurozona (cioè dove c’è come moneta l’euro: sono diciassette): un inabissarsi progressivo della nave-nazione, con la volontà di perire sì, ma sotto l’egida nazionale. Se poi pensiamo che adesso sta capitando (di essere colpiti in questa pseudo battaglia navale) ai due paesi tra i maggiori fautori della grandeur nazionalistica che ha impedito ogni unità europea in mesi e settimane così difficili… cioè è capitato, sta capitando, di essere colpiti, alla Francia e perfino alla Germania.

   Infatti anche la Germania comincia a capire che cosa significa realmente la crisi dell’euro: l’asta dei Buoni del Tesoro tedeschi è andata parzialmente male (sono rimasti in parte invenduti): tanto che la Bundesbank, la banca centrale tedesca, è stata costretta a comprare oltre 2,35 miliardi di titoli di Stato.

Mario Monti, nuovo premier italiano

   Questo contesto negativo per tutti gli stati europei richiede volontà ferma che, nelle prossime settimane (non mesi) il progetto di unificazione federalista europea abbia una accelerazione totale.

   Arrivare ad avere un unico “vero” identificabile, autorevole presidente, un unico ministro delle finanze ed un’unica politica fiscale; la possibilità di autofinanziarsi non più e solamente con le deboli casse e percentuali di imposta degli stati aderenti, ma anche con prestiti dei cittadini e dei mercati finanziari (la creazione dei cosiddetti eurobond, buoni del tesoro europei) con la possibilità di controllare bene i canali di spesa della adesso dispendiosa e poco efficace macchina europea.

   Siamo in un momento storico che ricorda gli ANNI TERRIBILI DEL NOVECENTO, come il 1914, il ’29 o il ’38, IN CUI LA POLITICA EUROPEA HA FATTO LE SCELTE PEGGIORI. E in tutte quelle occasioni, quelle terribili crisi, la storia insegna che si potevano evitare le tragedie che ci sono state con scelte coraggiose e preventive. Ora la mancanza, nel mondo globale e con l’emergere di nuove realtà continentali (l’Asia con la Cina e l’India, la Russia, il Sudafrica… ma tra Europa e Medioriente anche la Turchia con i suoi 80 milioni di cittadini…), la mancanza di un’Europa “vera”, che sa essere autorevole e unita nelle decisioni, ebbene questo traccia un possibile declino europeo secolare, un “MEDIOEVO POST-MODERNO”, accompagnato da avvenimenti, nei prossimi mesi e anni, che potrebbero essere assai spiacevoli per tutti noi europei (povertà che si estendono, disoccupazione, fine del walfare per mancanza di soldi, sommosse popolari…)

   La Germania ha impedito alla Banca Centrale Europea di fare quella che aveva fatto la Riserva Federale Americana nel 2008 e 2009 e cioè di arrestare la caduta dell’economia iniettando liquidità nel sistema, dando soldi allo sviluppo dell’economia. La Germania che finora ha giocato a guardare a se stessa (un debito pubblico con bassi interessi) e, se fallisce l’euro, un ritorno a un marco potentissimo rispetto alle altre (ritornate) monete nazionali post-fallimento dell’euro; ebbene questa Germania è stata, lo è ora, vittima di se stessa. Quel che è accaduto ieri (cioè che i cosiddetti mercati preferiscono ai titoli tedeschi con tassi di interesse assai bassi altri titoli con interesse più elevato o altri tipi di investimento, ebbene questo è un ritorcersi contro di un chiudersi autarchico in un’economia solo nazionale non più possibile. E se tornasse il marco come moneta (se l’Euro finisce) ben peggio potrebbe accadere allo stato tedesco: la valuta del marco sarebbe così alta rispetto alle altre monete nazionali europee che impedirebbe qualsiasi esportazione tedesca, mettendo in ginocchio proprio la sua economia “forte”.

   E’ pertanto auspicabile che i governi francese e tedesco rivedano ora la posizione intransigente avuta in questi mesi contro ogni possibile rafforzamento del progetto unitario europeo. E aiuta sicuramente il rimettersi in gioco dell’Italia, anche con un novello presidente del consiglio europeista che conosce bene la macchina europea e che avrebbe la forza, in questo momento, di “imporre” ai due recalcitranti (ma in difficoltà) maggiori azionisti dell’Europa (Merkel e Sarkozy) un’accelerazione del processo di unificazione europea. Insomma da un male (una situazione assai delicata, grave, esplosiva) potrebbe nascere un bene (speriamo).

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ATTALI “UN MESE E MEZZO, PER SALVARE L’EURO”

di Alberto Mattioli da la Stampa del 20/11/2011

   Monti è davvero superMario? Jacques Attali ne è convinto. Ed è un’opinione che pesa. Attali non è solo la star degli economisti francesi, ma anche il presidente di quella Commissione per liberare la crescita, a tutti nota come Commissione Attali, nella quale arruolò anche il collega Monti. Il progetto, ambizioso e molto francese, era quello di chiedere a un gruppo di cervelli di dare alla politica quel che alla politica più manca: le idee.
Professor Attali, perché proprio Monti?
«Non lo conoscevo di persona. Ma sapevo che sapeva in tre campi fondamentali: le istituzioni europee, le regole della concorrenza e la governance pubblica. Bene: Monti mi ha conquistato. Intanto perché si è impegnato moltissimo nei lavori. E poi perché anche sui soggetti in cui non eravamo d’accordo, i suoi argomenti erano sempre forti. E talvolta mi hanno fatto cambiare idea».
Per esempio?
«Per esempio, mi ha convinto a mettere l’accento sulla necessità dell’indipendenza dell’Alta autorità sulla concorrenza rispetto al potere politico. Per me, Monti è nella top ten delle grandi personalità internazionali per statura intellettuale, distacco dagli interessi personali e senso del compromesso. Cui aggiungerei anche quello dello humour».

