LA GEOGRAFIA DEI POTERI LOCALI DA CAMBIARE (nazionale, regionale, provinciale, comunale). La necessità di PIÙ EUROPA e meno Nazione; MACROREGIONI al posto delle fallimentari Regioni; nuove CITTÀ e AREE METROPOLITANE al posto di Province e Comuni obsoleti

Mappa-disegno tratto da http://www.tempi.it del 21/9/2012 (CLICCARE SULL’IMMAGINE PER INGRANDIRE) – “LA MACROREGIONE VENETO-LOMBARDIA-PIEMONTE-EMILIA secondo uno studio di Eupolis raggiungerebbe il 39,2 per cento della popolazione italiana, ma con un Pil pari al 47,5 per cento sul valore nazionale. Anche il paragone con l’Europa è felice: il soggetto aggregato potrebbe competere alla pari con la MACRO-LAND RENANIA, ossia IL TERRITORIO CHE COMPRENDE I DUE LÄNDER RENANI VESTFALIA E PALATINATO (ipotesi di fusione allo studio nel dibattito in merito alla riforma dello Stato tedesco)” dall’articolo http://WWW.TEMPI.IT DEL 21/9/2012 di Massimo Giardina)

   L’esplosione della crisi politica, morale, delle Regioni italiane come istituzioni con una spesa del tutto fuori controllo e ben diversa da ogni finalità istituzionale pubblica (le assegnazioni di denaro oltre ogni limite ai consiglieri regionali non è solo problema della Regione Lazio ma di tutta Italia), questo fatto scandaloso ha messo in crisi un assetto territoriale geografico rappresentato appunto dall’ “ente Regione”. Alle Regioni la costituzione assegnava principalmente all’origine un compito di indirizzo, di orientamento (della politica sociale da attuarsi, dell’urbanistica, dell’economia…) nel territorio di loro competenza. Cosa del tutto superata dalle molteplici funzioni poi loro assegnate (in primis quello della gestione della Sanità, che in media incide per circa l’85% sui bilanci regionali).

   Quello che a noi interessa qui sottolineare è che questi fatti delittuosi, scandalosi di appropriazione indebita di denaro pubblico da parte dei consigli regionali (con distribuzione a pioggia ai consiglieri e ai loro gruppi di appartenenza), porta a un attacco assai evidente al processo federalista di passaggio dei poteri dello stato centrale “verso il basso” (perché ce n’è uno, federalista di processo politico, anche “verso l’alto”: cioè l’Europa, l’Onu, un possibile e auspicabile governo mondiale…).

   In pratica si dice: avete visto? Avete voluto assegnare pari forza, poteri e dignità tra Stato centrale e Regioni, attraverso la riforma del titolo V della Costituzione, – con legge dell’ottobre 2001 (poi confermata da referendum) -, e adesso vi accorgete che le regioni sono poteri corrotti uguali o pure peggiori dello stato centrale?

   Obiezione e critica ovvia nel momento di massima deblace delle Regioni, dei loro rappresentanti eletti, che si sono dimostrati e si stanno dimostrando non all’altezza morale del compito loro assegnato con l’elezione, e che si sono dati e si stanno dando compensi fuori di ogni portata e decenza…

… Però l’assetto federalista che assegna poteri (e finanziamenti) all’organo “più adatto” a gestire i soldi dei cittadini (“la mano che riceve dev’essere la stessa che eroga i servizi”), ebbene questi principi non dovrebbero ora essere stravolti ritornando a una vecchia e vetusta centralizzazione dello stato (riallontanando ogni potere nella capitale). Semmai, e qui sta pure anche la nostra proposta (altri la fanno) bisognerà superare queste obsolete (venti) regioni (ventuno se si considera le due province autonome di Trento e Bolzano); dovremmo riordinare l’assetto regionale, accorpando le Regioni in MACRO-REGIONI, con caratteristiche geopolitiche in grado di essere, loro Macroregioni, governate in limpidezza, con risparmio ed efficienza.

   Dibattito di questi giorni è la proposta avanzata di FARE UN’UNICA (MACRO)REGIONE AL NORD. A noi sembra troppo estesa territorialmente, e pensiamo invece che sia più praticabile l’idea di due MACROREGIONI DEL NORD, una del NORDEST (Emilia Romagna, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige) e l’altra del NORDOVEST (Lombardia, Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria) sarebbe più confacenti; più praticabile anche nel dialogare con due MACROREGIONI DEL CENTRO (la prima formata dai territori attuali di Toscana, Umbria, Marche; e la seconda da Lazio, Abruzzo, Molise, ma anche dalla Sardegna così da togliere quest’ultima dall’isolamento politico insulare); e con (atto di coraggio, ma poi cerchiamo di spiegare perché) una sola possibile MACROREGIONE MERIDIONALE (formata dai territori di Campania, Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia). Allora 5 MACROREGIONI al posto delle attuali VENTI REGIONI (ventuno se si considera Trento e Bolzano separatamente).

   E l’idea di UN’UNICA MACROREGIONE MERIDIONALE è sostenuta da chi crede che il mancato sviluppo nei decenni (nei secoli!) del meridione d’Italia dipenda anche da poteri locali (regionali) non in grado di uscire da clientelismi, da rapporti indiretti con organizzazioni criminose (mafia, ndrangheta, camorra…). Azzerrare le regioni meridionali, sostituendole con un’unica Macroregione, toglierebbe l’aria al malcostume amministrativo radicato (tra i sostenitori di una Macroregione unica meridionale, invitiamo a leggere di GIORGIO RUFFOLO “Un paese troppo lungo”, ed. Einaudi, euro 12,00).

Italia, anno mille

E che l’azzeramento degli attuali poteri regionali meridionali, con la creazione di una MACROREGIONE DEL SUD, collegata in modo naturale con le economie emergenti del Mediterraneo (dei paesi arabi della Costa nord africana, -Maghreb e Mashrek-, dei Balcani, verso il Medio-oriente…) possa essere l’elemento virtuoso per un’autonomo avvio di scambi culturali, economici, di sviluppo nuovo (sull’energia, l’agroindustria, il turismo…) che possano finalmente far decollare la MACROREGIONE DEL SUD verso nuovi mercati e opportunità di benessere.

   Al tema delle MACROREGIONI aggiungiamo in questo post alcuni articoli dedicati al difficile avvio delle 10 CITTA’ METROPOLITANE (qui in particolare si parla di quella di Venezia), per dimostrare che l’assetto territoriale che questo nuova istituzione “metropolitana” prevede rischia di essere di pura sostituzione della provincia in cui si insedia la città metropolitana; mente il senso vero è quella di dare nuovi strumenti e servizi ai cittadini e alle imprese economiche che operano in un’area urbana più allargata e ben diversa dal sistema rigido e del tutto obsoleto previsto fin qui dal sistema “regione-province-comuni”.

