LA COLOMBIA e IL PLEBISCITO CONTRO LA PACE – Il popolo non vuole la pace con i terroristi delle FARC (Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia), che lì da 50 anni controllano il mercato della coca – Il disinteresse attuale, nella geopolitica mondiale (specie europea), di quel che accade in America Latina

Bogotá, manifestanti favorevoli alla pacificazione, dopo i risultati del referendum del 2 ottobre che boccia il trattato di pace - “Ma dopo 52 anni di guerra, come si fa a dire No alla pace? Come si fa, dopo 266 mila morti, 45 mila desaparecidos, 7 milioni di profughi? Come si fa con un reddito nazionale dimezzato e un reddito individuale perduto per un terzo? Eppure, la Colombia lo ha fatto domenica 2 ottobre, votando a maggioranza il No nel referendum popolare che chiedeva l’approvazione di un accordo di pacificazione tra lo Stato di Bogotà e i guerriglieri delle Farc, Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia. (…)” (Mimmo Candito, da “la Stampa” del 4/10/2016)
Bogotá, la delusione dei manifestanti favorevoli alla pacificazione, dopo i risultati del referendum del 2 ottobre che boccia il trattato di pace – “Ma dopo 52 anni di guerra, come si fa a dire No alla pace? Come si fa, dopo 266 mila morti, 45 mila desaparecidos, 7 milioni di profughi? Come si fa con un reddito nazionale dimezzato e un reddito individuale perduto per un terzo? Eppure, la Colombia lo ha fatto domenica 2 ottobre, votando a maggioranza il No nel referendum popolare che chiedeva l’approvazione di un accordo di pacificazione tra lo Stato di Bogotà e i guerriglieri delle Farc, Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia. (…)” (Mimmo Candito, da “la Stampa” del 4/10/2016)

   E’ accaduto in Colombia che, dopo i festeggiamenti (almeno come si è visto in televisione), per la fine della vera e propria guerra civile interna tra “Stato Ufficiale” e FARC (Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia, un vero e proprio stato parallelo e clandestino), è accaduto che gli elettori, nel referendum del 2 ottobre scorso per approvare la pace, bocciassero l’accordo.

   Questo ha colto di sorpresa un po’ tutti, all’interno del Paese le forze che avevano sostenuto queste trattative tra il governo (del presidente Juan Manuel Santos) e le forze guerrigliere-terroriste che hanno deciso di deporre le armi dopo 50 anni. Ma ha colto di sorpresa il mondo intero, a partire da quelle diplomazie che avevano sostenuto questa trattativa, questo sforzo (che sembrava riuscito) di fine della guerra interna in Colombia.

FARC – Acronimo di FORZE ARMATE RIVOLUZIONARIE DELLA COLOMBIA - Organizzazione guerrigliera comunista colombiana d’ispirazione bolivariana fondata nel 1964 e da allora in conflitto con il potere centrale. Di base contadina, si dichiarano anti-imperialiste e hanno l’obiettivo di rappresentare le masse indigenti delle aree rurali in opposizione alle classi agiate, all’influenza statunitense nel Paese, al monopolio delle risorse naturali da parte delle grandi multinazionali e alla violenza dell’azione militare delle forze paramilitari e governative. Si finanziano principalmente attraverso attività criminali come i rapimenti e la produzione e il commercio di cocaina. (da www.treccani.it/ )
FARC – Acronimo di FORZE ARMATE RIVOLUZIONARIE DELLA COLOMBIA – Organizzazione guerrigliera comunista colombiana d’ispirazione bolivariana fondata nel 1964 e da allora in conflitto con il potere centrale. Di base contadina, si dichiarano anti-imperialiste e hanno l’obiettivo di rappresentare le masse indigenti delle aree rurali in opposizione alle classi agiate, all’influenza statunitense nel Paese, al monopolio delle risorse naturali da parte delle grandi multinazionali e alla violenza dell’azione militare delle forze paramilitari e governative. Si finanziano principalmente attraverso attività criminali come i rapimenti e la produzione e il commercio di cocaina. (da http://www.treccani.it/ )

   Ma le cose, nella geopolitica mondiale non sono mai scontate e semplici. Le FARC gestivano (ancora gestiscono) un territorio più grande della Svizzera. Una guerriglia, che si definisce comunista, la più antica del mondo. E si mantenevano (si mantengono) in particolare con la coltivazione e commercializzazione mondiale della cocaina.

Il presidente colombiano JUAN MANUEL SANTOS (a sinistra) stringe la mano al comandante delle FARC RODRIGO LONDOÑO, detto TIMOCHENKO, durante la firma dell’accordo di pace a L’Avana il 23 giugno 2016. Dietro di loro c’è il presidente cubano Raul Castro (Adalberto Roque/Afp/Getty Images) - L’ACCORDO INIZIALE TRA SANTOS E FARC prevedeva SEI PUNTI principali: la FINE DEI COMBATTIMENTI, il DISARMO DEI GUERRIGLIERI sotto la supervisione di una missione delle Nazioni Unite (che aveva già verificato la distruzione di 620 chilogrammi di esplosivo); l’uscita allo scoperto e il REINTEGRO NELLA SOCIETÀ DI QUASI 6 MILA GUERRIGLIERI; RIPARAZIONI MORALI E MATERIALI PER LE VITTIME E SANZIONI PER I RESPONSABILI DEI REATI PIÙ GRAVI; la CONVERSIONE DEL GRUPPO IN UN MOVIMENTO POLITICO LEGALE con l’assicurazione di un minimo di CINQUE SEGGI ALLA CAMERA dei deputati e di CINQUE SEGGI AL SENATO; una RIFORMA AGRARIA PER LA DISTRIBUZIONE DELLE TERRE e l’accesso al credito; la FINE DELLE COLTIVAZIONI ILLECITE nelle aree di influenza delle FARC, tra cui quella di cocaina, e UN PROGRAMMA SANITARIO E SOCIALE CONTRO IL CONSUMO E IL TRAFFICO DI DROGA.
Il presidente colombiano JUAN MANUEL SANTOS (a sinistra) stringe la mano al comandante delle FARC RODRIGO LONDOÑO, detto TIMOCHENKO, durante la firma dell’accordo di pace a L’Avana il 23 giugno 2016. Dietro di loro c’è il presidente cubano Raul Castro (Adalberto Roque/Afp/Getty Images) – L’ACCORDO INIZIALE TRA SANTOS E FARC prevedeva SEI PUNTI principali: 1- la FINE DEI COMBATTIMENTI, il DISARMO DEI GUERRIGLIERI sotto la supervisione di una missione delle Nazioni Unite (che aveva già verificato la distruzione di 620 chilogrammi di esplosivo); 2- l’uscita allo scoperto e il REINTEGRO NELLA SOCIETÀ DI QUASI 6 MILA GUERRIGLIERI; 3- RIPARAZIONI MORALI E MATERIALI PER LE VITTIME E SANZIONI PER I RESPONSABILI DEI REATI PIÙ GRAVI; 4- la CONVERSIONE DEL GRUPPO IN UN MOVIMENTO POLITICO LEGALE con l’assicurazione di un minimo di CINQUE SEGGI ALLA CAMERA dei deputati e di CINQUE SEGGI AL SENATO; 5- una RIFORMA AGRARIA PER LA DISTRIBUZIONE DELLE TERRE e l’accesso al credito; 6- la FINE DELLE COLTIVAZIONI ILLECITE nelle aree di influenza delle FARC, tra cui quella di cocaina, e UN PROGRAMMA SANITARIO E SOCIALE CONTRO IL CONSUMO E IL TRAFFICO DI DROGA.

   La coltivazione delle piante da cui si ricavano droghe va a braccetto con povertà e sottosviluppo: coltivare droga consente al piccolo contadino guadagni maggiori di quelli che gli verrebbero da piante commestibili come caffè, cacao o tabacco. E la presenza di “stati paralleli come son state finora le FARC ha aiutato questa condizione di “minor povertà”, comunque di illegalità e sottosviluppo che ha mantenuto fermo ogni rinnovamento e modernizzazione di quel Paese.

   Ed è questo il punto di molti Paesi dell’America Latina, E’ un continente che vive nel disinteresse mondiale, che conta assai poco negli equilibri globali, e si trova in difficoltà a dare nuove possibilità di sviluppo ai suoi popoli, di sollevarli da una condizione di vita difficile quotidiana. America Latina intesa allora come PERIFERIA DEL MONDO: in fondo l’altro continente, ben più problematico, cioè l’Africa, qualcosa nel bene forse, ancora tanto nel male, ma in qualche modo “si muove” (la colonizzazione cinese, lo sviluppo delle città, qualche nuova classe dirigente, le “primavere” nella parte settentrionale…). In America Latina siamo fuori dall’informazione globale su quel che accade, e nella quasi indifferenza dei mass-media internazionali.

1. LA COLOMBIA È UN ARCIPELAGO continentale che si compone di altipiani, di profonde vallate andine e delle vaste pianure dall’Orinoco all’Amazzonia, con una società divisa e frammentata lungo impervie geografie, che hanno contribuito a rendere estremamente difficile l’affermazione dell’autorità statale sul territorio nazionale 1. Il XX secolo è trascorso senza che alcun governo osasse mettere mano alla riforma agraria, sicché la fame di terra ha spinto i contadini verso i grandi spazi della cosiddetta Frontiera interna 2 . Seguendo l’esempio dei contadini e avventurieri di Antioquia che a inizio Novecento colonizzano quella porzione della Valle del Cauca che diventerà la zona del caffè, negli anni Sessanta accelera il grande esodo verso «i nuovi territori»: Urabá-Darién (confine con Panamá), il bacino dei fiumi Sinú e San Jorge (Cordoba), Serranía del Perijá (Cesar, confine con la Zulia venezuelana), il bacino medio del Magdalena, il Pacifico (Nariño e Chocó), il bacino del Meta (Casanare e Vichada), l’Ariari (tra Sumapaz e Macarena, Meta occidentale), il bacino del Guaviare, Caquetá e Putumayo al Sud. Le stesse Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia – Ejercito del Pueblo (Farc-Ep) collocano il proprio mito di fondazione nella marcia difensiva del 1962, da Marquetalia – sulla cordigliera centrale – verso la zona pedemontana della cordigliera orientale.
1. LA COLOMBIA È UN ARCIPELAGO continentale che si compone di altipiani, di profonde vallate andine e delle vaste pianure dall’Orinoco all’Amazzonia, con una società divisa e frammentata lungo impervie geografie, che hanno contribuito a rendere estremamente difficile l’affermazione dell’autorità statale sul territorio nazionale 1. Il XX secolo è trascorso senza che alcun governo osasse mettere mano alla riforma agraria, sicché la fame di terra ha spinto i contadini verso i grandi spazi della cosiddetta Frontiera interna 2 .
Seguendo l’esempio dei contadini e avventurieri di Antioquia che a inizio Novecento colonizzano quella porzione della Valle del Cauca che diventerà la zona del caffè, negli anni Sessanta accelera il grande esodo verso «i nuovi territori»: Urabá-Darién (confine con Panamá), il bacino dei fiumi Sinú e San Jorge (Cordoba), Serranía del Perijá (Cesar, confine con la Zulia venezuelana), il bacino medio del Magdalena, il Pacifico (Nariño e Chocó), il bacino del Meta (Casanare e Vichada), l’Ariari (tra Sumapaz e Macarena, Meta occidentale), il bacino del Guaviare, Caquetá e Putumayo al Sud. Le stesse Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia – Ejercito del Pueblo (Farc-Ep) collocano il proprio mito di fondazione nella marcia difensiva del 1962, da Marquetalia – sulla cordigliera centrale – verso la zona pedemontana della cordigliera orientale.