Jacques Attali, economista francese

Non è che Monti sia celebre come battutista.
«Si vede che non lo conosce. Ha un senso dell’ironia formidabile, molto inglese».
Torniamo in Francia. E’ difficile capire in cosa consista la differenza fra il programma economico della destra e quello della sinistra.
«Per forza, non ci sono! La destra non ha ancora ufficialmente il candidato, la sinistra sì, però è appena stato scelto. Ma poi come si possono fare programmi quando la crisi sembra fuori controllo? In primavera, il futuro Presidente potrebbe trovarsi davanti a uno scenario con le banche francesi fallite e l’euro imploso. E magari la scelta se cercare di stare attaccati a un nuovo euro forte con la Germania o a un euro debole con l’Italia e gli altri».
Ha fatto scalpore una sua recente intervista dove lei sosteneva che Parigi sbaglia ad accanirsi a difendere una tripla A che in pratica ha già perso…
«Perché non prendere atto della realtà? Il problema, per la Francia, non è quello di difendere la tripla A, ma di riconquistarla. Ma è tutta l’Europa che adesso deve fare delle scelte coraggiose. Compresa la Germania, che è molto più malata di quel che crede».
Non è più la prima della classe?
«Ha un debito enorme, ben più pesante di quello spagnolo. E con l’aggravante di una demografia difficile, per cui si saranno sempre meno tedeschi per onorarlo».
Cosa deve fare l’Europa per evitare il tracollo?
«Tre cose. Prima: puntare sulla Bce. La Banca deve continuare a fare quel che sta facendo, cioè sostenere i titoli di Stato dei Paesi membri. I mercati speculano perché scommettono che la Bce non interverrà: ma se la Bce dichiarerà che continuerà a intervenire finché ce ne sarà bisogno, la speculazione verrà fermata. E poi ricordo che nei trattati europei è scritto che la Bce non deve solo lottare contro un’ipotetica inflazione, ma anche per la crescita e l’occupazione».
Ed eccoci al secondo punto.
«Gli eurobonds sono lo strumento giusto per finanziare la crescita. L’Unione europea, a differenza dei Paesi che la compongono, non ha debiti. Se emettesse delle obbligazioni europee, i mercati le apprezzerebbero. Certo, il corollario è il punto tre».
Cioè?
«Il federalismo budgetario. E’ chiaro che la sorveglianza sui bilancio nazionale dev’essere fatta a livello europeo. Con un obiettivo molto semplice: ognuno rispetti le regole di Maastricht. Aggiungo che tutto questo va fatto presto».
Quanto presto?
«Diciamo entro la fine dell’anno. Poi l’euro esploderà e sarà il caos. Per tutti».
Il suo piano presuppone una volontà politica che non c’è.
«Peggio. Mi sembra di rivivere uno di quegli anni terribili del Novecento, come il 1914, il ’29 o il ’38, in cui la politica europea ha fatto le scelte peggiori».
Insomma, lei è pessimista.
«Io sono realista. E poi l’ottimismo o il pessimismo sono atteggiamenti da spettatore, anzi da tifoso. Il giocatore, e noi europei siamo tutti giocatori, non è né ottimista né pessimista: cerca solo di vincere la partita».
Non lo scrive mai nessuno, ma lei fa anche il direttore d’orchestra. Se la crisi fosse un brano musicale, quale sarebbe?
«L’ouverture della Forza del destino di Verdi. Ha la stessa forza e lo stesso ritmo incalzante. Apparentemente inarrestabile».

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DEBOLEZZE EUROPEE

di Marcello Messori, da “il Corriere della Sera” del 22/11/2011

   I cambiamenti politici che si sono verificati nei principali Paesi periferici dell’Unione economica e monetaria europea (Uem) non hanno spinto i mercati finanziari a modificare la loro scommessa negativa rispetto all’euro.

   Anzi, anticipando il prossimo declassamento della Francia, le pressioni speculative si sono ormai estese agli Stati centrali e mirano a porre in crisi lo stesso modello tedesco di crescita, fondato sulle esportazioni interne alla Uem. Purtroppo questi comportamenti degli investitori internazionali rischiano di avere successo perché sfruttano due debolezze della costruzione europea.

   Primo: anche se i nuovi governi dei Paesi periferici si sforzassero di consolidare i bilanci pubblici nazionali e di rimuovere gli ostacoli più ingombranti alla ripresa economica, ciò non basterebbe ad arginare la crisi di fiducia in assenza di una risposta unitaria da parte delle istituzioni della Uem. Secondo: tale risposta è resa problematica dallo sfasamento fra l’orizzonte di breve termine dei mercati e i tempi lunghi della costruzione di nuove istituzioni europee.

   Al di là delle dichiarazioni di facciata, i leader della Uem sono ormai consapevoli del fatto che, dopo aver lasciato degenerare per più di due anni la crisi dei debiti sovrani, i più ragionevoli strumenti di intervento sono diventati armi spuntate. Oggi, alla Uem non resta che contrastare la pressione dei mercati mediante la sola istituzione con capacità di intervento potenzialmente illimitata: la Banca centrale europea (Bce).

   Se la Bce fungesse da «prestatore di ultima istanza» a favore di un Efsf (il fondo salva Stati) trasformato in un’istituzione bancaria e pronto ad acquistare i titoli pubblici dei Paesi membri in difficoltà, la scommessa degli investitori istituzionali rispetto all’euro cambierebbe di segno e diventerebbe positiva.

   Ma perché i leader europei non prendono una decisione in apparenza così semplice? Perché si ostinano a scambiare le cause con gli effetti e prevedono, così, aiuti pubblici per la ricapitalizzazione del settore bancario ma progettano il fallimento «pilotato» della Grecia?

   La risposta è ovvia: perché la Germania e gli altri Paesi «forti» non dispongono di istituzioni europee sufficientemente robuste da controllare gli Stati membri periferici in modo da evitare che i loro passati comportamenti di finanza pubblica «allegra» e di deterioramento della competitività si riproducano nel tempo.