   La difficile strada delle riforme concrete degli assetti territoriali geografici da sostituire (Macroregioni al posto delle Regioni; l’eliminazione totale che noi vorremmo delle Province; la creazione di Città Metropolitane; il mettersi assieme di più comuni medio-piccoli per creare al loro posto CITTA’ di almeno 60.000 abitanti), tutto questo nuovo assetto territoriale trova le difficoltà ad esprimersi definitivamente, ma nei fatti dell’economia e della vita urbana delle persone sta già avvenendo da tempo (e urge una risposta politica ed istituzionale che lo riconosca e lo aiuti a funzionare). (sm)

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«LA VIA D’USCITA? LE MACROREGIONI»

di Priscilla Del Ninno, da “il Secolo d’Italia” del 25/9/2012

   Decentramento amministrativo e del potere: è sull’ascissa del dibattito politico e l’ordinata dell’attualità esplosa con il caso Fiorito e dintorni, che torna ad essere messo in discussione il federalismo: un fenomeno fallito o solo mal gestito? Lo abbiamo chiesto al professor Agostino Carrino, costituzionalista e docente all’Università di Napoli Federico II.
Professore, l’idea federalista, diffusasi negli anni, ha nutrito la speranza degli italiani che un potere vicino e radicato sul territorio avrebbe garantito possibilità di controllo e maggiore efficienza: è il grande inganno di un sistema, o solo una sua degenerazione prevedibile?
In realtà in Italia, da quando si è cominciato a parlare di federalismo, si è parlato partendo da un significato del termine totalmente travisato. Il federalismo non è quello che ha propagandato la Lega, che implica rimandi a idee di divisione; il concetto del federalismo, semmai, conduce all’esatto contrario: all’unificazione del diverso, sia pure nel rispetto e nel mantenimento delle diversità. Quindi c’è proprio un vizio d’origine in tutto il dibattito federalista in Italia. Del resto, la nostra storia, dal 1861 in poi, è contrassegnata dal grande errore iniziale dell’unificazione sul modello francese, un modello attuato senza immaginare invece la necessità di rispettare le identità peculiari degli stati pre-unitari. Ma questa, ormai, è una storia archiviata…
Questo l’errore di partenza che affonda le radici nella storia passata; quali, invece, gli sbagli di più recente acquisizione?
Secondo errore gravissimo è stato fare una riforma del Titolo V della Costituzione che, in realtà, non è federalista, perché non poteva esserlo per tutta una serie di ragioni anche tecniche, che ha di fatto introdotto in Italia un ibrido: una situazione che giuridicamente è di un regionalismo spurio, che vorrebbe essere qualcosa di più di un decentramento, e che, soprattutto, ha portato alla cancellazione di ogni controllo da parte dello Stato su entità amministrative che, in quanto tali, avrebbero invece bisogno di essere controllate. L’azzeramento dei controlli è una delle questioni fondamentali al centro della riforma “sbagliata” del 2001.
Inutile, insomma, stupirsi degli scandali di oggi?
In Italia l’introduzione delle regioni, per come è stata fatta dal 1970, è stata una catastrofe. L’ente regione da noi è stato sempre il volano di tutte le corruzioni e della decadenza politica registrate negli ultimi decenni, rappresentando il momento di svolta in senso negativo di questo Paese. Una realtà che si è andata poi aggravando negli anni, salvo poi meravigliarsi – come accade oggi – che il consigliere regionale di turno vada a spendere in salumeria il denaro nostro. Ma da sempre si è trovato il modo di fare del clientelismo di un certo tipo…
Come se ne esce allora?
Sono molto pessimista. Forse l’unica soluzione possibile sarebbe pensare alla costituzione di macro regioni dotate di una dimensione, se non di sovranità, di qualcosa di molto vicino. Ma, più di ogni altra cosa, resto dell’idea che per venire fuori dall’agonia infinita della prima repubblica che paralizza questo Paese – perché la seconda, a mio avviso, non è ancora nata – occorra soprattutto un’Assemblea Costituente che riscriva il patto associativo tra gli italiani.
Quindi inutile chiederle un commento sulle ipotesi avanzate in merito al mantenimento delle province al posto dell’abolizione delle regioni o, addirittura, di un semplice ritorno al centralismo statale?
Personalmente, nel mio essere municipalista favorisco il mantenimento delle province, mantenimento da razionalizzare però nell’ottica di una realtà esponenziale di un territorio omogeneo dal punto di vista economico e culturale, abolendo magari le regioni, a partire da quelle a statuto speciale, che finanziamo senza che ci sia nessun controllo e nessun ritorno.

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Eccessi di un decentramento

I PACHIDERMI DELLE REGIONI

di MICHELE AINIS, da “il Corriere della Sera” del 22/9/2012

   Lo scandalo che ha travolto la giunta Polverininon è certo un buon motivo per abolire la Regione Lazio. Né la Lombardia o la Sicilia, dopo le peripezie di Formigoni e di Lombardo. Ma sta di fatto che le Regioni sono diventate molto impopolari; e il popolo è pur sempre sovrano.

   Di più: nei termini in cui le abbiamo costruite, le Regioni sono un lusso che non possiamo più permetterci. Non solo in Italia, a dirla tutta.

   Ne è prova, per esempio, il no di Rajoy alla Catalogna, che reclamava una maggiore autonomia fiscale. Ma è qui e adesso che il decentramento dello Stato pesa come una zavorra. È qui che la spesa regionale è aumentata di 90 miliardi in un decennio. Ed è sempre qui, nella periferia meridionale dell’Europa, che i cittadini ne ottengono in cambio servizi scadenti da politici scaduti.

   Sicché dobbiamo chiederci che cosa resti dell’idea regionalista, incarnata nei secoli trascorsi da Jacini, Minghetti, Colajanni, Sturzo. Dobbiamo domandarci se quell’idea abbia ancora un futuro e quale. Intanto ne conosciamo, ahimè, il passato. L’introduzione degli enti regionali costituì la principale novità della Carta del 1947, ma poi venne tenuta a lungo in naftalina, perché la Democrazia cristiana non voleva cedere quote di potere al Partito comunista.

   Quando tale resistenza fu infine superata – all’alba degli anni Settanta – le Regioni vennero al mondo zoppe, malaticce. Da un lato, il nuovo Stato repubblicano aveva occupato ormai tutti gli spazi; dall’altro lato, i partiti politici avevano occupato lo Stato. Ed erano partiti fortemente accentrati, dove i quadri locali prendevano ordini dall’alto. Le Regioni si connotarono perciò come soggetti sostanzialmente amministrativi, dotati di competenze legislative residuali e senza una reale autonomia.

   Poi, nel 2001, grazie alla bacchetta magica del centrosinistra, scocca la riforma del Titolo V; ed è qui che cominciano tutti i nostri guai. Perché dal troppo poco passiamo al troppo e basta; ma evidentemente noi italiani siamo fatti così, detestiamo le mezze misure. E allora scriviamo nella Costituzione che la competenza legislativa generale spetta alle Regioni, dunque il Parlamento può esercitarla soltanto in casi eccezionali.

   Aggiungiamo, a sprezzo del ridicolo, che lo Stato ha la stessa dignità del Comune di Roccadisotto (articolo 114). Conferiamo alle Regioni il potere di siglare accordi internazionali, con la conseguenza che adesso ogni «governatore» ha il suo consigliere diplomatico, ogni Regione apre uffici di rappresentanza all’estero. Cancelliamo con un tratto di penna l’interesse nazionale come limite alle leggi regionali. E, in conclusione, trasformiamo le Regioni in soggetti politici, ben più potenti dello Stato.

   I risultati li abbiamo sotto gli occhi. Non solo gli sprechi, i ladrocini, i baccanali. Non solo burocrazie cresciute a dismisura e a loro volta contornate da un rosario di consulte, comitati, consorzi, commissioni, osservatori. Quando il presidente Monti, nel luglio scorso, si mise in testa di chiudere i piccoli ospedali, il ministro Balduzzi obiettò che la competenza tocca alle Regioni, non al governo centrale.

   Negli stessi giorni la Corte costituzionale (sentenza n. 193 del 2012) ha decretato l’illegittimità della spending review , se orientata a porre misure permanenti sulla finanza regionale. Costituzione alla mano, avevano ragione entrambi, sia la Consulta sia il ministro; ma forse il torto è di questa Costituzione riformata.

   La Costituzione ha torto quando converte le Regioni in potentati. Quando ne incoraggia il centralismo a scapito dei municipi. Quando consegna il governo del territorio alle loro mani rapaci, col risultato che il Belpaese è diventato un Paese di cemento.