   Dicevamo allora che il 2 ottobre scorso i cittadini della Colombia hanno bocciato l’accordo di pace con le Farc, le forze guerrigliere marxiste, che avrebbe chiuso trent’anni (ma i guerriglieri hanno incominciato a operare ben prima) di massacri e strisciante guerra civile. Per fortuna della Colombia, le Farc hanno annunciato che non terranno conto del risultato e che si impegnano a perseguire il processo di pace.

   E’ così che, dopo quattro anni di negoziati tra delegazione del governo colombiano e guerriglia delle FARC, a seguito anche degli sforzi messi in campo dalla comunità internazionale e dell’impegno finanziario dell’Unione europea e degli Stati Uniti a sostegno del processo di pace, e dopo l’approvazione della riforma costituzionale che ha introdotto il plebiscito come strumento di consultazione popolare per la ratifica degli accordi di pace… è così che l’esigua maggioranza del terzo di aventi diritto al voto che si è recata alle urne lo scorso 2 ottobre ha rivelato al mondo il dissenso su una decisione politica che sembrava la linea di demarcazione tra un passato da dimenticare e un futuro promettente.

COLOMBIA, INDIOS - LE FARC E LA COCA - Le FARC nacquero come un movimento politico tra gli anni Cinquanta e Sessanta, quando alcuni contadini comunisti si rifugiarono sulle montagne per proteggersi dall’azione repressiva del governo, che vedeva l’ideologia marxista come una minaccia. Nel giro di poco tempo i contadini cominciarono a farsi chiamare FARC e ad adottare la lotta armata. Nel loro momento di massima forza, le FARC arrivarono a essere formate da 20mila guerriglieri: si finanziavano principalmente con i riscatti dei rapimenti e le estorsioni. Poi, a partire dagli anni Ottanta, arrivò la cocaina. Nonostante coltivare coca fosse illegale in Colombia, molti contadini iniziarono a convertire i loro campi. Coltivare altri beni – come la frutta – non garantiva praticamente alcun guadagno: i contadini dovevano sostenere costi molto elevati per trasportare le proprie merci verso i mercati dei centri urbani più vicini, che però spesso erano molto lontani. Con la coca la storia era completamente diversa e i guadagni erano garantiti sia per i contadini che per i guerriglieri. (da ilpost.it)
COLOMBIA, INDIOS – LE FARC E LA COCA – Le FARC nacquero come un movimento politico tra gli anni Cinquanta e Sessanta, quando alcuni contadini comunisti si rifugiarono sulle montagne per proteggersi dall’azione repressiva del governo, che vedeva l’ideologia marxista come una minaccia. Nel giro di poco tempo i contadini cominciarono a farsi chiamare FARC e ad adottare la lotta armata. Nel loro momento di massima forza, le FARC arrivarono a essere formate da 20mila guerriglieri: si finanziavano principalmente con i riscatti dei rapimenti e le estorsioni. Poi, a partire dagli anni Ottanta, arrivò la cocaina. Nonostante coltivare coca fosse illegale in Colombia, molti contadini iniziarono a convertire i loro campi. Coltivare altri beni – come la frutta – non garantiva praticamente alcun guadagno: i contadini dovevano sostenere costi molto elevati per trasportare le proprie merci verso i mercati dei centri urbani più vicini, che però spesso erano molto lontani. Con la coca la storia era completamente diversa e i guadagni erano garantiti sia per i contadini che per i guerriglieri. (da ilpost.it)

   E’ interessante, che dopo il risultato negativo per la pacificazione che si è avuto nel referendum, l’Accademia di Stoccolma che assegna ogni anno l Nobel per la pace, abbia deciso (saggiamente e dando così un sostegno alle forze di pacificazione andate in crisi) di assegnare il Nobel per la Pace di quest’anno al presidente colombiano Juan Manuel Santos, principale artefice del negoziato che ha visto il successo con i guerriglieri delle FARC.

Le FARC guadagnavano sulla coca imponendo tasse ai produttori, ai compratori e a quelli che spostavano la droga all’interno del territorio controllato dal gruppo. Ai cocaleros, i coltivatori della pianta di coca, era imposta una tassa non superiore ai 50 dollari per ciascun chilo; ai compratori fino a 200 dollari per chilo; ai laboratori che producevano la coca 100 dollari per chilo; a coloro che la trasportavano fuori 100 dollari per chilo. Nel 2014 Jeremy McDermott, condirettore di InSight Crime – un’organizzazione giornalistica no profit specializzata in criminalità organizzata dell’America latina – ha calcolato che i guerriglieri guadagnavano 450 dollari per ogni chilo di coca prodotto e trasportato fuori dai territori sotto il controllo delle FARC. McDermott ha scritto: «Le FARC hanno sempre avuto una relazione di amore-odio con la droga. Amano i soldi che la droga gli ha permesso di fare, fondi che hanno garantito loro di sopravvivere e perfino di minacciare lo stato alla fine degli anni Novanta. Ma odiano la corruzione e l’immagine che la droga porta all’interno del movimento ribelle.» (da ilpost.it)
Le FARC guadagnavano sulla coca imponendo tasse ai produttori, ai compratori e a quelli che spostavano la droga all’interno del territorio controllato dal gruppo. Ai cocaleros, i coltivatori della pianta di coca, era imposta una tassa non superiore ai 50 dollari per ciascun chilo; ai compratori fino a 200 dollari per chilo; ai laboratori che producevano la coca 100 dollari per chilo; a coloro che la trasportavano fuori 100 dollari per chilo. Nel 2014 Jeremy McDermott, condirettore di InSight Crime – un’organizzazione giornalistica no profit specializzata in criminalità organizzata dell’America latina – ha calcolato che i guerriglieri guadagnavano 450 dollari per ogni chilo di coca prodotto e trasportato fuori dai territori sotto il controllo delle FARC. McDermott ha scritto: «Le FARC hanno sempre avuto una relazione di amore-odio con la droga. Amano i soldi che la droga gli ha permesso di fare, fondi che hanno garantito loro di sopravvivere e perfino di minacciare lo stato alla fine degli anni Novanta. Ma odiano la corruzione e l’immagine che la droga porta all’interno del movimento ribelle.» (da ilpost.it)

   I perché il popolo abbia deciso di dire no all’accordo tra governo e guerriglia ha molteplici sfaccettature. Proviamo a elencarne alcuni, avendoli ripresi dalla lettura di queste settimane di chi segue le vicende dell’America Latina e della Colombia in particolare.

1- Innanzitutto troppo rancore, troppi lutti ci son stati, per cancellare tutto con un trattato. Centinaia di migliaia di morti e i milioni di sfollati hanno cambiato il volto di un Paese che, a sua volta, è cambiato in 50 anni. Sia coloro che hanno vissuto e vivono la tragedia del conflitto armato, sia quelli che se lo sono sentito raccontare e ne hanno vissuto la violenza solo come forma di terrorismo (i più giovani), probabilmente non sono andati a votare, non era una cosa per loro importante.

2- Il referendum è poi stato visto come un motivo di rivalsa e ripresa politica per l’ex presidente Uribe, ora sconfitto, che ha governato la Colombia nel decennio degli anni duemila. Allora il “sì” e il “no” sono stati un voto rispettivamente pro Santos e pro Uribe. Quest’ultimo ha rappresentato la sponda istituzionale contraria al referendum, mettendo anche in campo motivazioni non strumentali, ad esempio il problema dell’amnistia che viene concessa, con il trattato di pace, per la parte meno grave dei reati compiuti dalle FARC. Ora Uribe sembra andare in aiuto al presidente Santos per rimediare quanto accaduto con il referendum .

Ad oggi i principali produttori di cocaina si trovano in Sud America e Messico e di oppio nel Triangolo d'oro e in Afghanistan. I maggiori consumatori sono i paesi occidentali: Stati Uniti, paesi europei e Australia, mentre sono aree di passaggio il Medio Oriente e l'Africa occidentale (da Wikipedia)
Ad oggi i principali produttori di cocaina si trovano in Sud America e Messico e di oppio nel Triangolo d’oro e in Afghanistan. I maggiori consumatori sono i paesi occidentali: Stati Uniti, paesi europei e Australia, mentre sono aree di passaggio il Medio Oriente e l’Africa occidentale (da Wikipedia)

3- Poi, tra i motivi del “no” del referendum alla pace, va detto che anche in Colombia l’assenteismo è stato elevato, e sono andati a votare in particolare i contrari. E in questa fase storica qualsiasi governo che oggi sottopone la propria linea ai cittadini con un referendum si sente rispondere di no: hanno incominciato gli inglesi con la “Brexit”, hanno continuato gli ungheresi disertando le urne in maggioranza nella proposta del leader nazionalista Orban di rifiutare i profughi, e appunto il 2 ottobre è accaduto al governo colombiano di vedersi bocciato l’accordo di pace che mette fine alla guerra civile interna.