   Ecco il perché della richiesta tedesca di revisione dei Trattati e di costruzione di solide istituzioni politiche della Uem, prima di qualsiasi intervento. Cosa che rischia di trasformarsi in una sorta di «comma 22» che pesa sull’Unione monetaria e può causarne la distruzione.

   La casa europea sta bruciando, ma l’uso degli estintori richiede lo sforzo di chi abita in un’ala ritenuta (a torto) protetta e non dà il tempo per il montaggio di efficaci sistemi contro futuri incendi. La speranza è che l’alta reputazione, di cui godono Mario Monti e Lucas Papademos nella Uem, basti a rassicurare chi ha in mano le chiavi degli estintori e a ribadire l’autonomia sostanziale della Bce. (Marcello Messori)

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 UN TECNOPREMIER IN CASA MERKOZY

– A Bruxelles molti sperano in Monti. Ma per adesso ha offerto solo impegni generici –

da “IL FOGLIO” del 23/11/2011

Mario Monti ieri si è candidato a diventare il contrappeso comunitario all’asse franco-tedesco, che domina la zona euro dall’inizio della crisi. “La mia visione dell’Europa coincide con quella tradizionale dell’Italia: un’Europa che si fonda sul metodo comunitario”, ha detto il tecnopremier, dopo l’incontro con il presidente della Commissione, José Manuel Barroso.

   Nel vertice di domani a Strasburgo con Nicolas Sarkozy e Angela Merkel, “il mio sforzo sarà di operare come ponte verso il metodo comunitario”, ha spiegato Monti. Nei corridoi delle istituzioni europee sono in molti a sperare che riesca a scardinare il Merkozy. Secondo Barroso, l’Europa ha “bisogno di questa leadership impegnata”.

   Le “soluzioni franco-tedesche non funzionano”, dice al Foglio Guy Verhofstadt, presidente dei liberali all’Europarlamento. “E’ da due anni che assistiamo al metodo intergovernativo di Merkel e Sarkozy che ha soltanto aggravato la crisi”. Per il direttore generale di Bankitalia, Fabrizio Saccomanni, “non possiamo affidare la gestione di crisi che hanno conseguenze gravi per tutti i paesi a un piccolo direttorio. Servono consultazioni multilaterali”.

Nella nuova Europa che si sta disegnando con la crisi, il tradizionale europeismo italiano appare però superato. Il centro dell’Unione europea non sta più a Bruxelles, con la sua Commissione e l’Europarlamento. Soltanto la Germania ha casse sufficientemente piene da salvare l’Unione monetaria. Gli altri, anche i più grandi, sono troppo deboli sui mercati per contrapporsi alla “Merkel rule”.

   Con la tripla A francese a rischio, Sarkozy a volte ha protestato, ma alla fine è sempre stato costretto ad allinearsi alla cancelliera. Il premier francese, François Fillon, riconosce che lo stallo è dovuto a “una grande difficoltà: convincere la Germania del fatto che dobbiamo dotare l’Eurozona di uno strumento di difesa della nostra moneta che passi per un’evoluzione del ruolo della Bce”.

La scorsa settimana, David Cameron è volato a Berlino per supplicare Merkel di trasformare la Bce in una Fed europea. Pochi giorni prima, il primo ministro irlandese Enda Kenny ha implorato la cancelliera di permettere alla Bce di diventare prestatore di ultima istanza dei governi in difficoltà. Subito dopo il successo elettorale di domenica in Spagna, Mariano Rajoy ha chiesto a Merkel di consentire alla Bce di rafforzare i suoi acquisti di bond.

   Ieri Madrid è stata costretta a pagare più di Atene per collocare il suo debito: il 5,11 per cento su titoli a tre mesi, più della Grecia in un’asta analoga una settimana fa. Gli spread italiani hanno superato quota 490. I tassi di Francia e Belgio si muovono più nella direzione dei paesi periferici che dei sicurissimi Bund tedeschi. Sempre più preoccupati, anche gli Stati Uniti vogliono che la Bce faccia “di più”.

Monti ieri ha implicitamente criticato la mania tedesca sul rigore. “Il consolidamento è di fondamentale importanza. Ma non deve mettere in seconda linea, come è accaduto negli ultimi anni, l’attenzione sulla crescita”. Monti ha anche bocciato l’Europa a due velocità franco-tedesca con “una divisione troppo netta” tra una zona euro con i suoi Diciassette membri e l’Unione europea a Ventisette. Secondo Merkel, invece, occorre “muoversi in fretta per cambiare i trattati”.

   E se è troppo difficile da fare a Ventisette, allora bisogna agire a livello di zona euro: “Situazioni straordinarie richiedono misure straordinarie”, ha detto la cancelliera, che però s’oppone a soluzioni straordinarie come gli Eurobond o una Fed europea. Per l’Italia e la Spagna non sono “necessari aiuti finanziari esterni”, ha detto il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, secondo il quale tassi al 7 per cento non sono un problema: “Possono farcela da sole”.

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 INCREDIBLE EUROPEANS

   Duro attacco di Paul Krugman a Mario Draghi. L’economista e premio Nobel statunitense, dalle colonne del New York Times, è tornato a criticare la politica delle istituzioni comunitarie: «Avevo riposto qualche speranza nella persona di Mario Draghi. Lui ha appena fatto del proprio meglio per uccidere quelle residue».
Nel mirino di Krugman sono finite le recenti dichiarazioni del presidente della Banca centrale europea (Bce): «Credibilità significa che la nostra politica monetaria riesca ad ancorare le aspettative di inflazione nel medio-lungo termine», aveva detto Draghi. «Questo è il grande contributo che possiamo fare a sostegno della crescita sostenibile, della creazione di occupazione e della stabilità finanziaria. E stiamo dando questo contributo in piena indipendenza».
INCREDIBLE EUROPEANS. «Secondo lui, tutto gira intorno alla credibilità», ha commentato Krugman, nell’editoriale intitolato Incredible Europeans. «Incredibile. In questo momento, la Bce ha troppa (in corsivo nel testo) credibilità sul fronte dell’inflazione».
L’economista ha spiegato che il differenziale tra i tassi di interesse tedeschi nominali e reali, che è una previsione implicita del tasso di inflazione, punta a livelli nel medio termine «disastrosamente bassi».
LE COLPE DEI GOVERNI. Non solo. Il Nobel per l’economia ha rinnovato le critiche ai leader del Vecchio continente: «C’è stata una grande perdita di credibilità nelle promesse dei governi europei, che non siano quello tedesco, di far fronte ai propri debiti».