   Quando disegna una geografia istituzionale bizantina (sul lavoro, per esempio, detta legge lo Stato, ma i tirocini sono affidati alle Regioni). Quando mantiene in vita anacronismi come le Regioni a statuto speciale. Quando pone sullo stesso piano il ruolo delle Regioni virtuose (per lo più al Nord) e di quelle scellerate (per lo più al Sud). Infine, ha torto quando nega allo Stato il potere di riappropriarsi di ogni competenza, se c’è una crisi, se la crisi esige un’unica tolda di comando.

   C’è allora una lezione che ci impartiscono gli scandali da cui veniamo sommersi a giorni alterni. Vale per le Regioni, vale per i partiti. Perché viaggiamo a cavalcioni d’un elefante, ecco il problema. E l’elefante mangia in proporzione alla sua stazza. Quindi, o mettiamo a dieta il pachiderma o montiamo in sella a un animale più leggero. Quanto alle Regioni, vuol dire sforbiciarne le troppe competenze. Se non altro, gli incompetenti smetteranno di procurarci danni. (Michele Ainis)

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MACROREGIONE, L’UNIONE FA IL FEDERALISMO

di Massimo Giardina, 21/9/2012, da TEMPI (http://www.tempi.it/ )

   Non si parla di secessione e non si parla di maxi Lombardia. La proposta prende il nome di Macroregione Nord e sottintende un percorso di collaborazione tra le Regioni settentrionali su tematiche concrete e possibili unioni tra le realtà più virtuose di Veneto, Piemonte, Lombardia e Friuli-Venezia Giulia.

   Un aggregato così forte da costringere Roma a “mollare” alcune competenze che, se gestite in modo autonomo, sarebbero più efficienti: due esempi calzanti sono la scuola e il sistema dei trasporti. Queste Regioni da sole realizzano buona parte del Pil italiano in una situazione paradossale: ricevono solo il 30 per cento delle tasse generate nei loro territori e ciò nonostante sono in grado di offrire i servizi più efficienti in Italia e in Europa.

   Per questo l’argomento Macroregione incontra l’interesse dei governatori della parte settentrionale dello stivale, e nonostante i botta e risposta offerti alle pagine dei quotidiani, le quattro regioni sopra menzionate si guardano con interesse per verificare possibili unioni. Tempi ha incontrato i presidenti Roberto Cota, Luca Zaia, Gabriele Tondo e Roberto Formigoni rilevando in tutti e quattro la volontà di perseguire l’obiettivo Macroregione Nord.

   Il Friuli-Venezia Giulia è già una Regione a statuto autonomo e da sola provvede alla quasi totalità dei propri servizi ma, «in un momento così grave per l’economia e per il mercato del lavoro, condivido il progetto di un’unione che faccia la forza» annuncia il governatore Tondo. Per la cronaca, l’Emilia Romagna ha deciso di starsene per i fatti suoi.

   La regione governata da Vasco Errani è stata più volte invitata a considerare il nuovo aggregato settentrionale, ma tra l’emergenza terremoto e le bagarre nelle varie correnti nel Pd il presidente ritiene la proposta avanzata dai suoi vicini non degna di nota. «Peccato», commenta il collega piemontese Cota, «su Errani non ho preclusioni, tant’è che uno dei maggiori sponsor della Macroregione fu Guido Fanti, primo presidente dell’Emilia Romagna, un comunista». Della stessa opinione il presidente del Veneto Zaia: «Per ora il progetto comprende quattro Regioni. E in questi casi la concretezza è d’obbligo. Naturalmente non abbiamo pregiudizi nei confronti di nessuno, se gli obiettivi sono pienamente condivisi». Per Formigoni, «l’invito a Errani è sempre valido». «Partiamo con il centrodestra, non è poco», il giudizio di Tondo.

   La Macroregione ha avuto diversi padri e molti sostenitori. Si è più volte fatta menzione del gruppo Cisalpino diretto nel 1945 dal democristiano comasco Tommaso Zerbi, professore dell’Università Cattolica e membro dell’Assemblea costituente. Zerbi era amico di Gianfranco Miglio, il quale, da membro della Dc, si interessò alle idee promosse dal gruppo lariano approfondendole negli anni fino a sviluppare il proprio pensiero federalista: base ideale della Lega della prima ora e rispolverato recentemente da Roberto Maroni. Sabato 15 settembre, proprio durante un “Miglio day”, il neo segretario della Lega ha esposto il suo programma per una Euroregione.

   La differenza rispetto all’idea di Formigoni consiste nel passaggio costituzionale: per Maroni occorre una revisione della Carta che predisponga maggior autonomia al Nord, in particolare riallocando verso il territorio il 75 per cento degli introiti fiscali, contro il 30 attuale. «Bisogna essere realisti», replica il presidente della Lombardia. «Propongo un’altra strada con la volontà di andare più avanti, nella direzione indicata da Maroni. Ma cominciamo a utilizzare gli strumenti che la Costituzione già ci mette a disposizione. Ad esempio applichiamo gli articoli 116, 117 e 132, che permettono di unire le forze su alcuni servizi determinanti senza passare dal Parlamento. Altrimenti come è possibile costruire una maggioranza che decreti maggiore autonomia al Nord, con un governo in scadenza fra pochi mesi?» Ribadisce Tondo: «Se diciamo alla nostra gente che ridurremo le tasse non saremo credibili. Deve partire dal Nord una forza liberatoria per le imprese».

Basta applicare la Carta
I governatori leghisti guardano con simpatia Formigoni e sottolineano la problematica fiscale per le Regioni del Nord sollevata dal loro partito. Cota racconta che «tutte le settimane incontro almeno tre aziende. Tranne qualche eccezione, soffrono tutte a causa della crisi e di un sistema centralizzato che non funziona. Il fisco e la burocrazia romana sono i nodi da sciogliere.

   Realizzare sinergie tra le Regioni che funzionano è un modo per affrontare la questione settentrionale e per ottenere maggior peso politico a favore dei nostri territori, perché a noi interessa che i soldi del Nord restino dove sono stati generati». Sulla stessa linea Luca Zaia: «Portiamo avanti un progetto di lobby del Nord che sia in grado di fare gli interessi di questi territori senza negarne le specificità. E che li spinga a una maggiore condivisione di tutti gli elementi positivi che vi sono, ma che oggi vengono penalizzati dalla solita gestione centralista che premia gli sprechi e punisce i virtuosi».

   Ergo la Macroregione potrà essere il motore che permette alle regioni del Nord di far fronte (comune) alla situazione di crisi in cui si trovano. E a fronte dei tagli definiti dalla spending review di Monti, è una soluzione per non dover eliminare o ridurre servizi efficienti. «La Macroregione deve essere una federazione tra Regioni del Nord per affrontare insieme questioni comuni e avere maggior peso politico», riprende Cota. «Per passare dalle parole ai fatti, servono risorse. Per questo riteniamo che il 75 per cento dei tributi debba rimanere al territorio. Altrimenti rischiamo che lo Stato centrale scarichi su di noi i suoi problemi». E Zaia: «La Costituzione prevede già la possibilità che le Regioni acquisiscano maggiori competenze in diversi ambiti. Si tratta di applicarla fino in fondo. Sarebbe già un ottimo punto di partenza».

   Quanto a cifre e grandezze fisiche ed economiche, la Macroregione Veneto-Lombardia-Piemonte-Emilia secondo uno studio di Eupolis raggiungerebbe il 39,2 per cento della popolazione italiana, ma con un Pil pari al 47,5 per cento sul valore nazionale. Anche il paragone con l’Europa è felice: il soggetto aggregato potrebbe competere alla pari con la Macro-Land Renania, ossia il territorio che comprende i due Länder renani Vestfalia e Palatinato (ipotesi di fusione allo studio nel dibattito in merito alla riforma dello Stato tedesco). Anzi, la Macroregione Nord risulterebbe economicamente più forte, con 30.850 euro di Pil a prezzi di mercato per abitante, contro i 28.490 euro della Renania unificata. Dall’insieme è escluso il Friuli-Venezia Giulia, che in quanto Regione a statuto speciale, gode già di una propria autonomia. Osserva il presidente Tondo: «La cosa che più mi importa non è se il Veneto o la Lombardia saranno dominanti rispetto al Friuli-Venezia Giulia, ma che un’area importante del paese possa avere una propria proposta di conduzione verso una ripresa che solo da qui può partire».

