L’ASIA ESISTE: continente “nuovo”, che si affaccia all’Europa ora in modo ufficiale – LA VIA DELLA SETA (YI DAI YI LU, UNA CINTURA UNA STRADA) come nuove e/o rinnovate infrastrutture proposte dalla CINA per gli scambi nei rapporti commerciali – CHE FARE? Accettare la proposta cinese o rifiutare il confronto?

La mappa della Via della Seta (da http://www.lastampa.it/) – La VIA DELLA SETA È MIGLIAIA DI ANNI PIÙ VECCHIA DI QUANTO SI PENSI e potrebbe essere stata percorsa già nel 3000 a. C. dai PASTORI NOMADI CON LE LORO GREGGI, che attraversavano le MONTAGNE DELL’ASIA CENTRALE. Non c’è certezza sulle sue origini. Con un accurato lavoro di confronto delle immagini satellitari e attraverso un algoritmo informatico complesso, un PROFESSORE DI ANTROPOLOGIA dell’Università di Washington, MICHAEL FRANCHETTI, HA RICOSTRUITO VIRTUALMENTE LA ROTTA COMMERCIALE PIÙ FAMOSA DEL MONDO, che unisce il Mediterraneo e la Cina. LA RICERCA È STATA PUBBLICATA SULLA RIVISTA NATURE, con un’anticipazione del quotidiano londinese TIMES. «Le posizioni delle città antiche, I santuari e le fermate dei caravan hanno a lungo illustrato i punti chiave di interazione lungo questa vasta rete, ma gli itinerari non si sono mai conosciuti». I PERCORSI DETTAGLIATI, utilizzati per millenni da mercanti, monaci e pellegrini per navigare e interagire attraverso gli altipiani dell’Asia interiore, NON SONO MAI STATI CHIARI. In più, scavare in vaste aree di territorio dal terreno inospitale o politicamente instabile come l’Afghanistan, non è possibile. IL TEAM HA UTILIZZATO FOTOGRAFIE E MODELLI VIRTUALI, PER TRACCIARE I PERCORSI DEI NOMADI PASTORI. L’ALGORITMO scelto è quello utilizzato per misurare QUANTO L’ACQUA SCORRE NEI TERRITORI CHE ATTRAVERSAVA e in qualche caso attraversa ancora. Il gruppo ha, poi, incrociato alcuni dati satellitari, per INTERCETTARE SU QUALI AREE CI FOSSERO I PASCOLI PIÙ VERDI. (LETIZIA TORTELLO, da http://www.lastampa.It/)

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La Via della Seta marittima verso il centro Europa passa per Trieste (immagine da http://www.ilpais.it/) – LA NUOVA VIA DELLA SETA PASSERÀ PER L’ITALIA? – Cos’è la “Belt and Road Initiative” e perché il documento che sta per firmare il governo preoccupa Stati Uniti e Unione Europea – La notizia delle intenzioni del governo italiano di firmare un DOCUMENTO D’INTESA con la Cina riguardo alla “BELT AND ROAD INITIATIVE” è finita anche sui giornali internazionali: l’Italia potrebbe infatti diventare il PRIMO PAESE DEL G7 A PRENDERE ACCORDI per quello che sarà il più grande e ambizioso piano di infrastrutture della storia recente dell’umanità. Ma l’Unione Europea e soprattutto gli Stati Uniti guardano con preoccupazione ai progetti espansionistici della cosiddetta “NUOVA VIA DELLA SETA”, che insieme a centinaia di miliardi di dollari stanno portando in mezzo mondo anche l’INFLUENZA CINESE e l’IDEA di un NUOVO ORDINE MONDIALE CONTRAPPOSTO A QUELLO AMERICANO. I PARERI CRITICI (E PREOCCUPATI) NON SONO POCHI (li troverai in alcuni articoli ripresi in questo POST)

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   L’Italia si prepara a diventare il primo Paese del G7 a sostenere formalmente la BELT AND ROAD INITIATIVE, nota come “NUOVA VIA DELLA SETA”: un grande progetto infrastrutturale che comprende PORTI, LINEE FERROVIARIE, STRADE e CORRIDOI MARITTIMI con cui il presidente cinese Xi Jinping punta a connettere la Cina a Europa e Africa.
Molte sono le perplessità e i dubbi ad avere un maggiore rapporto di interscambio con la Cina, specie con infrastrutture che loro stessi (i cinesi) potranno condividere, controllare, “esserci” nella quotidianità degli interscambi nel territorio italiano. Nell’esporre in questo post questi dubbi e perplessità, noi qui vogliamo esprimere UN PARERE FAVOREVOLE CHIARO SIN DALL’INIZIO A QUESTO NUOVO RAPPORTO PIÙ STRETTO CON L’ECONOMIA E IL MONDO ASIATICO, DELLA CINA (MA NON SOLO).

IL PORTO DI TRIESTE E’ IN POSIZIONE PRIVILEGIATA PER “LA VIA DELLA SETA” VERSO IL CENTRO EUROPA

   E che questa possibilità che si crea adesso (con questo Governo) è stata peraltro perseguita coerentemente con i governi precedenti (di forze ora all’opposizione): l’allora premier Gentiloni, nel maggio 2017, al BELT AND ROAD FORUM FOR INTERNATIONAL COOPERATION a PECHINO, si era premurato di sottolineare la posizione privilegiata dell’Italia nel cuore del Mediterraneo nonché il potenziale del Paese sul fronte dei porti e della logistica. E in occasione di quel forum Gentiloni parlò anche della necessità della costruzione di una «VIA DELLA SETA DELLA CONOSCENZA», puntando l’attenzione sui proficui scambi scientifici e culturali che – accanto agli importanti contatti commerciali – fanno parte da secoli dell’interazione tra Italia e Cina. Pertanto nel mondo politico, di adesso e di prima, vi può essere una maggioranza trasversale disponibile a rapportarsi in modo positivo al mondo asiatico che sta crescendo, alla Cina.

Cos’è il MEMORANDUM OF UNDERSTANDING (MoU) e perché l’imminente firma da parte dell’Italia crea tanto scompiglio? Si tratta di un DOCUMENTO DI INTESA (non un contratto, né un trattato, né un accordo) SUGLI AMBITI DELLA COOPERAZIONE BILATERALE nei settori dei TRASPORTI, INFRASTRUTTURE, LOGISTICA, AMBIENTE e FINANZA. Non ci sono obiettivi né contenuti precisi, ma espressioni vaghe, per esempio su un avanzamento delle relazioni politiche tra i due paesi firmatari. Come tutti gli altri MoU firmati dalla Cina, gli AMBITI DI COOPERAZIONE sono gli stessi CINQUE che costituiscono i risultati ufficiali previsti per la Bri: 1-COORDINAMENTO DELLE POLITICHE, 2-CONNETTIVITÀ E INFRASTRUTTURE, 3-LIBERO SCAMBIO, 4-INTEGRAZIONE FINANZIARIA e 5-SCAMBI CULTURALI. (da http://www.trend-online.com/)

   Perché riteniamo sia nella tradizione italiana (dall’antichità romana, alle repubbliche marinare, ai miti dell’arte e dei paesaggi artistici italiani conosciuti nel mondo, all’emigrazione otto-novecentesca degli italiano in tutto il mondo) del non temere il rapporto di interscambio e conoscenza con chi è e viene da lontano; e poi nella mai passata, nell’immaginario collettivo, figura di Marco Polo, che (lui) rende partecipe delle sue avventure in Cina (e di quel mondo sconosciuto) il compagno di prigionia Rustichello da Pisa che le trascrisse poi in un’opera divenuta famosa come “Il Milione”. Ma anche la presenza in Cina del missionario Matteo Ricci (che ora il papa vuole riconoscere la sua opera di evangelizzazione in Oriente) dimostrano che vi è una tradizione italica di apertura al mondo che va valorizzata nei suoi aspetti positivi.
OK, abbiamo forse esagerato nel richiamare Marco Polo e Matteo Ricci, ma la leggendaria (ma non tanto) “Via della Seta” di cui si parla oggi (rivista in chiave moderna con infrastrutture innovative nei porti, nelle strade marittime, nelle tecnologie più futuristiche), quella “via della seta” viene ora richiamata come base del nuovo rapporto con i cinesi.

5G da http://www.ilmessaggero.it/ – Il “5G”, cioè le RETI MOBILI DI QUINTA GENERAZIONE, faranno fare un balzo alla velocità di connessione non solo degli SMARTPHONE ma anche dei DISPOSITIVI DELLA CASA CONNESSA, AUTO, SMART CITY, DRONI, IMPIANTI PRODUTTIVI. È lo standard del futuro e guiderà l’evoluzione di Internet. Leader del mercato sono HUAWEI, NOKIA ed ERICSSON, ma l’azienda cinese vale da sola il 30% del mercato. E DONALD TRUMP ha lanciato l’allarme, facendo pressione sugli alleati, perché teme che il 5G sia il cavallo di Troia di Pechino per spiare tanti paesi. IL 5G È CONSIDERATO IL NUOVO WEB PERCHÉ È LA RETE CANDIDATA A GESTIRE IL COSIDDETTO INTERNET DELLE COSE.

   E già da decenni industrie manifatturiere italiane hanno stabilito rapporti in Cina, sempre per condizioni fiscali favorevoli e manodopera con regole poco garantiste e a bassissimo prezzo. Ma ora forse è venuto il momento di pensare a un rapporto diverso, paritario. La parola “paritario” è evocata molto adesso. Perché secondo gli americani, che guardano con ostilità all’espansionismo economico cinese, la “Belt and Road Initiative” è una “debt trap”: cioè una trappola del debito. In altre parole, molti dei 153 Paesi che hanno finora aderito al programma di investimenti cinese, in particolare i più poveri di Africa e Asia, hanno finito per trovarsi indebitati fortemente con Pechino. Ricambiando i creditori cinesi con la proprietà di porti (il Pireo in Grecia, ad esempio), altre infrastrutture strategiche, e ogni ricchezza patrimoniale vendibile. E chi possiede il debito di un Paese ne controlla in larga misura anche la sovranità.

silk-road, da Il Fatto Quotidiano – BELT AND ROAD INITIATIVE (BRI), nuova VIA DELLA SETA, ma il suo vero nome è YI DAI YI LU (UNA CINTURA UNA STRADA), il grande progetto geopolitico e commerciale del leader cinese XI JINPING per rilanciare la globalizzazione.

   Quest’ultima cosa è il rischio che paventano gli USA di Trump (preoccupati di questa rafforzata presenza cinese in Italia, testa di ponte per gli altri Paesi europei…), ma anche l’UNIONE EUROPEA che, pur avendo la competenza sulle politiche commerciali dei Paesi aderenti, lascia libertà di commercio ed accordi con altri Paesi ai singoli Stati, pur che si rispettino le regole e i parametri della Unione Europea. Ma, è ovvio che non vi può essere nessuna autonoma presa di posizione italiana senza un beneplacito da Bruxelles. Commissione europea che ha subito detto che nel rapporto con la Cina ci vuole piena unità nell’Unione.

il leader cinese Xi Jinping

   Il fatto è che finora il rapporto con la Cina e il mondo asiatico ha visto gli altri Paesi europei andare in modo autonomo (tutti alla rincorsa delle opportunità offerte sia dal mercato cinese). Pertanto un’azione “italiana” deve sicuramente essere più corretta ed esplicitata nel contesto dell’Unione Europea, nella trasparenza e parità di condizioni per commercio e investimenti basati sulle regole del mercato e sulle norme internazionali.

   Ma lo stesso è da ritenere che un “moderato strappo” di un Paese importante (come è e resta l’Italia), può essere un’iniziativa che non fa solo bene alla penisola italica (in termini di rilancio dei commerci e delle attività connesse), ma anche all’Europa, ai Paesi del Mediterraneo (ai rapporti con l’Africa del nord in primis). Oltreché può far bene alla Cina stessa, che pur presente dappertutto, mantiene un isolazionismo sociale (politico, culturale, di democrazia interna mancante nei diritti del singolo cittadino), che dovrà superare se un rapporto paritario e chiaro può avere con un’Europa attenta alle regole dei diritti umani; e che a sua volta (l’Europa) ha bisogno di superare una fase storica di decadenza nei suoi progetti presenti e futuri per arrivare ad essere convintamente una federazione di “Stati Uniti d’Europa” punto di riferimento nel mondo per la pace e per lo sviluppo di tutti. (s.m.)