4- Poi poco o niente è stato approfondito il coinvolgimento della società civile e della popolazione tutta, che ha seguito con un certo distacco tutto il lungo negoziato, e anche alla fine, con la mediatica manifestazione dello scorso 26 settembre a CARTAGENA che sanciva la pacificazione (con capi di stato latinoamericani, i massimi rappresentanti dell’Unione Europea, degli Usa, del Fondo monetario, etc), tutto questo forse ha lasciato fuori la “condivisione” del popolo colombiano che ha seguito in modo distaccato l’evento.

Marcia per la pace a Cali, Colombia, il 9 ottobre 2016 (da il post.it)
Marcia per la pace a Cali, Colombia, il 9 ottobre 2016 (da il post.it)

5- Le fasce rurali e anziane della popolazione hanno sostenuto con convinzione il “sì” (come sempre accade nei referendum e nelle elezioni le zone di campagna e i più anziani votano in modo diverso dai cittadini). Ma anche i più giovani, figli di una nuova Colombia più ricca e sviluppata, hanno sempre pensato alla guerra civile non come scontro con i guerriglieri, non come cosa ideologica, ma come unica lotta al terrorismo, al crimine, a prescindere da pseudo risvolti ideologici (i Farc filo-marxisti, etc….)

6- E poi, cosa forse la più importante, la popolazione ha paura di ritrovarsi i Farc come partito politico, e rifiuta questa cosa: i guerriglieri, dicevamo, sono sentiti come terroristi, e si ha paura che si impossessino legalmente del Paese, attraverso elezioni, o solo che siedano nel parlamento, che partecipino al potere. Da non trascurare anche che le Farc non sono l’unica organizzazione di guerriglia in Colombia, e che altri vorrebbero inserirsi in una trattativa spartitoria tra governo e ribelli.

Guerriglieri delle FARC
Guerriglieri delle FARC

7- E, infine, hanno vinto anche superstizione e menzogna, perché la campagna del “no” ha toccato punte inverosimili di disinformazione e di calunnia. Ha sostenuto che il Paese sarebbe andato in totale povertà e crisi come sta vivendo ora il Venezuela, che gli accordi avrebbero posto fine alla famiglia cattolica. Cose del tutto fuori della realtà.

l'ex presidente colombiano ALVARO URIBE a Bogotá il 3 ottobre 2016
l’ex presidente colombiano ALVARO URIBE a Bogotá il 3 ottobre 2016

   La Colombia è la maggiore fonte di produzione di cocaina, e le Farc (Forze armate rivoluzionarie della Colombia), continuano ad avere un ruolo determinante nella coltivazione della coca e nel commercio internazionale della droga. Interesse interno a quel Paese ma a tutto il pianeta è che questa condizione nuova di accordo di pace si realizzi effettivamente, perché significa dare un duro colpo al commercio internazionale delle droghe.

   Però il “no” accaduto nel plebiscito del 2 ottobre è probabilmente un “no” a un metodo negoziale che non è piaciuto al colombiani, ma non è un “no” alla pace; e questo “inizio di pace”, che è già concreto (i guerriglieri hanno deposto le armi), può costituire l’opportunità di gettare basi più ampie e condivise per il pieno successo degli accordi, e un nuovo futuro per la Colombia; e un duro colpo al narcotraffico nel mondo; una speranza per tutta l’America Latina di nuovo sviluppo. Nell’interesse generale. (s.m.)

BOGOTA' (contrasto tra i grattacieli e le casette basse del centro (da www.storico.jpg)
BOGOTA’ (contrasto tra i grattacieli e le casette basse del centro (da http://www.storico.jpg)

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FARC-GOVERNO COLOMBIANO, IL NUOVO ACCORDO DI PACE

di Geraldina Colotti, da “Il Manifesto” del 24/11/2016

– Bogotà. Il testo verrà discusso dal Parlamento

   Un nuovo accordo «di pace e speranza» verrà firmato in Colombia tra il governo di Manuel Santos e la guerriglia marxista Farc. I mediatori del gruppo armato, che esiste da 52 anni, sono arrivati per questo a Bogotà. Il nuovo testo è stato licenziato il 12 novembre scorso all’Avana, già sede delle precedenti trattative che, dopo quasi quattro anni, avevano portato a una storica firma. Gli entusiasmi suscitati dalla cerimonia internazionale, celebrata il 2 ottobre a Cartagena, erano però stati freddati dal risultato del referendum che, seppur con poco margine – 50,2% contro 49,7% – aveva dato la vittoria al No.

   Gli avversari della pace, capitanati dall’ex presidente Alvaro Uribe (grande sponsor dei paramilitari) avevano già fatto capire l’aria il 2 ottobre: durante il discorso del comandante Timoshenko, 4 cacciabombardieri si erano levati in volo con perfetta sincronia, lasciando tutti di stucco. Un chiaro avvertimento: «Speriamo che questa volta non si levino in volo per sganciare bombe, ma per celebrare la pace», aveva detto Timoshenko. Già dal giorno, era partita una campagna sporca basata sulla paura «del comunismo e del castro-madurismo» e sui peggiori luoghi comuni della destra colombiana. Gli alleati di Santos, al contrario, non si erano dati da fare più di tanto durante la breve campagna elettorale. E nel referendum – che la sinistra aveva considerato un inutile e rischioso passo di cui Santos avrebbe potuto fare a meno – aveva perso la pace.

   In compenso, il presidente colombiano aveva ricevuto il Nobel: un incitamento a portare a casa un risultato effettivo, aveva affermato. E subito si era incontrato con Uribe e soci, che gli avevano consegnato ben 400 proposte per disarticolare il testo della soluzione politica. Secondo i mediatori, il nuovo accordo raggiunto ha incorporato il 65% delle proposte uribiste ma, lunedì scorso, dopo una riunione di 7 ore, l’ex presidente ora senatore si è messo ancora di traverso, e ha preteso un nuovo referendum. Santos ha però annunciato che sottoporrà il documento, passato dalle precedenti 297 alle attuali 310 pagine, all’approvazione del Parlamento, dove ha la maggioranza.

   L’atteggiamento di Uribe, questa volta ha fatto uscire fuori dai gangheri persino il compassato mediatore del governo, Humberto de la Calle, che ha denunciato il boicottaggio pretestuoso del campo avverso e ha ricordato che la recrudescenza del paramilitarismo, l’omicidio di vari leader sociali così come l’uccisione da parte dell’esercito di due guerriglieri – che si trovavano nei pressi di uno dei punti di smobilitazione delle Farc – evidenziano la «fragilità del cessate il fuoco e un aggravamento della violenza». Il cessate il fuoco scade il 31 dicembre.

   Intanto, torna lo spettro del massacro dell’Union patriotica, l’alleanza con cui, negli anni ’80, le Farc si erano presentate (con successo) alle elezioni dopo un precedente accordo, sterminata dall’azione congiunta di esercito e paramilitari. In questi ultimi giorni, sono stati uccisi diversi leader contadini e militanti del movimento Marcha Patriotica. Anche l’Onu, uno degli organismi di garanzia degli accordi di pace, insieme alla Celac, ha chiesto che venga aperta un’indagine. Intanto, le organizzazioni contadine denunciano che, a fronte di oltre 2.700 domande di assegnazione delle terre, solo nel dipartimento Sucre hanno ricevuto in risposta 25 minacce di morte, sei omicidi e vari attentati.

   La questione della terra – centrale nelle cause che hanno portato al sorgere dell’opposizione armata – è stata al cuore degli accordi: il primo punto sottoscritto. Le destre hanno imposto ora la cancellazione di ogni riferimento a possibili cambiamenti strutturali e «la difesa della proprietà privata». Depotenziata anche l’ottica di genere: per soddisfare le componenti religiose reazionarie, fermamente contrapposte alla chiesa di base, che ha invece accompagnato le comunità nelle denunce e nella resistenza quotidiana.

   Uribe avrebbe voluto cancellare ogni possibilità di rientro delle Farc nella vita politica almeno fino a compimento della pena, che – secondo le destre – dovrebbero scontare «in una colonia agricola». Un punto su cui sono passati solo in parte. Hanno invece ottenuto che gli accordi non vengano incorporati nella costituzione, lasciando così la possibilità di una loro futura rimessa in causa. Ma un’altra grande incognita pesa sulla soluzione politica colombiana dopo l’elezione di Trump: che potrebbe disporre altrimenti dei finanziamenti decisi da Obama per il post-accordo. E comunque chiudere a doppia mandata i prigionieri politici negli Usa. (Geraldina Colotti)

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IL NOBEL PER LA PACE ALLA COLOMBIA CHE SOGNA UN DOMANI SENZA COCAINA

di Roberto Saviano, da “la Repubblica” del 8-8-2016

– II premio Nobel per la Pace 2016 è andato all’uomo della riconciliazione tra Farc e governo, il presidente colombiano Jüan Manuel Santos, 65 anni. «È un riconoscimento al suo impegno – è la motivazione – e un incoraggiamento a tutte le forze implicate perché vadano avanti». «Colombiani, questo premio è vostro – ha detto Santos – la pace è possibile malgrado la vittoria del “no” al referendum». Il leader delle Fare Timoleón Jimenez, ha twittato: «L’unico premio a cui aspiriamo è quello della pace con giustizia sociale». Felice Ingrid Betancourt, ex prigioniera dei guerriglieri: «Ma il premio andava dato anche alle Fare ». E l’ex presidente Uribe, leader della destra: «Cambiamo questi accordi dannosi» –

   La Colombia sta vivendo una fase nuova. Dopo essere stata negli anni Ottanta e Novanta il centro del narcotraffico mondiale, pompando denaro e coca tra Nord America ed Europa, continua a essere tra i primi produttori di coca, ma nella distribuzione ha perso il suo ruolo a vantaggio del Messico.

   Inoltre non vive più la ricca stagione del monopolio poiché oggi producono coca in quantità competitive anche Perù e Bolivia. Per la Colombia coltivazione di coca e produzione di cocaina sono state a lungo l’asse fondamentale su cui tutto, nel Paese, ruotava.

   La monocoltura della coca ha infettato qualsiasi ambito dell’economia e della politica. Ma le cose oggi sono cambiate. Se la storia del narcotraffico colombiano la sintetizzassimo in una fiction saremmo partecipi del destino dei cartelli di Medellìn e di Cali e sapremmo esattamente cosa piega un’organizzazione criminale dedita al narcotraffico.