Dalla sanità all’agricoltura
Sul tavolo sono in gioco le eccellenze delle singole regioni, a partire dai rispettivi sistemi sanitari, che vantano tutti meno spesa e più efficienza rispetto al resto d’Italia, Lombardia e Veneto in testa. In Friuli la sanità è gestita in proprio e «non partecipiamo agli assalti della diligenza statale che si vedono dalle regioni in perdita. Siamo virtuosi per servizi e infrastrutture», chiosa Tondo.

   Zaia, che definisce il proprio sistema regionale «un esempio a livello nazionale e internazionale», ha anticipato il decreto Balduzzi avviando con un finanziamento di 7 milioni di euro l’organizzazione dei medici di famiglia 24 ore al giorno, sette giorni su sette: a regime costerà 21 milioni l’anno. Cota ha invertito la rotta rispetto ai passati governi piemontesi: se negli ultimi dieci anni la spesa sanitaria regionale è aumentata dai 6 miliardi di euro del 2002 agli 8,5 del 2010, nel 2011 è diminuita di 135 milioni, mantenendo i servizi offerti. In Lombardia la sanità pubblica ha un peso pari al 5,4 per cento del Pil, contro una media nazionale del 7,2, e i bilanci sono in pareggio da undici anni. Oltre alla sanità, altri possibili terreni d’azione comune sono il sistema del trasporto locale, l’istruzione, le centrali uniche per gli acquisti, la gestione del bacino del Po e la gestione della navigazione sui laghi. Senza trascurare l’energia idroelettrica.

   «Sul fronte dei servizi sociali si potrebbe creare un nuovo modello che serva davvero i territori senza dissipare le risorse», spiega Zaia. «Lo stesso dicasi per il sistema dei trasporti, che trarrebbe certamente beneficio da un lavoro di squadra interregionale affrancato da un regime di fatto monopolista e centralista. Poi la cultura e l’agricoltura dei territori, in cui il Veneto ha pochi rivali. Si creerebbe una leadership europea fortemente competitiva». Rincara Cota: «Abbiamo diverse eccellenze. Siamo una regione principalmente industriale, con una forte agricoltura e un’importante attività di trasformazione alimentare. Poi, grazie a un ottimo terziario, e all’importante prospettiva logistica dovuta alle infrastrutture che si stanno realizzando, abbiamo una grande attrazione turistica.

   Un bel banco di prova per una sinergia potrebbe essere l’Expo 2015: con la Lombardia abbiamo già sottoscritto un protocollo, Novara è vicinissima al polo di Rho-Pero».

Formigoni rilancia anche sulla “questione meridionale”: «La Macroregione Nord può essere un’opportunità anche per il Sud. Se ripartisse il Settentrione, il Mediterraneo si ritroverebbe ad essere nuovamente un luogo centrale dell’economia, visto che i paesi di quelle aree non sono più sottomessi a egemonie dittatoriali». Cota sottoscrive: «Se al Sud mutuassero il modello, potrebbero risolvere i problemi insieme senza rivolgersi all’assistenzialismo di Roma. Certo, fare con meno risorse significa cambiare mentalità, ma diciamola tutta: il sistema attuale non gli ha portato poi tanti benefici».

Assistenzialismo addio
Anche Zaia spera in una svolta culturale: «Bisogna comprendere che in Italia esistono realtà che viaggiano a velocità diverse. Intere aree che confidano nell’assistenzialismo drenando risorse al Nord senza realizzare un proprio sviluppo. Insomma, senza una rivoluzione culturale e sociale, prima ancora che politica, non si va da nessuna parte. E non mi sembra che questo governo stia promuovendo questa responsabilizzazione, anzi. Comunque, quel che preme a noi sono i popoli del Nord, è a loro che dobbiamo rendere conto innanzitutto, e in questo senso ci stiamo muovendo». La ripartenza del Nord può essere un’opportunità per tutti, sintetizza Tondo: «Quando c’è una locomotiva che spinge, tutti i vagoni seguono, naturalmente c’è chi arriva prima e chi dopo, ma l’importante è la forza di chi traina». (Massimo Giardina)

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SULLE MACROREGIONI VEDI ANCHE:

https://geograficamente.wordpress.com/2012/06/26/

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EUROPA E STATI NAZIONALI

UN PASSO INDIETRO DAGLI STATI NAZIONALI

di JURGEN HABERMAS, da “la Repubblica” del  23/9/2012

   Oggi le necessità economiche ci pongono dinanzi all’alternativa tra il danneggiare irreparabilmente l’Unione europea e il rafforzarla.
Danneggiare, con l’abbandono della valuta comune, il progetto di unione europea concepito dopo la guerra o portare tanto avanti l’unione politica – soprattutto nell’eurozona – da poter legittimare democraticamente trasferimenti di competenze al di là delle frontiere nazionali? Non si può evitare una cosa senza volere l’altra.
Consideriamo anzitutto il retroterra storico.

   Per una Repubblica Federale Tedesca gravata da un pesante fardello morale e politico, la promozione del processo di unificazione europea era raccomandabile già per ragioni di intelligenza politica, per poter riacquisire la reputazione internazionale distrutta con le sue stesse mani.

   A sua volta, l’inserimento nell’Europa è stato il contesto nel quale si è formata un’autocomprensione liberale della Repubblica Federale. Su questa base, dopo la riunificazione (con 17 milioni di cittadini provenienti da un’altra socializzazione politica) si è instaurata l’abitudine ad una certa normalità da Stato nazionale.

   Ora essa viene sfidata. L’eco del ruolo-guida che oggi per motivi demografici ed economici tocca alla Repubblica Federale non solo ridesta spettri storici, ma comporta anche per noi la tentazione di un “fai da te” nazionale. La risposta a tutto cioè la prosecuzione della politica di cauta cooperazione praticata nella vecchia Repubblica Federale: “Germania in Europa”.
Un secondo motivo per un’ulteriore integrazione politica è lo spostamento dei pesi tra la politica e il mercato, che continua fino ad oggi in conseguenza dell’auto-esautoramento liberale della politica. Per i cittadini democratici la politica è l’unico mezzo per influire intenzionalmente, attraverso l’agire collettivo, sui destini e i fondamenti dell’esistenza sociale della loro comunità.

   D’altra parte, i mercati sono sistemi autocontrollati che coordinano in modo decentrato una quantità inimmaginabile di singole decisioni. Da un punto di vista normativo, l’una e l’altro sono dei “media” che assicurano la libertà. Sotto questo profilo, lo Stato democratico di diritto può essere inteso anche come l’ingegnosa invenzione che intreccia tanto strettamente le pari opportunità di partecipare  all’autodeterminazione della società con la garanzia di libertà economiche soggettive ugualmente ripartite, da far sì che gli effetti dei due “media” si integrino.

   La crisi attuale distrugge questa complementarità. Nel circolo vizioso tra l’interesse delle banche e degli investitori per i profitti e l’interesse per il bene comune degli Stati sovraindebitati i mercati finanziari hanno il coltello dalla parte del manico. Non è mai accaduto prima che governi eletti fossero stati sostituiti senza indugi da persone di fiducia dei mercati – Mario Monti o Lukas Papadimos. Mentre la politica si sottomette agli imperativi del mercato mettendo nel conto l’aumento della disuguaglianza sociale, i meccanismi sistemici si sottraggono sempre più all’influenza intenzionale del diritto democraticamente stabilito.

