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LA CAMERA HA APPROVATO LA LEGGE CONTRO LE ONG
di Annalisa Camilli, 16/2/2023, da https://www.internazionale.it/
– Nel giorno in cui la legge è stata approvata a Montecitorio, di fronte alla Libia è avvenuto un nuovo naufragio in cui sono morte 73 persone. Cosa prevede la norma e quali sono le critiche –
La camera ha approvato il decreto legge che inserisce ulteriori restrizioni sul soccorso in mare, su cui il governo aveva posto la fiducia. La norma è passata il 15 febbraio con 187 voti favorevoli, 139 negativi e tre astenuti. Il testo ora sarà esaminato dal senato. La nuova legge prevede che le navi umanitarie possano compiere una sola operazione di salvataggio in mare (per ogni missione), scoraggia i salvataggi multipli e fissa nuove sanzioni amministrative, tra cui multe fino a cinquantamila euro e il sequestro della nave per le organizzazioni che sono ritenute non in linea con il nuovo codice di condotta.
“Nel caso di operazioni di soccorso plurime, le operazioni successive alla prima devono essere effettuate in conformità agli obblighi di notifica e non devono compromettere l’obbligo di raggiungimento, senza ritardo, del porto di sbarco”, riporta la norma. Il decreto (che ora sta affrontando l’iter parlamentare per diventare legge) era stato varato d’urgenza tra Natale e Capodanno dal governo Meloni ed è in vigore dall’inizio di gennaio, in pratica ha comportato l’assegnazione di porti sempre più lontani alle navi umanitarie, che determinano un’ulteriore rallentamento nei soccorsi. (…..)
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LE CRITICHE DEL CONSIGLIO D’EUROPA
Il 26 gennaio il Consiglio d’Europa aveva inviato una lettera al governo italiano, chiedendo di ritirare o di cambiare la norma. Roma “deve considerare la possibilità di ritirare il decreto legge” sulle ong oppure adottare durante il dibattito parlamentare tutte le modifiche necessarie “per assicurare che il testo sia pienamente conforme agli obblighi del paese in materia di diritti umani e di diritto internazionale”.
Nel richiamo, la commissaria per i diritti umani Dunja Mijatovic diceva di “essere preoccupata che alcune delle regole contenute nel decreto ostacolino la fornitura di assistenza salvavita da parte delle ong nel Mediterraneo centrale”. In particolare, secondo la commissaria, le disposizioni del decreto, prevedendo che le navi debbano raggiungere senza indugio il porto assegnato per lo sbarco di chi è stato salvato, “impedisca alle ong di effettuare salvataggi multipli in mare, costringendole a ignorare altre richieste di soccorso nell’area se hanno già delle persone a bordo”.
Mijatovic evidenziava che “rispettando questa disposizione, i comandanti delle ong verrebbero di fatto meno ai loro obblighi di salvataggio sanciti dal diritto internazionale”. Ma il governo italiano aveva replicato definendo “infondati” i rilievi mossi dall’istituzione che si occupa del rispetto dei diritti umani in Europa. (di Annalisa Camilli, 16/2/2023, da https://www.internazionale.it/)

UNA NORMA DISUMANA
Nel giorno in cui la legge è stata approvata dalla camera, di fronte alla Libia è avvenuto un nuovo naufragio in cui sono morte 73 persone, mentre i sopravvissuti sono stati riportati in Libia, un paese che non riconosce la Convenzione di Ginevra per i rifugiati e in cui gli stranieri sono sottoposti a trattamenti inumani e torture. “Purtroppo la mancanza di vie legali d’ingresso in Europa costringe migliaia di persone a rischiare la vita affidandosi ai trafficanti”, ha affermato in un comunicato il centro Astalli, che ha sottolineato come “quest’ultima tragedia porti a 130 il numero dei morti dall’inizio di quest’anno”.
“Non si può continuare a lasciar morire le persone in mare rimanendo fermi e persino inasprendo le procedure per il soccorso e l’approdo in Italia. Governare le migrazioni richiede visione, strategia e lungimiranza nel gestire un fenomeno che non può essere fermato da muri, recinti e blocchi”, ha detto Camillo Ripamonti, presidente del centro Astalli. La ong tedesca SeaWatch ha definito la norma “disumana” e l’ha accusata di “istituzionalizzare l’omissione di soccorso”. (di Annalisa Camilli, 16/2/2023, da https://www.internazionale.it/)
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La ong Open Arms ha detto che la norma avrà come risultato l’ulteriore allontanamento delle organizzazioni umanitarie dal Mediterraneo. L’ong Sos Humanity ha chiesto alla Commissione europea di intervenire, perché la nuova normativa “viola le leggi europee e internazionali”.
Il 5 gennaio, venti organizzazioni umanitarie avevano già denunciato l’aumento dei morti in mare come risultato delle nuove restrizione imposte alle ong. Filippo Miraglia, responsabile immigrazione dell’Arci, ha commentato: “L’Italia ha raggiunto davvero un punto di non ritorno. Pur di portare a casa qualche risultato utile alla propaganda, la destra al governo è disposta a sacrificare migliaia di vite umane e di isolare sempre più il nostro paese in un’Europa che non è certo un continente aperto e solidale”. (di Annalisa Camilli, 16/2/2023, da https://www.internazionale.it/)
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NESSUNA EMERGENZA
Con un leggero aumento degli arrivi di migranti in Italia, nel 2022 sono sbarcate nel paese 105mila persone, una cifra lontana da quella del 2016, quando ne arrivarono il doppio. “Nonostante questo nell’ultimo anno è tornata la retorica del sistema al collasso”, scrivono ActionAid e Openpolis in un comunicato, presentando i dati di un nuovo rapporto sul sistema di accoglienza italiano pubblicato sulla piattaforma Centri d’Italia. La stessa legge contro le ong è stata approvata con la motivazione data dall’urgenza di una situazione definita “di emergenza”.
“Gestione irrazionale, completa assenza di programmazione, criteri discriminatori di accesso alle strutture e ai diritti. Sono questi i tratti caratteristici del sistema dell’accoglienza italiano, non il collasso delle strutture come spesso viene raccontato”, scrive il comunicato di Action Aid e Openpolis.
Nel 2021 infatti nei centri di accoglienza italiani c’erano 20.235 posti vuoti. “Un dato che diventa sconcertante se si osserva la serie storica: i posti lasciati liberi nei centri sono il 20 per cento del totale tra il 2018 e il 2021 (nel 2019 addirittura i posti vacanti raggiungono il 27 per cento del totale)”.
Una conferma che non c’è un’emergenza causata da numeri troppo alti di arrivi è proprio il caso della Sicilia, definita negli ultimi mesi dal governo Meloni il “campo profughi d’Europa”. “Qui la situazione al 31 dicembre 2021 vede il 30,5 per cento di posti lasciati liberi nell’intero sistema regionale. Anche facendo riferimento al 30 settembre 2021, oltre duemila posti, il 21,5 per cento della capienza, risultavano liberi”, concludono le due organizzazioni. (di Annalisa Camilli, 16/2/2023, da https://www.internazionale.it/)
Leggi anche
Cosa prevede il nuovo decreto sui soccorsi in mare

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UN’EUROPA SEMPRE PIÙ CHIUSA
di Maurizio Ambrosini, da https://lavoce.info/ del 31/01/2023
– La Commissione prova di nuovo a definire un quadro di regole comunitarie su asilo e ingressi non autorizzati. Ma per cercare di ottenere l’approvazione dei governi europei sovranisti, il pacchetto allontana la Ue dalla carta dei suoi valori fondamentali –
La lettera di von der Leyen
Ursula von der Leyen ci riprova. Dopo almeno un paio di tentativi di definire un nuovo quadro di regole comunitarie sui temi dell’asilo e degli ingressi non autorizzati (non dell’immigrazione, che è questione ben più ampia e complessa, e rimane in larga parte di competenza degli stati membri), la presidente della Commissione ha pubblicato una lettera ai capi di stato e di governo dei paesi membri con cui prova nuovamente ad assumere l’iniziativa (…).
Ogni pacchetto di proposte di von der Leyen sembra spostare la linea dell’Ue sempre più vicino a quella sovranista della chiusura dei confini nei confronti dei profughi provenienti dal Sud del mondo. A cominciare dalla premessa, in cui ha parlato di un forte aumento degli arrivi irregolari attraverso le rotte mediterranee e dei Balcani occidentali nel 2022, con le cifre più alte dal 2016.
Sembra una constatazione obiettiva, nel felpato linguaggio delle istituzioni comunitarie, ma trascura almeno tre elementi: primo, i richiedenti asilo non riescono quasi mai ad arrivare con documenti regolari, tanto che la legge li sgrava da contestazioni legali se ottengono lo status di rifugiati; secondo, il 2022 viene dopo due anni di mobilità limitata causa pandemia; terzo, nel mondo, oltre alla guerra in Ucraina, si protraggono situazioni di conflitto come quella siriana, mentre l’Afghanistan riconquistato dai talebani continua a produrre fuggiaschi, e nel Sahel è aumentata l’instabilità, insieme alla pressione jihadista.
I quattro pilastri della proposta
Tra i quattro pilastri e i quindici punti del piano annunciato, il primo, significativamente, è dedicato a “rafforzare le frontiere esterne mediante misure mirate da parte dell’Ue”. Tra queste, compare la proposta di impiegare fondi comunitari per aiutare gli stati membri “a rafforzare le infrastrutture per il controllo delle frontiere”. Per parecchi commentatori, significa un cambiamento di linea di Bruxelles in favore del sostegno alla costruzione di muri e barriere, fin qui avvenuta su iniziativa dei governi nazionali, ma senza aiuti comunitari. Per altri, compresa la commissaria per gli Affari interni, Ylva Johansson, la costruzione di muri rimane (per ora) esclusa, ma vi rientrano posti di guardia, strade di collegamento e altre strutture al servizio della sorveglianza dei confini.
Con i consueti artifici retorici, si prevede poi di offrire supporto, sotto forma di attrezzature e formazione, ai governi della sponda Sud del Mediterraneo, al fine di “rafforzare la loro capacità di ricerca e soccorso”. Ossia, tradotto in termini operativi: fornire motovedette e addestramento perché riportino indietro i profughi che cercano di arrivare nell’Ue. È il modello libico applicato su scala più ampia.
Il secondo pilastro, dall’apparenza tecnocratica, parla di “snellimento delle procedure di frontiera”: si tratta in realtà di perfezionare una lista di paesi di origine considerati sicuri, in modo da escludere per principio i loro cittadini dalla possibilità di ottenere asilo, di stabilire hotspot oltre le frontiere dell’Ue, così da obbligare i profughi a presentare lì le loro domande di asilo, di accelerare le procedure di rimpatrio, finora lente e inefficienti.
Il terzo pilastro dovrebbe preoccupare il governo italiano, perché riguarda la prevenzione dei movimenti secondari, ossia dei tentativi di passare dal primo paese di asilo a un altro paese dell’Ue, solitamente più a Nord. Qui pesa il regolamento di Dublino, che impone al primo paese d’ingresso l’onere di valutare le richieste d’asilo. La menzione di una “solidarietà”, ovviamente “volontaria” e quindi non vincolante, non basta ad attenuare la minaccia di nuovi controlli sulle Alpi e nuovi rinvii verso l’Italia di rifugiati intercettati in altri paesi dell’Ue. I governi del gruppo di Visegrad, nonostante la prossimità ideologica con il governo italiano e l’alleanza in sede Ue, difficilmente si lasceranno commuovere.