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IL SECOLO ASIATICO (ultimo libro di PARAG KHANNA, marzo 2019, Fazi Editore, pagg. 528, euro 25,00) – “CHE COSA INTENDE PER ASIA? «C’è solo una definizione corretta: QUEL TERRITORIO CHE VA DAL MEDITERRANEO E DAL MAR ROSSO AL MAR DEL GIAPPONE. Non solo quello che di solito viene chiamato Estremo Oriente. È arrivato il tempo di riconoscere questa entità nella sua interezza» (Danilo Taino, intervista a PARAG KHANNA, da “LA LETTURA” de “Il Corriere della Sera” del 3/2/2019) 

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One Belt Map Final, da http://www.analisidifesa.it/

(SCHEDE E ALTRI APPUNTI SULL’ARGOMENTO)
– ….”FAR COLLABORARE LE IMPRESE ITALIANE AI GRANDI CANTIERI per infrastrutture che stanno sorgendo sui canali della Via della Seta, dall’Asia al Medio Oriente, all’Africa: investimenti per 900 miliardi di dollari”, dice Xi Jinping, leader cinese. E SI PARLA MOLTO DEI NOSTRI PORTI DELL’ALTO ADRIATICO, TRIESTE SOPRATTUTTO, come approdo della rotta marina verso l’Europa. 67 PAESI HANNO GIÀ SOTTOSCRITTO LA «BELT AND ROAD INITIATIVE», TRA GLI EUROPEI SOLO GOVERNI «PERIFERICI», COME GRECIA, PORTOGALLO E UNGHERIA. L’Italia sarebbe il primo Paese del G7 a salire sul treno della Via della Seta.
– PERTANTO L’ITALIA È INTERESSATA E “DEVE CONCENTRARSI” (se è interesse, se vale la pena) sui due punti strategici che dovrebbero essere il rapporto fondamentale con la Cina: e cioè 1-il nodo dei PORTI (in particolare Trieste e Genova) e 2-quello del 5G (la nuova tecnologia digitale che connetterà non solo le persone, ma anche le cose -come gli elettrodomestici, le reti informative, la robotica di tutti i generi- a Internet, e che gli americani temono maggiormente perché la considerano il cavallo di Troia di Pechino per spiare tanti paesi occidentali, ma anche per il rischio di perdere il loro monopolio in questo campo tecnologico).
– IL GOVERNO ITALIANO NON È IL SOLO nella Ue a guardare verso Pechino e a voler fare affari con il colosso asiatico. Dalla Gran Bretagna alla Germania sono stati finora assai presenti negli “affari” con la Cina, con la disponibilità del governo comunista con loro di investire per aprirsi nuove vie commerciali verso l’Europa.
– PERCHÉ LA FIRMA ITALIANA SAREBBE DIVERSA da quella degli altri tredici paesi europei che hanno già siglato il Memorandum? E’ diversa forse perché l’Italia e fondatrice dell’Unione e tuttora tra i pilastri dell’Europa unita, nonché membro fondatore della Nato; l’Italia sarebbe il primo paese del G7 a firmare un documento d’intesa con Pechino. Finora nessuno tra i grandi Paesi europei ha mai accettato di sottoscrivere un’adesione formale alla Belt and Road Initiative lanciata dal presidente Xi Jinping.
– LA POSSIBILE FIRMA DI UN MEMORANDUM OF UNDERSTANDING (MoU) tra Cina e Italia in relazione a una nostra adesione alla BRI (Belt & Road Initiative, da noi più conosciuta come Nuova Via della Seta) ha scatenato reazioni non positive da parte dell’UE e reazioni quasi isteriche da parte USA. Aldilà del giudizio positivo o negativo sui contenuti del MoU, se le critiche da Bruxelles (in un’ottica UE) appaiono giustificate (il che non significa che debbano farci desistere ove si fosse convinti di vantaggi “reali” e duraturi per l’Italia), quelle di Washington appaiono decisamente arbitrarie.
– In conseguenza del GRANDE SVILUPPO ASIATICO IL COMMERCIO VERSO EST STA ADDIRITTURA SUPERANDO IL TRAFFICO DELL’ATLANTICO. In questo campo non esiste una politica europea ma una concorrenza fra Paesi europei. Fino ad ora la parte del leone è stata giocata da ROTTERDAM e dai PORTI DEL NORD-EUROPA,
– IL CONGIUNGIMENTO PIÙ EFFICACE FRA L’ASIA E L’EUROPA FA CAPO ALL’ALTO ADRIATICO E ALL’ALTO TIRRENO, che sono a due passi dai grandi mercati dell’Unione. Finora nulla è accaduto rispetto ai meno funzionali ma totalmente protagonisti porti del Nord Europa (perché?).
– L’ACQUISTO DI INFRASTRUTTURE (come le RETI ELETTRICHE, o grandi industrie come la PIRELLI, o adesso pure la futuribile partecipazione nei PORTI ITALIANI) da parte cinese non possono “portare via” la rete elettrica, o la fabbrica, o il porto… non ha e non avrebbe senso, e non è materialmente possibile…diversa è la possibilità di acquisire il Know how, la conoscenza, per lo sviluppo interno cinese; ma questo accadrebbe comunque, e non si vede nulla di male dell’utilizzo del sapere tecnologico italiano ed europeo a vantaggio della popolazione cinese.
– Le imprese americane ed europee hanno, fino a un recente passato, moltiplicato i loro investimenti in CINA e hanno aperto le porte agli investimenti cinesi (di quelle europee in particolare la GERMANIA e l’OLANDA, che hanno un attivo molto forte nella loro bilancia commerciale con la Cina); l’ITALIA sopporta invece un pesante passivo della propria bilancia commerciale, cioè ha attualmente un pesante passivo nell’export con la Cina. Niente di male a “rivedere” questo rapporto ora in disavanzo. (s.m.)
– VEDI QUI SOTTO LA BOZZA DEL MEMORANDUM OF UNDERSTANDING (MoU) alla firma tra Italia e Cina dell’incontro in Italia con il leader cinese Xi Jinping:

bozza MEMORANDUM Italia-Cina

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NUOVA VIA DELLA SETA, L’ITALIA AL CENTRO

di Vincenzo Piglionica, 12/3/2019, da TRECANI

(www.treccani.it/magazine/atlante/geopolitica/ )
«L’Italia è una delle principali economie mondiali e un’importante destinazione per gli investimenti. Sostenere la Belt and road initiative offre legittimità all’approccio predatorio cinese agli investimenti e non apporterà alcun beneficio ai cittadini italiani». Le dure parole twittate dall’account del National security council della Casa Bianca lanciano un segnale inequivocabile a Roma: il supporto formale dell’esecutivo alle Nuove Vie della Seta cinesi non incontrerebbe il favore di Washington, contraria a un’iniziativa che interpreta come esclusivamente finalizzata alla tutela degli interessi di Pechino.    Le tensioni legate al mastodontico progetto infrastrutturale, commerciale e geopolitico cinese, alla sua proiezione verso Occidente e alle possibili reazioni degli Stati Uniti, sono tornate di scottante attualità nel corso dell’ultima settimana, quando il sottosegretario allo Sviluppo economico Michele Geraci – nel corso di un’intervista pubblicata il 6 marzo sul Financial Times – ha dichiarato che l’Italia è pronta a firmare un MEMORANDUM OF UNDERSTANDING a supporto della Belt and Road Initiative (BRI).
Da una parte – ha puntualizzato il sottosegretario – i negoziati non potevano considerarsi conclusi, ma dall’altra rimaneva l’intenzione di chiudere le trattative in tempo per la VISITA IN ITALIA DEL PRESIDENTE CINESE XI JINPING TRA IL 21 E IL 24 MARZO, così da siglare l’intesa in quell’occasione. Quanto alle finalità della cooperazione italo-cinese, Geraci ha ricondotto l’interesse italiano verso le Nuove Vie della Seta a una dimensione prettamente economica: dunque, nessuna implicazione geopolitica, ma soltanto l’obiettivo di creare le condizioni affinché il made in italy possa avere maggiore successo in Cina e radicarsi più facilmente in un mercato di crescente importanza.
Le rassicurazioni così formulate – unite alla considerazione che il MEMORANDUM OF UNDERSTANDING non è uno strumento giuridico vincolante – non sembrano tuttavia aver convinto Washington, che attraverso il portavoce del NATIONAL SECURITY COUNCIL, GARRETT MARQUIS ha fatto immediatamente arrivare la sua replica dalle colonne dello stesso FINANCIAL TIMES. La BRI – questa è la posizione degli Stati Uniti – rimane un progetto pensato dalla Cina per la Cina, senza che alle controparti siano assicurati adeguati benefici; se poi c’è da credere che nell’immediato l’Italia non godrà dei benefici auspicati dall’intesa, nel lungo periodo la reputazione internazionale del Paese potrebbe risultare danneggiata. La posizione statunitense è dunque chiara: gli alleati non devono cedere al fascino della diplomazia cinese delle infrastrutture, ma al contrario sono chiamati a esercitare pressioni su Pechino affinché i suoi investimenti all’estero siano in linea con le migliori pratiche e gli standard internazionali.
Le parole del sottosegretario Geraci hanno poi trovato conferma nelle dichiarazioni del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che ha definito le Nuove Vie della Seta «un importante progetto di connettività infrastrutturale» e sottolineato come esse possano rappresentare – pur con tutte le cautele necessarie – «un’opportunità per il nostro Paese». Pur ribadendo poi che l’imminente incontro con Xi Jinping rappresenterà l’occasione per procedere alla firma del Memorandum, il primo ministro ha comunque voluto rassicurare gli scettici, evidenziando come l’accordo quadro non implichi alcun vincolo, ma consenta all’Italia di «entrare e dialogare» circa le potenzialità del progetto. Conte ha quindi reso nota la sua disponibilità a prendere parte al summit sulla Belt and Road Initiative in programma a Pechino per il mese di aprile.
L’interesse di Roma verso le Nuove Vie della Seta non può considerarsi una novità riconducibile esclusivamente all’azione di questo governo: da tempo, infatti, l’Italia è spettatrice attenta alle evoluzioni dell’iniziativa, per via di una collocazione geopolitica strategica che le consentirebbe – grazie ai suoi porti – di fungere da punto di raccordo tra la rotta marittima e quella terrestre del progetto. La disponibilità di Conte a recarsi a Pechino per il vertice di aprile, così come il viaggio in Cina del ministro dello Sviluppo economico Luigi Di Maio lo scorso settembre, possono dunque essere letti nella prospettiva di una certa continuità con l’operato dell’esecutivo Gentiloni, che da primo ministro aveva partecipato nel maggio del 2017 al Belt and road forum for international cooperation e si era premurato di sottolineare la posizione privilegiata dell’Italia nel cuore del Mediterraneo nonché il potenziale del Paese sul fronte dei porti e della logistica. Proprio in occasione del forum, Gentiloni ebbe inoltre modo di sottolineare come fosse necessario pensare alla costruzione di una «VIA DELLA SETA DELLA CONOSCENZA», puntando l’attenzione sui proficui scambi scientifici e culturali che – accanto agli importanti contatti commerciali – fanno parte da secoli dell’interazione tra Italia e Cina.
MARCO POLO (www.treccani.it/enciclopedia/marco-polo ) e MATTEO RICCI (www.treccani.it/enciclopedia/matteo-ricci) sono a tal riguardo figure emblematiche, così come lo è il sacerdote secolare e missionario MATTEO RIPA (www.treccani.it/enciclopedia/matteo-ripa) che tra il 1711 e il 1723 lavorò alla corte dell’imperatore mancese Kangxi e, tornato a NAPOLI con quattro giovani cinesi e un maestro di lingua e scrittura mandarine, fondò nella città partenopea il COLLEGIO DEI CINESI, primo nucleo da cui sarebbe poi nata – come si legge sul sito dell’Ateneo – l’Università degli Studi di Napoli ‘L’Orientale’.
Se però da una parte lo sguardo italiano verso Oriente non è una novità, dall’altra l’annuncio dell’imminente firma del Memorandum non lascia tranquilli gli Stati Uniti, al di là delle rassicurazioni circa la natura non vincolante del documento e sul suo valore come iniziale piattaforma di cooperazione.
Secondo quanto riportato dal sito EURACTIV – che avrebbe avuto accesso al testo del Memorandum – l’accordo prevede un impegno comune di Italia e Cina nella promozione di sinergie e nel rafforzamento di reciproci comunicazione e coordinamento, oltre alla prospettiva di un consolidamento del dialogo politico sugli standard tecnici e di regolamentazione. Il documento definisce inoltre la cornice entro la quale collocare forme di cooperazione più specifiche e accordi commerciali meno rilevanti, compresi alcuni investimenti di società cinesi nel porto di Trieste.
L’Italia non sarebbe il primo Paese dell’Unione Europea a siglare il Memorandum of understanding con Pechino sulla BRI, ma sarebbe il primo del club del GT, diventando così la maggiore economia a supportare il progetto. Ed è questa – ha osservato il direttore del Reconnecting Asia Project presso il Center for strategic and international studies JONATHAN HILLMAN – una novità non di poco conto, perché le realtà che hanno finora aderito all’iniziativa di Pechino presentano dimensioni economiche decisamente minori rispetto a quelle dell’Italia, e vedono nella mano tesa cinese una straordinaria occasione per dare corpo a progetti infrastrutturali che sarebbe difficile finanziare in altro modo.
Per Roma però il discorso appare diverso ed è per questo che la firma del Memorandum con l’Italia avrebbe per Xi Jinping un significato particolare e di forte rilevanza innanzitutto politica: grazie all’accordo, infatti, Pechino potrebbe fregiarsi non solo del supporto di una delle più importanti economie dell’Occidente – ottenendo quindi una legittimazione di grande peso per il suo progetto –, ma anche di una realtà collocata in una posizione strategicamente rilevante, nel cuore dell’alleanza NATO e dell’Europa, spazi sui quali gli Stati Uniti esercitano un’influenza alla quale non intendono rinunciare. Di qui l’irritazione di Washington, che sa bene come accanto alla dimensione geoeconomica della BRI risieda una importantissima dimensione geopolitica, con Pechino impegnata ad ampliare il proprio raggio d’azione e a farsi valere come potenza globale.
Per l’Italia – ha osservato sul FINANCIAL TIMES James Kynge – le Nuove Vie della Seta rappresentano un’occasione per attrarre risorse in un momento economicamente complesso. Inoltre, il favore italiano verso la Belt and Road Initiative potrebbe convincere Pechino ad allentare i suoi controlli sugli investimenti delle compagnie cinesi all’estero e a mostrarsi più generosa verso Roma.
Non è però un mistero che Washington – ancora impegnata in una guerra commerciale con la Cina – guardi con particolare diffidenza al dinamismo di Pechino e ai suoi investimenti, per le loro implicazioni geopolitiche e strategiche. In tal senso, esemplificativa è L’OSTILITÀ STATUNITENSE ALL’ESPANSIONE DI HUAWEI e ZTE, con Washington a esercitare pressioni sugli alleati affinché ESCLUDANO DALLO SVILUPPO DELLE TECNOLOGIE 5G le infrastrutture offerte dai colossi cinesi, per ragioni di sicurezza nazionale. Il sospetto americano è che quelle tecnologie possano infatti essere utilizzate per operazioni di spionaggio e per controllare cittadini e aziende: un ulteriore capitolo della rivalità sino-statunitense da cui l’Italia non è esclusa.
Dunque, il confronto tra Washington e Pechino si accende, e l’Italia pare essere al centro della partita. Le Nuove Vie della Seta rappresentano un progetto a cui Roma non sembra voler rinunciare, convinta che le occasioni di cooperazione e investimento – anche oltre l’ambito infrastrutturale – siano in linea con l’obiettivo di tutela dell’interesse nazionale, un principio a cui peraltro i partner occidentali hanno non di rado accordato la preferenza anche a costo di far scricchiolare equilibri e alleanze esistenti.
Fonti di Palazzo Chigi fanno sapere che alla difesa degli interessi nazionali sarà dedicata la massima attenzione, con la protezione delle infrastrutture strategiche – incluse quelle delle telecomunicazioni – e la piena garanzia della sicurezza cibernetica. Con la precisazione che il quadro dei rapporti politici e la collocazione euro-atlantica dell’Italia non saranno ridefiniti da una collaborazione che Roma intende declinare su un piano economico-commerciale. (Vincenzo Piglionica)