   E non è la repressione armata, e non sono solo i processi nei tribunali, e non sono gli arresti e non è solo il contrasto culturale. Ma è tutto questo, unito al contrasto del segmento economico. I cartelli vanno in crisi e si disintegrano quando sono in crisi economica.

   Il Nobel al Presidente colombiano Jüan Manuel Santos segnala l’avvio di un percorso di fiducia verso una nuova pratica di pace. Verso un nuovo modo di intendere la storia e le cicatrici che ha lasciato, anche quelle che ancora non si sono rimarginate.

   Le Farc (Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia) gestivano un territorio più grande della Svizzera e sono la guerriglia, che si definisce comunista, più antica del mondo. Ma non era l’unica organizzazione di guerriglia in Colombia, segno evidente che il bottino da spartirsi era considerevole.

   C’erano anche le Auc (Autodifese Unite della Colombia), insieme di gruppi paramilitari che nel periodo in cui furono rette da Salvatore Mancuso ebbero rapporti strettissimi con la ‘ndrangheta. Mancuso aveva il padre di origini italiane (era di Sapri ) ma madre colombiana. Attualmente è in carcere e ha iniziato un percorso di collaborazione con la giustizia.

   Ma le Auc e le Farc dovevano spartirsi la Colombia con l’Eln (Esercito di Liberazione Nazionale), che insieme alle prime due faceva operazioni militari avendo come fine l’occupazione di territori, usando per finanziarsi lo strumento del sequestro di persona e, soprattutto, il narcotraffico.

   Ed eccoci giunti al punto nodale: le Farc hanno sempre gestito il traffico di coca in tutta la sua filiera, ma l’immagine che di loro nel mondo è a lungo passata, era quella delle guerriglia comunista. Guerriglia comunista pura, l’ultima grande guerriglia comunista, marxista, di matrice guevariana.

   La veste ideologica – quella stessa che è stata ha generato un incredibile consenso, facendo passare la narco-guerriglia, per guerriglia socialista che aveva come fine una rivoluzione in Colombia: niente di più falso.

   Quello che le Farc facevano era difendere il loro territorio, gestire una sorta di Stato clandestino autonomo con le sue regole e le sue tasse. È stato sfruttando povertà, contraddizioni ed equivoci che le Farc sono riuscite a costruire questa sorta di progetto politico che per me ha sempre avuto il sapore dell’impostura.

   La bravura di Santos – e da qui la decisione di assegnare a lui il Premo Nobel per la Pace – è stata quella di aver percepito le difficoltà crescenti che stava affrontando la guerriglia in Colombia. E non è stata la repressione o la distruzione dei campi di coca, non sono state le conseguenze del Pian Colombia, iniziativa diplomatica e militare tra amministrazione colombiana e Usa a indebolire il narcotraffico. Tutto questo ha piuttosto avuto un effetto indesiderato e non calcolato: il potenziamento del segmento militare dei gruppi di insorti.

   Cioè se da un lato il Pian Colombia si poneva come obiettivo quello di rendere più difficile la coltivazione della coca e la presenza di laboratori di cocaina, dell’altro ha sostanzialmente aumentato la militarizzazione dei cartelli.

   Santos capisce questo: con la fine del Cartello di Medellìn e con la fine del Cartello di Cali (fine anni Novanta), la guerriglia è in difficoltà perché in difficoltà era il settore più redditizio: il narcotraffico. La parcellizzazione, la struttura pulviscolare che i cartelli avevano assunto aveva rafforzato il Messico spostando lì l’asse del narcotraffico mondiale.

   In questo nuovo scenario per reggere la concorrenza le Farc si sono trovate costrette ad abbassare il prezzo della coca, per rendere la propria merce concorrenziale: ma non sono riuscite più a reggersi come Stato autonomo, parallelo e clandestino.

   Il pericolo maggiore per le Farc dunque non è stata la repressione, ma la crisi economica generata dal loro principale indotto: il narcotraffico. E Santos su questo ha lavorato. Le Farc avevano una priorità: cercare nuove forme di guadagno e sottrarre campi di coca ai gruppi concorrenti. Santos ha deciso che era arrivato il momento di mettere da parte le ferite del conflitto e iniziare il dialogo.

   Ma il 2 ottobre il popolo colombiano ha risposto “no”. È stato “no”, per una manciata di voti, alla negoziazione iniziata la scorsa estate a Cuba alla presenza del presidente cubano Raùl Castro e del Segretario generale dell’Orni Ban Ki-moon.

   Perché Cuba? Il luogo in cui il processo di pace ha avuto inizio non è stato ovviamente scelto a caso: Cuba è da sempre luogo di passaggio della cocaina diretta negli Stati Uniti e in Europa. A Cuba ha sempre fatto scalo e da Cuba è poi sempre ripartita per la Florida, per il confine messicano, per il Canada. Anche se Fidel lo ha sempre negato, Cuba forniva logistica a Escobar in cambio di un indennizzo al regime.

   Ma perché il popolo, seppur per pochissimi voti, boccia? Soprattutto perché ha paura, paura che le Farc come partito politico possano avvelenare il dibattito democratico, diventando una sorta di narcopartito.

   Anche se, nella trattativa di pace, l’obbligo ad abbandonare qualsiasi attività illegale è molto chiaro. La verità è che il popolo colombiano è un popolo molto stanco. Molto simile a quello italiano anche nella totale sfiducia verso la classe politica. Non si fida più delle promesse ed è spossato da una immagine di sé sempre ridotta al Paese da cui la coca parte per raggiungere ogni angolo di mondo.

   La Colombia è come l’Italia. Un Paese dalla storia incredibile e dalla bellezza rara, inquinata da organizzazioni criminali che l’hanno resa campo di battaglia. E l’Italia in questo dibattito non è entrata per nulla, sottovalutando il suo ruolo. I paesi dell’America Latina è all’Italia che guardano per il contrasto alle organizzazioni criminali e la politica italiana invece di rispondere e di prendere il ruolo che potrebbe avere Oltreoceano, resta sempre chiusa nel suo ghetto, incapace di capire quello che accade a un metro dal suo naso.

   L’Italia perde l’occasione storica, l’ennesima, di essere partner non solo commerciale (intendo legalmente, non nel traffico di droga, dove i rapporti esistono da molto tempo e sono fiorenti) ma anche culturale dei Paesi latini.

   Il Nobel a Santos dimostra che la politica dell’incontro, anche quando non porta consenso, è l’unica strada per sradicare tumori che hanno infettato per decenni uno Stato. Il prossimo passo in Colombia? Perseverare su questa strada di legalizzazione e pace. E dovrebbe essere anche il prossimo passo da fare anche in Italia. Ma chi sa quali altre personalissime priorità ci impediranno di contrastare ciò che davvero blocca la nostra crescita: le economie criminali che, a differenza dell’economia legale, sono foltissime. (Roberto Saviano)

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14/10/2016

LA COLOMBIA CHE HA DETTO NO ALLA PACE

di Gianandrea Rossi, da www.treccani.it/magazine/geopolitica/

   Dopo quattro anni di negoziati tra delegazione del governo colombiano e guerriglia delle FARC, a seguito degli sforzi messi in campo dalla comunità internazionale e dell’impegno finanziario dell’Unione europea e degli Stati Uniti a sostegno del processo di pace, e dopo l’approvazione della riforma costituzionale che ha introdotto il plebiscito come strumento di consultazione popolare per la ratifica degli accordi di pace, l’esigua maggioranza del terzo di aventi diritto al voto che si è recata alle urne lo scorso 2 ottobre ha rivelato al mondo il dissenso su una decisione politica che sembrava la linea di demarcazione tra un passato da dimenticare e un futuro promettente.

   Tanto è stato lungo, elaborato e complesso il negoziato tra le parti (che ha portato a un testo di quasi trecento pagine, presentato lo scorso 26 settembre a CARTAGENA DE INDIAS. In occasione di un grande evento mediatico alla presenza di numerosi capi di Stato della regione), tanto poco è stato approfondito il coinvolgimento della società civile e della popolazione tutta, che ha seguito con un certo distacco il processo negoziale.

   In effetti, il referendum si rivela la falla più grave del negoziato di pace, per troppo tempo trascurata. Le centinaia di migliaia di morti e i milioni di sfollati hanno cambiato il volto di un Paese che, a sua volta, è cambiato in 50 anni.

   Così, se da un lato le fasce rurali e anziane della popolazione hanno sostenuto con convinzione il “sì”, i più giovani, figli di una nuova Colombia più ricca e sviluppata, hanno meglio recepito il messaggio uribista degli anni Duemila (quelli in cui si sono formati): nel loro immaginario collettivo, alla guerra interna contro le FARC si era sostituita la lotta “contro il terrorismo”.

   Quindi, più che accordi di pace servivano politiche di sicurezza e di forza, argomenti che hanno caratterizzato in larga parte la posizione di Uribe durante i suoi due mandati. Ecco dunque che sia coloro che hanno vissuto e vivono la tragedia del conflitto armato, sia quelli che se lo sono sentito raccontare e ne hanno vissuto la violenza solo come forma di terrorismo, probabilmente “si sono incontrati” nella comune, scarsa convinzione di andare al voto.

   Di certo, come hanno sottolineato in molti, la gestione del capitolo della “giustizia transizionale” ha determinato uno scollamento con la sensibilità dei milioni di colombiani colpiti dal conflitto, generando, se non altro, un forte scetticismo, tradottosi nella paura diffusa che proprio grazie agli accordi di pace il leader guerrigliero TIMOSHENKO si sarebbe potuto candidare alla presidenza della Repubblica del 2018.

   Nelle prime ore dopo il voto, il Paese si è scoperto disorientato e smarrito, “tra guerra e pace”. Immediatamente il presidente SANTOS ha dichiarato che una via per la pace andrà comunque trovata, confermando il cessate il fuoco bilaterale.

   Dello stesso tenore le dichiarazioni di Timoshenko che, pur rammentando che il plebiscito non ha peso giuridico sugli accordi, riconosce il suo forte e inequivocabile “valore politico”. Il presidente Santos ha subito convocato un tavolo di dialogo con tutte le forze politiche, sia quelle che hanno sostenuto il “sì” sia quelle che hanno sostenuto il “no”.