   Questa tendenza non potrà essere ribaltata – se mai potrà esserlo – senza riacquisire la capacità d’azione politica.
Un terzo motivo, attinente alla politica monetaria, per trasferire ulteriori diritti di sovranità nazionali sul piano europeo è legato alle condizioni necessarie per il funzionamento di una moneta comune, condizioni che nell’eurozona non sono ancora state realizzate.

   Dopo l’introduzione dell’euro la Banca Centrale Europea, con il suo tasso di interesse unitario, non è riuscita ad appianare le forti divergenze nei livelli di crescita e di inflazione delle economie nazionali. La mancanza della possibilità di svalutazione priva del più importante meccanismo di adattamento (sotto forma di prezzi più alti per le merci importate) i paesi membri, che continuano a operare in modo indipendente nell’ambito delle politiche di bilancio.

   Quanto meno omogenee sono le diverse economie, e quanto più si distinguono per il grado di competitività, tanto più importanti sono gli altri meccanismi di parificazione, come un adeguamento flessibile dei salari e dei prezzi, un’elevata mobilità della forza-lavoro o la possibilità, che vale solo nel nostro caso, di trasferire competenze, che a livello federale riguardano soprattutto i sistemi delle tutele sociali.

   Perciò, gli esperti concordano sul fatto che senza trasferimenti di competenze i crescenti squilibri strutturali all’interno dell’eurozona non possono essere attenuati, né possono essere ridotti a medio termine anche soltanto nel quadro delle politiche strutturali ed economiche comuni.

   Ma le competenze per le decisioni politiche con effetti di ridistribuzione transnazionale non possono rimanere concentrate unicamente nel Consiglio europeo; infatti, nel sistema di negoziazione intergovernativo il raggio d’azione del mandato democratico e quello del potere d’intervento collidono l’uno con l’altro. La legittimazione democratica di queste decisioni necessita invece della partecipazione paritaria di un legislatore eletto da tutti i cittadini europei che possa decidere sulla base di interessi generalizzati a livello europeo.
Questi tre argomenti si riferiscono a sviluppi che risalgono molto all’indietro e non riguardano soltanto i provvedimenti per far fronte alla crisi attuale, ma ricordano un problema che gli attori politici che agiscono in una logica incrementalistica nascondono dietro il velo di un poco impegnativo filoeuropeismo. I responsabili presentano le loro decisioni come misure di riparazione, l’onere della cui legittimazione può continuare a essere sostenuto dai parlamenti nazionali.

   I capi di governo pensano alla loro rielezione, mentre il presidente del Consiglio europeo, la Commissione europea e la Bce progettano una “architettura istituzionale” per una “vera” unione economica e fiscale, “based on the joint exercise of sovereignty for common policies and solidarity”.
Alla mia domanda sulla portata di questo “esercizio comune di sovranità” Herman Van Rompuy mi ha spontaneamente risposto che a questo scopo devono essere cambiati non solo i trattati europei, ma anche molte costituzioni nazionali.

   Se la prospettiva non pubblica della politica di Bruxelles fosse effettivamente questa, il nostro governo praticherebbe un abile doppio gioco. Di fronte a questo chiaroscuro, la sentenza della Corte costituzionale tedesca del 12 settembre assume un significato più che politico-operativo: la Corte avrebbe dovuto compiere un lavoro di chiarimento normativo.

   La mia impressione è che nemmeno l’attuale giurisprudenza sull’Europa consenta di sapere se la Corte ha difeso lo Stato nazionale nel nome della democrazia o non piuttosto la democrazia nel nome dello Stato nazionale. Su questa linea argomentativa protettiva e smaniosa di sovranità essa ha chiuso gli occhi dinanzi ai vasi comunicanti che collegano il diritto nazional-statale al diritto europeo.

   Poiché essa presuppone che il principio democratico, così come è formulato nell’articolo 202 della Costituzione tedesca, possa essere applicato soltanto nel quadro nazionale, di fronte alle competenza ora avocate a sé dal Consiglio europeo ha sparato tutte le sue cartucce. In quest’ultima decisione del 12 settembre non riesco a riconoscere alcun contributo costruttivo alla salvezza transnazionale della democrazia minacciata a livello nazionale.

   Il sì condizionato all’European Stability Mechanism e al Fiscal Compact rafforza le norme fondamentali democratiche alle quali si sono appellati i loro detrattori, ma nel processo di applicazione giuridica a fattispecie tecnocratiche normativamente scivolose la loro sostanza sembra dileguarsi.
(Traduzione di Carlo Sandrelli)

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CITTA’ METROPOLITANE E DIFFICOLTA’ A REALIZZARLE

CITTA’ METROPOLITANA ALLA RICERCA DI CONFINI

di GIULIANO SEGRE, da “il Mattino di Padova” del 4/9/2012

   La pancia. È la nuova protagonista della vita politica italiana: intitola libri di Severgnini e di Di Vico; partecipa di innumerevoli espressioni: pensieri, parole, atti “di pancia e non di cervello

   Capovolgendo l’apologo di Menenio Agrippa; e poi, per sineddoche, rappresenta un intero modo di essere e di pensare. Niente a che fare con l’appetito, la pancia non ha fame: esprime invece pensieri, modellati dal sentimento, senza riflessione, ma capaci di generalizzarsi fra simili. Oggi, tramontate le ideologie, inascoltati i consigli o i sermoni, la pancia esprime un instabile modo di giudicare il mondo.

   Non solo Grillo; oggi sono molti i pensieri di pancia collettivi: uno recente riguarda le Città metropolitane. Improvvisamente l’intelaiatura amministrativa italiana, che per 150 anni è rimasta immutabile sullo schema napoleonico adottato nel 1861 da Cavour, ha trovato finalmente un aggiornamento per le diverse esigenze dei territori: la legge 7 agosto 2012, n. 135 (spending review) avvia dieci Città metropolitane italiane; fra esse Venezia.

   La topografia di queste è ancora incerta, verrà definendosi entro l’anno prossimo, mentre le funzioni sono certe e non sono poche. Invece la forma geografica è incerta: qui essa risente della sfasatura fra la formazione della Provincia (disegnata due secoli fa da governi stranieri, quello napoleonico prima e quello austriaco dopo, in un guazzabuglio di Comuni diversi, poi anche riallocati altrimenti) e la situazione in essere, anch’essa assai complessa, con Comuni di fatto coinvolti nella terraferma veneziana o nell’area marina, deltizia e lagunare, ma appartenenti ad altre province (oggi magari soppresse), mentre Comuni della provincia di Venezia sentono maggior vicinanza ad altri e comunque hanno fra loro e con il capoluogo esiguissimi contatti.

   Avendo più tempo, l’argomento troverebbe una soluzione topografica perfetta, mediante uno studio dei territori neanche tanto complesso. La Regione ha prodotto un Piano Territoriale di Coordinamento che sfiora l’argomento, ma esso è stato solo adottato dalla Giunta precedente e mai approvato: oggi è già vecchio. L’Oecd ha prodotto per la Fondazione di Venezia uno studio assai approfondito sull’area metropolitana, ma l’assenza di dati statistici puntuali ha costretto l’analisi al livello delle tre province di Padova, Venezia e Treviso: una area eccessiva, con quasi tre milioni di abitanti, che certamente rappresenta uno dei punti forti dell’economia europea (anche di questi tempi), ma che non può essere assunta a perimetro per la costituenda Città metropolitana.