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ITALIA-CINA: QUEL MEMORANDUM È UN PASTICCIO

di Alessia Amighini, da LA VOCE.INFO del 15/3/2019, https://www.lavoce.info/
Perché tante polemiche sul Memorandum of Understanding tra Italia e Cina? La firma di un paese fondatore della Nato e dell’Unione europea è un successo per la politica estera cinese. Per il nostro paese sono chiari i costi politici, meno i benefici.
GOVERNO IN CONFUSIONE
A meno di dieci giorni dalla firma annunciata – e confermata – di un Memorandum of Understanding (MoU) tra Italia e Cina sulla Belt and Road Initiative, che avverrà nel corso della PRIMA VISITA DEL PRESIDENTE CINESE XI JINPING A ROMA il 21 marzo, l’unica certezza è che la confusione regna sovrana, ovunque e a ogni livello. A cominciare dallo stesso governo e delle sue due anime: la Lega, nelle parole di Matteo Salvini, si dichiara scettica, nonostante il vero deus ex machina dell’operazione sia un suo esponente, il sottosegretario allo Sviluppo economico Michele Geraci, che risponde però a Luigi Di Maio, leader del M5s, molto meno sensibile alle esigenze della componente produttiva e lavorativa del paese.
Sulla divergenza interna si innesta un conflitto di competenze a livello ministeriale e istituzionale, dal momento che il MoU presenta evidentemente tutte le caratteristiche e la natura di un documento di politica estera, sebbene con un formato insolito per una democrazia occidentale, e pertanto la Farnesina ne ha rivendicato la competenza rispetto al ministero dello Sviluppo economico.
La confusione è stata accompagnata, e in parte causata, da una voluta DISINFORMAZIONE SULLA NATURA E SUI CONTENUTI DELL’ACCORDO. Fino al 12 marzo, non si conosceva neanche una bozza dell’accordo, così vari esponenti del governo hanno potuto millantare per giorni che il Memorandum non fosse altro che un accordo economico e commerciale, per aumentare l’export italiano in Cina e gli investimenti cinesi in Italia, “DIMENTICANDO” PERALTRO CHE LA POLITICA COMMERCIALE È COMPETENZA DELL’UE E NON DEGLI STATI MEMBRI. Dopo la pubblicazione della bozza sul Corriere della Sera, Geraci ha infatti prontamente smentito quanto aveva detto sino ad allora, non potendo più nascondere la mancanza di competenza istituzionale del suo ministero.
Da quando circola la bozza, però, la confusione è aumentata ancor di più. Al di là dell’aura apparentemente romantica di quella che i cinesi abilmente chiamano “INIZIATIVA”, che ha un nome ufficiale – BELT AND ROAD INITIATIVE – ma che in Italia viene continuamente chiamata “NUOVA VIA DELLA SETA”, come a volerne sottolineare l’aspetto intrinsecamente benefico, la Bri è in realtà un progetto di sviluppo interno e internazionale con importanti connotazioni strategiche. Il 24 ottobre 2017 il perseguimento della Bri è stato inserito nella Costituzione cinese, che coincide con la Costituzione del Partito comunista cinese. È dunque oggi UN OBIETTIVO STRATEGICO DI STATO, non una mera iniziativa economica e commerciale. INCLUDE L’OBIETTIVO DI MIGLIORARE LA CONNETTIVITÀ TRA CINA ED EUROPA, attraverso reti di trasporto e logistica, ma accanto a obiettivi molto più estesi e strategici, come INTEGRAZIONE FINANZIARIA, COOPERAZIONE NELLE INFRASTRUTTURE (non solo di trasporto ma anche energetiche), LIBERO SCAMBIO, SCAMBI CULTURALI E DI PERSONE.
I CONTENUTI DELL’ACCORDO
Cos’è il MEMORANDUM OF UNDERSTANDING e perché l’imminente firma da parte dell’Italia crea tanto scompiglio? Si tratta di un documento di intesa (non un contratto, né un trattato, né un accordo) sugli ambiti della cooperazione bilaterale nei settori dei trasporti, infrastrutture, logistica, ambiente e finanza. Non ci sono obiettivi né contenuti precisi, ma espressioni vaghe, per esempio su un avanzamento delle relazioni politiche tra i due paesi firmatari. Come tutti gli altri MoU firmati dalla Cina, gli ambiti di cooperazione sono gli stessi cinque che costituiscono i risultati ufficiali previsti per la Bri: COORDINAMENTO DELLE POLITICHE, CONNETTIVITÀ E INFRASTRUTTURE, LIBERO SCAMBIO, INTEGRAZIONE FINANZIARIA E SCAMBI CULTURALI.
Da una prima e rapida analisi della bozza concordata con l’Italia, ci sono differenze che non sembrano marginali. Alcune sono apparentemente sottili differenze di espressione che ne sottendono però di significative nella portata dell’influenza che il documento potrà esercitare. Per esempio, per quanto concerne le controversie, vale sempre il principio degli incontri amichevoli tra le due parti? Nel testo si parla di dialogo amichevole con incontri “diretti”. Come si collocano i tribunali Bri in questo contesto? In altri casi, invece, le differenze sono evidenti e mostrano l’intenzione di stabilire un’intesa più stretta.
Insomma, secondo Chris Devonshire-Ellis, fondatore di Dezan Shira, il “MoU sembra largamente innocuo, ma contiene i semi di quello che potrebbe essere usato in futuro come strumento diplomatico nella forma di un appiglio a presunte intese già raggiunte sui temi inclusi nel documento”. E se l’interpretazione dei contenuti del documento è tolta dalla sfera di competenza dei tribunali internazionali per affidarla a un “contesto amichevole di consultazioni dirette”, è evidente il rischio di divergenze interpretative orchestrate per sollevare potenziali incidenti diplomatici.
Tutte le perplessità diffuse dopo la pubblicazione della bozza hanno spinto il governo italiano a limare i contenuti politici del documento, quindi ancora oggi non è chiaro quale sarà la versione finale.
UNA FIRMA CHE CI ISOLA
Al di là dei dubbi elencati, perché mai la firma italiana sarebbe diversa da quella degli altri tredici paesi europei che hanno già siglato il Memorandum? Paese fondatore dell’Unione e tuttora tra i pilastri dell’Europa unita, nonché membro fondatore della Nato, l’Italia sarebbe il primo paese del G7 a firmare un documento d’intesa con Pechino.
Sin dal suo annuncio, la disponibilità dell’Italia ha fatto inalberare sia Washington, per i timori concreti di un’ingerenza cinese in settori strategici per la sicurezza nazionale (che non sono soltanto le infrastrutture digitali in prospettiva del 5G, ma tutte le infrastrutture di trasporto e logistica e le reti di distribuzione dell’energia in cui la Cina chiede una maggior presenza) e per le conseguenze inevitabili che avrebbe sul ruolo del nostro paese nell’alleanza Nordatlantica, sia Bruxelles, che da tempo cerca di costruire una posizione condivisa in Europa sul futuro delle relazioni economiche con Pechino.
Non è vero, come si sente e si legge sulla stampa nazionale, che anche Francia e Germania siano in procinto di firmare. Non lo hanno mai considerato. Parigi ha concordato una dichiarazione congiunta che include scambi culturali e scientifici e firmerà una decina di accordi molto specifici e concreti durante la visita di Xi a Parigi, che segue quella romana.
Perplessi sono anche coloro che sono disposti a ignorare o accettare le conseguenze geopolitiche di fronte a obiettivi concreti – e condivisibili – di aumenti dell’export italiano in Cina (e non tanto dell’interscambio, come spesso indicano i cinesi nei loro obiettivi bilaterali) e dei capitali cinesi investiti nei progetti infrastrutturali italiani. Nel documento non c’è nulla di concreto. In ogni caso, si sarebbe potuto procedere in modo diverso, come la Germania, inanellando collaborazioni e progetti comuni, strette di mano davanti a risultati mutualmente benefici e non a documenti fumosi.
Anche con la firma del Memorandum, rimarranno la concorrenza interna e le discordie tra le diverse parrocchie italiche e mancherà sempre una visione nazionale. Un esempio della DIFFERENZA DI APPROCCIO TRA ITALIA E GERMANIA è dato dalle CONNESSIONI FERROVIARIE: a Duisburg, Angela Merkel ha stretto la mano a Li Keqiang all’arrivo del primo treno dalla Cina; a Mortara, il primo treno diretto a Chengdu è partito sotto gli occhi di pochi interessati, e le difficoltà logistiche e finanziarie della tratta sono state ignorate dal governo italiano. Il secondo treno non è mai partito.
QUALI RISCHI CORRE L’ITALIA, NELL’IMMEDIATO? Quello già concreto è l’ISOLAMENTO IN EUROPA. Come primo effetto politico, infatti, l’Italia ha votato contro lo schema per lo screening degli investimenti esteri nell’Unione, di cui peraltro è stata promotrice. Il decalogo di azioni e suggerimenti per la gestione delle relazioni con la Cina pubblicato il 12 marzo dalla Commissione europea arriva tardi, ma sempre in tempo utile per aiutare gli stati membri in decisioni troppo grandi per i singoli paesi. Potrebbe essere usato come leva per alzare di molto il livello della negoziazione con Pechino e, al contempo, salvare quel poco di reputazione che resta all’Italia in Europa. (Alessia Amighini)

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5G HUAWEI, COSA È E PERCHÉ TUTTI LO TEMONO