   L’ex presidente URIBE, leader del Centro Democratico, dapprima restio a sedersi a quel tavolo, ha poi cambiato idea, dichiarando il suo interesse a “mantenere l’impegno per la pace”, pur riproponendo gli argomenti che avevano animato la sua campagna elettorale a favore “di un altro metodo di gestire gli accordi”. In alcune dichiarazioni, Uribe ha poi lasciato trapelare di essere disponibile a individuare vie nuove per gli accordi, confermando di non essere contrario in toto alla giustizia “transizionale” ma a una sua revisione, uno dei nodi più controversi della campagna elettorale, ovvero l’amnistia per la parte meno grave dei reati compiuti dalle FARC.

   A rafforzare l’avvio di questo dialogo, l’inedito incontro – mai realizzatosi durante i quattro anni di negoziati – tra Santos e Uribe per ricostruire insieme un percorso di pace.

   Il presidente Santos, forte del sostegno della comunità internazionale (lo scorso 26 settembre a Cartagena si erano recati, oltre a tutti presidenti della regione, quelli dei paesi facilitatori, l’alto rappresentante per la Politica estera UE Federica Mogherini, il segretario di Stato vaticano Pietro Parolin, il Segretario di Stato USA, John Kerry, il segretario generale dell’OSA, Luis Almagro; i vertici di Fondo monetario internazionale, Banca interamericana per lo sviluppo e Banca per lo sviluppo dell’America latina), ha visto poi premiati gli sforzi condotti sino a ora, con l’assegnazione del Premio Nobel per la pace 2016, novità inattesa ma ancor più rilevante all’indomani dell’esito del plebiscito.

   Si riparte dunque da questo Premio Nobel e da un inedito clima di dialogo sancito proprio dal “no”, che il Paese aspettava da oltre 50 anni: sarà questo il clima in cui si potrà realizzare il pieno coinvolgimento di una popolazione che, a vario titolo e in vari modi, ha vissuto e patito la tragedia del conflitto armato con le FARC?

   Così, mentre le FARC avevano avviato le operazioni di concentrazione nelle zone indicate negli accordi, e le Nazioni Unite la procedura di raccolta delle armi, il Paese oggi si domanda come portare avanti un processo che appare essere stato penalizzato da questo plebiscito, organizzato forse troppo sbrigativamente per aggirare l’eventuale “trappola” di un’Assemblea costituente (che, se per un verso avrebbe avuto più voce in capitolo sul futuro del Paese e sugli accordi, per altro verso sarebbe stata l’occasione per restituire a Uribe un futuro politico e offuscare il ruolo di protagonista di Santos).

   Il plebiscito è stato dunque il tramite con cui è stato politicizzato l’accordo di pace. Il “sì” e il “no” sono stati un voto rispettivamente pro Santos e pro Uribe. Pur se non sfugge che forse proprio questo “no” (che è un “no” a un metodo negoziale e non un “no” alla pace) può costituire l’opportunità di gettare basi più ampie e condivise per il pieno successo degli accordi, è assai chiaro che il futuro della pace non può non passare da un’intesa tra i due leader, l’ex presidente Uribe e il Premio Nobel per la pace Juan Manuel Santos, entrambi interessati a essere i protagonisti della pace: “ La paz sí, pero si la firmo yo”, ha brillantemente sintetizzato Héctor Abad Faciolince in un articolo sul quotidiano El País. (Gianandrea Rossi)

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COLOMBIA E FARC CERCANO UN NUOVO ACCORDO

da IL POST.IT del 14/10/2016 http://www.ilpost.it/

– Dopo l’inaspettata bocciatura del referendum del 2 ottobre, il governo colombiano ha esteso la tregua e ha cominciato a valutare le proposte dell’opposizione –

   Giovedì 13 ottobre il presidente della Colombia Juan Manuel Santos ha annunciato che il cessate il fuoco con le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (FARC) sarà esteso fino al 31 dicembre. Lo scorso 2 ottobre lo storico accordo di pace raggiunto in agosto tra il governo e le FARC era stato respinto inaspettatamente dagli elettori colombiani in un referendum (i voti contrari sono stati il 50,24 per cento del totale).

   Dopo l’esito del referendum, Santos aveva detto che la tregua condivisa con le FARC sarebbe terminata il 31 ottobre e aveva aggiunto che entro quella data sperava di «essere in grado di concretizzare gli accordi di pace». Con l’estensione del cessate il fuoco, il presidente – che nel frattempo per l’accordo con le FARC ha vinto il Nobel per la pace – ha mostrato di avere bisogno di più tempo per prendere in considerazione e trattare con le opposizioni che hanno presentato alcune proposte di modifica al testo dell’accordo.

   Il problema principale dello stallo nel processo di pace non è oggi un disaccordo tra Santos e le FARC – che l’intesa l’avevano già trovata dopo 4 anni di complicate trattative. L’accordo prevedeva, tra le altre cose, un cessate il fuoco bilaterale.

   La tregua era entrata in vigore il 29 agosto e da allora non c’è stato alcun incidente. Per entrare in vigore, il testo (297 pagine) doveva essere approvato dagli elettori colombiani in una consultazione non vincolante, ma comunque voluta dal presidente per dare maggiore legittimità e forza all’accordo.

   In vista del referendum alcune importanti personalità del paese avevano fatto campagna elettorale per il “No”, giudicando l’accordo troppo lassista perché assicurava agli ex guerriglieri una certa impunità e immunità, garantiva loro una rappresentanza politica e forniva anche una serie di aiuti economici e sociali per la loro integrazione nella società. Tra quelli del fronte del No c’erano gli ex presidenti della Colombia Alvaro Uribe, Andrés Pastrana e Ernesto Samper.

   Dopo la bocciatura al referendum Santos ha ricominciato nuove trattative con i rappresentanti della società civile, con alcuni leader religiosi, con le famiglie dei morti nella guerra e con i suoi principali oppositori, tra cui Uribe. Uribe ha presentato al presidente Santos alcune modifiche al testo dell’accordo, lasciandone comunque invariata buona parte. Santos non ha ancora risposto ufficialmente alle proposte, ma ha promesso di ricalibrare l’accordo per renderlo più equo come chiedono i suoi critici.

(Cos’è stata la guerra civile in Colombia)

Il Washington Post scrive che le proposte di modifica dell’ex presidente Alvaro Uribe sono state scritte in un documento di 26 pagine che si intitola “Basi per un accordo nazionale di pace”: sono prevalentemente tecniche, riguardano alcuni punti precisi e proprio per questo fanno ben sperare in una conclusione del conflitto  tra governo e FARC.

   L’accordo iniziale tra Santos e FARC prevedeva sei punti principali: la fine dei combattimenti, il disarmo dei guerriglieri sotto la supervisione di una missione delle Nazioni Unite (che aveva già verificato la distruzione di 620 chilogrammi di esplosivo); l’uscita allo scoperto e il reintegro nella società di quasi 6 mila guerriglieri; riparazioni morali e materiali per le vittime e sanzioni per i responsabili dei reati più gravi; la conversione del gruppo in un movimento politico legale con l’assicurazione di un minimo di cinque seggi alla Camera dei deputati e di cinque seggi al Senato; una riforma agraria per la distribuzione delle terre e l’accesso al credito; la fine delle coltivazioni illecite nelle aree di influenza delle FARC, tra cui quella di cocaina, e un programma sanitario e sociale contro il consumo e il traffico di droga.

   L’accordo presentato da Uribe chiede ad esempio che i posti alla Camera e al Senato non vengano occupati da ex guerriglieri condannati per crimini gravi o crimini contro l’umanità e che per quegli stessi reati sia prevista la loro non eleggibilità in generale; si chiede anche le FARC mostrino «rimorso», chiedano «perdono per le loro azioni», e che usino i loro guadagni o le loro proprietà per contribuire a risarcire le famiglie dei morti nella guerra.

   Prima dell’entrata in vigore dell’accordo, i guerriglieri dovrebbero consegnare una specie di elenco dei loro beni in modo che vengano preventivamente individuati quali saranno utilizzati per la compensazione finanziaria delle vittime. La modifica più importante ha a che fare però con il sistema giudiziario previsto per gli ex guerriglieri: piuttosto che creare un sistema giudiziario indipendente, la proposta dell’opposizione è di aprire dei tribunali speciali all’interno del sistema giudiziario già esistente in Colombia.

   Confessando pienamente i loro crimini e pagando i risarcimenti dovuti alle vittime, i leader delle FARC potrebbero scontare pene alternative da 5 a 8 anni, evitando il carcere. In questo modo, per chi ha commesso crimini più gravi non ci sarebbe alcun trattamento preferenziale. I soldati semplici del gruppo di ribelli che non sono colpevoli di reati gravi o di traffico di stupefacenti sarebbero infine ammessi nella procedura di amnistia, che probabilmente si applicherebbe alla grande maggioranza dei membri delle FARC, circa 5.800 combattenti.

DA VEDERE LE FOTO DA IL POST.IT:

http://www.ilpost.it/2016/09/26/gli-ultimi-giorni-delle-farc/farc-65/

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LA COLOMBIA INCHIODATA AL SUO PASSATO

di Mimmo Candito, da “la Stampa” del 4/10/2016

   Ma dopo 52 anni di guerra, come si fa a dire No alla pace? Come si fa, dopo 266 mila morti, 45 mila desaparecidos, 7 milioni di profughi?    Come si fa con un reddito nazionale dimezzato e un reddito individuale perduto per un terzo? Eppure, la Colombia lo ha fatto domenica 2 ottobre, votando a maggioranza il No nel referendum popolare che chiedeva l’approvazione di un accordo di pacificazione tra lo Stato di Bogotà e i guerriglieri delle Farc, Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia.

   Erano anni, decenni, che – se si esclude la retorica bolivariana di Caracas, ormai anch’essa asfittica – in America Latina «revolucionario» s’era fatta una parola senza più eco; i processi politici della democrazia si erano rinsaldati, più o meno, dalle sponde del Rio Bravo fino alle terre fredde di Ushuaia, e c’era rimasto solo Fidel ad agitare in aria il pugno chiuso come un qualsiasi giapponese della Storia (mentre, più saggiamente, il fratellino Raúl traversava il fiume del dialogo e stringeva le mani dell’imperialismo yanqui).