   Quindi la stoccata finale: «Ci sono molti aspetti che testimoniano questa conclamata crisi di fiducia, ragion per cui l’Europa ha disperatamente bisogno che la Bce operi come prestatore di ultima istanza, cortocircuitando i circoli viziosi», ha scritto Krugman. «Ma no, la Bce difenderà la propria credibilità. E finirà per essere il credibilissimo difensore del valore di una moneta che non esiste più».

19 Novembre 2011 (da http://www.lettera43.it/)

PAUL KRUGMAN, economista statunitense. Nel 2008 ha ricevuto il premio Nobel per l’economia. Scrive sul New York Times. Ha duramente criticato la politica della BCE e Mario Draghi, che non stampa moneta, non crea liquidità per lo sviluppo, per il rilancio economico dell’Europa

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L’ATTUALE POLITICA DELL’UNIONE MINA LA CRESCITA

di Antonella Stirati (Ordinario di Economia Università di Roma Tre), da “L’ UNITA'” del 23/11/2011

   Alcune centinaia di economisti italiani e stranieri, tra i quali moltissimi nomi illustri, hanno sottoscritto un documento (http://documentoeconomisti.blogspot.com ) in cui si sottolinea la necessità e l`urgenza di un rovesciamento di prospettiva nella politica economica in Italia e in Europa.

   In assenza di tale cambiamento, e se si procede sulla linea dell`austerità, sostengono, si avrà una ulteriore grave caduta dell`occupazione e dell`attività produttiva, che potrebbe compromettere la stabilità economica, sociale e finanziaria dell`Italia e di tutta l`Eurozona. In questo modo si andrebbe verso una rottura dell`Unione Monetaria e probabilmente del mercato unico europeo.

   Pur non nascondendo le responsabilità della classe dirigente nazionale, secondo il documento l`origine della stagnazione dell`economia italiana va visto nel contesto dell`Unione Monetaria Europea, cioè nell`assenza di istituzioni e politiche volte alla piena occupazione, all`equilibrio commerciale fra gli stati, e a una maggiore equità distributiva.

   L`aggravamento della crisi, con l`attacco dei mercati finanziari ai titoli del debito pubblico italiano e di altri paesi, dipende poi in primo luogo dalla mancata iscrizione tra i compiti della Banca Centrale Europea del ruolo di prestatore di ultima istanza nei confronti dei debiti sovrani, mentre la costituzione del cosiddetto Fondo Salva-Stati appare del tutto inadeguata.

   Le politiche di restrizione dei bilanci pubblici che vengono richieste dalla Ue hanno determinato una grave recessione nei paesi che le hanno attuate, come la Grecia e la Spagna, e non sono state neanche in grado di stabilizzare i mercati finanziari e ridurre i tassi di interesse sui titoli pubblici a valori sostenibili.

   In questo contesto di emergenza la sola politica in grado di stabilizzare i mercati finanziari e ridurre i tassi di interesse sul debito pubblico italiano e di altri paesi è, come sostenuto ormai da molte istituzioni e da numerosi economisti di prestigio internazionale, l`assunzione decisa da parte della Bce della funzione di garante di ultima istanza dei titoli del debito dei paesi dell`Unione, con interventi analoghi a quelli condotti con successo dalle banche centrali di Stati Uniti, Gran Bretagna, Giappone – paesi che hanno una situazione debitoria comparabile a quelle di Italia o Spagna, e che tuttavia pagano tassi di interesse molto bassi sul proprio debito pubblico.

   La riduzione dei tassi di interesse consentirebbe all`Italia e all`Europa gli interventi necessari a rilanciare l`economia e a correggere gli squilibri nei conti con l`estero, coordinando politiche economiche tese prioritariamente alla piena occupazione.

   Per questo i firmatari sono contrari alla iscrizione nelle Costituzioni nazionali della clausola del pareggio del bilancio pubblico, e sottolineano la necessità di politiche espansive e di un aumento dei redditi da lavoro in tutta l`Eurozona. Essi auspicano quindi che il nuovo esecutivo agisca subito, con gli obiettivi indicati, nelle sedi europee, ricercando le necessarie alleanze politiche e facendo leva sugli ineluttabili rischi che altrimenti investono la sopravvivenza dell`Unione Monetaria e del mercato unico.

   Poiché le politiche di riduzione dei debiti pubblici sono oggi controproducenti, si sostiene nel documento, la richiesta nei riguardi della Banca centrale europea dovrebbe essere accompagnata da un impegno non all`abbattimento, ma alla stabilizzazione del rapporto debito pubblico/Pil.

   Questo, insieme alle entrate provenienti dalla lotta all`evasione, da un`imposta patrimoniale e dalla razionalizzazione della spesa pubblica, consentirebbe all`Italia di destinare risorse pubbliche alla crescita dell`occupazione, agendo sia sulla domanda aggregata che sulla qualità di istituzioni e infrastrutture.

   Se invece il nuovo esecutivo, pur nell`alto profilo tecnico, si farà mero esecutore delle richieste già espresse dalla Unione Europea, esso si assumerà la responsabilità dell`aggravamento della crisi e dell`inutile sacrificio di occupazione, capacità produttiva, stato sociale e diritti dei lavoratori.