13/3/2019, da http://www.ilmessaggero.it/tecnologia/
IL “5G”, CIOÈ LE RETI MOBILI DI QUINTA GENERAZIONE, FARANNO FARE UN BALZO ALLA VELOCITÀ DI CONNESSIONE non solo degli smartphone ma anche dei dispositivi della casa connessa, auto, smart city, droni, impianti produttivi. È lo standard del futuro e guiderà l’evoluzione di Internet. LEADER DEL MERCATO SONO HUAWEI (www.ilmessaggero.it/t/huawei), NOKIA ED ERICSSON, ma l’azienda cinese vale da sola il 30% del mercato. E Donald TRUMP HA LANCIATO L’ALLARME, facendo pressione sugli alleati, perché teme che IL 5G SIA IL CAVALLO DI TROIA DI PECHINO PER SPIARE TANTI PAESI. Il 5G è considerato il nuovo web perché è la rete candidata a gestire il cosiddetto Internet delle cose.
Si calcola che dal 2018 al 2022 ci saranno 22 MILIARDI DI NUOVI OGGETTI COLLEGATI AL WEB a cui si aggiungono 621 milioni di nuovi utenti Internet e 605 milioni di nuove sottoscrizioni ‘mobilè che faranno crescere il traffico dati in media del 46% all’anno. UN BOOM CHE FA GOLA A MOLTI.
Secondo l’istituto di ricerca dell’Oro Group nei primi nove mesi del 2018 i cinque leader di mercato nel 5G sono HUAWEI, NOKIA, ERICSSON, CISCO E ZTE (ANCHE QUESTA CINESE). INSIEME RAPPRESENTANO IL 75% del mercato globale con Huawei che ne vale da sola appunto il 30%. In Italia, quest’ultima, ha investito 162 milioni di euro solo nel 2016, Sviluppa la rete 5G a Milano e Bari e ha in pista una cinquantina di progetti. Huawei ha oltre 30 anni di vita, un fatturato di 92,5 miliardi di dollari e 180 mila dipendenti. È nata grazie a Ren Zhengfei, 74 anni, fondatore ed attuale presidente della società che prima di questa attività è stato ufficiale dell’esercito popolare cinese.
L’AZIENDA DI SHENZEN È CONOSCIUTA PRINCIPALMENTE PER GLI SMARTPHONE, grazie ai quali in pochi anni ha conquistato il secondo posto come produttore mondiale (al primo c’è Samsung, al terzo Apple); ma è anche in primo piano nella componentistica per le telecomunicazioni. I prodotti e le soluzioni Huawei sono utilizzati da 45 dei primi 50 operatori mondiali e sono impiegati in oltre 170 nazioni, circa un terzo della popolazione mondiale. E Hauwei sta espandendo le sue offerte 5G anche grazie alla riduzione dei costi operativi per gli operatori.
QUESTO KNOW-HOW DIGITALE PREOCCUPA GLI STATI UNITI ED ALTRE NAZIONI (Nuova Zelanda, Australia e anche un operatore tlc del Regno Unito), che non vogliono che l’azienda si occupi della gestione delle reti dove viaggiano informazioni sensibili. In mezzo a questa guerra commerciale è finita la figlia del fondatore, MENG WANZHOU, a rischio estradizione negli Usa per le accuse di violazione delle sanzioni all’Iran. Con il governo di Pechino che ha promesso sostegno alle azioni legali promosse dal colosso delle tlc. Pochi giorni fa Huawei è passata al contrattacco: ha citato in giudizio gli Stati Uniti per il bando sull’utilizzo dei propri prodotti e servizi da parte delle agenzie federali. Ha aperto un centro cybersicurezza a Bruxelles e si è detta «pronta a lavorare con le istituzioni europee per sviluppare un approccio comune europeo alla cybersicurezza e per assicurare in modo congiunto la sicurezza delle reti 5G». (da http://www.ilmessaggero.it/tecnologia/)

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QUEL CONFLITTO PECHINO-USA CHE LA UE UNITA DEVE EVITARE

di Romano Prodi, da “Il Messaggero” del 13/3/2019
IL RUOLO ITALIANO
Pronunciarsi in favore o contro l’accordo che sarà firmato fra il presidente cinese e il governo italiano mi è semplicemente impossibile, dato che non mi sono noti i campi e i termini nei quali questo testo verrà siglato. È quindi altrettanto impossibile stabilire se esso andrà contro precedenti accordi o comuni decisioni dell’Unione Europea.
È però utile definire i confini entro i quali ci muoviamo, precisare gli interessi nazionali da portare avanti da soli e quelli che possiamo e dobbiamo difendere soltanto nell’ambito di una politica europea. Si deve, per prima cosa, premettere che LE POLITICHE COMMERCIALI SONO DI TOTALE COMPETENZA EUROPEA: riguardo ad esse non vi può essere nessuna autonoma presa di posizione italiana.
Quanto alla PROPOSTA DELLA NUOVA VIA DELLA SETA, essa, anche se vi sono crescenti problemi sulle sue modalità di esecuzione, ha suscitato l’interesse di tutti i Paesi europei tanto che, GERMANIA e POLONIA in testa, si sono affrettati a concludere accordi per nuovi collegamenti ferroviari.
Purtroppo, mentre gli altri hanno agito nel proprio interesse, noi non ci siamo attrezzati per il collegamento con l’Italia anche se, insieme a tutti i maggiori Paesi europei a partire dalla GRAN BRETAGNA, ci siamo giustamente affrettati ad aderire alla BANCA ASIATICA degli INVESTIMENTI e delle INFRASTRUTTURE, banca che costituisce il SUPPORTO FINANZIARIO ALLA STESSA VIA DELLA SETA.
Non solo i trattati commerciali ma anche gli interessi economici hanno quindi spinto gli Stati europei ad approfittare delle nuove opportunità che il GRANDE SVILUPPO ASIATICO stava preparando per tutta l’Europa.
Con lo stesso obiettivo le imprese americane ed europee hanno, fino a un recente passato, moltiplicato i loro investimenti in CINA e hanno aperto le porte agli investimenti cinesi, anche se alcuni Paesi, cominciando dagli STATI UNITI e arrivando all’ITALIA, sopportano un pesante passivo della propria bilancia commerciale mentre altri, come la GERMANIA e l’OLANDA, registrano invece un costante attivo.
Credo che in questo campo l’Italia possa e debba fare molto di più perché abbiamo con la Cina un commercio relativamente modesto (simile a quello con la SPAGNA) e un export pari alla metà delle nostre importazioni.
Se la POLITICA COMMERCIALE deve essere VISTA CON OTTICA EUROPEA la politica che riguarda i PORTI, così calda nella polemica di questi giorni, deve essere invece valutata con un’OTTICA puramente ITALIANA.
In conseguenza del GRANDE SVILUPPO ASIATICO il commercio verso est sta addirittura superando il traffico dell’Atlantico. In questo campo non esiste una politica europea ma una concorrenza fra Paesi europei. Fino ad ora la parte del leone è stata giocata da ROTTERDAM e dai PORTI DEL NORD-EUROPA, anche se il viaggio per arrivare ad essi dall’Asia è di quattro o cinque giorni più lungo rispetto ai porti del Mediterraneo. In seguito si è svegliato il Pireo, in buona parte di proprietà cinese.
Tuttavia IL CONGIUNGIMENTO PIÙ EFFICACE FRA L’ASIA E L’EUROPA FA CAPO ALL’ALTO ADRIATICO E ALL’ALTO TIRRENO, che sono a due passi dai grandi mercati dell’Unione. Eppure ne rimaniamo periferici.
Se i non ancora noti accordi prevedessero investimenti cinesi in questo campo essi dovrebbero essere ben accolti, anche se messi in atto attraverso la proprietà di parte dei nostri porti. NESSUN INVESTITORE, A QUALSIASI PAESE APPARTENGA, PUÒ INFATTI PORTARCI VIA I NOSTRI MOLI E LE NOSTRE BANCHINE.
Per mancanza di conoscenze è difficile dare un giudizio se in ALTRI CAMPI MOLTO DELICATI, come quello delle reti di comunicazione e delle tecnologie relative (COME IL 5G) ci possano essere accordi tali da mettere a rischio i legami con gli Stati Uniti. Legami che sono sempre stati e, seppure con recenti incomprensioni, sono ancora il punto di riferimento sia della politica europea che di quella italiana.
IN QUESTO CASO, anche se non in conseguenza di una cessione di sovranità come nel settore del commercio ma per una nostra convenienza politica, ABBIAMO evidentemente l’INTERESSE (o meglio l’obbligo) DI CONSULTARCI CON I NOSTRI PARTNER EUROPEI E CON GLI AMERICANI, facendo valere i nostri interessi nazionali nel loro legame con gli obblighi comuni.
Vi sono inoltre TANTI CAMPI NEI QUALI, come ho ripetutamente affermato, EUROPA E CINA HANNO CONVENIENZA A COLLABORARE, come ad esempio in una campagna di GRANDI INVESTIMENTI IN AFRICA, perché entrambi abbiamo interesse ad un pacifico sviluppo di questo continente. Mi auguro che tutti questi temi vengano approfonditi nel prossimo incontro fra Cina e Italia con la massima franchezza, nella difesa dei comuni interessi e nel rispetto degli impegni esistenti.
Da parte italiana mi auguro anche che si spinga affinché la Cina apra negoziati su alcuni punti controversi come il diritto di proprietà intellettuale e il rispetto della disciplina dei brevetti. Si dovrebbe inoltre invitare la Cina a non insistere troppo su una divisione all’interno dell’Unione Europea con la così detta politica dei 16+1 che sembra volere adottare una specie di “DIVIDE ET IMPERA” fra i Paesi dell’Est e dell’Ovest. Il che non è interesse di nessuno.
Solo una grande Europa Unita può infatti evitare quel conflitto fra Stati Uniti e Cina che molti ritengono inevitabile ma che sarebbe una catastrofe per il mondo intero. Mi auguro che, anche se non se ne conosce ancora il contenuto, quanto si firmerà nei prossimi giorni a Roma possa tenere presente questi interessi e questi problemi, che sono vitali non solo per i rapporti fra Italia e Cina ma per il futuro di tutti noi. (Romano Prodi)

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IL CASO DIPLOMATICO

VIA DELLA SETA: IL SÌ DELL’ITALIA IRRITA GLI USA

di Guido Santevecchi, da “il Corriere della Sera” del 7/3/2019
– L’Italia sulla via «della Seta» irrita Washington. Roma è il primo Paese del G7 ad aderire al progetto geopolitico, e il governo degli Stati Uniti si mostra irritato: «Questo danneggerà la vostra reputazione». –
PECHINO – «Noi vediamo la BELT AND ROAD INITIATIVE come un’iniziativa pensata dalla Cina per l’interesse della Cina, siamo scettici sull’adesione italiana». Firmato GARRETT MARQUIS, portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale della Casa Bianca.
È netta l’avversione dell’amministrazione americana per la trattativa tra Italia e Cina sull’adesione alla Nuova Via della Seta, il grande progetto geopolitico e commerciale di XI JINPING per rilanciare la globalizzazione (con molte caratteristiche cinesi). Il negoziato è in dirittura d’arrivo e potrebbe essere concluso durante la visita di Stato di Xi a Roma, prevista per il 22 e 23 marzo, la cerimonia di firma del documento potrebbe essere a Pechino, quando tra il 25 e il 27 aprile si svolgerà il secondo «FORUM BELT AND ROAD INITIATIVE».
L’Italia sarebbe il primo Paese del G7 a salire sul treno della Via della Seta, che in cinese si chiama YI DAI YI LU (UNA CINTURA UNA STRADA). Il nostro obiettivo è di far collaborare le imprese italiane ai grandi cantieri per infrastrutture che stanno sorgendo sui canali della Via, dall’Asia al Medio Oriente, all’Africa: investimenti per 900 miliardi di dollari, dice Xi. E si parla molto dei nostri porti dell’Alto Adriatico, Trieste soprattutto, come approdo della rotta marina verso l’Europa.
Da mesi gli americani hanno sollevato il tema con ogni esponente politico o governativo arrivato in missione a Washington dall’Italia. Ora l’intervento scoperto di Garrett Marquis, che dice al Financial Times : «Noi vediamo la Belt and Road Initiative come un’iniziativa pensata dalla Cina per l’interesse della Cina». Il portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale spiega: «Siamo scettici sulla possibilità che l’endorsement del governo di Roma porti benefici al popolo italiano». Poi un monito severo: «Questa adesione potrebbe finire per danneggiare la reputazione globale dell’Italia nel lungo periodo». Per Washington non bisogna contribuire alla «diplomazia cinese delle infrastrutture» che potrebbe essere destabilizzante.
Replica immediata di Pechino: «Giudizi assurdi. Come grande Paese e grande economia, l’Italia sa dove si trova il suo interesse e può fare politiche indipendenti», ha detto il portavoce degli Esteri. Roma rischia di essere presa tra i due fuochi del nuovo confronto strategico tra le superpotenze rivali Usa-Cina. E anche la posizione in Europa si fa delicata, con un Consiglio Ue fissato per il 21 marzo a Bruxelles per discutere i rapporti con la Cina.
L’idea di aderire alla Via della Seta non è una novità del governo guidato da Giuseppe Conte (che potrebbe venire a Pechino a fine aprile). Il progetto è stato perseguito già dai governi Renzi e Gentiloni. Nel 2017 Gentiloni venne a Pechino, unico leader di un Paese G7, per partecipare al primo Forum «One Belt One Road»: Xi Jinping lo ringraziò ricevendolo come ospite speciale.
Pechino ha appena comunicato che 67 Paesi hanno già sottoscritto la «Belt and Road Initiative», tra gli europei solo governi «periferici», come Grecia, Portogallo e Ungheria. Fonti diplomatiche di uno di questi governi hanno rivelato al Corriere che i cinesi usano una sorta di modulo standard per l’adesione. Una procedura che evidentemente non può essere replicata con l’Italia, che ha pur sempre il peso della sua presenza nel G7. Questa circostanza spiega la delicatezza del negoziato in corso. (Guido Santevecchi)