Il quarto pilastro riguarda gli investimenti negli accordi per favorire i rimpatri, con paesi come Pakistan, Bangladesh, Nigeria, oltre a Egitto, Marocco, Tunisia. I finanziamenti sulla partita dovrebbero arrivare al 10 per cento dei fondi Ue per l’estero. Tradotto: spostamento di fondi dalla cooperazione per lo sviluppo al finanziamento di governi autoritari perché si riprendano rifugiati e migranti che la Ue non vuole.
Poche le parole dedicate al versante dell’accoglienza: una rapida menzione dei corridoi umanitari e un cenno agli ingressi per lavoro, che diversi paesi stanno cercando di incrementare.
L’Ue in definitiva si allontana dalla carta dei suoi valori fondamentali per favorire un accordo che coinvolga anche i governi più refrattari alla tutela dei diritti umani universali. Il sogno sovranista si sta realizzando anche a Bruxelles. (Maurizio Ambrosini, da https://lavoce.info/ del 31/01/2023)
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MIGRANTI. ANCHE L’ONU CHIEDE ALL’ITALIA DI RITIRARE IL DECRETO ONG: SI RISCHIANO MORTI
da AVVENIRE https://www.avvenire.it/ 16/2/2023
– Dopo il Consiglio d’Europa, la richiesta arriva da Ginevra: «Modo sbagliato di affrontare le questioni umanitarie». La nave di Emergency salva 156 persone –
A Ginevra l’Onu scende in campo a difesa delle ong, invitando il governo italiano a “ritirare” il dl che «punisce organizzazioni umanitarie e migranti», mentre a Lampedusa una successione senza sosta di sbarchi mette di nuovo in crisi l’hotspot di Contrada Imbriacola e in mare la nave di Emergency, reduce da due soccorsi, viene indirizzata verso il porto di Civitavecchia.
Dopo il Consiglio d’Europa, è toccato alle Nazioni Unite bacchettare il governo Meloni: «È un modo sbagliato di affrontare le questioni umanitarie. Si rischia di far morire più persone in mare», ha detto l’Alto Commissario Volker Turk.
Il dl Ong, approvato dalla Camera e tra poco in discussione al Senato, non fa altro che «punire sia i migranti sia coloro che cercano di salvarli. Questa penalizzazione delle azioni umanitarie trattiene le organizzazioni dei diritti umani dal fare il proprio lavoro».
Il provvedimento, che andrà in discussione al Senato, richiede che le navi delle Ong non facciano soccorsi multipli e si dirigano, immediatamente dopo il primo soccorso, verso il porto assegnato, a prescindere dalla possibilità di salvare altri naufraghi nell’area. Al tempo stesso, fa rilevare l’Onu, l’Italia ha assegnato alle navi porti di sbarco distanti, talvolta a giorni di navigazione dal primo luogo in cui è stato compiuto un soccorso. «In base al diritto internazionale – spiega Turk – un capitano è vincolato al dovere di immediata assistenza alle persone in difficoltà in mare, e gli Stati sono tenuti a proteggere il diritto alla vita, ma il nuovo provvedimento obbliga una nave di ricerca e soccorso a ignorare le richieste di soccorso da parte di coloro che sono in mare solo perché ne sono stati salvati altri».
L’Alto commissario «sollecita con urgenza il governo dell’Italia a ritirare la legge proposta, e a consultare i gruppi che operano nella società civile, in particolare le Ong che si occupano di ricerca e soccorso, e assicurare una legislazione che rispetti le norme internazionali sui diritti umani, le leggi sui rifugiati e altre cornici normative, inclusa la Convenzione dell’Onu sul diritto del Mare e la Convenzione internazionale sulla ricerca e il soccorso in mare».
Le partenze dalla Libia, intanto, sono riprese, complice il bel tempo, e, di conseguenza, i soccorsi. La Aita Mari ha salvato 31 migranti stipati in una piccola barca di legno. Tra loro donne incinte, bambini e neonati di pochi mesi. Altri 33 migranti, che si aggiungono a quelli arrivati negli ultimi due giorni, sono stati soccorsi davanti alle coste sud-occidentali della Sardegna. La nave Life Support di Emergency ha soccorso e salvato, in due distinte operazioni, 156 persone nel Mediterraneo centrale, ma è stata minacciata da unità libiche con «manovre azzardate – spiega la ong – e intimidatorie». Emergency «ha scoperto ieri che il mezzo in questione apparteneva alle Ssa (Stability Support Apparatus, un organismo dipendente dal ministero dell’Interno libico)». «Denunciamo – sottolinea l’ong – le intimidazioni ricevute e le manovre azzardate nei nostri confronti da parte di un mezzo che appartiene a forze di sicurezza libiche. Confermiamo che la nostra nave si trovava a oltre 25 miglia nautiche dalla costa libica, quindi a debita distanza delle acque territoriali che terminano a 12 miglia, come riscontrabile dagli apparati di navigazione presenti a bordo».
Le autorità italiane hanno assegnato alla nave il porto di Civitavecchia. I naufraghi a bordo provengono da Bangladesh, Pakistan, Sudan, Eritrea, Egitto, Gambia, Ciad, Camerun, Senegal Mali, Nigeria, Costa d’Avorio, Guinea Conakri. «Tutte le persone soccorse – ha assicurato Agnese Castelgrandi, medico di bordo – stanno bene e stanno riposando. Stiamo monitorando costantemente le loro condizioni».
A loro è andata bene. Non così, invece, all’uomo il cui cadavere è stato trovato al largo di Lampedusa dalla Guardia di finanza. Il corpo era nei pressi dell’isolotto di Lampione. Potrebbe trattarsi di una delle vittime degli ultimi naufragi avvenuti nel canale di Sicilia. La salma è stata portata alla camera mortuaria del cimitero di Cala Pisana. Ieri (il 15/2/2023, ndr) sono arrivati 735 migranti a bordo di nove imbarcazioni. Oggi (16/2/2023, ndr) ci sono stati oltre una ventina di sbarchi.
Altri uomini e donne non arriveranno mai. Le persone soccorse da Emergency hanno segnalato di aver incrociato, prima di essere soccorsi, un’altra imbarcazione come la loro in mare “in condizioni precarie”. «Per ora non ve ne sono tracce», spiega l’equipaggio della nave, obbligata ormai a dirigersi verso Civitavecchia e a lasciare qualcuno indietro, in balia del mare. (AVVENIRE https://www.avvenire.it/ 16/2/2023)
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CONTINUANO A MORIRE, DOVEVANO ESSERE SALVATI
di Valerio Calzolaio, 21/2/2023, da https://ilbolive.unipd.it/
– Più traversate, più sbarchi, più morti, non essendoci vie regolari di accesso – La morte dei migranti sarebbe evitabile nella maggior parte dei casi, la partenza inevitabile quasi sempre – La migrazione è un fenomeno fisico sociale politico, la cui intima sostanza non è molto cambiata nei millenni –
Continuano a morire per mare e per terra. Il 14 febbraio 2023, secondo quanto riferito dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni presente in Libia (OIM, collegata all’Onu), 73 erano i morti, fra cadaveri recuperati (undici nella stessa spiaggia di partenza, dieci uomini e una donna) e persone disperse (sessantadue al momento dell’allarme), sul gommone che aveva a “bordo” circa 80 persone (sette sopravvissuti portati in ospedale in brutte condizioni), partito da Qasr Al Kayer nel Mediterraneo centrale.
Tra il 28 e il 29 gennaio 2023 la Guardia costiera della Tunisia aveva tratto in salvo nella notte 24 migranti subsahariani a bordo di un’imbarcazione colata a picco nel tratto di mare davanti alle coste di Louata, nel governatorato di Sfax, 13 altri migranti risultavano ancora dispersi. Il 6 gennaio 2023 un naufragio al largo di Lampedusa aveva provocato tre ulteriori vittime, tra i corpi recuperati un bambino di un anno (la Procura della Repubblica di Agrigento aveva subito aperto un’inchiesta con ipotesi di reato a carico di ignoti, di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e morte quale conseguenza di altro reato).
Al 23 gennaio almeno 25 erano stati in tutto morti e dispersi nel Mediterraneo centrale, per un totale di 20.247 dal 2014 (progetto Missing Migrants dell’OIM), ormai abbiamo già superato ampiamente i centotrenta quest’anno, una costante mortifera. Secondo le stime di OIM 1.377 persone sono tragicamente morte o scomparse solo nel Mediterraneo centrale solo durante il 2022. In un contesto che conferma “il venir meno di assetti di soccorso europei” e “gli ostacoli posti alle Ong”. Qualche anno fa ha riassunto dati e rotte degli ultimi decenni il giornalista Emilio Drudi (in Fuga per la vita, Simple Tempi Moderni, Macerata 2017), che periodicamente aggiorna la situazione, ricostruendo i percorsi dei migranti in fuga da dittature, conflitti ambientali ed etnici, guerre e dittature, disastri ambientali, mostrando il dramma dei profughi di oggi, i percorsi, le aspettative e le storie, accanto alle contraddizioni del nostro sistema di accoglienza.
I profughi complessivamente morti nel corso del 2022 sarebbero stati ancora una volta tantissimi, più di dieci al giorno nel tentativo di arrivare in Europa, 3.724 sapiens scomparsi in viaggio, perduti alla propria vita e ai propri cari, quasi il 3% in più delle 3.619 vittime del 2021. Morti di cui hanno responsabilità anche istituzioni pubbliche che potrebbero o dovrebbero salvare e assistere mentre, invece, restano inerti e silenti di fronte all’annientamento di vite, pensando così di essere più “popolari”, di garantirsi consenso e potere. Delle 3.619 vittime del 2022, 3.403 sarebbero state “inghiottite” dal mare e 321 invece lungo le vie di terra africane, del Medio Oriente o della rotta balcanica.
Il 17 febbraio scorso diciotto persone, fra cui un bambino, sono state trovate morte all’interno di un camion che trasportava legname nelle vicinanze di Lokorsko, un villaggio a 20 km a nordest della capitale bulgara Sofia, “clandestini” secondo il sito del ministero dell’Interno della Bulgaria, migranti sul suolo bulgaro provenienti dall’Afghanistan, nonostante il muro di 234 km costruito al confine con la Turchia. 14 sono stati trovati ancora all’interno del camion, otto in gravi condizioni, portati d’urgenza all’ospedale nella capitale. Altre dieci persone sono state trovate nascoste fra degli arbusti nelle vicinanze, mentre gli autisti sono fuggiti. Casi analoghi sono purtroppo già avvenuti in passato, talora nemmeno “censiti” (come anche in mare).
Continuano a morire
Le rotte via mare più pericolose sarebbero quelle spagnole, in Atlantico verso le Canarie o verso il Mediterraneo occidentale, con 1.607 vittime, una ogni 17,9 migranti arrivati, in aumento rispetto a una ogni 27 nel 2021. In forte crescita anche il tasso registrato nel Mediterraneo orientale: una vittima ogni 23,4 arrivi per un totale di 391 morti rispetto a quello di una ogni 72,3 precedente, con un totale di 104 vittime. Quanto al “nostro” Mediterraneo centrale, il dato assoluto delle vittime è tra i più alti mai registrati. Una tragedia che deriva anche dai muri (di mare e di terra) eretti dall’Ue per tenere fuori i profughi a qualsiasi costo. Ne sarebbero state vittime anche i circa duecento mila bloccati e respinti dalle polizie degli Stati che si sono accordati con l’Ue per svolgere la “sorveglianza” dei confini dell’Unione: Turchia, Egitto, Sudan, Libia, Niger, Tunisia, Algeria, Marocco, paesi a cui abbiamo dato denaro, armi, copertura istituzionale, per respingere, perseguitare, torturare, a volte uccidere donne, bambini, uomini in fuga dalle dittature e dai cambiamenti climatici.