   Ma le Farc no, loro continuavano la loro guerra «rivoluzionaria», sepolti dentro l’intrico verde della giungla di San Vicente, e poco contava che la loro «rivoluzione» contadina dovesse foraggiarsi con il traffico della droga, con i sequestri, il riscatto degli ostaggi, la violenza spregiudicata, che sono crimini che poco hanno a che fare con l’alba radiosa di qualsiasi rivoluzione, che tale sia.

   Cinquantadue anni sono lunghi almeno quanto due o tre generazioni, e pur nel passar del tempo la Colombia comunque continuava a tenere sempre dentro la sua geografia antica e gloriosa questa mappa dell’ultima guerra della storia rivoluzionaria sudamericana, una storia cominciata con Bolívar (se non con Montezuma e gli indios ammazzati dai Conquistadores) e proseguita poi con eroi di varia taglia, fino al Che, che ormai è solo una «photo opportunity» sulla grande spianata della Plaza de la Revolución.

    Come si fa, allora? C’entra di tutto, in questo sconcertante voto di domenica 2 ottobre: la lotta politica tra governo e opposizione; il populismo; il legittimo desiderio di giustizia contro l’impunità; il timore di un percorso già tentato e già fallito; i vincoli clandestini e potentissimi dei cartelli della droga; la forza persuasiva delle bande di narcotrafficanti.

   Ha vinto il No per neanche 60 mila voti su 17 milioni di elettori, e ha vinto con una partecipazione che mai era stata tanto bassa, appena il 37,44, un colombiano su tre. Però il valore simbolico di questa decisione ora pesa dannatamente sulla storia della pacificazione; le delegazioni del governo e dei guerriglieri sono ripartite subito per l’Avana (dove di pace si discuteva dal 2012) e hanno assicurato che, però, non cambia nulla, che si continuerà a provare e a riprovare. E il leggendario, si dice così, comandante supremo delle Farc, Timoleón «Timoschenko» Jiménez, ha rassicurato che ormai la sola arma che i suoi guerriglieri useranno «sarà la parola».

   Ma non è vero, non è vero che tutto continuerà come prima. L’ex presidente Alvaro Uribe, che guidava il No, ha avuto finora buon gioco ad agitare il rischio dei guerriglieri che s’impossessano del potere infiltrandosi nel sistema e la giustizia tradita da una sorta di amnistia informale. Il nuovo negoziato deve cominciare da lì, e lo strumento del referendum popolare ha mostrato ancora una volta che nel tempo della comunicazione elettronica, il «like» vale assai più di un voto. (Mimmo Candito)

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CHE ASSURDITÀ, SOTTOPORRE A REFERENDUM POPOLARE UN TRATTATO DI PACE

L’AMACA, di Michele Serra, da “la Repubblica” del 4/10/2016

   Che assurdità, sottoporre a referendum popolare un trattato di pace. Un compromesso faticoso, costruito a tavolino cercando di prescindere dal dolore delle vittime, dal rancore dei superstiti, dalle ferite di guerra ancora palpitanti.

   Il voto popolare, come è normale che sia, è orientato in larga parte da tutto ciò che ostava alla firma del trattato: il dolore delle vittime, il rancore dei superstiti, le ferite di guerra ancora palpitanti. Difatti in Colombia anni di pazienza politica per porre fine alla guerra civile Stato-Farc sono stati distrutti in un giorno dal voto popolare: il “no alla pace” ha prevalso, sia pure di pochi decimali. Così come desiderava il “signore della guerra” per eccellenza, il capo della destra Uribe.

   Il principio di delega in democrazia è tutto o quasi: si elegge qualcuno (possibilmente qualcuno più esperto di noi, più capace di noi) con il compito di rappresentarci. Si chiama “classe dirigente” e nessuna società, di nessun genere, può farne a meno. L’idea che il popolo debba pronunciarsi direttamente, esercitando in proprio la democrazia, esautorando di fatto i propri delegati, non è solamente demagogica. È pre-civile, tanto quanto sarebbe sottoporre a referendum le sentenze dei tribunali, affidando alla folla l’amministrazione della giustizia. Quanti trattati di pace, al mondo, sarebbero stati approvati da un referendum popolare? Ve lo dico io: zero. (Michele Serra)

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COLOMBIA: LO SCRITTORE JUAN G. VÁSQUEZ «HA VINTO LA SUPERSTIZIONE. LA GIUSTIZIA NON È VENDETTA»

(Corriere.it del 4/10/2016)

«Hanno vinto la superstizione e la menzogna». JUAN GABRIEL VÁSQUEZ, lo scrittore colombiano contemporaneo che meglio ha saputo descrivere la violenza e le assurdità della sua terra, commenta amaro il risultato del plebiscito.

Perché il fronte del Sì non ha convinto?

«Si può leggere la vittoria del No come un rifiuto travolgente alle Farc, al dolore e alla sofferenza che hanno causato in tanti anni di guerra. Però sarebbe una semplificazione. Hanno vinto anche la superstizione e la menzogna, perché la campagna del No ha toccato punte inverosimili di disinformazione e di calunnia. Ha sostenuto che il Paese sarebbe diventato come il Venezuela, che gli accordi avrebbero posto fine alla famiglia cattolica. Ovviamente, non era vero. Molti elettori erano convinti che si votava per la fine della proprietà privata (come diceva l’ex presidente Uribe) e che gli accordi concedevano troppi benefici alla guerriglia, anche se erano meno di ciò che Uribe diede alla guerriglia quando ne ebbe l’opportunità. E infine, ha vinto l’arroganza della guerriglia, che fino all’ultimo ha difeso crimini indifendibili come il sequestro e ha rifiutato di riconoscere le sue colpe. Lo ha fatto la settimana scorsa, troppo tardi».

Esistono due Colombie che non si incontreranno mai?

«È molto facile farsi prendere dallo sconforto totale, perché i leader del No hanno giocato a dividere i colombiani, a intimidire e mentire. Credo che sì, ci sia una Colombia dell’intolleranza, del fanatismo e dell’odio. Però ora dobbiamo lavorare per la riconciliazione, perché la democrazia è una trattativa quotidiana: nulla è stato perso in via definitiva».

Cosa manca per una vera riconciliazione?

«Impossibile saperlo. Lo scenario attuale è di totale incertezza».

Come si insegna la cultura della pace a un popolo che ha vissuto 52 anni di guerra?

«Rompendo l’inerzia della guerra, che si auto-alimenta. La guerra non sono solo le Farc: la guerra ha prodotto anche i fenomeni orribili del paramilitarismo di estrema destra e i crimini dello Stato. Questo accordo ci offriva l’opportunità di tagliare questi rami usciti dall’albero della violenza e iniziare di nuovo. La gente non ha voluto. La cosa più triste è che i territori più colpiti dalla violenza hanno votato per il Sì».

Ma può esserci pace senza giustizia?

«Le vittime hanno votato per il Sì a grande maggioranza. E giustizia non significa vendetta. Né carcere. In tutti i processi di questo tipo, nel mondo intero, si è accettata una giustizia ad hoc, una giustizia transitoria».

Ha vinto dunque Uribe?

«Certo: le sue menzogne, le sue calunnie, la sua retorica della paura, l’intolleranza e l’odio»

Che succede ora?

«Difficile saperlo. Il presidente Santos, per ora, ha risposto alla sconfitta come un vero statista: assicurando che manterrà il cessate il fuoco e aprendo le porte a tutti i colombiani invece di chiuderle. E speriamo che le Farc dimostrino con i fatti la loro volontà di pace».

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LA COLOMBIA È IL PAESE DELL’INCERTEZZA STABILE E DURATURA

di HÉCTOR ABAD FACIOLINCE, da  EL PAÍS, Spagna (articolo ripreso dalla rivista INTERNAZIONALE) – 6 ottobre 2016

   È facilissimo essere saggi con il senno del poi. Quando succede qualcosa che nessuno – esperti compresi – si aspettava, allora gli esperti (noi esperti) si lanciano in spiegazioni, seri come giocatori d’azzardo e senza vergognarsi per non averlo previsto. In un mondo globalizzato, quello che prima era definito, con una pomposa espressione hegeliana, zeitgeist, lo spirito del tempo, oggi ha un nome molto più volgare: si chiama trending topic e si usa con un hashtag.

   Il trending topic che si è imposto in occasione del referendum colombiano è bizzarro, un “sì ma no”: #SiALaPazPeroEstaNo (sì alla pace ma non a questa). Yes but no. Il contraddittorio cuore umano capisce queste assurdità della logica formale.

   Ci sono saggi che adesso dicono, per esempio, che il voto colombiano per il no all’accordo di pace è dovuto alla mancanza di istruzione e all’ignoranza di un popolo manipolato dalle menzogne dei nemici della pace. O che hanno votato in pochi a causa dell’uragano.

   In parte è vero. Ma dato che la stessa cosa è successa nel colto Regno Unito con la Brexit, in Germania con la punizione inflitta a Merkel per aver detto cose sensate sui profughi, nei paesi della primavera araba con il voto di maggioranza andato agli estremisti religiosi o negli Stati Uniti con il pericolo dell’elezione di Donald Trump, ho l’impressione che l’“ignoranza” dei colombiani non sia una buona spiegazione.

   In realtà noi colombiani sembriamo un popolo molto in linea con il mondo contemporaneo e globalizzato, con lo stesso trending topic di tutta la Terra: l’insensatezza democratica. Se il nostro problema è l’ignoranza, facciamo parte di una stessa ignoranza globale: di quella del primo mondo, che distrugge l’idea di un’Europa unita e in pace; di quella del secondo mondo, che continua a eleggere un mafioso come Putin; e di quella del terzo mondo, dell’estremo oriente e dell’estremo occidente.

   L’America Latina, non dimentichiamolo, è l’estremo occidente, e ha un animo misterioso e incomprensibile come quello dell’estremo oriente. Misterioso come la cosiddetta cultura del centro: quella dell’Europa occidentale, che oggi pensa al suicidio come a una soluzione.

   In Colombia, come nel resto del mondo, la battaglia democratica si gioca tra una classe politica vecchia e stanca (abbastanza sensata, corrotta come sempre e screditata da decine di anni di critiche feroci da parte di noi “intellettuali”) e un’altra classe politica meno sensata, più corrotta di quella tradizionale, ma piena di slogan e pagliacciate populistiche.