(luoghi geografici direttamente e indirettamente interessati alla Via della seta: Indonesia, Filippine, India, Iran, Kenya, Tanzania, Cina, Mongolia, Kazakistan, Russia, Kabul, Beirut, Bagdad, Petra, Venezia, Trieste, Genova, Mosca, Usan Gorgan, Madrid, Rotterdam, Amburgo, Praga, Budapest, Belgrado, Palmira, Antiochia, Alessandria, Aden, EGITTO, Rhapta, Mombasa, Singapore, Canton, Kazan, Xian, Zhengzhou, Harbin, Vladivostok, Dandong Shenyang Hunchun Goa Turfan Samarcanda Bactra Ankara Istanbul Astrachan Golfo Persico MAR ROSSO OCEANO PACIFICO GOLFO MAR DEL BENGALA ARABICO OCEANO OCEANO INDIANO ATLANTICO Kashgar Gwadar Kolkata Kunming. Tra Oriente e Occidente Rotte marittime Nuove rotte terrestri Corridoi economici Ferrovie (esistenti e in previsione) Via della Seta Corriere della Sera One Belt One Road (in cinese: Yidai yilu) Torino Milano Genova Perugia Firenze Bologna Ancona Venezia Trieste Bolzano Trento Roma Piemonte Lombardia Trentino- Alto Adige Friuli Venezia Veneto Giulia Liguria Emilia-Romagna Toscana Marche Umbria Lazio Abruzzo Molise

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LA NUOVA TRATTATIVA TRA CINA E ITALIA. UN PROGRAMMA OPERATIVO

di Giancarlo Elia Valori, da FORMICHE.NET (https://formiche.net/ )
Vi sono in gioco, nel rapporto tra Roma e Pechino, due campi e due logiche diverse. Un suggerimento può essere quello di trattare separatamente le varie aree di scambio e di relazione commerciale da una parte con gli Usa e dall’altra con la Cina.
Il Memorandum of Understanding già firmato, malgrado tutti lo neghino, tra l’Italia e la Cina, di cui comunque si tratterà durante la visita del presidente Xi Jinping in Italia nei prossimi giorni, riguarda, come dice lo stesso governo cinese, “le strade, le vie ferrate, l’aviazione, i porti, l’energia e le telecomunicazioni”. Con ulteriori complementarità, dicono sempre le parti cinesi, sulla “industria dell’agro-food, sulla sicurezza alimentare, sulla salute animale e umana, sulla connettività euroasiatica e sull’accesso generale ai rispettivi mercati”. Nelle more, quindi, del 15° anniversario della Comprehensive Strategic Partnership, tra Pechino e Roma, nel 50° del Mutuo Riconoscimento diplomatico, si verificano quindi una serie di nuovi elementi, che potrebbero anche favorire i nuovi rapporti tra ogni Paese Eu e la Cina: le asimmetrie strutturali tra i vari Paesi Eu, che combattono più tra di loro che non contro un ipotetico nemico comune, poi la fortissima differenziazione, che è sempre maggiore, degli investimenti cinesi nella stessa Ue, infine l’eccessivo economicismo delle relazioni bilaterali tra i vari Paesi Ue e la Cina.
Spesso così ingenuo da fare, immagino, tirare qualche sorriso tra i vecchi marxisti del Pcc. I punti salienti del memo tra Roma e Pechino sono, quindi, fuori dalle retoriche giornalistiche: gli investimenti cinesi nel porto di Trieste, che muove oggi 62,7 milioni di tonnellate, il dato è del 2018, che è ormai il più grande nel Mediterraneo; ma poi vi è la ulteriore collaborazione tra State Grid e la Terna italiana di Cdp, la società per la distribuzione di energia elettrica. Qui, i cinesi sono interessatissimi, a parte il “fuoco” giornalistico sulla rete 5G. La ditta cinese State Grid detiene, a tutt’oggi, il 35% di Cdp Reti, la società che controlla il 29,8% di Terna. Ecco, è questo il primo vero affare che Pechino chiede. Poi, vi sarà una specifica MoU sui trasporti, che è già all’attenzione dell’attuale Governo italiano. Trasporti tra Italia e Ue, trasporti tra Italia e Maghreb, Mediterraneo, in qualche caso Africa. Attenti, qui il problema si fa serio: la Cina non vuole rincorrere Haftar, di cui sa tutto, in Libia, e non vuole certo favorire la Francia. Quindi, o noi, o loro, i francesi. Allora, noi. Qui, la logica economica e quella strategica, anche in rapporto con gli amici americani, vanno perfettamente d’accordo. Tutto vuole Washington tranne che una nuova Africa senza contrasto al potere di Parigi. Tutto vuole, poi, l’America del Nord salvo che un nuovo Medio Oriente con un protagonismo, filorusso o meno, dei tedeschi.
Washington vuole una nuova autonomia militare italiana che limi le unghie dei tedeschi. Ecco quindi che, qui, in questo caso, possiamo organizzare una buona relazione tripla. È tutto qui, almeno per quel che riguarda i documenti che abbiamo finora potuto leggere. Quindi, vi sono in gioco, nel rapporto tra Roma e Pechino, due campi e due logiche diverse. Si suggerisce qui, naturalmente, di trattare separatamente le varie aree di scambio e di relazione commerciale da una parte con gli Usa e dall’altra con la Cina, ma soprattutto qui si suggerisce di attivare una linea, autonoma e stabile, tra l’Italia e la Ue, che dovrebbe essere esplicitamente messa in campo. Lo schermo delle regolazioni Ue, se ben utilizzato, può essere estremamente utile. Per quel che riguarda poi la rete 5G, occorre vedere bene di cosa si tratta, anche spiegando agli amici Usa la realtà dei fatti. La rete 5G cinese di Huawei si è, ormai, sviluppata, almeno in Asia, in stretto rapporto con i clienti finali. In Giappone, in Australia, in tutto il Sud-Est asiatico è ormai leader di mercato ma, soprattutto, ha mostrato una certa porosità informativa.
Vero quindi quello che dicono gli amici americani, ma dalla porosità di una rete ottima e, soprattutto, sviluppata in tutta fretta, non si deduce automaticamente l’interfaccia totale e completa con i Servizi cinesi. E allora cosa dovremmo dire, noi europei, delle continue interferenze sulle n ostre reti di sicurezza da parte di altri “operatori”? Ma non è questo il punto. Occorreva una rete 5G Ue, ma la debolezza della Unione l’ha resa impossibile. Allora, concentriamoci sulle tecnologie di controllo, sulle quali non abbiamo alcun problema. Né tecnico, né politico. I settori di sicurezza di una rete 5G sono principalmente: la sicurezza dedicata ovvero il controllo delle sottoreti o di aree di clienti, sempre nella Rete, poib la sicurezza di roaming tra i cellulari o, comunque, tra elementi operanti in Wi-Fi, poi ancora la possibilità di lanciare autonomamente o anche di difendersi da attacchi tipo DDoS, Denial of Service, sia sulla infrastruttura che su singole microreti, poi ancora i protocolli con sicurezza distribuita, tipo blockchain, e anche la sicurezza per i sistemi operativi, che peraltro il 5G cinese non mostra di avere in modo efficace e, poi, la protezione completa dei dati finali di ogni singolo operatore. Tutto non si può avere, ma molto si può controllare just in time.
Certo, è ovvio che da una rete 5G già completa permette una visione completa dello scambio dei dati in un Paese. Chi lo nega. La “scoperta” dei Servizi Usa è acqua calda. E allora? Una soluzione? Eccola, Israele. Le frequenze 5G saranno allocate nello stato ebraico nel prossimo aprile o maggio, e la rete di Gerusalemme sviluppa ottime applicazioni non tanto per la comunicazione commerciale privata P2P, peer to peer, che comunque va dieci volte più veloce del 4G, ma funziona per le smart car e le smart cities, e vale come ottima base, è proprio quello che vogliamo, per la Internet of Things, qui in Italia. Noi, in Italia, non vogliamo chiacchierare tanto al telefono, desideriamo una rete 5G che permetta lo sviluppo delle nostre Piccole e Medie Imprese. Si possono impostare, spiegando agli amici americani che non succederà proprio nulla, operazioni che noi faremo da soli non la nostra Rete, ma la nostra area di controllo totale 5G tutta in Italia, chiunque arrivi a mettere le fibre ottiche. L’Italia ha, comunque, già condotto l’asta per il 5G con un costo, per i privati, di 7,5 miliardi per l’acquisto dei diritti della Rete. Huawei ha vinto, accordandosi con Tim e Fastweb. Bene. E allora, occorrerà una centrale operativa del controllo 5G, del tutto italiana e autonoma, che controllerà tutto il fascio dei dati sul filo della 5G, che è intrinsecamente molto costosa. Non ci interessa chi ci guadagna, ci interessa la sicurezza dei dati, che avremo, assolutamente. E che sarà trattata, la nostra sicurezza delle Rete 5G, in ogni sua parte tecnica, con gli amici Usa, senza per questo poter divulgare nessun segreto operativo di un qualsiasi altro operatore. Noi, in Italia, siamo già al livello scientificamente più alto, per la tutela della sicurezza della Rete, 5G o altro.
Quando altri si dilettavano di scrittura assistita, a Pisa un computer Olivetti scriveva cantate che sembravano scritte da J. S. Bach. Si può, quindi, trattare con grande attenzione e con Washington la realizzazione di una centrale della sicurezza nella Rete, dove si possa avere un livello elevato di entrata dei dati e dei protocolli di sicurezza, e far poi capire agli amici americani che no, non c’è davvero bisogno di farci uscire dalla Nato. Tutto, in questi giorni nervosi, deve essere ricondotto ad una razionalità economica e strategica possibile e operativa. Senza isterie.
Sulle reti di distribuzione elettriche, altro argomento che davvero sta a cuore ai cinesi per i loro investimenti in Italia, dobbiamo pensare che la State Grid cinese vuole, soprattutto, diversificare gli investimenti, in Europa e altrove. E imparare tecnologie da altri. Nel 2018, tanto per dire, gli Investimenti Diretti cinesi si sono direzionati, soprattutto, proprio verso al Ue. Mercato nazionalmente diviso, malgrado tutto, ma i cinesi hanno messo capitali per 12 miliardi, verso la sola Ue, ovvero sei volte di più degli investimenti negli Usa per lo stesso periodo. Qui, la Cina cerca l’efficienza energetica, ben maggiore in Eu che negli Usa, poi vuole l’integrazione tra energie rinnovabili e quelle fossili, che è la chiave delle politiche europee ormai da molti anni, cosa che sappiamo fare bene, e ancora la tecnologia dei sensori di rete, infine la digitalizzazione avanzata delle tecnologie di controllo delle reti energetiche. Pechino è anche interessata alle politiche di armonizzazione tra i vari distributori energetici in un mercato, in linea di massima, libero. Che è, questo, l’obiettivo del sistema cinese, almeno tra oggi e il 2025. Tutto qui.
Niente di strategicamente pericoloso. Anzi. Quindi, per fare bene il sistema 5G, e gestire quindi i notevoli investimenti per la rete a fibre ottiche, ci rivolgeremo a una rete di Paesi legati a Israele, magari Cina compresa, e non alla sola Cina e nemmeno ai soli Usa, che ha già elaborato una rete 5G molto user friendly, che è legata molto alla comunicazione privata e poco, invece, ai sistemi di IoT, Internet of Things e di produzione e controllo, che sono invece quelli che molto interessano a noi. Organizzeremo allora una struttura nazionale, che in parte esiste all’interno della nostra intelligence, per il controllo della rete e dei suoi scambi. Autonoma, ma con “pori” preesistenti, verso i Paesi amici che sostengono il nostro 5G. Poi, svilupperemo, sempre con grande interesse, le relazioni tra la Cina e l’Italia nell’ambito dell’energia elettrica. Sono molto interessanti gli investimenti proposti nel MoU da Pechino, certo, ma sono soprattutto interessanti le operazioni di State Grid in Italia, almeno per quel che riguarda l’innovazione tecnologica delle reti di distribuzione e l’ottimizzazione della produzione. Poi, ancora, per il Porto di Trieste, occorrerà acquisire una nuova area. Probabilmente tra Monfalcone e il confine, che sarà demandata alla distribuzione dei beni e dei prodotti di tutta l’Obor, non solo cinesi, in Ue. Con un sistema di controllo bilaterale dei flussi commerciali che dovrà essere attentamente trattato con gli amici cinesi. E anche con la proposta tecnica, proprio da parte dell’Italia, di nuove regolamentazioni di qualità e di standard produttivi e economici per le importazioni dalla Obor.
Dalla Obor, ripeto, non dalla sola Cina. Con una quota, obbligatoria (lo sappiamo che l’Ue non ci starà, ma ce ne faremo una regione) di imprese italiane o, magari, “comunitarie” che dovranno lavorare nelle infrastrutture portuali. O comunque nella filiera della trasformazione dell’import Obor a Trieste. Niente inganno, quindi, niente tensioni, niente mitologie sulla 5G. Che, con ogni probabilità, sarà in Italia una partnership israeliana. (Giancarlo Elia Valori)