Continuano a partire
Nella settimana italiana del Carnevale, con il migliorare delle condizioni meteo sono aumentate le partenze dei migranti sia dalla Libia che dalla Tunisia. A Lampedusa continuano a sbarcare da tante successive imbarcazioni centinaia di migranti, ogni giorno, l’hotspot è stracolmo, nonostante alcune immediate ricollocazioni, ma ora vi sono meno operatori Rai (servizio pubblico) a documentare la situazione, e anche le agenzie di stampa lesinano notizie, mentre d’altra parte le navi Ong impegnate in area dei soccorsi nel Mediterraneo centrale vengono dirottate verso i lontani porti del Nord Italia, alti Adriatico e Tirreno.
Alle 8 del 16 febbraio 2023 erano 7.741 i sapiens migranti sbarcati sulle coste italiane da inizio anno. Nello stesso periodo, nel 2022 furono 4.263 mentre nel 2021 2.486. Nel 2023 oltre mille risultano di nazionalità ivoriana (13%), sulla base di quanto dichiarato al momento dello sbarco; gli altri provengono da Pakistan (967, il 13%), Guinea (912, il 12%), Egitto (430, il 6%), Tunisia (416, il 5%), Siria (338, il 4%), Afghanistan (336, il 4%), Bangladesh (253, il 3%), Eritrea (236, il 3%), Camerun (225, il 3%) a cui si aggiungono 2.596 persone (34%) provenienti da altri Stati o per le quali risultava ancora in corso la procedura di identificazione.
E, nel frattempo, Lampedusa non è stata certo aiutata a reggere l’impatto, lasciata di nuovo sola e bistrattata: in pochi giorni sono arrivati migliaia di altri migranti, ormai oltre diecimila via mare in Italia da inizio 2023, numeri in crescita (non è questo il problema) e numeri non allarmanti (visto quanti siamo in Italia e in Sicilia), ma esorbitanti se circoscritti a un piccolo spazio detentivo nascosto in una piccola isola.
La capienza formale era e resta di quattrocento disagevoli posti (come limite massimo istituzionale), in questi giorni gli “ospiti rinchiusi” hanno quasi sempre superato i duemila (come realtà quotidiana di vita), giunti perlopiù dalla Tunisia dove crescono povertà e disoccupazione (i veri e propri cittadini tunisini che partono sono però ancora una minoranza degli arrivi). L’hotspot di Lampedusa è stato più volte redarguito dalle istituzioni europee, anche di recente, per le gravi violazioni che sono sistematicamente attuate nel centro in una condizione di sostanziali invivibilità e invisibilità. La soluzione finora adottata è stata di silenziare le informazioni.
All’alba di lunedì 20 febbraio erano 2.168 i migranti ospiti dell’hotspot di Lampedusa al collasso, i giornali siciliani continuano a parlarne. A centinaia, da giorni, continuano a dormire, con materassini di fortuna e coperte termiche, nel piazzale antistante della struttura. Nonostante la raffica di trasferimenti effettuati dalla Prefettura di Agrigento, che è arrivata a spostare anche 1.041 persone in una sola giornata, la struttura resta insopportabilmente piena. Novanta dei migranti ospiti sono stati il 20 mattina trasferiti al porto e imbarcati su una motovedetta della guardia di finanza con rotta verso Pozzallo. Altri 183 risultano quasi imbarcati sul traghetto di linea per Porto Empedocle. Ma la situazione resta drammatica. C’era pure un cadavere su uno dei barchini soccorsi al largo di Lampedusa domenica 19. È sempre e ancora così: se non si accoglie regolarmente, se non si assiste chi è in difficoltà in mare, non tutti riescono ad arrivare vivi.
Eppure non sarebbe male ricordare che noi sapiens abbiamo migrato per mare e per terra fin da quando siamo apparsi sulla scena della Terra, come ha di nuovo spiegato saggiamente recentemente un grande scienziato sociale: Massimo Livi Bacci, Per terre e per mari. Quindici migrazioni dall’antichità ai nostri giorni, Il Mulino Bologna 2022. La migrazione è un fenomeno fisico sociale politico, la cui intima sostanza non è molto cambiata nei millenni; un fenomeno difficilmente classificabile, per la varietà delle motivazioni, delle selezioni e delle modalità con cui avviene; per l’intermittenza del suo fluire nel tempo; per la molteplicità delle circostanze che lo accompagnano; per convenienze e conseguenze che determina. Duemila anni fa Seneca (esiliato in Corsica dall’imperatore Claudio) aveva già capito tantissimo (certo più dei decisori politici attuali): per lui il mondo conosciuto era già da tempo un crogiolo di etnie, culture e lingue, conseguenza della stratificazione storica delle migrazioni; un mondo di migranti mossi dalla natura umana e per mille spinte concrete lungo vie spesso impervie e ignote, assicurando a tutti (anche a chi non migra) il rinnovo e il ricambio delle società.
Massimo Livi Bacci esamina quindici episodi di migrazione, storicamente e geograficamente determinati, diversissimi per luoghi e tempi, moventi o modi o effetti, raggruppati a seconda del grado di libertà individuale che ha informato la scelta di migrare (termini oculati e scelta colta). Per spostare intere etnie da un capo all’altro dell’impero bastava un cenno dell’Inca in Perù, o una decisione del Politburo in Unione Sovietica, ma per insediare il continente nordamericano occorsero milioni di decisioni individuali. Le migrazioni poste in atto dall’attività militare di Roma furono di soli uomini, le filles du roi furono solo donne, i tedeschi reclutati da Caterina la Grande solo famiglie, i Goti e i Longobardi e altre etnie barbariche interi popoli. I Greci ápoikoi nel Mediterraneo erano poche migliaia, la migrazione transoceanica riguardò decine di milioni di persone. I migranti stagionali in Europa coprivano distanze ridotte, gli haitiani vittime di disastri hanno viaggiato su e giù per un intero continente.
Lo stimato demografo ha realizzato un bel testo, intelligente nella concezione, multidisciplinare nel contenuto, godibile nello stile. Non un’impossibile storia di tutte le migrazioni umane, non un improbabile campione globale sistematico, piuttosto occasioni di riflessione comparata sul fenomeno antico e ubiquo della nostra capacità di migrare (sempre e ovunque), “qualità istintuale connaturata agli esseri viventi” (come opportunamente sostiene l’autore, forse poteva aiutare qualche riferimento alla biologia evolutiva), “fattore di ricambio e rinnovo delle collettività” capace di influenzare le decisioni di governo (e qui forse poteva aiutare la definizione del fenomeno come diacronico e asimmetrico). Le prime storie riguardano proprio l’antichità euromediterranea: le colonie di città greche almeno dall’VIII al VI secolo a.C.; l’estensione del mondo romano soprattutto tramite selezione di veterani (delle tante guerre) guidati dallo Stato centralizzato; la pressione dei popoli germanici sulle frontiere dell’impero a partire dal III secolo.
Seguono nel testo altre storie di migrazioni forzate politiche, in tutto o in larga parte: volutamente non la già trattata deportazione degli schiavi, bensì i tre casi dell’impero Inca nel XV e XVI secolo, dell’impero ottomano al tramonto (da poco più di un secolo fa), dell’Urss negli anni della seconda guerra mondiale. Poi quelle a seguito di “misfatti della natura”, in tutto o in larga parte: le siccità (in particolare la Grande Seca del 1877-1879 nel nord-est brasiliano e il Dust Bowl in almeno tre stati americani negli anni Trenta del Novecento), i disastri geomorfologici e climatici (come ad Haiti il terremoto del 2010 e l’uragano del 2016), le carestie alimentari conseguenti a “malattie” negli ecosistemi (come la distruzione della patata in Irlanda tra il 1845 e il 1850, causa peronospora).
Fra le migrazioni più libere la distinzione essenziale è fra quelle organizzate (le giovani donne inviate dalla Francia al Québec dal 1663 al 1673; i tre secoli del Drang nach Osten, la germanizzazione dell’est europeo; la colonizzazione della valle del Volga operata da Caterina la Grande tra il 1674 e il 1767) e quelle più individualmente libere, a ondate da contesti impoveriti o verso nuovi mercati del lavoro, sia internazionali che nazionali. Qualche mappa, un colorato inserto iconografico, buon apparato di note, indici dei luoghi e dei nomi. Sulla base di quel che abbiamo vissuto, quanto accade oggi potrebbe finalmente comportare meno guai e morti, invece non è così. (Valerio Calzolaio, 21/2/2023, da https://ilbolive.unipd.it/)
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PERCHÉ LE NAVI DELLE ONG AIUTANO I MIGRANTI
di Alessio Zamboni, 8/2/2023, da https://www.semprenews.it/
– Con i primi interventi del governo Meloni torna al centro dell’agenda politica l’emergenza migranti nel Mediterraneo e il ruolo delle ONG. Ecco quello che c’è da sapere –
COSA SONO LE ORGANIZZAZIONI NON GOVERNATIVE, chi le finanzia, qual è il loro ruolo nel salvataggio dei migranti, perché li portano in Italia anche se il Governo non vuole?
Nel suo primo discorso alla Camera per chiedere la fiducia, la futura premier italiana Giorgia Meloni aveva preannunciato l’intenzione di intervenire a livello europeo per «recuperare la proposta originaria della missione Sophia» nella fase, mai attuata, che prevedeva «il blocco delle partenze dei barconi dal nord Africa», intervento che andrebbe accompagnato «dalla creazione sui territori africani di hotspot, gestiti da organizzazioni internazionali, dove poter vagliare le richieste di asilo e distinguere chi ha diritto ad essere accolto in Europa da chi quel diritto non ce l’ha».
Temi che Meloni ha portato nel suo primo viaggio a Bruxelles per incontrare i vertici dell’Unione Europea.
Nel frattempo l’emergenza umanitaria procede senza aspettare i tempi della politica e le cronache riportano l’attenzione sulle navi delle ONG cariche di migranti, alla ricerca di un porto sicuro in cui farli attraccare.
Le Organizzazioni Non Governative (ONG) operano da molti anni in vari settori dell’intervento umanitario, ma il grande pubblico ha scoperto solo da poco la loro esistenza, grazie proprio all’opera di salvataggio dei migranti nel Mar Mediterraneo.
Perché intervengono? Chi le finanzia? Perché, se sono organizzazioni internazionali, hanno comunque issata la bandiera di una nazione e perché non portano i migranti nello Stato indicato dalla loro bandiera e chiedono invece di attraccare in altri Stati?
Per capire come stanno veramente lo cose, lo chiediamo all’avvocato Laila Simoncelli, che da anni cura i report sul rispetto dei diritti umani per l’ufficio di rappresentanza della Comunità Papa Giovanni XXIII presso le Nazioni Unite.
ANZITUTTO, COS’È UNA ONG?
«È un’Organizzazione Non Governativa privata, senza scopi di lucro e – come la definizione stessa dice – indipendente dagli Stati e dai Governi, che ottiene la parte più significativa dei propri introiti da fonti private, per lo più donazioni.
Pur essendo indipendenti, le ONG possono collaborare con le istituzioni pubbliche e ricevere – a seconda delle normative nazionali – contributi e/o finanziamenti per svolgere le loro attività statutarie. Le ONG perseguono diversi obiettivi di utilità sociale, cause politiche o di cooperazione allo sviluppo. Gli ambiti di intervento sono vari: tutela dell’ambiente e del territorio, protezione delle minoranze, difesa dei diritti umani, ambiti di sviluppo e protezione specifici per alcune categorie di persone.