   Il buon senso non porta voti, fa solo sbadigliare. E il timore più grande degli elettori è annoiarsi.

   Il populismo e la demagogia volgare stanno avendo la meglio ovunque. Silvio Berlusconi ha aperto le danze, perché l’Italia è maestra del trending topic e lì tutto è inventato prima che altrove. Poi sono arrivati Hugo Chávez, Vladimir Putin, Álvaro Uribe, Daniel Ortega. Arriveranno anche Donald Trump e Marine Le Pen? Forse. Sono tutti demagoghi perfetti, cleptocrati che denunciano la vecchia cleptocrazia.

   Il popolo preferisce votare loro pur di cambiare. Un salto nel vuoto? Sì. Meglio un salto nel vuoto che la noia del buon senso. Il buon senso non porta voti, fa solo sbadigliare. E il timore più grande degli elettori è annoiarsi. Un popolo incapace di annoiarsi con la buona musica, i libri e la cultura è un popolo disposto a votare per qualsiasi personaggio assurdo pur di divertirsi un po’. Pur di vedere sconfitti, pallidi e con le occhiaie i politici che, dopo anni in televisione e al potere, detesta di più. È una specie di ubriacatura collettiva, di trip allucinogeno, di danza dionisiaca.

   E quindi dobbiamo vedercela con il trending topic dell’insensatezza mondiale. Propongo qualche hashtag che potrebbe fare al caso: #CheVincaIlDemagogo,

#TuttoMenoLaPolitica, #AFavoreDiChiÈContrario. O infine qualcosa di simile: lo zeitgeist. I paesi che l’hanno vissuto cominciano a uscirne, con dei postumi terribili.

   Il Venezuela non vuole più proseguire l’esperimento chavista, e prima o poi verrà fuori da una pazzia che lo ha logorato da un punto di vista economico e morale. L’Italia ha già vissuto la penitenza di quindici anni di Berlusconi, e forse non vorrà rivivere qualcosa di simile con Beppe Grillo. Nel Regno Unito i postumi della Brexit si sono fatti sentire già il giorno dopo, ma ormai il paese non sa come evitare l’incubo votato dalla maggioranza.

   COSA FAREMO IN COLOMBIA? Ci sentiamo come si sentirebbero gli Stati Uniti il giorno dopo il trionfo di Trump: attoniti, sconsolati e ignari di quello che ci aspetta. Ma forse le cose sono più semplici. Non così hegeliane (il pomposo zeitgeist) ma nietzschiane: umane, troppo umane. La fiera delle vanità continua. Se Uribe fosse stato al governo, avrebbe firmato la stessa pace con le Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc), forse senza niente di scritto e con una dose bassissima di verità.

IL FUTURO DELLA PACE A Uribe quello che interessa meno è la verità, perché la verità potrebbe infangare lui e i suoi amici più intimi.  Ma l’accordo sarebbe molto simile. Per far vincere il no ha detto molte bugie a cui non crede neanche lui: che il comunismo avrebbe preso il potere, che sarebbe arrivato il lupo del castrochavismo, che è contrario all’impunità dei terroristi. Macché. Il presidente Juan Manuel Santos e Uribe vogliono la stessa cosa: essere il protagonista dell’accordo, ed evitare che il protagonista dell’accordo sia il loro avversario politico. È una questione umana, troppo umana, di pura vanità. La pace va bene, ma se la firmo io.

   Cambiare l’accordo di pace, secondo la decisione presa dal popolo colombiano che ha votato in maggioranza per il no, è giuridicamente possibile, ma molto difficile da un punto di vista politico. Il presidente Santos dovrà dare a Uribe uno o due posti al tavolo delle trattative all’Avana. I delegati di Uribe dovranno ottenere qualcosa dalle Farc (diciamo due anni di carcere) in cambio di qualcosa che vogliono sia Uribe sia le Farc: un’assemblea costituente.

   Con una nuova costituzione elaborata in accordo con le Farc, Uribe potrebbe aspirare a essere rieletto (una possibilità vietata dalla costituzione attuale), e le Farc potrebbero diventare un nuovo grande partito della sinistra populista (in stile Ortega e Chávez). Sarebbero tutti contenti. Ma ovviamente Santos non vorrà che Uribe gli tolga la scena. Quindi non sappiamo niente e vivremo nella confusione fino a quando non torneremo alle urne per votare un nuovo presidente.

   Il 2 ottobre è finita l’era di Santos, il presidente che si è impegnato con più serietà per la pace ed è riuscito a firmarla, solo per vederla naufragare otto giorni dopo. Governerà per legge e per inerzia fino al 7 agosto 2018. Il processo di pace resterà in un limbo di incertezza giuridica e reale. Ma non importa, la Colombia è il paese in cui tutto è provvisorio, tutto è per adesso, sul momento. Un paese iperattivo e sovreccitato, esperto di droghe stimolanti: caffeina, cocaina, nicotina, alcolici.

   Non sono stati i sondaggi a fallire prevedendo il trionfo del sì; il fatto è che i colombiani hanno risposto dicendo una bugia. Si vergognavano di votare per il no, ma è quello che hanno fatto. Come quelli che si vergognano di dire che voteranno per Trump, ma è quello che faranno. Quelli che come me hanno votato per il sì sognavano “una pace stabile e duratura”. La maggioranza, il no, ha votato per un’incertezza stabile e duratura. In fin dei conti è proprio questo il vero trending topic della Colombia, ora e sempre: #IncertezzaStabileEDuratura. Un po’ come si sentirà il mondo intero se al risveglio il 9 novembre 2016 avrà vinto Trump. Io so cosa si sente: paura, tristezza e disperazione.

(Traduzione di Francesca Rossetti, da INTERNAZIONALE)

Questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano spagnolo El País.

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COLOMBIA

da http://www.mondolatino.it/

   La Colombia si trova nell’estremo nordovest di Sudamerica e ha confini con Panamá, Venezuela, Brasile, Perú ed Ecuador. Ha un’estensione di 1.141.748 km2 ed è il quarto paese più grande dell’America del Sud, dopo il Brasile, Argentina e Perù.

   Ha 2.900 km di costa, dei i quali 1.600 confinano col Mar dei Caraibi e 1.300 con l’Oceano Pacifico. Oltre al territorio continentale la Colombia ha varie isole, tra le quali rileviamo l’arcipelago di San Andrés e Providencia nel Mar dei Caraibi e Gorgona, Gorgonilla e Malpelo nel Pacifico.

OROGRAFIA. In Colombia le Ande si dividono in tre catene da sud a nord – orientale, centrale ed occidentale – che nascono al sud, nel Massiccio Colombiano. Da lì partono anche i due principali fiumi del versante atlantico: il Magdalena ed il Cauca (conosciuto per il suo buon clima e risorse agricole), il primo dei quali separa la cordigliera orientale dalla centrale, ed il secondo, la centrale dall’occidentale. L’insieme andino e le valli di entrambi i fiumi coprono approssimativamente un terzo del territorio colombiano ed è la parte più popolata e migliore sviluppata del paese. Oltre le tre cordigliere, ci sono due catene montuose indipendenti: la Sierra Nevada di Santa Marta ed la Sierra della Macarena; e vari sistemi montuosi minori nell’Alta Guajira, il Chocó e sul confine col Panamá.

   All’Est della cordigliera orientale, la Colombia si prolunga in un’estesa pianura – le pianure Orientali (Llanos Orientales)- attraversata da grandi fiumi che scendono a ventaglio dalle Ande e che fanno parte del bacino dell’Orinoco (Meta, Arauca, Casanare, Vichada, Inírida e Guaviare), fino all’Orinoco stesso che fa da frontiera col Venezuela. Le Pianure si spartiscono in due sezioni: la savana con un buon drenaggio e la savana senza. Si impiegano nell’allevamento estensivo e coltivazioni stagionali.

   Al Sud del Fiume Guaviare incomincia la selva che va in transizione da un primo settore sull’Orinoco, più o meno verso la metà del tragitto orientale della frontiera, fino ad un esteso territorio amazzonico che occupa tutto il terzo Meridionale del territorio. In questo segmento la Colombia confina col Brasile (all’Est), Perú (al Sud) e Ecuador (al Sud-ovest). Questa regione è attraversata da un’altra serie di grandi fiumi: Nero, Vaupés, Apaporis, Caquetá e Putumayo. Abbonda la selva vergine ed abitano tribù principalmente indigene.

   Le Pianure e la Selva sono un pò più della metà della superficie nazionale e una popolazione minore del 5 percento sul totale. Geologicamente i suoli più antichi stanno precisamente in questa zona che fa parte del “Escudo Guyanés”, a partire dal quale si andarono generando le cordigliere, da Est ad ovest.

   La Colombia andina è una zona ancora instabile della crosta terrestre. Le Ande divise in tre catene – la cordigliera Occidentale, Centrale e Orientale – corrono verso nord per scomparire nei Caribi.

   La Cordigliera Occidentale (4.250 m), tagliata a sud dalla gola del Fiume Patía, è separata dalla Cordigliera Centrale, a est, dal Fiume Cauca, che si allarga in vari bacini di diversa ampiezza (Valle del Cauca, larga 25 km e lunga 200 km).

   La Cordigliera Centrale la catena più alta della Colombia. Vi si ergono numerose cime vulcaniche coperte di neve: Nevado de Tolima (5.620 m), Nevado del Ruiz (5.400 m) e Nevado del Huila (5.750 m). A nord l’altitudine diminuisce e la catena termina bruscamente tra i fiumi Cauca e Magdalena.

   Infine, la Cordigliera Orientale è una catena a pieghe, che nella parte settentrionale si trasforma in una serie di altipiani oltre la quota dei 2.500 m.

   Le regioni situate, invece, sul mare delle Antille differiscono sensibilmente dalla regione andina. Nella parte nord orientale si eleva bruscamente la Sierra Nevada de Santa Maria, con la più alta cima della C. (5.775 m, picco Cristoforo Colombo), massiccio triangolare, isolato.