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LA POLITICA MIOPE DI GERMANIA E FRANCIA

di Romano Prodi, da Il Messaggero del 20/11/2011

   Nessuno poteva pensare che il semplice annuncio di un nuovo governo potesse di colpo annullare lo spread dei nostri titoli pubblici nel confronti di quelli tedeschi. Come è stato saggiamente affermato, non si guarisce una malattia ormai cronica con qualche ora di ospedale.

   Tuttavia in pochi giorni il quadro di riferimento è radicalmente cambiato. Sul banco degli imputati della crisi dell’Euro l’Italia non è più il solo accusato: i tassi spagnoli hanno di nuovo raggiunto (e anche superato) quelli italiani e i tassi francesi e austriaci hanno cominciato a lievitare come mai in passato.

   Non penso certo che mal comune sia mezzo gaudio, perché da godere c’è ben poco, ma sono convinto che la generalizzazione delle preoccupazioni renda più coscienti i governanti della necessità di cercare con più consapevolezza e più energia la soluzione della crisi.

   Prima di tutto i governanti di Berlino. La Germania è infatti il vero primo attore della politica europea ma non si è ancora resa conto che la leadership comporta anche responsabilità. Da quando esiste l’Euro essa ha accumulato un crescente surplus con tutto il mondo ma soprattutto con gli altri paesi dell’Euro, riguardo ai quali ha raggiunto l’impressionante attivo di 1100 miliardi.

   Il solo surplus nei confronti dell’Italia è passato, nel periodo che ha preceduto la crisi,da dieci a venti miliardi all’anno ed è addirittura triplicato nei confronti della Spagna. Questo è avvenuto non solo in virtù di un forte aumento della produttività della Germania ma anche per una severa politica di contenimento dei suoi consumi interni.

   Una notevole parte di questo crescente surplus è stato poi impiegato nell’acquisto di titoli pubblici o in prestiti alle banche degli altri paesi dell’Eurozona, aumentando in tal modo gli squilibri esistenti. Quando infine è arrivata la crisi, cioè quando gli altri paesi europei avevano maggior bisogno di prestiti, la Germania non solo li ha bloccati ma ha impedito alla Banca Centrale Europea di fare quella che aveva fatto la Riserva Federale Americana nel 2008 e 2009 e cioè di arrestare la caduta dell’economia iniettando liquidità nel sistema.

   Oggi la Germania si trova quindi nella complicata situazione di dovere impedire ad ogni costo il collasso dell’Euro perché questo farebbe salire al cielo il cambio dell’ipotetico nuovo marco tedesco (distruggendo in tale modo la solidità dell’economia germanica) ma di non essere in grado di fare fronte alle proprie responsabilità, elaborando una politica economica volta a ridurre gli squilibri anche da essa generati.

   Di fronte a questo dilemma il governo tedesco si è fino ad ora riparato con la finzione di un irrealistico asse con la Francia, come se questi vertici ristretti potessero rendere simile la situazione dei due paesi.  Questi vertici arrivano sempre a soluzioni insufficienti e tardive proprio perché diverse sono le condizioni e diversi gli interessi di Francia e di Germania.
Mi sono chiesto varie volte (e altrettante volte ho posto la domanda ad autorevoli interlocutori francesi) perché continuassero a perseguire una politica di solitario e infruttuoso confronto con la Germania e non si facessero carico dei problemi degli altri paesi, anche perché i loro problemi sarebbero un giorno diventati simili ai nostri. Le risposte sono sempre state difficili da decifrare in quanto in alcuni casi si attribuiva questo comportamento a una deliberata politica francese e, in altri, a una non accettazione di questa politica da parte di Italia o di Spagna. Ancora non so quale sia la verità

   Sta di fatto che le cose sono cambiate: in Italia e in Spagna abbiamo nuovi governi e la Francia si sta duramente rendendo conto di non essere affatto immune da questa tempesta senza precedenti.  Vedo perciò una convergenza di comuni interessi nel fare capire alla Germania che non sono solo gli altri paesi a doversi adattare alle scelte tedesche ma che, per uscire dalla crisi, occorre una nuova visione politica.

   Sia ben chiaro: questo non vuole dire affatto che l’Italia possa evitare le severe misure di correzione che Monti ha annunciato nel suo discorso programmatico davanti alle Camere. Le misure di austerità sono necessarie e inevitabili. Ribadisco tuttavia con forza che le misure di austerità saranno seguite solo da altre misure di austerità se non saranno finalmente accompagnate da un piano di convergenza reciproca.

   E ribadisco anche che la Germania si renderà conto dei suoi reali interessi e del suo grande compito storico solo se il necessario piano di convergenza sarà elaborato con la collaborazione di tutti gli altri grandi paesi della zona Euro. E penso che l’Italia possa essere tra i protagonisti di questa nuova politica europea.

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23/11/2011, da “la Stampa.it” – LA RICETTA TEDESCA PER USCIRE DALLA CRISI

MERKEL: “GOVERNANCE FISCALE EUROPEA, NO AGLI EUROBOND, SÌ ALLA TOBIN TAX “

– Per la cancelliera tedesca la Bce “non può più stampare moneta” – Frenata sugli aiuti per la Grecia – Parigi non ci sta, giù le Borse –

   Bce, che fare? Le differenti risposte a questa domanda dividono oggi l’Europa contrapponendo Berlino e Parigi e inquietando i mercati, che registrano il flop dell’asta Bund a 10 anni con una quota di invenduto pari al 35% e rendimenti sottilissimi (1,98%).

   Tanto che la Bundesbank è stata costretta a intervenire per evitare esiti negativi più clamorosi. È nervosa la Germania: la cancelliera Angela Merkel frena sulla sesta tranche di aiuti internazionali da 8 miliardi di euro alla Grecia, sostenendo che non potrà essere pagata se tutti i partiti non si metteranno d’accordo su una serie di impegni scritti.