Le ONG possono avere diverse forme giuridiche a seconda delle legislazioni nazionali. La maggior parte sono costituite sotto forma di associazione o fondazione.
In Italia al marzo 2019 erano circa 227 le organizzazioni iscritte nell’apposito elenco gestito dall’AICS, Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo».
PERCHÉ LE ONG SI OCCUPANO DI MIGRANTI?
«Essendo associazioni transnazionali private, che con un apparato organico stabile perseguono fini altruistici in maniera pacifica, anche la tutela delle persone migranti ed il salvataggio in mare rientrano tra i loro vari possibili scopi statutari in quanto attività funzionali alla protezione dei diritti umani ed in particolare del diritto alla vita e ad essere salvati se in pericolo di morte.
Fu dopo i grandi naufragi – su tutti quello di Lampedusa del 3 ottobre 2013, con 368 morti accertati – che la società civile, sconvolta e inorridita da queste morti, iniziò ad organizzarsi per le azioni di salvataggio. In contemporanea nacque anche Mare Nostrum, la rete di salvataggio ideata e gestita dal Governo italiano. Dopo l’arretramento dei governi e le nuove stragi del 2015, i privati hanno svolto un ruolo di supplenza raccogliendo inizialmente riconoscimenti, encomi e premi».
COME FANNO LE ONG AD AVERE UNA NAVE? CHI LE FINANZIA?
«Ogni ONG con nave ha origini diverse e si finanzia in modo diversificato, per lo più con donazioni regolamentate dalle legislazioni nazionali della sede legale. Ne cito alcune.
MOAS (Migrant Offshore Aid Station), con sede a Malta, è stata la prima organizzazione non governativa ad operare nel Mediterraneo. I suoi fondatori, Christopher e Regina Catrambone, hanno avviato questo progetto nel 2013, in seguito al disastroso naufragio del 3 ottobre prima citato. Il progetto, completato nel 2014, è completamente finanziato da privati e si avvale di professionisti internazionali nel settore umanitario e della sicurezza, di personale medico ed esperti ufficiali della marina. Il MOAS si avvale dell’utilizzo di due navi, la Phoenix e la Topaz Responder.
SOS Mediterranee: l’uomo che ha ideato il progetto, fondato l’associazione e suo attuale presidente è Klaus Vogel, capitano di marina mercantile. Il progetto, di partenza tedesco, è stato appoggiato in Francia da Sophie Beau e in Italia da Valeria Calandra, ed è interamente finanziato da privati. L’organizzazione è operativa dal febbraio del 2016 con l’obiettivo primario di organizzare il salvataggio dei migranti in pericolo di vita nel Mar Mediterraneo; l’Aquarius è una delle sue navi.
Medici senza frontiere è un’organizzazione internazionale non governativa, fondata nel 1971 da alcuni medici francesi, che si prefigge lo scopo di portare soccorso sanitario ed assistenza medica nelle zone del mondo in cui il diritto alla cura non sia garantito. L’organizzazione è finanziata grazie a donazioni private e dal 2015 è presente nell’area. Sue sono le navi Bourbon Argos e Dignity I.
Sea-Watch e.V. è stata fondata nel 2014 dal tedesco Harald Höppner ed è interamente finanziata con fondi privati. Attiva dal 2015 nell’area del Mediterraneo, inizialmente si avvaleva di una sola nave, dal marzo del 2016 l’organizzazione ha acquisito più grandi imbarcazioni.
Sea-Eye e.V. è stata fondata nell’autunno 2015 dall’imprenditore Michael Buschheuer di Ratisbona, in Germania, con un gruppo di familiari e amici. Dall’aprile del 2016 la nave di cui si è dotata l’ONG, la Sea-Eye 225, opera fra Malta e la zona al largo delle coste libiche con fondi interamente privati.
Jugend Rettet è nata nell’aprile del 2015 per volontà di nove ragazzi berlinesi, tra i 20 e i 29 anni, i quali hanno avviato una raccolta fondi per acquisire un vecchio peschereccio olandese e inviarlo nella zona del Mediterraneo centrale. L’imbarcazione che ne costituisce l’asse operativo in mare è la Juventa.
Proactiva Open Arms ha iniziato ad operare nel Mar Egeo, a Lesbo, nel settembre del 2015 con un gruppo di Lifeguards che prestavano soccorso direttamente da riva e senza nessun equipaggiamento. Successivamente l’organizzazione si è dotata di una barca a vela, l’Astral 231, poi della nave Golfo Azzurro e della Open Arms. Per problemi di fondi, alla data del marzo 2018 solo quest’ultima è pienamente operativa.
Mediterranea è una nave e un progetto italiano, “una piattaforma di realtà della società civile” nata con lo scopo di denunciare e testimoniare quello che accade nel Mediterraneo. Banca Etica ha concesso il prestito per avviare la missione e per l’acquisto della nave. Inoltre sta supportando il crowdfunding per sostenere tutti gli aspetti economici. Le navi usate sono la Mare Jonio e la Alex».
LA NAVI DELLE ONG HANNO LA BANDIERA DI UNO STATO. COSA SIGNIFICA e che responsabilità ha lo Stato rispetto a quello che fa l’ONG con la nave?
«Con il termine nazionalità o bandiera si designa un criterio di collegamento della nave con l’ordinamento giuridico di uno Stato. La nazionalità della nave comporta che a bordo della stessa si applichi la legislazione e la sovranità dello Stato di bandiera. Il comandante della nave pertanto dovrà comportarsi rispettando le leggi nazionali dello Stato di bandiera a bordo e rispettare le norme internazionali ed i trattati relativi al diritto del mare durante la navigazione e nell’interazione con acque nazionali di altro Stato.
Uno Stato può legittimamente concedere la sua bandiera se esiste un “legame sostanziale” tra la nave e l’ordinamento nazionale. Sotto l’aspetto pratico uno Stato attribuisce la propria nazionalità a una nave attraverso la registrazione della stessa in appositi registri».
UNO STATO PUÒ VIETARE ALLA NAVE DI UNA ONG DI EFFETTUARE UN SALVATAGGIO DI MIGRANTI IN MARE?
«Non esiste né potrebbe esistere una norma che impedisca a chi conduce una nave di operare dei salvataggi in mare, infatti nei vari trattati internazionali e norme nazionali, è previsto l’obbligo di salvare le vite in mare come adempimento di un dovere e come valore da sempre riconosciuto nel diritto del mare di tutti gli Stati (articoli 1113 e 1158 del codice della navigazione italiano).
Sono poi regolamentate da un particolare trattato internazionale, il SAR (Search And Rescue) le modalità di messa in salvo e disimbarco dei naufraghi una volta operato il salvataggio e individuato il cosiddetto safety place o porto sicuro. La competenza a giudicare le eventuali violazioni del comandante in acque nazionali di uno Stato diverso da quello di bandiera sono regolate dalle norme sulla giurisdizione di diritto internazionale».
COME FA UNA ONG A SAPERE DOVE ANDARE A PRENDERE I RICHIEDENTI ASILO? Da chi viene avvisata?
«Le navi delle ONG semplicemente monitorano le acque internazionali di fronte e nei pressi delle coste libiche, luoghi dove sono avvenuti numerosi naufragi di barconi o gommoni di migranti con tragiche morti, ed intervengono nei casi di avvistamento di natanti allertando le autorità responsabili (Referenti Guardia Costiera Nazionale) della relativa zona di ricerca e salvataggio (zona Sar) definite dall’Organizzazione Marittima Internazionale (IMO).
Possono anche intervenire su segnalazione/avvistamento da parte di altri natanti, anche commerciali o di altro genere, e a seguito di richieste di soccorso pervenute da allarmi specifici lanciati tramite telefoni privati e numeri di emergenza. Nel corso degli anni sono stati attivati, oltre ai numeri pubblici delle autorità costiere degli stati rivieraschi, strumenti di allarme come ad esempio Alarm Phone per chiedere aiuto».
CI PUÒ ESSERE UNA QUALCHE FORMA DI COLLABORAZIONE CON I TRAFFICANTI DI ESSERI UMANI?
«La possibilità che le ONG abbiano una qualche forma di collaborazione con i trafficanti è stata ripetutamente esclusa da molteplici indagini della magistratura italiana e da indagini parlamentari ed extraparlamentari. È in sostanza una considerazione assolutamente smentita dai fatti».
PERCHÉ, NONOSTANTE UN GOVERNO VIETI DI APPRODARE sulle proprie coste, le navi delle ONG continuano a voler attraccare?
«Il comandante che operi un salvataggio è tenuto giuridicamente a rispettare le norme del trattato SAR e a condurre i migranti al porto sicuro più vicino. Quando questo porto sicuro, ad esempio, è l’Italia, le navi ed il comandante è lì che sono tenuti a operare lo sbarco nei tempi più rapidi possibile. Giuridicamente gli obblighi del nostro Governo, qualora per le norme di legge sia identificato come safety place, potrebbero essere superati solo a seguito di una disponibilità volontaria di altri porti di altri Stati. Ma se non c’è disponibilità volontaria di altri, il Comandante compierebbe un atto illegittimo andando in altro porto di sua iniziativa, violando così le norme internazionali, mentre agirebbe nel compimento di un dovere recandosi in Italia pur non rispettando divieti imposti dalle autorità italiane; ovviamente in questo ultimo caso si possono aprire dei contenziosi rispetto ai quali spetta alla magistratura operare il giudizio.
Quando poi le condizioni di salute dei “salvati” sono difficili o in aggravamento nell’attesa o nel ritardo, una eventuale inottemperanza ai divieti imposti integrerebbe un vero e proprio stato di necessità perché, se il comandante non operasse al più presto lo sbarco, potrebbe essere sottoposto a procedimento penale per non aver messo in sicurezza i naufraghi secondo legge internazionale».
PERCHÉ LE NAVI NON RIPORTANO i richiedenti asilo sulle coste dei Paesi da cui sono partiti, ad esempio la Libia?
«È stato ampiamente documentato in molti rapporti delle Nazioni Unite e delle ONG che i migranti in Libia sono soggetti a diverse violazioni dei diritti umani, tra cui il traffico di persone, prolungate detenzioni arbitrarie in condizioni disumane, torture e maltrattamenti, uccisioni illegali, stupri e altre forme di violenza sessuale, lavori forzati, estorsioni e sfruttamento. Pertanto, la Libia non può essere considerata un posto sicuro ai fini dello sbarco dei migranti.
Ciò è chiaramente dimostrato in un recente rapporto – “Disperata e pericolosa: Rapporto sulla situazione dei diritti umani dei migranti e dei rifugiati in Libia” – datato 20 dicembre 2018, preparato congiuntamente dall’Ufficio dell’Alto Commissariato ONU per i diritti umani (OHCHR) e dalla Missione di Supporto dell’ONU in Libia (UNSMIL)».
L’ATTENZIONE MEDIATICA È SULLE NAVI DELLE ONG MENTRE CONTINUAMENTE ARRIVANO sulle nostre coste molte barche di richiedenti asilo di cui quasi nessuno parla. Ci sono dati?
«Il fenomeno degli sbarchi cosiddetti fantasma, ossia autonomi, non è cosa nuova ma a causa della loro natura, non esistono dati certi. Stime approssimative parlano di una forbice da circa 3.500 a 5.000 persone all’anno, ma in realtà quanti siano nessuno lo sa esattamente».
È CORRETTO RITENERE CHE, SE NON CI FOSSERO LE ONG A SOCCORRERLI, MENO MIGRANTI deciderebbero di imbarcarsi su barche o gommoni di fortuna e quindi diminuirebbe il numero di morti in mare?