CLIMA. Il clima della Colombia è assai vario. Non ci sono stagioni qui; il clima dipende dell’altitudine, e cosi la costa del Pacifico è per lo più calda e desertica, le pendici delle Ande un’eterna primavera, mentre sulle cime c’è sempre freddo e ghiaccio. Nel nord, lungo la costa caraibica, l’estate dura tutto l’anno.    La media annua di Bogotá è di 14,4°C, quella del mese pia caldo di 14,8°C. Al frazionamento del rilievo e dovuta la varietà dei climi locali, ma l’altitudine è il fattore essenziale per la differenziazione delle principali zone climatiche: le tierras calientes, fino a 900 m; le tierras templadas (terre temperate), fino a quasi 2.000 m; le tierras frias (terre fredde), fino a più di 3.000 m; i paramos, privi di vegetazione arborea, fino a 4.500 m; infine la zona delle nevi perenni, il cui limite inferiore è quasi stazionario durante l’anno.

   BOGOTÁ capitale della Colombia, a 2630 m sul livello del mare, ha una temperatura media giornaliera che varia tra i 18 ed i 20° C.

   Nelle terre alte si coltiva principalmente il caffè (La Colombia è il secondo produttore mondiale). Dal ricco sottosuolo si estrae il 95% della produzione mondiale di smeraldi, cosi come importanti quantità di oro, argento, platino, rame, uranio ed altri minerali. Coi giacimenti scoperti nella Penisola della Guajira, la Colombia possiede le maggiori riserve carbonifere di Iberoamerica.

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REFERENDUM TRAPPOLA PER LE ÉLITE

di Aldo Cazzullo, da “il Corriere della Sera” del 5/10/2016

   Qualsiasi governo che oggi sottopone la propria linea ai cittadini con un referendum si sente rispondere di no. Hanno cominciato gli inglesi, licenziando Cameron e la sua scelta di restare in Europa. Hanno continuato ungheresi e colombiani. Eppure le domande bocciate domenica scorsa potevano sembrare retoriche. Più che referendum, erano plebisciti. «Gli immigrati non li vogliamo, siete d’accordo, vero?». «Pace fatta con i guerriglieri, giusto?». Come si fa a essere contro la pace? Eppure l’insoddisfazione popolare e il rigetto verso i leader sono stati più forti: a Budapest la maggioranza è rimasta a casa, vanificando la prova di forza di Orbán; a Bogotà la maggioranza si è schierata contro.

   Ancora una volta, il fenomeno travalica le categorie storiche di destra e sinistra. In Ungheria la destra è uscita ridimensionata nella sua ambizione di ergersi a regime e ritagliarsi uno spazio al di fuori dalle leggi europee; ma in Colombia la destra ha vinto, denunciando l’accordo con gli ex terroristi come un cedimento all’ondata postcastrista e chavista che ha percorso l’America Latina lasciando disastri dal Venezuela al Brasile. La mancanza di lavoro e le difficoltà economiche aiutano a capire il malcontento, ma non spiegano tutto: mentre il mondo si piegava nella crisi, la Colombia cresceva al ritmo del 4% l’anno. La prevalenza del no ai referendum non è un fenomeno inedito.

   In Italia ad esempio, sino alle grandi vittorie di Segni, gli elettori avevano sempre votato no (in particolare all’abrogazione del divorzio e dell’aborto). Dopo l’esplosione del Maggio 1968, De Gaulle sciolse l’Assemblea nazionale e stravinse le elezioni; ma quando l’anno dopo sottopose ai francesi il suo progetto di riforma costituzionale, all’insegna del regionalismo e della partecipazione, fu sconfitto e si ritirò a vita privata, esprimendo l’intenzione di morire il prima possibile (fu accontentato l’anno dopo). E se è accaduto a un gigante della storia essere rifiutato dal popolo che aveva salvato, figurarsi alle figure ovviamente più modeste che calcano ora la scena mondiale ed europea. Complicata da un altro fattore.

   A Londra, dove il sistema bipolare ha retto — con l’eccezione delle politiche 2010 —, Cameron ha pagato il proprio azzardo con le dimissioni e l’addio alla politica. E in tutto il resto d’Europa i poli ormai sono tre o quattro. Il risultato è evidente: arrivare al 51% in una votazione secca è molto difficile; decisamente più facile per le opposizioni coalizzarsi contro chi comanda, scontrandosi con questioni più grandi di lui. In Francia il presidenzialismo a doppio turno crea una torsione per cui un candidato dal 30% o anche meno prende tutto, e diventa rapidamente impopolare: è accaduto a Sarkozy e a Hollande, domani accadrà forse a Juppé. La Spagna è senza governo da quasi un anno. In Germania la «Grosse Koalition» è di fatto un centrosinistra, con il centro che traballa e la sinistra che affonda. In Italia Renzi ha creduto di rafforzare il sì offrendo la propria testa all’elettorato, e ha ottenuto il risultato contrario.

   Basta leggere il sondaggio di Nando Pagnoncelli per il Corriere: nel merito il sì prevale nettamente, punto per punto, dal Senato al Cnel al titolo V; ma quando si tratta di dare un’indicazione netta, l’istinto popolare tende a orientarsi sul no. La campagna è ancora lunga, gli indecisi sono troppi per fare previsioni serie; ma la vittoria del sì, che non molto tempo fa appariva quasi scontata, si trova a dover rimontare la corrente della storia. (Aldo Cazzullo)

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UNGHERIA, COLOMBIA, SVIZZERA: GLI STRAPPI DEI REFERENDUM

di Massimo Nava, da “il Corriere della Sera” del 4/10/2016

   Si fa presto a esultare per la sconfitta di Viktor Orbán in Ungheria: un referendum anti immigrati naufragato per troppo assenteismo, come le povere vittime nel Mediterraneo, e lo spirito europeo salvo. La notizia contraria arriva 12 ore dopo: i cittadini della Colombia hanno bocciato l’accordo di pace con le Farc, le forze guerrigliere marxiste, che avrebbe chiuso trent’anni di massacri e strisciante guerra civile.

   Troppo rancore, troppi lutti, per cancellare tutto con un trattato. Anche in Colombia, tuttavia, l’assenteismo è stato elevato. Per fortuna della Colombia, le Farc hanno annunciato che non terranno conto del risultato e che si impegnano a perseguire il processo di pace. Al contrario, il messaggio dall’Ungheria resta inquietante per l’Europa e non sarà certo il leader ultranazionalista Viktor Orbán a fare un passo indietro nonostante la sconfitta: «Il 98% dei votanti (!) è con me!».

   Situazioni diversissime per storia e problematiche, che dovrebbero fare riflettere sul senso di consultazioni popolari condizionate dall’astensionismo e influenzate da motivazioni degli elettori che aggirano la materia referendaria per mettere nell’urna anche qualche cosa d’altro: opposizione al governo in carica, contestazione delle élite al potere e fattori emozionali e ideologici raramente accompagnati da una conoscenza approfondita della materia del contendere.

   È stato il caso di Brexit: la maggioranza dei no espressa da una minoranza, vittoriosa grazie all’astensionismo delle classi più giovani, alla voglia di punire il premier Cameron e all’irrazionale paura degli immigrati. L’uscita della Gran Bretagna, voluta soprattutto dalla provincia profonda e anziana e dalle classi popolari, ha conseguenze drammatiche per l’Europa e per la stessa Gran Bretagna.

   A ben vedere, una minoranza di inglesi (non gli scozzesi e nemmeno gli irlandesi!) ha rotto un patto condiviso da 500 milioni di europei che si sono potuti esprimere sulla materia soltanto attraverso i commenti dell’opinione pubblica.

   È anche il caso recente del referendum nel Canton Ticino, che fa passare una proposta contro i lavoratori italiani senza tenere in alcun conto la realtà dei rapporti economici e del mondo del lavoro transfrontaliero: un voto che colpisce gli italiani, ma danneggia soprattutto i ticinesi.

   E potrebbe essere il caso del referendum sulle riforme costituzionali in Italia: in questo senso vanno letti gli ultimi interventi di Napolitano e di Renzi, tesi a sgomberare il campo da condizionamenti politici per riportare gli elettori alla materia del contendere. Ma è del tutto evidente che il fronte del «no» vota in opposizione a Renzi e al governo, con un minimo interesse all’abolizione del Senato e senza tenere conto delle conseguenze sul medio e lungo periodo.

   È stato così anche in passato, per le consultazioni sul trattato costituzionale europeo. I francesi non votarono sul progetto di Costituzione, ma contro il presidente in carica Chirac che volle la consultazione. Olandesi e danesi fecero altrettanto, di fatto dando il primo colpo al processo federativo continentale. A ben vedere, il trattato di Lisbona fu un successivo rimedio al disastro, un rimedio inventato dai capi di Stato e di governo.

   Riflettere sul senso dello strumento referendario significa riflettere sul senso della democrazia diretta, mitizzata, a volte a sproposito, rispetto alla vituperata democrazia rappresentativa. Il referendum, di fatto, riduce o conferma la legittimità del governo che lo ha indetto, ma limita e sottrae la responsabilità di decidere, di scegliere, di guidare una comunità, grazie anche a competenze, conoscenza dei problemi, lungimiranza politica, qualità e titoli che non appartengono necessariamente al comune cittadino.

   Altra cosa è una consultazione popolare su questioni etiche, quali il divorzio o l’aborto. Nella crisi attuale dei partiti e delle classi dirigenti — in parte sorprese, ma in parte complici dell’onda lunga del populismo — l’arma del referendum colma probabilmente un vuoto di democrazia e di partecipazione ed è la risposta più semplicistica alla diffidenza verso la politica che non decide e che tradisce il mandato popolare.

   Ma il referendum consegna il destino di un Paese (o di un sistema di Paesi) alla volontà di una minoranza strumentalizzabile, che spesso traduce in un voto una narrazione emozionale/ideologica che non sempre rispecchia il quesito tecnico o la valutazione delle conseguenze. (Massimo Nava)

Una risposta a "LA COLOMBIA e IL PLEBISCITO CONTRO LA PACE – Il popolo non vuole la pace con i terroristi delle FARC (Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia), che lì da 50 anni controllano il mercato della coca – Il disinteresse attuale, nella geopolitica mondiale (specie europea), di quel che accade in America Latina"

  1. Giuliano Mazzucato mercoledì 2 novembre 2016 / 17:02

    E allora che continuino ad uccidersi …..tanto ciò farà contenti militari, grandi proprietari, ricconi del narcotraffico e le loro truppe mercenarie. Se questa è l’alternativa….benvenuta

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