   «La questione greca – spiega – non è stata chiarita, perché non ci sono ancora le condizioni per il pagamento della nuova tranche di aiuti». «Perché questo accada – aggiunge – non basta la firma del premier ma serve un accordo tra i partiti di appoggio al governo, senza il quale niente sesta tranche».
La cancelliera ribadisce la sua contrarietà agli eurobond come strumento per superare la crisi del debito europea e definisce «inadeguato» il fatto che la Commissione Europea li abbia messi all’ordine del giorno: «L’idea che attraverso la collettivizzazione dei debiti si possano superare i problemi strutturali dell’Unione Monetaria è proprio ciò che non potrà funzionare», ha dichiarato in Parlamento. A suo giudizio, bisognerebbe piuttosto rivedere i trattati.
Contro la posizione tedesca punta il dito il ministro francese delle Finanze, Francois Baroin, sostenendo che la Bce debba agire come prestatore di ultima istanza per evitare un contagio della crisi, sul modello della Fed, proprio ciò a cui Berlino si oppone.

   «Abbiamo sempre ritenuto – dice Baroin – che la banca centrale sia responsabile del sostegno dell’attività economica» dell’Eurozona. «La migliore risposta per evitare il contagio in paesi come la Spagna e l’Italia è, dal punto di vista francese, un intervento o la possibilità di un intervento o l’annuncio di un intervento da parte di un prestatore di ultima istanza, che dovrebbe essere la Bce». «Oggi – prosegue – questo non è possibile per due ragioni: i trattati europei non lo consentono e la Germania non vuole».

   Il governo francese si dice tuttavia convinto della capacità della Bce di difendere l’Eurozona: «Siamo fiduciosi – dice il portavoce dell’esecutivo Valerie Pecresse – che la Bce riesca a trovare il modo migliore per giocare il suo ruolo». Sul fronte dei mercati giornata nel segno della volatilità e poi, sullo scorcio finale, virata in negativo per tutte le borse europee. Piazza Affari è la peggiore con il Ftse Mib a -1,55%. In rosso anche Wall Street con perdite superiori all’1% per Dow Jones e Nasdaq.

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CRISI GLOBALE

di Marco D’Eramo, da “IL MANIFESTO” del 22/1172011

   Il telefono è già stato inventato da tempo, ma – a quanto è dato sapere dai media – i dirigenti della nostra sinistra non se ne sono ancora accorti, a quattro anni ormai dall’inizio della crisi dei mutui subprime (agosto 2007), a più di tre anni dal fallimento della banca Lehman Brothers (settembre 2008), a più di 19 mesi dall’esplosione della crisi del debito europeo (maggio 2010 in Grecia).

   In tutto questo tempo infatti, nonostante gli attacchi speculativi abbiano messo in ginocchio in successione Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna, Italia (e ora stiano attaccando Francia e Belgio), mai i dirigenti della nostra sinistra hanno trovato il tempo o l’occasione di fare un colpo di telefono ai loro omologhi greci, portoghesi, spagnoli, francesi.

   Né, se per questo, i dirigenti della sinistra greca o spagnola hanno mai sentito il bisogno di comporre il prefisso 0039. Se per i banchieri, i fondi d’investimento e le cancellerie, la crisi dei debiti sovrani è una crisi

sistemica del governo dell’Europa, le sinistre invece sembrano non rendersi conto che da sole non potranno opporsi alle (né influire sulle) misure decise dai banchieri. I nostri vari Bersani & Co. sembrano credere che basti tradurre «governo» in «governance» per depurare il problema di tutta la sua dimensione politica e ridurlo a questione tecnica da delegare a un governo di «tecnici».

   Nella vulgata corrente infatti ci sarebbero due versanti «indipendenti» del problema; un aspetto economico sovranazionale, che riguarda i mercati, e uno politico che riguarda gli schieramenti nazionali. Ma quello che sta avvenendo è proprio il venir meno della distinzione tra i due aspetti. Come descrivere quel che succede da due anni a questa parte se non come la sconfitta della politica su scala nazionale da parte dei «poteri forti» sovranazionali?

   Viene il sospetto che le varie sinistre europee non si rendano conto della vastità e della profondità della rivoluzione in corso. Perché di una vera e propria controrivoluzione si tratta. Un cambiamento che accoppia una tendenza di lunga durata in atto ormai da circa 40 anni con la crisi degli ultimi quattro anni che sfrutta per mettere in piedi addirittura un nuovo rapporto tra capitale e politica.

   La tendenza di lunga durata è quella della delocalizzazione industriale che ha operato una gigantesca compressione dei salari nell’area Ocse, ha precarizzato il lavoro, ha debilitato i sindacati e ha minato i diritti dei lavoratori. Questa tendenza di lunga durata viene accentuata e accelerata adesso, approfittando della crisi.

   Questo è l’obiettivo dichiarato dei vari piani di austerità: spazzare via un secolo e passa di conquiste dei lavoratori (non solo operai). E tra le conquiste dei lavoratori c’era anche la loro partecipazione al processo di decisione politica attraverso il meccanismo delle democrazie parlamentari. Ma gli ultimi eventi mostrano che – questioni formali a parte – la democrazia è stata sospesa. Almeno nel suo spirito, la Costituzione è stata abrogata in Grecia e Italia: in questi due paesi una sola cosa è certa, e cioè che il popolo non è affatto sovrano.

   Le sinistre europee hanno assistito senza fiatare allo smantellamento del diritto. Intanto non era scritto in nessun trattato che un’unione di 17 stati fosse governata da due soli paesi a cui nessuno ha rilasciato una delega: il duopolio franco-tedesco (che si avvia a essere un monopolio germanico) è totalmente illegale. In secondo luogo, le lettere della Banca centrale europea ai paesi Piigs somigliano come gocce d’acqua alle lettere che l’Fmi mandava agli stati d’Africa e America latina, con la differenza che allora erano affrancate per il Terzo mondo, mentre ora sono inviate a economie avanzate del primo mondo.