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CINA, ITALIA SOSTERRÀ LA “NUOVA VIA DELLA SETA”. USA E UE CONTRARI: “NO A TRATTATIVE BILATERALI, SERVE POSIZIONE CONDIVISA”
da “il Fatto Quotidiano” del 6/3/2019
– Il progetto infrastrutturale comprende porti, linee ferroviarie, strade e corridoi marittimi con cui il presidente Xi Jinping punta a connettere il Paese a Europa e Africa. Il sottosegretario allo Sviluppo economico Geraci vuol siglare l’intesa a fine marzo, quando Xi sarà in visita in Italia. La Casa Bianca: “Potrebbe minare il pressing di Washington su Pechino in merito al commercio”. Bruxelles: “Serve piena unità per ottenere gli obiettivi” –
L’Italia si prepara a diventare il primo Paese del G7 a sostenere formalmente la BELT AND ROAD INITIATIVE, altrimenti nota come “NUOVA VIA DELLA SETA”: un maxi PROGETTO INFRASTRUTTURALE che comprende PORTI, LINEE FERROVIARIE, STRADE e CORRIDOI MARITTIMI con cui il presidente cinese Xi Jinping punta a connettere la Cina a Europa e Africa.
Ma la prospettiva di un’intesa Roma-Pechino, che il sottosegretario allo Sviluppo economico Michele Geraci come riporta il FINANCIAL TIMES vorrebbe chiudere a fine marzo quando Xi sarà in visita in Italia, ha già provocato la dura reazione di Usa e Ue. “Il negoziato non è ancora completato, ma è possibile sia concluso in tempo per la visita – ha detto Geraci, che dal 2008 è stato docente di economia e finanza in Cina – Vogliamo assicurarci che i prodotti del MADE IN ITALY possano avere più successo in termini di volumi di export verso la Cina, che è il mercato a crescita più veloce al mondo”.
Garrett Marquis, portavoce del National Security Council della Casa Bianca, ha detto al quotidiano finanziario che il sostegno del governo italiano difficilmente “porterà benefici sostanziali” al Paese e “potrebbe finire per danneggiare la reputazione globale dell’Italia sul lungo periodo”. Ma soprattutto “potrebbe minare il pressing di Washington su Pechino in merito al commercio e creare problemi agli sforzi di Bruxelles per superare le divisioni e trovare una posizione condivisa sul migliore approccio possibile verso gli investimenti cinesi.
Più in generale i funzionari Usa hanno sollevato timori sui potenziali EFFETTI NEGATIVI DELLA “DIPLOMAZIA INFRASTRUTTURALE DELLA CINA”, sollecitando “tutti i partner e gli alleati, inclusa l’Italia, a premere sulla Cina per portare i suoi sforzi sugli investimenti globali in linea coi riconosciuti standard internazionali e le migliori pratiche”. Geraci ha commentato dicendo che non “risulta alcuna irritazione degli Stati Uniti nei confronti dell’Italia: non ho avuto alcuna comunicazione dell’ambasciata. Quando avrò questa notizia potrò commentarla”.
Altrettanto fredda la posizione di Bruxelles: un portavoce della Commissione ha commentato dicendo che “né la Ue né nessuno Stato membro può ottenere efficacemente i suoi obiettivi con la Cina senza piena unità. Tutti gli Stati membri individualmente, e nell’ambito della cooperazione sub regionale come il formato 16+1, hanno la responsabilità di assicurare coerenza con le leggi e le politiche Ue e di rispettare l’unità dell’Ue nell’attuare tali politiche”.
Sulla Belt and Road il portavoce ricorda che la Ue collabora “sulla base del presupposto che la Cina adempia al suo scopo dichiarato di renderla una piattaforma aperta che aderisce alle regole del mercato, agli standard internazionali ed Ue, e sia da complemento a politiche e progetti europei, per ottenere benefici per tutti e in tutti i Paesi della via pianificata”.
Il portavoce sottolinea inoltre che “è noto che vorremmo anche vedere di più sull’attuazione degli impegni presi dalla Cina su TRASPARENZA e PARITÀ DI CONDIZIONI per commercio e investimenti basati sulle regole del mercato e sulle norme internazionali”. Per quanto riguarda il Memorandum of Understanding, che l’Italia ha annunciato di voler firmare, il portavoce sottolinea che la Ue non l’ha firmato, anche se diversi Stati membri l’hanno fatto, mentre altri si sono rifiutati.
La presa di posizione Ue arriva dopo che, martedì 5 marzo, l’Italia – unico paese membro insieme alla Gran Bretagna – si è astenuta nel voto in Consiglio Ue sul regolamento che introduce nuove norme per esercitare un miglior controllo sugli investimenti diretti provenienti da Paesi terzi per motivi di sicurezza o di ordine pubblico.
Tutti gli altri hanno votato in favore. Le disposizioni contenute nel regolamento prevedono la creazione di un meccanismo di cooperazione in cui gli Stati membri e la Commissione saranno in grado di scambiare informazioni e sollevare preoccupazioni specifiche. Gli Stati membri manterranno comunque la facoltà di esaminare ed eventualmente bloccare gli investimenti esteri diretti per motivi di sicurezza e ordine pubblico. Anche la decisione di istituire e mantenere meccanismi di controllo nazionali resterà nella competenza dei singoli Stati membri. Alla Commissione sarà consentito formulare pareri in casi riguardanti vari Stati membri, o quando un investimento potrebbe incidere su un progetto o programma di interesse per tutta l’Unione, come Orizzonte 2020 o Galileo. (da “il Fatto Quotidiano” del 6/3/2019)

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L’ITALIA DICE XI CAUSA DEBITO

di Andrea Bonanni, da “la Repubblica” del 7/3/2019
LA NUOVA VIA DELLA SETA
– Più che Grandi opere il governo potrebbe chiedere alla Cina di comprare nostri titoli. Con gravi conseguenze –
In Europa ci si interroga. Come mai il governo giallo-verde, che sta bloccando quasi tutte le opere pubbliche già finanziate, che si oppone in particolare a quelle sostenute dai soldi europei, come la Tav o il gasdotto EastMed, è pronto «a mettere a rischio la reputazione internazionale dell’Italia», come dicono gli americani, pur di attirare investimenti cinesi che non potrà controllare, per opere che probabilmente non vorrà realizzare? Dietro i richiami formali a «garantire l’unità e l’integrità delle politiche europee», sono in molti, a Bruxelles, a sospettare che l’Italia populista si stia offrendo alla Cina come quinta colonna della sfida economica con la Ue, dopo essersi, per la verità senza grande successo, offerta alla Russia come quinta colonna della sfida politica che il Cremlino ha lanciato all’Europa.
Naturalmente il governo italiano non è il solo nella Ue a guardare verso Pechino e a voler fare affari con il colosso asiatico. Dalla Gran Bretagna alla Germania sono tutti alla rincorsa delle opportunità offerte sia dal mercato cinese, sia dalla disponibilità del governo comunista di investire per aprirsi nuove vie commerciali verso l’Europa.
Ma finora nessuno tra i grandi Paesi europei ha mai accettato di sottoscrivere un’adesione formale alla Belt and Road Initiative lanciata dal presidente Xi Jinping. Anzi.
Pur senza usare i metodi muscolari del presidente Trump e senza rifugiarsi nell’isolazionismo, anche l’Europa sta cercando di correggere le distorsioni di mercato che favoriscono smaccatamente Pechino rafforzando le regole sul controllo e sulla trasparenza degli investimenti esteri in settori strategici dell’economia. In realtà la Cina ha lanciato da anni un programma che aveva come obiettivo quello di dividere la Ue. Il formato “16+1” ha visto la partecipazione di 16 Paesi dell’Est europeo, di cui 11 sono membri della Ue, a un piano di investimenti finanziato da Pechino. A esso aderiscono tutti i Paesi sovranisti del gruppo di Visegrad (Polonia, Ungheria, Cechia e Slovacchia), di cui l’Italia si dichiara simpatizzante. Inoltre, in tempi più recenti, la Cina ha ottenuto l’adesione formale alla Belt and Road Initiative da parte di due Paesi Ue che stanno uscendo da un periodo di gravi difficoltà economiche, come la GRECIA, a cui i cinesi hanno comprato il porto del Pireo, e il PORTOGALLO, dove hanno finanziato progetti per miliardi. Non ci sarebbe molto da stupirsi se il prossimo a cadere nella rete fosse l’Italia, che in quelle stesse difficoltà economiche ci sta sprofondando, grazie alle cure del suo nuovo governo.
E qui potrebbe forse trovarsi un principio di spiegazione agli interrogativi che si pone l’Europa sulla decisione italiana di abbracciare l’iniziativa di Xi Jinping. Secondo gli americani, che guardano con ostilità all’espansionismo economico cinese, la Belt and Road Initiative è una debt trap: cioè una trappola del debito. In altre parole, molti dei 153 Paesi che hanno aderito al programma di investimenti cinese, in particolare i più poveri di Africa e Asia, hanno finito per trovarsi indebitati fino al collo con Pechino. Ed è chiaro che chi possiede il debito di un Paese ne controlla in larga misura anche la sovranità.
Nel caso dell’Italia, invece, la debt trap ce la siamo costruita da soli. E il ricorso alla Cina si spiegherebbe semmai come un disperato tentativo di uscirne. Con un debito pubblico stratosferico che non diminuisce e anzi rischia di aumentare, una economia in recessione e un differenziale sui tassi di interesse che penalizza il Paese rispetto al resto d’Europa, il governo Conte guarderebbe alla Cina come a un potenziale acquirente dei nostri titoli di Stato per allentare la pressione dei mercati. Più che agli investimenti cinesi in futuribili opere pubbliche questo governo, che già non porta a termine le opere pubbliche in cantiere e finanziate, potrebbe essere interessato a vendere alla Cina parte del nostro debito pubblico. Che questo possa avere a lungo termine effetti devastanti sulla nostra sovranità, al governo dei nostri sovranisti d’accatto non sembra interessare poi tanto. (Andrea Bonanni)