«Questa affermazione è stata oggetto di un fact checking sin dal 2015 e si è rivelata completamente infondata. Matteo Villa, ricercatore dell’Ispi, che ha analizzato tutti i dati raccolti dalla Guardia costiera italiana, dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) e dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) dal gennaio del 2016 all’ottobre del 2018, afferma che i dati parlano chiaro: il pull factor non esiste.
Federico Soda, Direttore dell’Ufficio di Coordinamento per il Mediterraneo dell’OIM, aveva già affermato nel massimo momento di flussi nel 2017 che non solo “la presenza di navi nel Mediterraneo non rappresenta un fattore di attrazione”, ma “parlare di pull factor è fuorviante”, perché i migranti sono spinti da tanti altri fattori “tra cui il principale è il deterioramento delle condizioni di vita in Libia, e sono sempre di più le persone che scappano in quanto vittime di violenze e abusi”.
Ancora in Commissione Difesa al Senato il comandante generale del Corpo delle Capitanerie di porto, Vincenzo Melone, aveva ampiamente spiegato che l’area di ricerca e soccorso “non è la causa di questo evento epocale, né può essere la soluzione, che deve essere politica. La gestione dei soccorsi in mare è sintomo di una malattia che nasce e si sviluppa altrove, sulla terraferma, ed è lì che bisogna intervenire”.
Ricordiamo poi, oltre alla sua audizione al Comitato Shengen, l’audizione parlamentare del 3 maggio 2017 dal Contrammiraglio Nicola Carlone, Capo del III reparto Piani e Operazioni del Comando generale del Corpo delle Capitanerie di Porto-Guardia costiera. Egli ha affermato esplicitamente: “Tengo a precisare comunque che la presenza delle Ong non comporta quello che viene detto un fattore di attrazione, spesso non dà impulso alle partenze … il fenomeno è governato esclusivamente a terra, secondo modalità decise dalle organizzazioni criminali”.
In definitiva è evidente che le ONG presenti in mare non solo non incentivano gli sbarchi ma contribuiscono soltanto a salvare vite che diversamente alimenterebbero il tragico “cimitero” del Mediterraneo».
IN ALTERNATIVA ALLA POLITICA DEI PORTI CHIUSI, QUALE SOLUZIONE ci potrebbe essere per fermare i trafficanti di esseri umani?
«Occorre affrontare la questione in maniera ampia, strutturale, anziché in modo emergenziale e privo di una visione d’insieme e di prospettiva.
Solo favorendo canali legali di migrazione per fare dell’Europa un ambiente inclusivo in grado di facilitare l’integrazione dei migranti nella società, riconoscendo la realtà dell’interdipendenza tra i popoli, si porrà un freno al traffico illegale di esseri umani.
La pace e la prosperità, infatti, sono beni che appartengono a tutto il genere umano, sicché non è possibile goderne correttamente e durevolmente se esse vengono ottenute a danno di altri popoli e nazioni, violando i loro diritti o escludendoli dalle fonti del benessere.
Certamente occorre promuovere i Corridoi umanitari come un modello di inclusione sociale basato sulla partecipazione di reti solidali sparse su tutti i territori nazionali e introdurre la sponsorship come canale di migrazione ed ingresso regolare nel continente europeo ed in Italia rivedendo in tal senso la Legge Bossi-Fini.
Fondamentale è poi la revisione progressista del regolamento di Dublino superando la regola del primo approdo per la competenza delle domande asilo e con la previsione di un’equa e solidale ripartizione nella redistribuzione dei migranti, prevedendo sanzioni efficaci per gli Stati che non ottemperano a loro obblighi.
Anche il nostro Paese poi dovrebbe al più presto implementare il Global Compact for a Safe, Orderly and Regular Migration (GCM) preparato sotto gli auspici delle Nazioni Unite.
In ogni caso la costruzione di soluzioni strutturali non potrà mai prescindere dal presidio dei valori imprescindibili della civiltà europea ed in particolare italiana, e cioè salvare la vita delle persone in pericolo in mare o in altri luoghi dove siano nel bisogno di soccorso e tutelare ed offrire accoglienza e rifugio alle vittime dalle violenza bellica, da qualunque soggetto essa provenga.
In tal senso è urgente e necessario liberare al più presto i rifugiati sottoposti a torture, trattamenti inumani e degradanti e a schiavitù intrappolati in Libia».
TUTTI I GOVERNI ITALIANI CHE SI SONO SUCCEDUTI NEGLI ULTIMI ANNI HANNO INVITATO L’EUROPA ad affrontare in maniera unitaria il problema dei richiedenti asilo. Cosa ha impedito di farlo?
«In Europa in realtà le proposte di riforma strutturale dei regolamenti – in particolare il Regolamento di Dublino – per gestire e governare i flussi migratori sono state oggetto da diversi anni di un serrato confronto e negoziato tra gli Stati membri.
Il Parlamento europeo nel novembre 2017 aveva approvato un testo della riforma che prevedeva la cancellazione della norma relativa al “Paese di primo ingresso”. Il testo del Parlamento – considerato da molti “innovativo”– riformava la materia sulla base dei principi di solidarietà, con un’equa distribuzione fra i Paesi membri, e introduceva per la prima volta anche i “legami significativi” (familiari o esperienze passate di studio e formazione) con uno specifico Stato membro.
La bozza, frutto di un lavoro di quasi due anni da parte di una maggioranza trasversale, si è però arenata. Il fallimento è stato determinato soprattutto per l’opposizione di Paesi come la Repubblica Ceca, l’Ungheria, la Polonia e la Slovacchia, che ritenevano lo “status quo” soddisfacente e si opponevano ai ricollocamenti obbligatori e alle sanzioni in caso di mancato adempimento. In quel contesto (giugno 2018) anche l’Italia col nuovo Governo decise di allinearsi con Ungheria, Polonia e Austria che rifiutavano la distribuzione.
Per superare questo stallo, la Commissione europea ha pubblicato nel settembre del 2020 un documento di proposte normative e di altre iniziative per un nuovo corso in materia di politica di migrazione e di protezione internazionale, il c.d. nuovo patto sulla migrazione e l’asilo.
Il 27 aprile 2022, la Commissione ha quindi presentato un pacchetto di proposte specifico e da ultimo, il 7 settembre 2022, il Parlamento europeo e cinque Presidenze del Consiglio dell’UE a rotazione (Repubblica Ceca, Svezia, Spagna, Belgio, e Francia) hanno sottoscritto un accordo con il quale si sono impegnati a collaborare per adottare la riforma in materia di migrazione e asilo prima delle elezioni europee del 2024.
Nella dichiarazione comune si sottolinea la necessità che l’adozione dell’intera riforma rispetti i principi (stabiliti dall’articolo 80 del Trattato sul funzionamento dell’UE) di solidarietà e di equa distribuzione della responsabilità tra gli Stati membri.
In realtà a distanza di oltre due anni dal Patto EU sulla migrazione – peraltro criticato dalla società civile nelle proposte di riforma per la contrazione dei diritti dei cittadini stranieri in cerca di protezione – ci sono stati pochissimi avanzamenti e principalmente riguardanti: l’aggiornamento del sistema “Eurodac” per i controlli di ingresso e la trasformazione dell’EASO (Ufficio europeo per l’asilo) nella nuova Agenzia dell’UE per l’asilo mediante il regolamento (UE) 2021/2303.
Nel discorso sullo Stato dell’Unione nel 2022 al Parlamento Europeo, inevitabilmente permeato dalle conseguenze della guerra in Ucraina, Ursula Von der Leyen (Presidente Commissione UE) ha chiaramente affermato che “dobbiamo essere all’altezza delle nuove sfide che la storia ci pone sempre davanti. Proprio come hanno fatto gli europei quando milioni di ucraini sono venuti a bussare alla loro porta. Questa è l’Europa al suo meglio” ma “questa determinazione e questa spinta alla solidarietà mancano ancora nel nostro dibattito sulla migrazione”».
IL NUOVO PRESIDENTE DEL CONSIGLIO ITALIANO GIORGIA MELONI NEL SUO DISCORSO ALLA CAMERE per chiedere la fiducia si era detta intenzionata a «recuperare la proposta originaria della missione navale Sophia dell’Unione Europea che nella terza fase prevista, anche se mai attuata, prevedeva proprio il blocco delle partenze dei barconi dal nord Africa». Di che cosa si tratta? È una strada percorribile?
«Per rispondere a questa domanda occorre innanzitutto ricordare da dove prende il nome la c.d. operazione Sophia. Nel 2015 il Consiglio Europeo, a fronte della crisi libica, aveva reagito con un forte impegno al fine di evitare tragedie umane nel Mediterraneo, di fatto predisponendo l’operazione navale “EUNAVFOR MED – Sophia” (26 ottobre). Il nome deriva da quello della bambina nata sulla nave intervenuta a soccorso dei naufraghi e che aveva salvato la madre il 22 agosto 2015 al largo delle coste libiche.
In realtà la terza fase che la Presidente del Consiglio Meloni ha citato prevedeva l’adozione di misure operative contro le navi e le relative risorse sospettate di essere utilizzate per il contrabbando o il traffico di esseri umani all’interno del territorio degli Stati costieri. In cosa dovessero consistere queste misure non è mai stato definito; dal punto di vista legale era però esplicitamente previsto che queste misure dovessero in ogni caso rispettare il diritto internazionale, compresi i diritti umani, il diritto umanitario e dei rifugiati e il principio di “non refoulement” (non respingimento) oltre al fatto che per potersi adottare avrebbero comunque richiesto una pronuncia del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e il consenso dello Stato in questione. Non è possibile, infatti, intervenire nel territorio di un altro Stato senza il suo consenso/richiesta o che vi sia una esplicita Risoluzione ONU (Consiglio di sicurezza). In ogni caso vanno rispettati tutti i diritti umani compreso il diritto di asilo e quello del soccorso in mare».
NEL CITATO INTERVENTO MELONI HA ANCHE PROPOSTO LA «CREAZIONE SUI TERRITORI AFRICANI DI HOTSPOT, gestiti da organizzazioni internazionali, dove poter vagliare le richieste di asilo e distinguere chi ha diritto ad essere accolto in Europa da chi quel diritto non ce l’ha»
«Questa idea non è affatto nuova e che già nel 2018 l’Unione Africana (UA) aveva espresso perplessità (anche di legittimità) su questo tipo di richieste dell’Unione Europea: diversi Stati nord africani erano stati categorici nel rifiuto in merito (Libia, Tunisia, Marocco, Mauritania). Diversamente, sono già previste un po’ in tutti i documenti di indirizzo europeo – dalle politiche di asilo (New Pact on Migration and Asylum) a quelle di cooperazione per migrazione e mobilità umana (Towards a comprehensive Strategy with Africa) – le strategie di partenariato e cooperazione riguardo i flussi migratori».
MOLTI SI CHIEDONO: PERCHÉ I MIGRANTI NON PRENDONO L’AEREO anziché affidarsi ai trafficanti di esseri umani? Farebbero un viaggio più sicuro e spenderebbero meno.
«La questione è molto semplice: non esiste la possibilità di entrare regolarmente negli Stati europei con un visto per richiesta di asilo: per poter fare domanda di protezione internazionale bisogna già essere in Europa. Non resta dunque molta scelta, poiché senza visto non si può salire in un aereo o attraversare le frontiere, e altri tipi di visti – che in ogni caso richiedono molte risorse economiche e di altro tipo – raramente vengono concessi.