   Guardando come si comportano gli Hollande, i Bersani, gli Zapatero e colleghi, è lampante che costoro sono ciechi di fronte alla più massiccia ristrutturazione capitalista dell’ultimo secolo,una ristrutturazione che ha come modello la Cina postdenghista che coniuga liberismo capitalista con partito unico, censura, repressione: tutta la libertà di Stalin e tutta l’eguaglianza di Bush. Il capitalismo mondiale si è accorto che il sistema può funzionare e guadagnare senza un servizio sanitario, senza pensioni, senza scuola per tutti, senza diritti civili, senza democrazia, tutti elementi che rappresentano intralci e costi impropri, da tagliare.

   Questo per dire che il rospo che ci fanno ingoiare non è il semplice governo Monti, ma è un processo mondiale di lunga durata che cambia il modello di capitalismo. Mai avremmo pensato che il post-fordismo consisterebbe nel «post-maoismo».

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MA L’EUROPA È DEMOCRATICA?

di Giancarlo Costa | 7 novembre 2011, IL FATTO QUOTIDIANO

   Mi ha lasciato fortemente perplesso il commissariamento italiano da parte dell’ Unione Europea, che dunque ci presenta la lista dei compiti da fare e affida al Fondo Monetario Internazionale, non si sa con quali reali connotati, la sorveglianza sui nostri conti traballanti.
E’ ben chiaro che la stagnazione politica, la mancanza di una qualsivoglia progettualità, e l’ambiguità sui conti pubblici, nel corso degli anni, hanno prodotto la fragilità che oggi fa dell’ Italia un paese folle, incapace di intendere e volere.
Quello che avviene così è la sostituzione di un potere tecnico al potere politico. Chi controlla questo processo? Sia chiaro che non si vuole qui banalizzare oltremodo. La democrazia rappresentativa ha mostrato proprio in Italia deformazioni insostenibili.
La nostra crisi è oggi anche determinata dall’insistita incapacità del governo di prendere decisioni forti, nel condizionamento di una probabile tornata elettorale. L’interesse di “casta” e un po’ di facile populismo, spesso prevalgono sulle ragioni reali dell’economia e della collettività e questo nessuno può permetterselo. Aggiungiamo poi a tutto questo, uno zoccolo duro di inguaribile incompetenza, e la ricetta del disastro è completa.
Così a contrario, si potrebbe, sostenere che un “governo” di tecnici può essere libero di agire unicamente sulla scorta di pianificazioni economiche ben determinate, operando quelle riforme che il governo democraticamente eletto non riesce oggi a ottenere. Ma anche volendo accettare tutto questo, tuttavia, il peso allo stomaco rimane indigeribile: chi legittima le scelte così compiute? Chi risponde se quelle scelte si rivelano sbagliate? Quale collettività ha consegnato questa sovranità?
Perché se la nostra crisi è colpa anche di un governo, è anche vero che questo assetto è stato determinato democraticamente sulla scorta di un mandato popolare: siamo tutti, in qualche modo, responsabili di aver costruito un Italia fallimentare.
La stessa cosa non la si può dire riguardo alle politiche “suggerite” della Banca Centrale o del FMI. Se è vero che, secondo la Costituzione italiana, la sovranità appartiene al popolo, sembra che la crisi economica, gettata nel quadro di un Europa interconnessa, porti di fatto a un sistematico allentamento di maglie nel canone della legittimazione popolare del potere politico. Il problema non è nuovo.
   L’Europa come oggi concepita non è nata certo per manifesta volontà dei popoli europei. Nel Manifesto di Ventotene, Altiero Spinelli aveva ben chiaro il fattore disgregante degli egoismi nazionali e la necessità del supermento degli Stati Nazione, incapaci di una visione d’insieme. Si poneva in quel ottica la necessità di una rifondazione politica, e a tal riguardo veniva considerata essenziale la formazione di una voce capace di spiegare e sostenere le istanze europeiste. In luce delle tante difficoltà di costruzione democratico-consensuale dell’ Europa, si optò talvolta per veri salti nel buio, orientati dalla massima “unire i portafogli per unire i cuori”. Così iniziò la condivisione di risorse e regole che ha portato da ultimo al Trattato di Lisbona.
Sia detto che nulla ci è stato imposto. Le regole comunitarie le abbiamo volute noi, e il loro ingresso nel nostro ordinamento avviene pur sempre passando dalla nostra Costituzione. L’organismo europeo ha preso nel tempo una vitalità inaspettata, e ha prodotto grandi e spesso positivi cambiamenti, ma è ancora più fragile laddove dovrebbe essere più forte: manca di consenso popolare e di questo sembra avere terribilmente paura.
Ne sia conferma il panico scatenato dalla proposta direferendum in Grecia. Così, più l’ Europa stringe le sue maglie, meno sembra fidarsi degli strumenti democratici. Il che non può non far riflettere. Fra i motivi di tanta paura ve ne è uno abbastanza palese e poco considerato: nessuno ha mai spiegato l’ Europa agli europei. Un partito veramente europeista non si è mai sviluppato, e la mancanza di classi politiche all’altezza del compito che la storia richiede, ha favorito anzi la crescita di populismi e pericolose estremizzazioni nazionaliste. L’Europa è un entità complessa, ed è complessa la sua narrazione.
Preso atto anche di questo, non si può però negare che l’Europa comunitaria sia in certa misura una chimera fondata su dogmi di funzionalità sottratti spesso a qualsiasi dibattito. In Germania, un grande intellettuale si è scagliato aspramente “contro la politica autoritaria e autoreferenziale dei burocrati di Bruxelles o dei banchieri centrali di Francoforte”.
La critica brucia, ma fa riflettere anche a un convinto europeista come me. Mi sembra difficilmente accettabile un sistema Europa che mentre insiste a regolare ogni aspetto della vita, dai piccoli ai grandi dettagli, attraverso continue regolamentazioni e direttive, dall’altro si allontana progressivamente dalla base popolare, disinteressandosi degli strumenti democratici. Ad oggi, l’unico organo europeo espressione di una diretta investitura popolare è il Parlamento di Bruxelles, dove ho lavorato; una vetrina festosa, incapace però di esprimere una forza reale nei processi di formazione della volontà europea.
Eppure, vivendo a Bruxelles, ho anche sentito l’ Europa come qualcosa di vivo e concreto. Romanticamente, posso dire quello che sento di europeo in me; vicinanza nei problemi, nei desideri, nella cultura, nei modi di vivere dei ragazzi di Riga come di Madrid. Una consapevolezza che forse è nella sostanza l’unico buon terreno sui cui seminare. Se l’ Unione deve capire cosa può e vuole essere, può farlo solo chiedendone verità a tutti quelli che l’ Europa la vivono e la vivranno.