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PERCHÉ LA CINA STA COSTRUENDO LE INFRASTRUTTURE DI MEZZO MONDO?
di Paolo Bosso, da IL POST.IT (www.ilpost.it/) del 3/3/2019
– La storia della “BELT AND ROAD INITIATIVE” – la NUOVA VIA DELLA SETA, come la si chiama spesso – e di come la Cina vuole continuare a essere un impero –
Quella cosa che sui giornali e nei convegni viene chiamata “via della seta cinese” innanzitutto non si chiama “via della seta cinese”, neanche via della seta in generale, ma YI DAI YI LU, traducibile come UNA CINTURA, UNA VIA, o UNA CINTURA CHE È UNA VIA, com’è stata definita nello statuto del Partito Comunista, modificato nel 2017, dove si legge che il partito «deve migliorare costantemente i rapporti tra la Cina e i paesi vicino e lavorare per rafforzare l’unità e la cooperazione tra la Cina e gli altri paesi in via di sviluppo», «raggiungere una crescita condivisa attraverso discussione e collaborazione, e perseguire l’iniziativa della YI DAI YI LU». Una cintura, una via, o come viene più spesso chiamata, la BELT AND ROAD INITIATIVE (BRI).
È stato Xi Jinping nel settembre del 2013, allora neo segretario e presidente del Partito Comunista Cinese, il primo a parlare di un «progetto del secolo», una «cintura economica lungo la via della seta», durante un discorso agli studenti della NAZARBAYEV UNIVERSITY di ASTANA, in KAZAKISTAN. Ma «via della seta» è un’espressione che non è stata più ripresa dal partito – mentre spopolava nel resto del mondo – essendo eccessivamente amichevole, stucchevole, al limite dell’ipocrisia (era Marco Polo che andava in Asia, non il contrario). Si è preferito enfatizzare l’aspetto spaziale, logistico, così da apparire più neutrale: e quindi Belt and Road Initiative.
È la nuova fase di espansione dell’economia cinese, e, sotto il punto di vista logistico, ha uno scopo specifico: AVVILUPPARE EUROPA E ASIA CON NAVI E TRENI, controllandone la maggior parte delle infrastrutture. Direttamente, con operai a lavorare nei cantieri, dipendenti a dirigere gli uffici, armatori e ferrovieri a trasportare tonnellate di beni. Indirettamente, investendo con finanziamenti e prestiti l’immane riserva di liquidità accumulata negli ultimi decenni passati a fabbricare gli oggetti di consumo per il mondo (non solo, circa il 70 per cento dell’acciaio viene dalla Cina, quello che serve per costruire binari e ponti). La BRI è anche una nuova fase della crescita della Cina. La sua classe media è popolosa, va in crociera, viaggia, investe milioni di dollari, e sviluppa tecnologia. Un impero di queste dimensioni, così diverso dal 1966, per mantenere la sua egemonia deve iniziare ad aumentare la propria influenza con il potere degli investimenti e dei rapporti industriali e commerciali.
L’Impero Romano, raccontano gli storici, ha retto finché reggevano le periferie: al centro, come nel Dopoguerra, come mille anni fa, c’è sempre l’Europa, il mercato più importante di tutti, finche l’Africa non avrà anche lei una classe media. In un mondo finanziariamente e culturalmente omogeneo, la BRI vuol dire investimenti nelle ex repubbliche sovietiche, allacci ferroviari in Kenya, aeroporti in India, acquisizione di porti in Grecia nei punti strategici, allo scopo di creare un ampissimo flusso logistico che esporta e importa dall’Asia, attraversa l’Europa dell’est, arriva in Europa centrale a Nord e nel Maghreb a Sud, passando per Medioriente, Balcani e Africa del Nord.
A oggi 68 paesi hanno firmato accordi bilaterali con la Cina, in cambio del finanziamento di fabbriche di carbone in Pakistan, acquisto di porti in Grecia e Sri Lanka, centrali idroelettriche, dighe, aeroporti, ferrovie, strade, ponti. Se nel Dopoguerra era un Piano Marshall, se prima bisognava aiutare gli Stati da cui in cambio ottenere controllo politico e culturale, oggi, a quasi ottant’anni dall’ultima guerra fatta in Occidente, si tratta di creare, nel corso dei prossimi decenni, una cintura logistica.
Dopo l’annuncio di Astana, la concretizzazione del progetto è stata fulminea. Alla fine del 2015 è stata creata una banca d’investimento, la Asian Infrastructure Investment Bank, con un capitale di 100 miliardi di dollari proveniente da 93 Stati (69 membri, 24 contributori). La quota più grande viene dalla Cina (29,7 miliardi), seguono India (8,3) e Russia (6,5). Gli Stati Uniti non parteciparono, ritenendo che un investimento di questa ampiezza richiedesse il coinvolgimento della Banca Mondiale. L’Italia oggi partecipa con 2,5 miliardi, ma ora finanziano progetti legati alla BRI anche la Industrial and Commercial Bank of China, China Construction Bank, l’Agricultural Bank of China, l’Asian Development Bank e la Bank of China, ciascuna con un capitale dichiarato di 100 miliardi. C’è anche un “fondo BRI” specifico da 40 miliardi creato dal governo cinese, e gli investimenti diretti della Cina per la BRI sono molto superiori a quelli fatti con il fondo partecipato della Asian Infrastructure Investment Bank.
A gennaio del 2016, per esempio, la Cina ha comprato il porto del Pireo, in Grecia. Non è un eufemismo: oggi il porto del Pireo è al 67 per cento di proprietà di Cosco Shipping, conglomerato di compagnie marittime e società navalmeccaniche da 130 mila dipendenti direttamente controllato dal governo di Pechino. Apparentemente un unicum in Europa, inconcepibile in Italia, dove i porti sono gestiti da enti pubblici non economici (ma dove comunque la Cine ha investito massicciamente attraverso le società che gestiscono i porti) e anche lontano dalla governance portuale anseatica, dove i porti sono società per azioni in cui partecipano lo Stato o il comune. Ma il Pireo non è proprio questo, un ente pubblico cinese, solo che si trova in Grecia? Un avamposto commerciale-strategico, direbbe un analista politico; una colonia, direbbe uno storico. Il Pireo è oggi la porta di accesso in Europa per le navi provenienti da Hong Kong e Shanghai e il punto di sbocco delle merci provenienti dall’entroterra, magari da migliaia di chilometri: DA KHORGOS, PER ESEMPIO (https://www.ilpost.it/2019/02/10/cina-khorgos-via-della-seta/)
Ci sono corridoi commerciali tra Bangladesh, Cina, India e Myanmar verso Kazakistan e Pakistan, tratte ferroviarie verso Singapore passando per la Thailandia, ponti in Bangladesh, snodi ferroviari in Russia, alta velocità in Indonesia, un parco industriale in Cambogia, porti e ferrovie in Pakistan. E poi c’è l’Africa, il continente che le Nazioni Unite indicano come il più popoloso e giovane del mondo fra trent’anni, e che la Cina sta praticamente costruendo: l’ultimo prestito è di settembre dell’anno scorso, 60 miliardi di dollari, che ne replica uno analogo del 2015. Si tratta, come per tutti gli altri paesi dove investe e costruisce, di prestiti facilitati, linee di credito a tasso zero, fondi speciali, sgravi fiscali e progetti infrastrutturali. Un «prestito politico», come lo definiscono i docenti che analizzano il fenomeno; una trappola del debito, a voler essere ancora più cinici.
Così come il Piano Marshall non nasceva per essere un’alternativa al mercato statunitense ma aveva lo scopo di creare la prossima generazione di clienti, la BRI è un progetto lungimirante per imbrigliare nell’area di influenza cinese tutti quegli Stati che in futuro avranno una classe media numerosa. Una nuova espansione che tenga conto delle economia di scala non solo partendo dal singolo dispositivo (la nave, il treno, l’aereo, il camion) ma dal complesso stesso dei dispositivi. Il treno, per esempio, se è nettamente più costoso della nave, è anche decisamente più veloce. Un viaggio via binari dal confine orientale cinese a Madrid richiede tre settimane, che possono diventare anche sei via mare. Ma un convoglio ferroviario non può trasportare più di una cinquantina di container da 40 piedi di lunghezza, mentre una nave, in un singolo viaggio, può portarne oltre 20 mila. Nave, treno e aereo trasportano prodotti differenti: il primo tutti quelli a lunga scadenza (ma esistono anche i container-frigo) e non particolarmente preziosi da potersi fare un viaggio transoceanico, treno e aereo oggetti più preziosi per clienti più frettolosi. La Cina non si chiede cosa convenga e investe massicciamente su tutti i fronti: ed è l’unica nel mondo che dispone non solo dell’ambizione per chiederselo ma delle risorse per metterlo in pratica.
«È il rafforzamento delle periferie, il riutilizzo del surplus commerciale, e la soluzione al dilemma di Malacca, come lo chiamano i cinesi», spiega Giorgio Cuscito, analista geopolitico e consigliere redazionale di Limes. Lo STRETTO DI MALACCA collega OCEANO PACIFICO E INDIANO. Vi si affacciano Malesia, Indonesia e Singapore. Molto di più negli anni passati (con un picco nel 2014), alcune zone sono infestate dai pirati che sequestrano le navi mercantili e chiedono un riscatto. Fumi provenienti dagli incendi periodici dell’isola di Sumatra limitano la visibilità. In questo Stretto transita il flusso commerciale che dall’Asia va in Europa. Dipendere da questo Stretto quindi, per un impero come la Cina, non è il massimo. La BRI in questo senso non costituisce un’alternativa ma una piccola emancipazione. «Si tratta di una nuova via della seta, ma rovesciata», secondo Pietro Spirito, presidente del sistema portuale della Campania. «Se prima era Marco Polo ad aprire la strada verso l’Asia, oggi è Xi Jinping ad aprire l’Asia al mondo». (Paolo Bosso)

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È L’AFROEURASIA: IL XXI SECOLO SARÀ MULTIPOLARE

ORIZZONTI. FILOSOFIE, RELIGIONI, COSTUMI, SOCIETÀ
di Danilo Taino, intervista a PARAG KHANNA, dal supplemento domenicale “LA LETTURA” de “Il Corriere della Sera” del 3/2/2019
– PARAG KHANNA, esperto di relazioni internazionali, pubblica un saggio dal titolo inequivocabile: «THE FUTURE IS ASIAN», che esce in Italia con un più cauto «IL SECOLO ASIATICO?». In ogni caso, come anticipa in queste pagine, la tesi è chiara: c’è la Cina, ma non c’è soltanto la Cina. L’Occidente vivrà un declino relativo, però se saprà cogliere le opportunità…-
PARAG KHANNA VIVE A SINGAPORE, probabilmente il luogo migliore dal quale osservare l’Asia del XXI secolo. Così come chi vive a Parigi, Berlino o Roma rischia di avere un’idea del mondo eurocentrica, anche questo esperto di relazioni internazionali rischia di assumere una visione asiatico-centrica. Forse, però, è lui più vicino alla realtà: chi oserebbe, oggi, scrivere un libro dal titolo “Il secolo europeo”? Khanna, invece, nei prossimi giorni pubblicherà senza titubanze THE FUTURE IS ASIAN: COMMERCE, CONFLICT AND CULTURE IN THE 21ST CENTURY: in marzo in Italia da Fazi con il titolo IL SECOLO ASIATICO? (con il punto interrogativo, forse per non spaventare gli europei).
Khanna, 41 anni, nato in India ma studente di università americane e inglesi, ha raggiunto una fama globale con il libro CONNECTOGRAPHY. Le mappe del futuro ordine mondiale, pubblicato nel 2016 (in Italia sempre da Fazi). In questa intervista, raccolta mentre viaggiava verso Davos per il World Economic Forum, introduce una distinzione interessante, se vista nel dibattito che impegna gli esperti di strategie internazionali: l’Asia non è la Cina, la Cina non è l’Asia.
Che cosa intende per Asia?
«C’è solo una definizione corretta: quel territorio che va dal Mediterraneo e dal Mar Rosso al Mar del Giappone. Non solo quello che di solito viene chiamato Estremo Oriente. È arrivato il tempo di riconoscere questa entità nella sua interezza».
Qual è il ruolo della Cina in questo contesto: una forza unificatrice o un problema per gli altri Paesi?
«La Cina è un punto di mezzo per capire l’Asia. Un po’ di tempo dopo la Seconda guerra mondiale, fu il Giappone la potenza prevalente nel continente. Poi arrivarono le tigri asiatiche – la Corea del Sud, Taiwan, Singapore e così via. Paesi che furono poi i maggiori investitori nella crescita economica della Cina. Lo sviluppo dell’Asia degli scorsi decenni è la storia di un sistema interdipendente, fondato su risorse naturali, finanza, tecnologia, demografia. La crescita dell’Asia precede quella della Cina: si tratta di sistemi che si rinforzano reciprocamente, anche oggi».
Ora siamo però di fronte alla Belt and Road Initiative, la Nuova Via della Seta organizzata da Pechino, un progetto di infrastrutture senza precedenti. C’è chi ci vede un’iniziativa imperialista di Pechino.
«È parte dell’onda di reciproco rafforzamento tra Paesi. Si tratta della crescita e dei capitali cinesi in eccesso indirizzati, riciclati, verso il resto dell’Asia. La Belt and Road è la risposta a un fallimento del mercato nel campo delle infrastrutture: dagli anni Quaranta, la popolazione asiatica è quadruplicata e ciò ha creato un massiccio gap infrastrutturale. In più, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, la Cina vuole evitare di rimanere isolata nei commerci, vuole evitare la cosiddetta “trappola di Malacca” (lo stretto passaggio marittimo tra la Malaysia e l’isola indonesiana di Sumatra, ndr ): ha un eccesso di capacità produttiva da esportare e ha anche motivazioni strategiche».
L’economia cinese però rallenta.
«È un Paese che cresce da tempo, è normale che ci siano ritorni minori. Ma anche aumenti annuali di solo il 5% sarebbero un contributo sostanziale all’economia del mondo. Ora la crescita è prevalentemente interna e c’è molta potenzialità nascosta perché misuriamo le economie in un modo vecchio, concentrati sulle merci. Le imprese estere devono capire di diversificare. La Apple ha puntato tutto sulla Cina, solo adesso ha capito l’esigenza di andare anche in India. E, come l’India, ci sono altre economie asiatiche interessanti. È fuorviante vedere solo il rallentamento della Cina».
Pensa che il presidente Xi Jinping abbia il pieno controllo del potere oppure il rallentamento economico, le tariffe imposte da Trump e le numerose opposizioni alla Belt and Road lo possono indebolire?
«Penso che Xi sia in pieno controllo. Ma non credo ai discorsi sul culto della personalità. Un uomo solo non può guidare un Paese di un miliardo e quattrocento milioni di persone. Inoltre, la Cina ha istituzioni molto forti».
Cina e India possono cooperare nel lungo periodo?
«La loro relazione ha punti di rottura sin dagli anni Sessanta. Ma questo è solo un aspetto del rapporto tra Pechino e New Delhi. Militarmente la Cina è più forte, ma non vuole dare l’impressione di essere prepotente ai suoi vicini, i quali sono spesso sospettosi. Un buon rapporto con i vicini è essenziale per Pechino: è il Paese con il maggior numero di confini con altri Stati. In economia, poi, non è vero che Pechino investa solo in Paesi-clienti: in India investe più che in Pakistan. Credo che nel digitale, per esempio, la collaborazione commerciale Cina-India possa essere forte».
Lei vive a Singapore, luogo di incontro tra Est e Ovest. Crede che i cosiddetti valori asiatici e quelli occidentali possano convivere?
«Certamente. I nuovi valori asiatici sono importanti soprattutto in tre aree. Primo, il governo tecnocratico: c’è più tolleranza che in Occidente per un governo forte, se è efficiente. Questo non significa che non ci sia democrazia in Asia, come dimostrano le elezioni che si terranno quest’anno in India, Indonesia e altrove, quasi due miliardi di persone coinvolte. Secondo, il capitalismo misto, non solo quello privato ma anche quello di Stato, capace di gestire l’innovazione. Terzo, il conservatorismo sociale, che è più lento nel riconoscere questioni come quelle riferite ai gay: qui l’Asia può imparare, ma ha anche da insegnare, per esempio nel regolare i social media. In generale, l’Occidente può imparare, ad esempio sulla ricerca del consenso sociale e sul rispetto dei civil servant : sarebbe utile in Paesi come Stati Uniti, Gran Bretagna, Italia. L’Asia, per parte sua, ha già imparato molto dall’Ovest».
Che cosa significa per l’Occidente un secolo asiatico? Declino? Sottomissione politica?
«Declino relativo. Significa soprattutto che il futuro vedrà una multipolarità globale. Gli Stati Uniti resteranno un’àncora dell’ordine mondiale, lo stesso l’Europa: ora entra l’Asia. La quale è multipolare essa stessa, sa che cosa significhi. In Asia c’è una maggiore diversità interna che altrove, la geografia è più ampia. Non si tratta più di dire quale sia la nazione numero uno del mondo: in Asia abbiamo imparato la diversità, la multipolarità».
Vede uno scontro tra Stati Uniti e Cina? Il conflitto tra la potenza dominante e quella emergente, la cosiddetta «trappola di Tucidide», è inevitabile?
«La proiezione lineare si può superare. Lo scontro non è inevitabile. Anche perché Washington e Pechino hanno interessi sovrapposti. Persino nella guerra fredda le due superpotenze combattevano per procura: sta già succedendo oggi tra Usa e Cina. Siamo in una fase di transizione del potere. Tensioni ci saranno. Teniamo conto che gli Stati Uniti non sono una potenza asiatica: per geografia, politica e storia. Ma il conflitto diretto si può evitare».
Pensa che una Eurasia o, come la chiama lei, una Afroeurasia sarà dominata dalla Cina?
«Anche qui ci sono troppe proiezioni lineari quando si parla di militari o di “trappola del debito” (i prestiti di Pechino ai Paesi poveri che si indebitano troppo, ndr ). L’intervento cinese in Africa è limitato per natura. Anche l’India investe in Congo, Etiopia, Kenya. La Cina apre porte: altri entrano. Inoltre, ci sono resistenze all’espansione degli interessi cinesi, in Asia come in Africa e in Europa».
Quali sono gli obiettivi di Pechino in Europa?
«L’Europa è il maggior partner della Cina. Pechino vuole commercio. I treni che dalla Cina arrivano nella Ue carichi di merci ormai non sono più, come un tempo, vuoti quando tornano. Ma ci vogliono maggiori accordi di libero scambio, che sono favorevoli a entrambi. Come l’Europa ha capito partecipando alla Belt and Road Initiative e alla Aiib (la banca che la finanzia, ndr )».
L’Europa dovrebbe rompere con Washington e avvicinarsi a Pechino?
«Penso che dovrebbe fare come la Germania: seguire i propri interessi. A differenza degli Stati Uniti, partecipare alla Belt and Road Initiative, cercare accordi commerciali».
Non rischierebbe di allontanarsi dalla democrazia e dai valori liberali?
«Il modello cinese vale solo per la Cina. Non per altri. Un maggiore coinvolgimento dell’Europa rafforzerebbe la democrazia in Asia».