   La citata legge 135/12 ha normato una inedita Conferenza metropolitana (quindi già in vigore) che comprende i 44 comuni della provincia, ma dalla quale i Comuni possono uscire, peraltro con una legge dello Stato, sentita la Regione. Difettano dunque gli elementi essenziali per una decisione responsabile. E quindi si sentono affermazioni le più vuote, basate solo su sentimenti, che producono progetti territoriali troppo modesti per essere una proposta politica ovvero letture politiche troppo occasionali per produrre disegni territoriali. Ecco che la pancia ha partita libera. Con loro: mai! Piuttosto, meglio Padova, meglio Treviso, meglio il Friuli: senza spiegare perché. D’accordo su Venezia metropoli, ma il Comune si divida in due, quattro, forse sei più piccoli comuni: processo sciocco e illogico, con passaggi amministrativi impossibili. E infine: referendum! Ma su cosa, se solo su parole d’ordine (di pancia)? (Giuliano Segre)

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IL VENETO E LA CITTA’ METROPOLITANA

di Andrea Causin, da “il Gazzettino” del 19/9/2012

   In queste settimane i “decisori” della politica veneta si stanno arrabattando per trovare una soluzione alla necessità di dare vita alla città metropolitana e mantenere le province attraverso una nuova definizione dei confini in base ai parametri imposti dal decreto sulla spending review.

   Ma ancora una volta non è un volo alto, che consente di mettere in campo una visione di futuro. E’ un volo goffo, come quello che farebbe un grasso tacchino all’interno dell’aia. Il deprimente spettacolo è quello di una politica che si lascia decidere, invece di esercitare il nobile mestiere di decidere, e che lo fa per conservare poltrone, status quo, convenzioni, prassi di una pubblica amministrazione che non regge più e che offre ai cittadini servizi sempre meno efficienti e sempre più costosi.

   Così mentre il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni e la presidente della Provincia Francesca Zaccariotto, tra le spinte centrifughe dell’uno o dell’altro Comune, tentano di dare vita a un paesino metropolitano coincidente con la provincia di Venezia, e mentre la Regione discute una arida leggina di riattribuzione delle competenze delle future ex province, i cittadini non hanno ancora capito che vantaggi porterà la nascita della città metropolitana.

   Ci saranno servizi migliori? Aumenterà la qualità della vita? Ci sarà una maggiore capacità di rappresentare la nostra Regione? Ci sarà la possibilità di fare impresa in un sistema più semplice e competitivo?

   Se la politica non è in grado di dare queste risposte e di guidare questo processo, sul quale pesa un silenzio imbarazzante del Presidente della Regione (che evidenzia probabilmente la sua drammatica assenza di visione), qualsiasi scelta, fatta o subìta, sarà soltanto un esercizio retorico di democrazia procedurale, destinato a non produrre alcun cambiamento.

   (….) L’area ottimale per una gestione efficiente dei servizi pubblici è l’area urbana di Venezia, Treviso e Padova. (…) Verona e Vicenza rappresentano un altro sistema e la montagna (che non è solo Belluno) ha una peculiarità che richiede di essere affrontata con strumenti differenti.

   (….) E’ da fare poche e semplici cose. Le enumeriamo per rapidi punti.

a – Eliminare tutte le province, intese come funzioni amministrative, attribuendone le funzioni ai comuni capoluogo e alla regione stessa. (il che non significa cancellare l’identità e i confini geografici);

b – Rilanciare con forza l’idea di una Grande Città Metropolitana nell’area geografica di Venezia, Treviso e Padova;

c – Spiegare con onestà ai cittadini quali saranno le economie dell’immediato, i vantaggi nella prospettiva, le potenzialità per una migliore e più efficiente gestione dei servizi. (….)

Andrea Causin, Coordinatore di Italia Futura Veneto

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SULLE ARRE METROPOLITANE VEDI IL PRECEDENTE POST:

https://geograficamente.wordpress.com/2012/04/13/aree-metropolitane-non-solo-15-una-proposta-geografica-affinche-ogni-territorio-possa-dar-vita-a-una-propria-area-citta-metropolitana-assieme-alla-creazione-di-m/

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COMUNI E RIORGANIZZAZIONE TERRITORIALE

LA LOGICA SCONFIGGA I CAMPANILI

di FRANCESCO JORI, da “la Tribuna di Treviso” del 4/9/2012

   Ci avesse provato oggi sarebbe stata una Waterloo. Quando Napoleone nel 1805 mise mano al riassetto delle province venete non aveva a che fare con l’odierno marasma politico e istituzionale. E anche agli Asburgo, che dopo il congresso di Vienna rimodificarono le mappe, fu risparmiato un simile cimento.

   Neppure il decisionismo dell’uno e degli altri sarebbe riuscito ad avere ragione delle proteste, delle polemiche e delle barricate che esplodono oggi, ogni volta che anche solo si parla di un cambio di assetti e di confini; figuriamoci adesso che le misure del governo Monti impongono concrete scadenze, dalle Province da cancellare alla città metropolitana di Venezia da istituire.

   Ovunque, suoni di campane e squilli di tromba chiamano alla mobilitazione: in non pochi casi magari con gli stessi protagonisti che fino a ieri, quando ci si limitava alla teoria, magnificavano l’idea dell’intero Veneto come area metropolitana unica e indivisibile.

   E purtuttavia, dietro ai fuochi d’artificio che si levano dalla laguna veneziana alla montagna bellunese, c’è una ragione oggettiva che viene da lontano: il disordine in cui è stato lasciato per decenni il territorio regionale, applicando anche al livello urbanistico quella regola-non regola del “fai da te” dei campanili che ha contraddistinto il tanto celebrato modello veneto di svilupp.

   In media, per ognuno dei 581 Comuni ci sono oggi quattro aree tra industriali e artigianali. Già negli anni Settanta il volume complessivo di fabbricati non residenziali aveva raggiunto quello delle abitazioni (176 milioni di metri cubi); e all’inizio degli anni Duemila rappresentava il 18 e mezzo per cento della produzione complessiva italiana, livello inferiore alla sola Lombardia.

   Nei vent’anni tra il 1961 e il 1981 hanno cambiato destinazione d’uso più aree agricole di quanto non fosse capitato nella storia dei due millenni precedenti, dando luogo a quella che Nico Luciani della Fondazione Benetton definisce “nebulosa insediativa”. Con la conseguenza che far muovere qualcosa oggi in questo caotico territorio è un’autentica impresa: uomini, merci, perfino idee. Insomma, il Veneto è già diventato di suo un’area metropolitana: ma preterintenzionale.

   Certo, è una regione con caratteristiche peculiari, a cominciare dalla mancanza di una capitale riconosciuta. Ma in Europa ci sono altre aree analoghe, che sono riuscite a diventare una realtà metropolitana compiuta e funzionale: dalla vecchia zona metallurgica tedesca della Rhein-Ruhr al Randstad olandese.

   Qui invece si è lasciato che i vari soggetti si arrangiassero da soli; e per giunta si è investito soprattutto sull’area centrale, considerando marginale tutta la montagna che non avesse ricadute turistiche: quella “dove non nevica firmato”, per usare una felice immagine di Mauro Corona.

   Su questo, ci sono pesanti responsabilità della Democrazia Cristiana, che per decenni è stata egemone in Veneto: incluse le classi dirigenti locali, che non hanno saputo o voluto opporsi, guardando al solo aspetto economico immediato anziché a una prospettiva di lungo respiro.

   Oggi è indispensabile un riequilibrio complessivo del territorio, all’interno di un disegno veramente metropolitano che parta dal recupero dei danni arrecati. Anziché accanirsi a dibattere su come chiamare i singoli livelli istituzionali, o sui confini da attribuire loro, sarebbe tempo di occuparsi delle cose da fare, e di chi debba farle secondo logica, non secondo campanile. (Francesco Jori)

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Nordest

COMUNI E BRICOLAGE DEI CONFINI

di FRANCESCO JORI, da “il Mattino di Padova” del 22/8/2012

   Una volta, faceva parlare di sé per esclusive ben più corpose. Oggi, il Nordest si è ridotto a coltivarne una non proprio eccelsa: il bricolage dell’autonomia. Con una serie di Comuni che attratti da presunti Eldorado istituzionali cercano di montarsela in casa, peraltro con i mediocri risultati che il “fai-da-te” quasi sempre produce.