Le condizioni di estrema vulnerabilità e povertà in cui si trovano profughi e rifugiati li vede pertanto costretti, non essendoci altre possibilità di ingresso legale, a trovare qualsiasi tipo di espediente per mettersi in salvo, anche a rischio della vita». (Alessio Zamboni, 8/2/2023, da https://www.semprenews.it/: intervista all’avvocato Laila Simoncelli)
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DECRETO FLUSSI 2023, IL NUOVO TESTO AMMETTE CHE IN ITALIA SERVONO GLI IMMIGRATI
da https://stranieriinitalia.it/, 6/2/2023
Il governo guidato da Giorgia Meloni ha approvato il nuovo Decreto Flussi per il 2023. Il testo è stato già pubblicato sulla Gazzetta ufficiale, e stabilisce il numero di stranieri extracomunitari che possono avere un permesso di soggiorno per motivi di lavoro in Italia: 80 mila. L’aumento degli ingressi conferma quanto dichiarato anche dalle associazioni di categoria: gli immigrati in Italia servono.
DECRETO FLUSSI 2023, COSA CI DICE IL NUOVO TESTO
Come ha sottolineato Chiara Tronchin, ricercatrice della fondazione Leone Moressa, intervistata da Fanpage.it, “ci sono stati anni di decreti Flussi estremamente bassi, attorno alle 30mila unità. L’anno scorso e quest’anno, dopo la pandemia, i numeri sono tornati a crescere. È dal 2014 che i flussi erano diminuiti a circa 30mila unità, mentre negli anni 2006 e 2007 gli ingressi consentiti erano circa 150mila. È stato un bel salto. I primi dati sul 2022 fanno vedere un incremento dell’occupazione extracomunitaria, quindi dovremmo andare nel senso giusto. In ogni caso è un elemento positivo che aumentino i flussi regolari. Anche solo a livello fiscale, a uno Stato conviene sempre favorirli, perché il lavoro regolare porta maggiori entrate.”
Ma perché negli anni il numero degli ingressi è aumentato? La risposta è semplice: perché manca la manodopera. “Servono persone che lavorano. Soprattutto, ritengo, servono persone straniere regolari. In Italia l’immigrazione non è mai stata molto ben gestita: la prova è il numero di stranieri irregolari sul territorio”, ha infatti sottolineato Tronchin. E’ difficile, però, dire se i numeri saranno sufficienti a coprire le necessità: “La critica che spesso viene fatta è che ci sono molti disoccupati italiani, quindi non servono gli stranieri. Il fatto è che italiani e stranieri fanno lavori diversi. Le professioni che si liberano a volte non sono appetibili per gli italiani”. In particolare, quelle meno qualificate.
“Non è una colpa di nessuno, in questi anni è aumentata la scolarizzazione degli italiani, quindi mi sembra ovvio che una persona che studia un tot di anni, finisce l’università, non ambisca a fare il bracciante o il domestico. Così, si sono liberati dei posti che richiedono una minore qualifica, e per questi è richiesta la presenza di stranieri.”
Non è un caso che nel mercato del lavoro generale, un lavoratore su dieci sia straniero. “Nelle professioni meno qualificate l’incidenza aumenta a tre su dieci. I principali lavori sono venditore ambulante, domestico, badante, bracciante. C’è un lato positivo, per così dire, cioè che c’è minor concorrenza con gli italiani in questi settori”. Tuttavia, facendo meno lavori qualificati, “la popolazione straniera è più esposta al rischio di povertà, pur lavorando. E meno guadagni, meno tasse paghi, quindi anche l’apporto che possono dare al Paese è più basso. Se pensiamo all’elevata presenza di giovani stranieri o di origine straniera, è facile capire che per far crescere il Paese bisogna far crescere a livello sociale anche questi giovani, perché facciano lavori qualificati e possano contribuire di più. In Italia, qualsiasi giovane è una risorsa importante”, ha inoltre aggiunto Tronchin. (da https://stranieriinitalia.it/, 6/2/2023)
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I SOCCORSI IN MARE DEI MIGRANTI, SPIEGATI BENE
di Luca Misculin, da https://www.ilpost.it/ del 26/1/2023
– Cosa succede da quando una nave della ong riceve la richiesta di aiuto nel Mediterraneo, fino all’assegnazione del porto da parte del governo italiano –
Il diritto internazionale è piuttosto chiaro su cosa dovrebbe succedere in caso di naufragio in mare aperto e a chi appartengano le varie responsabilità. Esistono comunque situazioni in cui la volontà politica di un certo governo, come quello italiano, o le azioni imprevedibili di un corpo coinvolto nei soccorsi, come la Guardia costiera libica, rischiano di provocare potenziali crisi. Sono situazioni che espongono a critiche e tensioni politiche, ma perlopiù mettono in difficoltà sia le persone soccorse sia chi le soccorre, in particolare le ong che operano nel Mediterraneo con le loro navi.
I momenti di potenziale crisi durante un soccorso in mare sono diversi e per metterli in ordine la cosa più facile è seguire il tragitto di una nave che salpa da un porto italiano, soccorre i migranti che partono dalle coste del Nord Africa e poi ritorna in porto, spesso uno diverso da quello da cui era partita.
L’articolo 2.1.10 della convenzione sulla ricerca e il salvataggio marittimo dell’Organizzazione Marittima Internazionale (IMO), firmata nel 1979, impone a ogni nave di dare assistenza «a ogni persona in difficoltà in acqua» che si trova nei pressi della nave. Spesso le navi delle ong sono le più vicine alla zona dove avviene la maggior parte dei naufragi, nel tratto di mare compreso fra Libia, Tunisia e Italia. Quando la nave di una ong riceve notizia di un naufragio o di un’imbarcazione in difficoltà, nella maggior parte dei casi attraverso il call center gestito dall’ong Alarm Phone, si dirige verso il luogo dove si trova quell’imbarcazione.
E qui iniziano i problemi.
Chi avvisare?
Il diritto marittimo prevede che una nave che soccorre un’imbarcazione in difficoltà debba coordinarsi con lo stato costiero a cui appartiene la zona di mare in cui avviene.
Le aree in questione si chiamano zone SAR: in estrema sintesi, sono aree di mare in cui gli stati costieri competenti si impegnano a mantenere attivo un servizio di ricerca e salvataggio (in inglese search and rescue, abbreviato in SAR). Diversi accordi internazionali stabiliscono che per svolgere questo compito ciascuno stato costiero deve attrezzare un Centro Nazionale di Coordinamento del Soccorso Marittimo (in inglese MRCC) e mantenere una piccola flotta col compito di soccorrere navi in difficoltà. Il centro MRCC di una certa zona SAR deve essere allertato e coordinare le operazioni di soccorso compiute da qualsiasi nave all’interno dell’area marittima di competenza. I confini delle zone SAR sono definiti da specifici trattati internazionali, e nel caso del Mediterraneo sono definiti da oltre vent’anni.
Le zone SAR comprendono le acque territoriali, la zona contigua e la zona economica esclusiva di un certo paese – cioè zone su cui ciascuno stato esercita una forma di sovranità, per esempio sullo sfruttamento della pesca – ma anche alcune aree considerate acque internazionali. Può capitare insomma che uno stato gestisca una zona SAR che comprende zone di mare su cui ha sovranità (le acque territoriali), e altre su cui esercita una sovranità parziale o nessuna sovranità (la zona economica esclusiva e le acque internazionali), ma in cui si impegna ad esercitare una responsabilità sulle emergenze in mare.
L’Italia ha una zona SAR di circa 500mila chilometri quadrati ma spesso sovrintende anche a quella di Malta, che non ha i mezzi per operare da sola. Malta è un’isola poco più grande della provincia di Parma (Emilia-Romagna), e capita spesso che non abbia le risorse per coordinare a distanza un soccorso in mare, oppure che non abbia le navi necessarie per prestare soccorso in maniera concreta, o anche solo per rispondere alle richieste di aiuto. Spesso quindi le navi delle ong che soccorrono persone nella zona SAR di Malta avvisano anche l’MRCC italiano.
Poi c’è il problema della Libia, un paese quasi perennemente in guerra civile da più di una decina d’anni e senza un governo riconosciuto da tutta la popolazione come legittimo. Da qualche anno la Libia è tornata a gestire una zona SAR.
La zona SAR della Libia è gestita dalla cosiddetta Guardia costiera libica, un corpo formato da milizie armate, alcune delle quali responsabili del traffico di esseri umani che coinvolge i migranti. Da anni la cosiddetta Guardia costiera libica è finanziata e addestrata dall’Italia e dall’Unione Europea per fermare le partenze dei migranti dalle coste libiche, con ogni mezzo. Rimane comunque un corpo piuttosto irregolare e disorganizzato: soccorre chi vuole, quando vuole, e con i metodi che vuole, spesso violenti. Oltretutto, in un secondo momento, riporta le persone intercettate sulle coste libiche e le riconsegna ai trafficanti e ai gestori dei centri per migranti, dove le torture e gli stupri sono sistematici.
Coordinarsi con le autorità libiche è rischioso: se rispondono, potrebbero intervenire nelle operazioni di soccorso e riportare in Libia i migranti con la violenza. Per questo diverse navi delle ong non avvisano l’MRCC della Libia anche in caso di soccorsi effettuati nella zona SAR libica, e preferiscono chiamare l’MRCC italiano o quello maltese. I governi italiani di questi anni però, compreso quello in carica guidato da Giorgia Meloni, non apprezzano questa condotta: verosimilmente perché non vogliono farsi carico di tutti i migranti che attraversano il Mediterraneo centrale, nonostante le sofferenze e le morti causate dalle azioni (o dall’assenza di azioni) della cosiddetta Guardia costiera libica.
A ottobre, in una delle sue prime uscite pubbliche, il nuovo ministro dell’Interno Matteo Piantedosi aveva rimproverato le ong SOS Méditerranée e Sea Watch perché avevano soccorso decine di persone in varie operazioni «senza ricevere indicazioni dall’Autorità statale responsabile di quell’area SAR», cioè la Libia o Malta.
La delicata fase del soccorso
Quando una nave arriva nei pressi di una imbarcazione di migranti in difficoltà i problemi che deve affrontare sono moltissimi, anche nel caso abbia a disposizione apposite attrezzature per il soccorso in mare, come quelle delle ong. Spesso si tratta di imbarcazioni troppo piccole per essere avvicinate dalle navi delle ong, che invece sono molto più grandi: le onde causate dall’avvicinamento rischierebbero di causarne il ribaltamento. Gran parte delle navi delle ong usa invece delle specie di gommoni chiamati Rigid Hull Inflatable Boat (battello gonfiabile a chiglia rigida), o RHIB, che fanno avanti e indietro per portare a bordo i naufraghi.
È uno dei momenti più delicati di tutta la missione di soccorso: gli operatori a bordo del RHIB devono decidere chi soccorrere per primo (spesso le donne incinte e i bambini), e nelle situazioni più gravi compiono scelte che possono significare la sopravvivenza di una persona e la morte di un’altra. In questi casi le priorità adottate possono apparire controintuitive, ma sono necessarie per soccorrere il maggior numero di persone. Se una persona è ormai quasi affogata a vari metri di distanza da altre persone in chiara difficoltà ma che si trovano più vicine, a meno di casi particolari i soccorritori proveranno a salvare i membri del gruppo, e solo in un secondo momento il naufrago isolato.
Un ulteriore problema riguarda, di nuovo, la Guardia costiera libica. I miliziani libici sono noti per lo scarso rispetto della sicurezza e dei diritti umani delle persone che intercettano in mare, che provano a fermare con ogni mezzo. A volte speronano le imbarcazioni dei migranti, e sparano nella loro direzione: le testimonianze al riguardo sono numerose. Due anni fa la ong Sea Watch riuscì a filmare una di queste operazioni.