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IL GRANDE GIOCO SULLA VIA DELLA SETA

Corriere L’Economia – Guido Santevecchi – 11/03/2019
La firma del memorandum con Pechino rischia di infilare l’Italia nel mezzo del nuovo scontro fra America e Cina. Sul piatto ci sono i 900 miliardi di dollari del progetto orientale per ferrovie, strade, porti, telecom, energia. Siamo sicuri di poterci impegnare?
Il costo politico è serio, gli Usa sono per noi un riferimento Quei soldi però sarebbero utili a 160 mila aziende
Si parla molto di analisi costi-benefici di questi tempi in Italia. Non bastava la Tav, ora da Washington è stato aperto con grande polemica il fronte «Belt and Road», la Via della Seta tracciata da Xi Jinping per costruire un corridoio terrestre lungo l’Asia Centrale e uno marittimo attraverso l’Oceano Indiano e l’Africa: una serie di infrastrutture tra Cina ed Europa. Xi aveva lanciato l’idea nel 2013 con un discorso nella mitica Samarcanda, in Uzbekistan. Quando aveva parlato di «Yi Dai Yi Lu», che significa «Una cintura una strada», «One Belt One Road», pochi avevano prestato attenzione: il presidente cinese era ancora un oggetto sconosciuto, non si capiva se fosse un riformista o un conservatore, non era ancora leader a vita con il suo Pensiero iscritto nella Costituzione del Partito-Stato della seconda economia mondiale.
Poi Xi si è fatto capire meglio, vuole guidare la ri-globalizzazione (cinese) all’era dell’America First di Donald Trump, ha proposto a chi «non ha paura di navigare nell’oceano della globalizzazione» di «salire sul treno dello sviluppo». Frasi retoriche accompagnate però da cifre enormi: le nuove Vie della Seta saranno lastricate con 900 miliardi di dollari almeno in investimenti per costruire linee ferroviarie, porti, strade, telecomunicazioni, griglie energetiche tra Est e Ovest. Punto di partenza, centro di tutto, la Cina.
Veniamo ai costi-benefici per l’Italia che vuole firmare un Memorandum d’intesa sulla Via della Seta. Con scarsa delicatezza il portavoce del Consiglio di Sicurezza nazionale della Casa Bianca ha detto che l’adesione alla «Belt and Road» potrebbe «danneggiare la reputazione globale dell’Italia nel lungo periodo». Costo politico serio, visto che gli Stati Uniti sono per noi un punto di riferimento per economia e sicurezza numericamente e storicamente molto più pesante rispetto alla Cina.
Da Pechino il ministro degli Esteri Wang Yi ha detto di avere fiducia che l’Italia «terrà fede alla decisione presa in modo indipendente». Un ripensamento danneggerebbe il rapporto con la Cina. La stampa statale cinese ci ha fatto i conti in tasca: ha osservato che in un quadro di rallentamento, debito, disoccupazione, sottoscrivere il progetto potrà agevolare la penetrazione di prodotti italiani in Cina e creare opportunità di collaborazione nella costruzione di infrastrutture in Paesi terzi. Pechino ha investito già 13,7 miliardi di euro in Italia, siamo terzi in Europa dietro Gran Bretagna e Germania. Cento milioni di investimenti creano circa mille posti di lavoro, conclude il ragionamento cinese.
È poco rassicurante che i costi siano sottolineati da Washington e i benefici prospettati da Pechino: rischiamo di finire nel mezzo del fuoco del nuovo scontro strategico Usa-Cina, che non si esaurirà con una tregua nella guerra dei dazi.
Analisi tecniche sono state tracciate anche a Roma. L’Ufficio studi di Sace del gruppo Cassa depositi e prestiti ha pubblicato già nel 2017 un dossier sulla Belt and Road, dal titolo evocativo: «Ultimo treno per Pechino». Prende atto che la Belt and Road è un’iniziativa strategica con l’obiettivo di creare un’area di cooperazione politica ed economica in cui l’attore principale sia la Cina. Tra gli scopi c’è quello di sostituire gli Usa come nuovo attore globale ed esportare l’eccesso di capacità produttiva cinese. Però, restare fuori apre il rischio di marginalizzazione perché la cintura e la strada di Xi abbracciano il 38 per cento del territorio mondiale, il 62 per cento della popolazione, il 30 per cento del Pil e il 24 per cento dei consumi interni.
Sace sottolinea che «la naturale propensione italiana verso il settore logistico-portuale, composto da un cluster di 160.000 aziende dal valore stimato di circa 220 miliardi di euro» può pesare molto nel progetto cinese. Vengono citati i porti di Ravenna, Trieste soprattutto e come «brand» Venezia. Il nome della città di Marco Polo affascina ancora i cinesi: e l’Italia nella «Yi Dai Yi Lu» darebbe al progetto il marchio di nobilità del primo Paese del G7 a bordo.
Il Memorandum d’Intesa sembra una formula politico-diplomatica sufficientemente vaga da non legarci in modo ignominioso al carro dell’imperatore cinese. Se è indeterminato, a che cosa serve il Memorandum? In cambio dell’adesione prestigiosa si potrebbero ottenere con maggiore rapidità vantaggi sui dossier commerciali (ci sono voluti anni solo per sbloccare l’export per via aerea delle nostre arance).
Ma se tutto finirà bene, con una bella cerimonia di sottoscrizione, se dopo il memorandum arriveranno i progetti per infrastrutture, siamo sicuri di poterci impegnare? Ricevere investimenti da Pechino per la piattaforma logistica del porto di Trieste, diventare approdo per i container cinesi diretti in Europa occidentale e orientale, lavorare per costruire ponti e ferrovie in Africa darebbe sicuramente impulso a un Paese in recessione.
Sempre che alla fine la sindrome da No Tav non prenda in ostaggio ogni iniziativa. (Guido Santevecchi)

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LE NORME UE OSTACOLO PER PECHINO

La Stampa – Mario Deaglio – 11/03/2019
ANALISI
L’Italia non ha ancora avuto tempo di digerire il «ni» del governo sulla Tav che un’altra decisione epocale le si para davanti. Tra dieci giorni arriverà a Roma il presidente cinese Xi Jinping, in viaggio verso Washington per un incontro con il presidente Trump. Dal cui esito dipenderà se gli Stati Uniti imporranno nuove, pesanti e generalizzate sanzioni commerciali alla Cina, decretando così di fatto la fine di una quarantina d’anni di libero commercio mondiale.
Xi non viene a Roma per ricevere il conforto di Mattarella e di Conte. Vuole molto di più, ossia che l’Italia diventi un membro importante di una nuova alleanza strategica, a carattere pacifico, che veda la Cina al centro. Il progetto dell’attuale «Via della seta» costituisce l’elemento centrale per la realizzazione di questa possibile alleanza.
L’offerta cinese può apparire come manna caduta dal cielo al governo italiano e alle forze, sempre più divise, che lo appoggiano e che si dibattono tra grandi (e confusi) disegni di cambiamento, per i quali non hanno le risorse necessarie. La Cina non solo ha accumulato negli anni grandi quantità di debito pubblico italiano ma sarebbe forse l’unico Paese al mondo in grado di aiutare sostanzialmente il governo italiano finanziando il deficit crescente derivante dalle attuali politiche.
Pechino può apparire al nostro governo come un mitico «cavaliere giallo» che sostiene l’infelice Italia, incompresa dai suoi partners occidentali, e le permette di guardare al futuro. Naturalmente Pechino non lo fa solo per simpatia. La Cina ha compiuto importanti investimenti in Italia, le esportazioni italiane in Cina sono in costante e sostanziale aumento, piani industriali sino-italiani sono già stati studiati e in parte realizzati. Va inoltre ricordato che, da 4 anni, l’Italia, insieme a Francia, Germania e Regno Unito, è entrata – con una quota complessivamente pari a circa il 15 per cento – nella Asian Infrastructure Development Bank, sovente descritta come la risposta cinese alla Banca Mondiale, un’istituzione che finanzia infrastrutture largamente funzionali alla «Via della Seta» e i cui membri partecipano con le loro imprese alla realizzazione di tali progetti.
Tale ingresso provocò la reazione stizzita degli americani, ma tutto si fermò lì. Perché la Cina propone oggi solo all’Italia una collaborazione più stretta? Una parte della risposta è questa: l’Italia è la maggiore potenza industriale dell’Europa Meridionale, direttamente toccata dalla «Via della seta» e i cinesi ne farebbero volentieri un importante «terminal» del loro commercio mondiale. Collegandosi al «corridoio 5» (ossia alla Tav) la «Via della seta» contribuirebbe all’integrazione economica con l’Asia, a spostare il baricentro del commercio europeo dall’Atlantico allo scacchiere euro-asiatico. Il che, ovviamente, non mette allegria agli americani.
Si tratta di scelte fondamentali che non si adattano a furbizie diplomatiche. Una delle poche cose che l’Unione Europea è riuscita a centralizzare sono le trattative commerciali internazionali; questa «iper-trattativa» non può essere lasciata all’iniziativa di un solo Paese membro. È materia per il prossimo Parlamento Europeo e per la prossima Commissione Europea. L’unica cosa che il primo ministro italiano può ragionevolmente firmare è una memoria con l’invito a riparlarne quando nuovo Parlamento e nuova Commissione saranno felicemente insediati. Tutto il resto rimane, per ora, a livello di aspirazione. E il presidente Conte, quando incontrerà il presidente Xi, farebbe bene a ricordare una massima attribuita a Confucio: «Se cerchi una mano che ti aiuti nel momento del bisogno, la trovi alla fine del tuo braccio». (Mario Deaglio)

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Vedi anche:

LA CINA E LA NUOVA VIA DELLA SETA – “Belt and Road Initiative” (l’iniziativa di UNA CINTURA UNA STRADA) – La proposta di UN PONTE TRA ASIA ED EUROPA – CINA: paese emergente, affascinante, con problemi di libertà, democrazia; con molti giovani motivati – L’Europa dialogherà di più con l’ “impero” cinese?

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