   Certo, quando uno pensa ad arrangiarsi in proprio, significa che chi di dovere non ha provveduto. Nel caso specifico, da sempre in Italia manca un vero disegno istituzionale che dia attuazione a quanto scritto ormai quasi una settantina di anni fa nell’articolo 5 della Costituzione: “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali… adegua i principi e i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”.

   Nella pratica si è fatto e si continua a fare l’esatto contrario. Con il risultato di alimentare le spinte centrifughe: come sempre accade, per le leggi della meccanica ma pure della politica, quando il centro è dedito a difendere se stesso anziché lavorare per la coesione del sistema. Ma detto questo, va aggiunto che la diffusa voglia di fuga dei Comuni è fenomeno tutto e solo nordestino, anzi veneto: sono già una quindicina quelli che hanno avviato le pratiche per il cambio di regione (e altri ci stanno pensando), agevolati in questo dal fatto di confinare a est e a ovest con due territori baciati dall’autonomia speciale.

   Nel resto del Nord il fenomeno è pressoché assente. Si registrano solo casi sporadici: come in Piemonte dove Noasca ci ha provato, peraltro vedendosi sbattere la porta in faccia dalla Val d’Aosta; e come in Lombardia con la richiesta di Bagolino di traslocare in Trentino-Alto Adige, risolta in quattro e quattr’otto dalla Regione.

   Poche settimane fa l’Unione Padana (una delle tante scheggie ex leghiste) ha lanciato il referendum per fare altrettanto con l’intera provincia di Brescia; ma per ora il sito internet dell’associazione riporta solo il gran successo di una maxi-grigliata ad Abbiategrasso. A Nordest, invece, il virus contagia un municipio dietro l’altro. E ad alimentarlo concorrono sui due fronti confinanti parole in libertà di chi per
il ruolo che ricopre dovrebbe coltivare il senso di responsabilità.

   Come il presidente della Provincia di Bolzano che apre a Cortina in nome della storia: ma allora, perché in casa sua si dissocia da quelli che vorrebbero il ritorno all’Austria in nome dell’autodeterminazione? O come il presidente della Provincia di Pordenone che invita i Comuni veneti confinanti a passare la sponda friulana promettendo una serie di privilegi: un uomo delle istituzioni non dovrebbe cancellare del tutto quel termine dal vocabolario anziché cercare di ingrandire il proprio territorio per evitarne la cancellazione?

   Certo, i sindaci sono alla canna del gas, ed è comprensibile che si facciano tentare dai benefici materiali di un trasloco istituzionale; anche se le stesse autonomie speciali oggi devono fare i conti con la magra generale. Ma è debole su entrambi i versanti quella politica che rinuncia a svolgere il suo ruolo di fondo, cioè il governo delle differenze. Un passaggio di regione è complesso, difficilmente attuabile e comunque tale da comportare tempi biblici.

   Anziché illudere i cittadini con operazioni da sesto grado istituzionale, non sarebbe meglio praticare strade più rapide e concrete? Perché non utilizzare ad esempio l’articolo 117 del titolo V della Costituzione per attivare patti di cooperazione rafforzata tra le varie aree del Nordest, anziché litigare su quel poco che si è riusciti a mettere in piedi? L’erba del vicino sarà anche sempre più verde. Ma erba rimane. E con la siccità finanziaria di questa stagione, fa presto a ridursi a sterpaglia. (Francesco Jori)

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I COSTI DELL’INCURIA

IL PAESAGGIO PRESO A SCHIAFFI

di ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA, da “il Corriere della Sera” del 27/8/2012

Trascorrere qualche giorno in Calabria – dico la Calabria solo come un caso esemplare (e pur sapendo di dispiacere agli amici che vi conto), dal momento che quanto è successo lì è più o meno successo in mille altre contrade della Penisola – significa essere posti di fronte ad uno spettacolo a suo modo apocalittico. Ed essere costretti ad interrogarsi su tutta la recente storia del Paese.

Lo spettacolo apocalittico è quello della condizione dei luoghi. Sono cose note ma non bisogna stancarsi di ripeterle. Centinaia di chilometri di costa calabrese appaiono distrutti da ogni genere di abusivismo: visione di una bruttezza assoluta quanto è assoluto il contrasto con l’originaria amenità del paesaggio.

Dal canto loro i centri urbani, di un’essenzialità scabra in mirabile consonanza con l’ambiente, sebbene qua e là impreziositi da autentici gioielli storico-artistici, sono oggi stravolti da una crescita cancerosa: chiusi entro mura di lamiere d’auto, per metà non finiti, luridi di polvere, di rifiuti abbandonati, di un arredo urbano in disfacimento.

L’inaccessibile (per fortuna!) Aspromonte incombente sulle marine figura quasi come il simbolo di una natura ormai sul punto di sparire; mentre le serre silane sono già in buona parte solo un ricordo di ciò che furono. Luoghi bellissimi sono rovinati per sempre. Non esistono più. Ma nel resto d’Italia non è troppo diverso: dalla Valle d’Aosta, alle riviere liguri, a quelle abruzzesi-molisane, al golfo di Cagliari, ai tanti centri medi e piccoli dell’Italia peninsulare interna (delle città è inutile dire), raramente riusciti a scampare a una modernizzazione devastatrice. Paradossalmente proprio la Repubblica, nella sua Costituzione proclamatasi tutrice del paesaggio, ha assistito al suo massimo strazio.

Ma oggi forse noi italiani cominciamo finalmente a renderci conto che distruggendo il nostro Paese tra gli anni 60 e 80 abbiamo perduto anche una gigantesca occasione economica. L’occasione di utilizzare il patrimonio artistico-culturale da un lato e il paesaggio dall’altro – questi due caratteri unici e universalmente ammirati dell’identità italiana – per cercare di costruire un modello di sviluppo, se non potenzialmente alternativo a quello industrialista adottato, almeno fortemente complementare.

Un modello di sviluppo che avrebbe potuto essere fondato sul turismo, sulla vacanza di massa e insieme sull’intrattenimento di qualità, sulla fruizione del passato storico-artistico (siti archeologici, musei, centri storici), arricchita da una serie di manifestazioni dal vasto richiamo (mostre, festival, itinerari tematici, ecc.); un modello capace altresì di mettere a frutto una varietà di scenari senza confronti, un clima propizio e – perché no? – una tradizione gastronomica strepitosa.

È davvero assurdo immaginare che avrebbe potuto essere un modello di successo, geograficamente diffuso, con un alto impiego di lavoro ma investimenti non eccessivi, e probabilmente in grado di reggere assai meglio di quello industrialista all’irrompere della globalizzazione, dal momento che nessuna Cina avrebbe mai potuto inventare un prodotto analogo a un prezzo minore?

Capire perché tutto ciò non è accaduto significa anche capire perché ancora oggi, da noi, ogni discorso sull’importanza della cultura, sulla necessità di custodire il passato e i suoi beni, di salvare ciò che rimane del paesaggio, rischia di essere fin dall’inizio perdente.

Il punto chiave è stato ed è l’indebolimento del potere centrale: del governo nazionale con i suoi strumenti d’intervento e di controllo. In realtà, infatti, in quasi tutti gli ambiti sopra evocati è perlopiù decisiva la competenza degli enti locali (Comune, Provincia, Regione), tanto più dopo l’infausta modifica «federalista» del titolo V della Costituzione.