A volte la cosiddetta Guardia costiera libica se la prende con le navi delle ong, soprattutto se riesce ad arrivare prima di loro nel punto dove si trova un’imbarcazione in difficoltà. Qualche giorno fa la nave Geo Barents di Medici Senza Frontiere stava per soccorrere un’imbarcazione che poco prima era già stata intercettata dai libici: l’equipaggio della cosiddetta Guardia costiera libica ha detto via radio a quello della Geo Barents di non avvicinarsi, altrimenti le avrebbe sparato.
Già nel 2016 la cosiddetta Guardia costiera libica aveva sparato alcuni colpi in aria per impedire a una nave di Medici Senza Frontiere di soccorrere un’imbarcazione di migranti. L’anno successivo Medici Senza Frontiere aveva brevemente sospeso le operazioni di soccorso nel Mediterraneo centrale per via del continuo «comportamento minaccioso della Guardia costiera libica». Questa minacciosità costringe le ong a scegliere se preservare la sicurezza del proprio equipaggio o il soccorso dei migranti in mare.
A volte succede invece che le navi della cosiddetta Guardia costiera libica arrivino dopo le navi delle ong, quando è già in corso un’operazione di soccorso. Anche in quel caso possono nascere dei problemi. Uno dei soccorritori della ong Sea Watch ha raccontato a Repubblica che qualche settimana fa una nave della Guardia costiera libica si era presentata nel punto dove i soccorritori stavano trasferendo a bordo della propria nave alcuni migranti in difficoltà. «Sul gommone è scoppiato il panico ed è entrata acqua. A causa dell’immediata situazione di emergenza, l’equipaggio [di Sea Watch] ha portato tutti a bordo della propria nave di soccorso». Poco più tardi, «armati di mitra hanno aggredito verbalmente i nostri equipaggi. Poi, a luci spente, hanno rimorchiato il gommone vuoto verso la costa libica».
L’equipaggio della nave Ocean Viking della ong SOS Méditerranée ha raccontato che mercoledì una nave della cosiddetta Guardia costiera libica è arrivata durante un’operazione di soccorso, e dopo avere compiuto delle «manovre pericolose» che hanno messo «in grave pericolo la sicurezza del nostro equipaggio e dei sopravvissuti», se n’è andata senza rispondere alla richiesta di Ocean Viking, che le chiedeva aiuto per cercare quattro dispersi.
Dopo un’operazione di soccorso
Durante le stagioni più calde le partenze dalla Libia e dalla Tunisia sono giornaliere, mentre nei mesi più freddi si concentrano nei pochi giorni di bel tempo e di mare calmo. Il vero “pull factor”, il fattore che condiziona maggiormente le partenze dalle coste del Nord Africa, non è la presenza delle navi delle ong ma il meteo. Quando il tempo è cattivo, nessuno si mette in mare. Quando le condizioni lo permettono, diverse imbarcazioni di migranti partono una dopo l’altra: per questo, fino a poche settimane fa, le navi delle ong si trattenevano nel Mediterraneo centrale anche dopo aver soccorso decine di persone: in questi casi c’è sempre qualcun altro da soccorrere.
Le cose sono cambiate dalla fine del 2022, quando il governo italiano guidato da Giorgia Meloni ha approvato un nuovo codice di condotta per le ong che soccorrono persone nel Mediterraneo, con l’obiettivo nemmeno troppo velato di scoraggiare le loro operazioni.
Il codice di condotta prevede che le navi delle ong si dirigano «senza ritardo» verso il porto assegnato loro dopo un’operazione di soccorso. Nelle ultime settimane il governo sta assegnando porti dopo una sola operazione di soccorso, di fatto costringendo le navi delle ong a non farne altre. Nel codice di condotta non c’è un divieto esplicito di compiere più operazioni di soccorso: si dice però che le attività di una nave non devono «impedire di raggiungere tempestivamente il porto di sbarco». Per chi non rispetta il regolamento sono previste multe e nei casi giudicati più gravi il fermo amministrativo della nave, cioè in sostanza il suo sequestro.
Il codice di condotta prevede delle eccezioni per operazioni di soccorso «effettuate nel rispetto delle indicazioni delle predette autorità», quindi sul tragitto e con l’assenso del governo italiano. In un’intervista di qualche giorno fa a Piazzapulita il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha esplicitamente detto che le ong possono soccorrere persone «lungo la traiettoria del percorso che gli viene assegnato». Il decreto però parla anche di «indicazioni» da parte del «centro di coordinamento competente per il soccorso marittimo»: in sostanza della necessità di ricevere un assenso da parte del governo.
Mercoledì la nave Geo Barents di Medici Senza Frontiere ha soccorso altre due imbarcazioni in difficoltà dopo che ne aveva già soccorsa una martedì sera. Dopo il primo soccorso, la Geo Barents stava tornando verso nord perché il governo italiano le aveva assegnato il porto de La Spezia, a cinque giorni di navigazione. I due soccorsi successivi sono avvenuti nei pressi del tragitto di ritorno. In nessuno dei due casi però il governo italiano ha dato alcuna «indicazione» alla Geo Barents, che di fatto quindi ha compiuto due operazioni non esplicitamente autorizzate, secondo il nuovo codice di condotta.
Non è chiaro se all’arrivo a La Spezia il governo contesterà a Medici Senza Frontiere di avere violato il nuovo codice di condotta. Una fonte del ministero dell’Interno ha detto a Repubblica che «la condotta della nave verrà valutata dal prefetto e dalle autorità di polizia dopo l’arrivo a La Spezia». Medici Senza Frontiere, insomma, ha dovuto decidere se rispettare alla lettera le nuove indicazioni del governo italiano, e lasciare che decine di persone annegassero o venissero intercettate dalla Guardia costiera libica, oppure procedere al soccorso e rischiare di subire un fermo amministrativo della nave.
La traversata verso nord
Ormai da qualche settimana il governo Meloni sta assegnando alle ong porti molto più a nord rispetto a quelli dove sbarcavano fino a poche settimane fa, cioè quelli della Sicilia e della Calabria, distanti circa uno o due giorni di navigazione dal Mediterraneo centrale. Il governo ha assegnato alle navi delle ong come porti di sbarco diverse città del Centro e Nord Italia, fra cui Livorno, La Spezia, Ravenna e Ancona.
Le conseguenze concrete di queste decisioni sono sostanzialmente due: i viaggi di ritorno delle navi delle ong si sono fatti più complessi e costosi, quindi sempre meno sostenibili. Le sofferenze dei naufraghi inoltre vengono prolungate per giorni: molti di loro hanno infatti bisogno di attenzioni mediche che a bordo non possono essere soddisfatte, nemmeno nelle navi più attrezzate.
Dal punto di vista dei costi, Medici Senza Frontiere spiega che per far funzionare la Geo Barents servono circa 10mila litri di carburante al giorno quando la nave si muove a velocità spedita: significano circa 14mila euro di carburante, ai prezzi di oggi. Per esempio allungare di sei giorni il proprio tragitto (tre all’andata e tre al ritorno) significa spendere 80mila euro in più per ogni missione. Cifre importanti anche per una ong internazionale, che si trova davanti a questa scelta: continuare a soccorrere poche persone a costi altissimi, oppure rinunciare alle operazioni – risparmiando o dirottando altrove quei soldi – e lasciare che migliaia di persone ogni anno muoiano o vengano riportate in Libia.
Il prolungamento delle sofferenze delle persone provocato dall’assegnazione di porti molto lontani viene sottolineato da tutte le ong che si occupano di soccorsi in mare. A volte si aggiunge inoltre il problema del cattivo tempo. A inizio gennaio il governo indicò alle due navi delle ong SOS Méditerranée e Medici Senza Frontiere di dirigersi verso il porto di Ancona, che distava più di tre giorni di navigazione. Il meteo lungo la rotta era pessimo, con venti molto forti e onde che allagarono il ponte inferiore della nave.
L’ulteriore conseguenza concreta è che mandare le navi delle ong a un porto così lontano, mentre i porti della Sicilia e della Calabria sarebbero distanti soltanto un giorno di navigazione, comporta che le navi saranno assenti per più tempo dalla zona dove di solito avviene la maggior parte dei naufragi: più persone moriranno annegate senza che ci sia nessuno che le soccorra.
L’ultimo ostacolo
Dal 2018 fino a poche settimane fa tutti i governi che si sono succeduti in Italia non hanno garantito subito un porto di sbarco alle navi delle ong che soccorrono persone in mare. Quando Matteo Salvini è stato ministro dell’Interno, fra il 2018 e il 2019, le navi venivano lasciate in mare per più di una settimana senza assegnare loro un “porto sicuro” per sbarcare e completare la propria missione di soccorso, come invece sarebbe previsto dalle norme internazionali.
Era la strategia dei “porti chiusi”, come l’aveva chiamata Salvini, e aveva una grossa componente di propaganda. Le leggi italiane e internazionali non permettono infatti al governo di approvare provvedimenti ufficiali per chiudere i porti a navi che trasportano migranti che intendono chiedere asilo: il diritto di richiedere una forma di protezione è previsto e garantito sia dalle leggi italiane sia dalle norme dell’Unione Europea. Esisteva ed esiste ancora invece un’area grigia fatta di divieti e comunicazioni informali che Salvini e i suoi successori hanno usato per ritardare il più possibile l’assegnazione di un porto di sbarco.
Il governo Meloni non ha cambiato il fine – ostacolare le operazioni delle navi delle ong – ma i mezzi: al posto che fare attendere per giorni le navi al largo delle coste, come dicevamo prima, ha iniziato ad assegnare loro porti lontanissimi. (Luca Misculin, da https://www.ilpost.it/ del 26/1/2023)
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CONSIGLIO EUROPEO, LE CONCLUSIONI SULL’IMMIGRAZIONE
Azione esterna, controllo delle frontiere, raccolta e monitoraggio dati e avanzamento del Patto sulle Migrazioni e l’Asilo
da https://integrazionemigranti.gov.it/, 14/2/2023
Lo scorso 9 febbraio si è riunito a Bruxelles il Consiglio Europeo e ha adottato conclusioni sui seguenti temi: Ucraina, economia, migrazione e altri punti, tra cui il dialogo Belgrado-Pristina e il terremoto in Turchia e Siria. Di seguito, le conclusioni sulla migrazione:
Migrazione
19. Il Consiglio europeo ha discusso della situazione migratoria, una sfida europea che richiede una risposta europea.
Il Consiglio europeo ha valutato l’attuazione delle sue precedenti conclusioni, finalizzate allo sviluppo di un approccio globale alla migrazione che combini il rafforzamento dell’azione esterna, un controllo più efficace delle frontiere esterne dell’UE e la dimensione interna, nel rispetto del diritto internazionale, dei principi e dei valori dell’UE, nonché della tutela dei diritti fondamentali. Sulla scorta della recente lettera della Commissione, il Consiglio europeo chiede il rafforzamento e l’accelerazione di misure operative immediate.
Il Consiglio europeo invita il Consiglio e la Commissione a monitorare attentamente e a garantire l’attuazione delle sue conclusioni e ritornerà periodicamente sulla questione.
Rafforzamento dell’azione esterna
20. L’Unione europea rafforzerà la sua azione tesa a prevenire le partenze irregolari e la perdita di vite umane, ridurre la pressione sulle frontiere dell’UE e sulle capacità di accoglienza, lottare contro i trafficanti e aumentare i rimpatri. A tal fine si intensificherà la cooperazione con i paesi di origine e di transito attraverso partenariati reciprocamente vantaggiosi. Tutte le rotte migratorie dovrebbero essere coperte, anche con risorse adeguate.