Un’Europa tecnocratica, priva di politiche sociali oltre che schiettamente economiche, chiusa nei suoi uffici, rischia davvero di vivere sul filo di un rasoio tagliente, che non potrà ancora pensare di saltare con insostenibili vuoti di democrazia senza versarsi addosso fiumi di ostilità opposte e contrarie. E questo, sia chiaro, lo dico pur nella convinzione che gli Stati nazione, senza l’ Europa, rappresentino entità di una fragilità estrema,con o senza l’ Euro di mezzo.
A riguardo, mi tornano in mente le Poleis greche, piccole realtà fiorenti e avanzatissime, sconfitte da una forza emergente perché incapaci di organizzarsi in una politica comune. Allora, il nostro mondo coincideva con il Mediterraneo, oggi mare dei problemi, e la parola Europa indicava “le terre oltre Creta”.
Oggi lo scenario è il mondo stesso, gli imperi sono gli Stati Uniti, la Russia, la Cina, l’ India e il Brasile, o ancora i grandi gruppi di interesse, i colossi multinazionali, le grandi lobby finanziarie. In quest’ottica, la debolezza delle collettività europee risiede proprio nell’incapacità di un’azione unitaria.
Ma se anche fosse nel potenziamento definitivo dell’ Unione l’unica vera svolta necessaria, è impensabile che questo possa avvenire senza un diffuso e concreto sostanziamento democratico che rappresenta oggi come mai un decisivo argomento di definizione dei futuri scenari del vecchio continente. 

Una risposta a "L’EUROPA nella bufera (economica, finanziaria…), con gli stati nazionali tutti in crisi (pure la Germania adesso) – Può salvarla solo l’UNITÀ POLITICA, nel federalismo, degli STATI UNITI D’EUROPA (il ruolo strategico dell’Italia)"

  1. lucapiccin venerdì 25 novembre 2011 / 5:23

    Ci sono delle parziali verità in tutti i commenti, ma il nocciolo del problema è colto solo dall’articolo del Manifesto (pur non essendo io comunista, si badi bene).
    In particolare, tutti contestano la posizione della Germania, che non vuole cambiare il ruolo della BCE, in quanto stabilizzatrice dell’inflazione. La BCE deve essere prestatore di ultima istanza, si dice, cioé stampare moneta senza limiti, per acquistare i debiti enormi. Se la BCE agisce in questa maniera perderebbe logicamente il suo principale ruolo attuale e ci toveremmo con un enorme quantità di moneta circolante, pletorica e sovrabbondante. Tutti hanno visto nei sussidiari delle scuole dell’obbligo le foto della crisi del ’29 con persone che giravano con carriole piene di banconote (recentemente è stato il caso della Russia postsovietica o della Yogoslavia post-Tito).
    Per farla breve, la BCE potrebbe si emettere moneta e acquistare i debiti, ma creerebbe cosi un’inflazione monetaria pericolosissima.
    Ricordiamoci che gli USA possono già agire in questo modo (come hanno fatto in passato, ricorrendo anche alla guerra se necessario per accedere a risorse a buon mercato) ma preferiscono spingere noi europei a farlo, proprio per evitare questa spirale inflazionistica, forse inevitabile. In pratica preferiscono, comprensibilmente, che noi andiamo a fondo al posto loro (prima di loro?).

    Quel che è certo e sicuro sono le misure di austerità, Lo smantellamento dei diritti dei lavoratori, degli studenti, in breve dello stato sociale.
    La CIna va bene ci dicono, cresce del 9% all’anno. Bisogna “rassicurare i mercati”, quindi garantire loro condizioni competitive. E’ illusorio credere che i lavoratori europei possano entrare in competizione coi loro omologhi cinesi (anche in Germania). La settimana scorsa un’ondata di proteste nel sud-est della Cina, da parte dei lavoratori di Adidas, New Balance, Nike, è stata soppressa duramente. I lavoratori chiedevano di lavorare di più (!) perché con 140 euro mensili non ce la fanno. Notiamo che 140 euro è il prezzo di un paio di scarpe di queste ditte…
    In sostanza, la CIna è il paese che offre le migliori condizioni ai “mercati” (entità metafisica che altro non sono le imprese e la finanza internazionali), e l’Europa deve andare in questa direzione.

    E’ ovvio che bisogna cambiare sistema (nessuno auspica a una dittatura del proletariato, ma qualcos’altro dev’essere possibile… – la governance federalista? -). E’ pero’ inutile sperare che riformando la BCE tutto si risolverà per il meglio. Il capitalismo non si è mai portato cosi bene, i profitti sono al massimo storico.
    Il lavoro invece, è vilipendiato, disprezzato. Nei media si continuano a diffondere messaggi insulsi e fuori dal tempo, la vita spensierata e vacanziera, notturna e mondana, tra cocktail e sesso a volontà.
    Tutto questo sta per terminare definitivamente e piuttosto brutalmente. Prepariamoci a lavorare duramente, e questa volta, alle condizioni imposte dalla competitività e dalla concorrenza. Con tutte le conseguenze del caso.

    Forse nei mesi a venire la BCE stamperà tanti euro che avranno sempre meno valore, ma questo è un male minore.

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