Lo scempio del paesaggio italiano e di tanti centri urbani, l’abbandono in cui versano numerose istituzioni culturali, l’impossibilità di un ampio e coordinato sviluppo turistico di pregio e di alti numeri, sono il frutto innanzi tutto della pessima qualità delle classi politiche locali, della loro crescente disponibilità a pure logiche di consenso elettorale (non per nulla in tutta questa rovina il primato è del Mezzogiorno).

Questa è la verità: negli anni della Repubblica il territorio del Paese è sempre di più divenuto merce di scambio con cui sindaci, presidenti di Regione e assessori d’ogni colore si sono assicurati la propria carriera politica (per ottenere non solo voti, ma anche soldi: vedi il permesso alle società elettriche d’installare pale eoliche dovunque).

D’altra parte, si sa, sono molte le cose più popolari della cultura: elargire denari a pioggia a bocciofile, circoli sportivi, corali, sagre, feste patronali e compagnia bella, rende in termini di consenso assai più che il restauro di una chiesa. I politici calabresi sanno benissimo che la condizione in cui si trovano i Bronzi di Riace – fino ad oggi nascosti da qualche parte a Reggio, in attesa da anni di un museo che li ospiti – se è un vero e proprio scandalo nazionale, tuttavia non diminuisce di un briciolo la loro popolarità a Crotone o a Vibo Valentia.

Solo un intervento risoluto del governo centrale e dello Stato nazionale può a questo punto avviare, se è ancora possibile, un’inversione di tendenza; che però deve essere necessariamente anche di tipo legislativo. Ma per superare i formidabili ostacoli che un’iniziativa siffatta si troverebbe di sicuro davanti, deve farsi sentire alta e forte la voce dell’opinione pubblica, per l’appunto nazionale, se ancora n’esiste una. Non è ammissibile continuare ad assistere alla rovina definitiva dell’Italia, al fallimento di un suo possibile sviluppo diverso, per paura di disturbare il sottogoverno del «federalismo» nostrano all’opera dovunque. (Ernesto Galli della Loggia)

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PROPOSTA – MATERA, capitale nobile di una possibile MACROREGIONE MERIDIONALE MEDITTERRANEA (e che può essere simbolo di un’innovazione che unisce post-modernità, ecologia e storia)

 

2 risposte a "LA GEOGRAFIA DEI POTERI LOCALI DA CAMBIARE (nazionale, regionale, provinciale, comunale). La necessità di PIÙ EUROPA e meno Nazione; MACROREGIONI al posto delle fallimentari Regioni; nuove CITTÀ e AREE METROPOLITANE al posto di Province e Comuni obsoleti"

  1. pigellino domenica 30 settembre 2012 / 17:24

    Buongiorno,

    da appassionato di storia della geografia, do la mia opinione personale riguardo al discorso delle macroregioni.
    1- I recenti festeggiamenti del 150° dell’Unità d’Italia lasciano ancora i loro strascichi, nel senso che troppo spesso si dimentica che fino al 1860 l’Italia era suddivisa in vari Stati sovrani, i quali in alcuni casi hanno governato per molti secoli, imprimendo comunque (anche se non si trattava di “stati nazionali”) delle caratteristiche ben precise sulle popolazioni che ne facevano parte. Pertanto l’istituzione di macroregioni formate dalla mera composizione delle attuali regioni è a mio avviso un’accozzaglia che non rispecchia usi, costumi e linguaggi delle popolazioni comprese. Non si può mettere insieme Abruzzo e Molise con Marche ed Umbria, in quanto il Tronto rappresenta un confine più che regionale, ma di due culture assai diverse tra loro, che vedono la transizione solo nelle marche ascolane.
    2- Inserire la Campania con i confini attuali come regione a sé è anche in questo caso superficiale: la popolazione campana in realtà parte dall’antico confine pontificio-borbonico posto sulla linea Sora – Lenola – Terracina, che rappresenta anche il confine tra due varietà dialettali molto diverse tra loro. Allo stesso modo i confini attuali sono abbastanza inesatti riguardo al beneventano (con i comuni sanniti di transizione tra Molise e zona di Baselice e Pontelandolfo) e all’Irpinia (vedi Savignano irpino e comuni attigui).
    3- Allo stesso modo non si possono mettere insieme Sicilia e Sardegna, che hanno due forti realtà isolane profondamente diverse tra loro.
    4- Mettere insieme Toscana ed Emilia senza guardare i confini interni è anche una soluzione grossolana: è vero che per secoli il Granducato comprendeva i territori di Rocca San Casciano fino a Castrocaro Terme, è vero che il Ducato di Modena ha avuto possesso di alcuni comuni tirreni presso Viareggio (infatti la provincia di Massa nel censimento del 1861 fu inserita in Emilia e non in Toscana), ma come si possono considerare un’unica entità Siena e Ferrara?
    5- Lasciare il Lazio nei confini attuali è a mio avviso errato: basti vedere la forma della regione, che avanza lateralmente ad est negli appennini fino ad arrivare negli aquilanissimi comuni di Amatrice e Accumoli; la provincia di Rieti fu creata in modo artificioso nel 1927 unendo comuni umbro-sabini con comuni prettamente abruzzesi, divisi gli uni dagli altri da un confine di stato plurisecolare.
    6- Pur comprendendo la particolarità linguistica, a mio avviso il Veneto andrebbe unito al Friuli e alla Venezia Giulia, rimembrando gli antichi territori della Serenissima.
    7- L’idea di fare “capitale” del sud Matera è a mio avviso completamente fuori luogo. Si dimenticherebbe così il ruolo millenario di Napoli, senza contare, nell’omonimo Regno, dell’importanza che ebbero Bari, L’Aquila e in misura minore Reggio.

    Concludo con la mia personale proposta di macroregioni:
    – Piemonte, Valle d’Aosta e Liguria, comprendenti anche i comuni dell’antico Circondario di Bobbio.
    – Lombardia
    – Triveneto, esclusi i territori della Transpadana ferrarese
    – Emilia, Romagna (escluso l’ex circondario di Rocca San Casciano), provincia di Massa, e Marche da Senigallia in su.
    – Toscana con il circondario di Rocca San Casciano.
    – Marche centromeridionali, Umbria e Lazio con Sabina e Ciociaria escludendo i territori dell’antica Terra di Lavoro e dell’ex Circondario di Cittaducale.
    – Abruzzo e Molise nei confini del 1860 (comprendenti anche Cittaducale, Pontelandolfo e Morcone nonché i territori pugliesi al di sopra del basso Fortore, l’antica Frentania).
    – Campania (con Sora, Cassino e Gaeta), Puglia e Basilicata.
    – Calabria e Sicilia.
    – Sardegna.

    Cenno a parte va fatto sulle Euroregioni, le quali comprendono antichi territori italiani, dei quali la mia proposta sarebbe:
    – Tirolo (comprendente il nostro Trentino – A.A.);
    – Venezia Giulia (secondo i confini italiani 1920-1947)
    – Dalmazia (secondo i confini anteriori al 1797)
    ovviamente intese secondo la definizione attuale, comprendente cioè territori di stati diversi la cui sovranità non è (e non deve essere) messa in discussione.

    Cordiali saluti

  2. Paolo Sanson martedì 20 novembre 2012 / 19:08

    Condivido pienamente la tesi di accorpare le regioni. Portarle da 20 a 10 e tutte a statuto speciale! Invece vedo nella macroregione del nord un elemento in più di burocratizzazione dello Stato, in quanto, se non ho capito male, si aggiungerebbe alle regioni che continuerebbero ad esistere! Anche qualora si fondessero tutte, o quasi, le regioni del nord in un’unica entità, questa risulterebbe troppo grande e dispersiva e non terrebbe conto delle loro peculiarità.

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