È opportuno che siano attuati i piani d’azione esistenti per le rotte dei Balcani occidentali e del Mediterraneo centrale. La Commissione dovrebbe presentare in via prioritaria piani d’azione per le rotte dell’Atlantico, del Mediterraneo occidentale e orientale, al fine di alleviare rapidamente la pressione sugli Stati membri maggiormente colpiti e prevenire in modo efficace gli arrivi irregolari. L’UE e gli Stati membri intensificheranno in modo coordinato il dialogo con i paesi di origine e di transito, anche attraverso contatti ad alto livello, con l’obiettivo di rafforzare la propria capacità di gestione delle frontiere, prevenire i flussi irregolari, smantellare il modello di attività dei trafficanti, anche mediante campagne di informazione strategiche, e aumentare i rimpatri.
A tal fine, si dovrebbe fare il miglior uso possibile delle consultazioni nelle sedi di cooperazione con paesi terzi, nonché dei finanziamenti a titolo di NDICI-Europa globale e di altri strumenti pertinenti. L’Unione europea continuerà a sostenere i partner nell’affrontare le cause profonde della migrazione irregolare e in relazione a una migrazione sicura, regolare e ordinata. La cooperazione con le organizzazioni internazionali, in particolare l’OIM e l’UNHCR, deve essere ulteriormente rafforzata.
21. L’allineamento della politica in materia di visti da parte dei paesi vicini riveste carattere di urgenza ed è di fondamentale importanza per la gestione della migrazione e, se del caso, per il buon funzionamento e la sostenibilità complessivi dei regimi di esenzione dal visto.
A tale riguardo, il Consiglio europeo sottolinea l’opportunità di rafforzare il monitoraggio delle politiche in materia di visti dei paesi vicini. Il Consiglio europeo si compiace dei progressi compiuti dai partner dei Balcani occidentali nell’allineamento alla politica dell’UE in materia di visti e li invita alla rapida adozione di ulteriori misure. L’Unione europea è pronta ad approfondire la cooperazione con la regione in materia di migrazione, asilo, gestione delle frontiere e rimpatri, sfruttando al massimo i quadri esistenti e i canali disponibili.
Rafforzamento della cooperazione in materia di rimpatrio e riammissione
22. Il Consiglio europeo ricorda l’importanza di una politica unificata, globale ed efficace dell’UE in materia di rimpatrio e riammissione nonché di un approccio integrato alla reintegrazione. È necessaria un’azione rapida per garantire rimpatri efficaci, dall’Unione europea e dai paesi terzi situati lungo le rotte, verso i paesi di origine e di transito, usando come leva l’insieme delle politiche, degli strumenti e dei mezzi pertinenti di cui l’UE dispone, compresi la diplomazia, lo sviluppo, il commercio e i visti, nonché le opportunità di migrazione legale.
A tale riguardo, è necessario un approccio esteso a tutta l’amministrazione, sia negli Stati membri che nelle istituzioni dell’UE. Il Consiglio europeo invita la Commissione e il Consiglio ad avvalersi pienamente del meccanismo previsto dall’articolo 25 bis del codice dei visti, compresa la possibilità di introdurre misure restrittive in materia di visti nei confronti dei paesi terzi che non cooperano sui rimpatri. Al fine di accelerare le procedure di rimpatrio, il Consiglio europeo invita inoltre gli Stati membri a riconoscere reciprocamente le rispettive decisioni di rimpatrio. Invita l’Agenzia per l’asilo a fornire orientamenti per incrementare il ricorso ai concetti di paesi terzi sicuri e di paesi di origine sicuri. Gli Stati membri sono invitati ad avvalersi di tali orientamenti onde conseguire un approccio più coordinato, aprendo così la strada a un elenco comune dell’UE.
Controllo delle frontiere esterne dell’UE
23. L’Unione europea rimane determinata ad assicurare il controllo efficace delle sue frontiere esterne terrestri e marittime. Il Consiglio europeo accoglie con favore gli sforzi compiuti dagli Stati membri a tale riguardo e:
a) esprime il suo pieno sostegno all’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera (Frontex) nello svolgimento del suo compito principale, ossia sostenere gli Stati membri nella protezione delle frontiere esterne, nel contrasto alla criminalità transfrontaliera e nell’intensificazione dei rimpatri;
b) ribadisce l’importanza di rendere operativi quanto prima il sistema di ingressi/uscite e il sistema europeo di informazione e autorizzazione ai viaggi;
c) invita a portare rapidamente a conclusione i negoziati relativi ad accordi sullo status, nuovi e riveduti, tra l’Unione europea e i paesi terzi in merito all’intervento di Frontex nel quadro degli sforzi volti a rafforzare la cooperazione in materia di gestione delle frontiere e migrazione;
d) invita la Commissione a finanziare misure degli Stati membri che contribuiscono direttamente al controllo delle frontiere esterne dell’UE, quali i progetti pilota per la gestione delle frontiere, nonché al miglioramento del controllo delle frontiere nei paesi chiave sulle rotte di transito verso l’Unione europea;
e) chiede alla Commissione di mobilitare immediatamente ingenti fondi e mezzi dell’UE per sostenere gli Stati membri nel rafforzamento delle capacità e delle infrastrutture di protezione delle frontiere, dei mezzi di sorveglianza — compresa la sorveglianza aerea — e delle attrezzature. In tale contesto, il Consiglio europeo invita la Commissione a mettere a punto rapidamente la strategia di gestione europea integrata delle frontiere;
f) riconosce le specificità delle frontiere marittime, anche per quanto riguarda la salvaguardia delle vite umane, e sottolinea la necessità di una cooperazione rafforzata in ordine alle attività di ricerca e soccorso e, in tale contesto, prende atto del rilancio del gruppo di contatto europeo in materia di ricerca e soccorso. Lotta alla strumentalizzazione, alla tratta di persone e al traffico di migranti
24. Il Consiglio europeo condanna i tentativi di strumentalizzare i migranti a fini politici, in particolare se utilizzati come leva o nell’ambito di azioni ibride di destabilizzazione. Invita la Commissione e il Consiglio a portare avanti i lavori sugli strumenti pertinenti, comprese eventuali misure nei confronti degli operatori di trasporto dediti alla tratta di persone o al traffico di migranti o che agevolano tali pratiche.
25. Una stretta cooperazione tra gli Stati membri e con Europol, Frontex ed Eurojust, nonché con partner chiave, consentirà di rafforzare ulteriormente la lotta contro la tratta di esseri umani e il traffico di migranti.
Dati sui flussi migratori e conoscenza situazionale
26. Il Consiglio europeo invita il Consiglio e la Commissione, con il sostegno delle competenti agenzie dell’UE, a sviluppare una conoscenza situazionale comune, a migliorare il monitoraggio dei dati sulle capacità di accoglienza e sui flussi migratori e a individuare più rapidamente nuove tendenze migratorie, sia verso l’Unione europea che al suo interno. Incoraggia le autorità degli Stati membri a chiedere il sostegno delle agenzie dell’UE, comprese l’Agenzia per l’asilo e Frontex, per fare in modo che tutti i migranti che entrano nell’Unione europea siano regolarmente registrati.
Patto sulla migrazione e l’asilo e fascicoli correlati
27. Il Consiglio europeo, alla luce dei progressi compiuti nel 2022, invita i colegislatori a proseguire i lavori relativi al patto sulla migrazione e l’asilo, conformemente alla tabella di marcia comune, nonché al codice frontiere Schengen riveduto e alla direttiva sui rimpatri. Il Consiglio europeo prende atto dell’intenzione della presidenza di discutere, in occasione della prossima sessione del Consiglio “Giustizia e affari interni”, dell’attuazione della tabella di marcia di Dublino nonché dell’impegno effettivo dell’UE alle frontiere esterne, anche per quanto riguarda le operazioni di entità private.
(da https://integrazionemigranti.gov.it/, 14/2/2023)
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LA CULTURA DELLO SCARTO (di Nello Scavo) – (lo scandalo “Libyagate”, nel più che mai irrisolto tema dell’IMMIGRAZIONE, cui siamo abituati alla tragedia quotidiana)
(INTRODUZIONE al libro di NELLO SCAVO, inviato del quotidiano “Avvenire”: “LIBYAGATE – Inchieste, dossier, ombre e silenzi”, ed. “Avvenire – Vita e Pensiero”, euro 13,00):
LA CULTURA DELLO SCARTO
Si dice che le parole plasmano il mondo. Non sempre in meglio. Specie se sono parole infarcite di menzogna, di tornaconto, usate per scavare fossati e tenere a distanza i morsi della coscienza.
A chi verrebbe in mente di definire degli esseri umani ‘carico residuale’? Ci vorrebbe un Primo Levi per farsi spiegare cos’è un ‘carico residuale’ fatto di carne umana, di anime ferite, di sguardi spersi, di famiglie separate: mamme e figli a terra, papà da rispedire ai mittenti da cui scappano.
«Le parole erano originariamente incantesimi, e la parola ha conservato ancora oggi molto del suo antico potere magico. Con le parole un uomo può renderne felice un altro o spingerlo alla disperazione». Chissà se i nuovi governanti e legislatori hanno mai letto Freud. O hanno ascoltato almeno un po’ papa Francesco, che a certe parole ha restituito il peso che fingiamo di non sentire più: «La cultura dello scarto, che colpisce tanto gli esseri umani esclusi quanto le cose che si trasformano velocemente in spazzatura». E il ‘carico residuale’, in fondo, non è che un altro nome dato agli ‘scartati’. La neolingua orwelliana si arricchisce così di nuove allocuzioni. Con l’obiettivo non dichiarato di confondere la realtà rimescolando proprio le parole e il loro senso. Ma le parole sono anche rivelatrici. Diversi decenni dopo, quando ancora una volta in Europa risuonano le sirene antiaeree e il disprezzo dell’altro è di nuovo elevato ad arma di guerra con cui giustificare i colpi di fucile e le peggiori depravazioni, in quel Mediterraneo culla delle civiltà vengono a galla da chissà quale abisso editti ministeriali che sembrano vergati da doganieri addetti allo smistamento di qualche mercanzia.
«Bisogna stroncare il traffico non solo di esseri umani, ma anche di armi e droga», ripetono i governanti. Ma è esattamente ciò che viene denunciato da anni, con nomi, cognomi, rivelazioni di connessioni internazionali, legami che vanno dalla politica libica a quei faccendieri maltesi con un pied-à-terre nei palazzi del potere e coinvolti nell’omicidio della giornalista Daphne Caruana Galizia, fino ai mammasantissima della mafia siciliana. Prove passate al vaglio della magistratura nazionale e internazionale. Quel Libyagate che continua a essere alimentato dalla ‘trattativa’ tra Roma e Tripoli, sfociata nel memorandum d’intesa varato nel 2017 e confermato per tre volte dai nostri governi.
Nessuna parola, ancora una volta, viene spesa contro i crimini commessi in Libia dalle stesse autorità del Paese e denunciati (se non bastassero anni di inchieste giornalistiche) da una ventina di rapporti firmati dal segretario generale dell’Onu António Guterres e da 23 dossier della Procura internazionale dell’Aja. Ma del resto, se si tratta di ‘carico residuale’, che senso ha sprecare anche una sola parola per loro?
Ci sono profughi e profughi. Dipende dalla geografia? O da certe variabili cromatiche? Più l’epidermide è scura e più le loro sorti ci sembrano lontane, al punto da pagare di tasca nostra chi si incarica di tenerceli fuori dai piedi? Tripoli dista 1.000 chilometri esatti da Roma. Kiev quasi 1.800. All’Ucraina l’Italia invia armi. Anche alla Libia. Nel primo caso, per sostenere l’esercito che combatte l’aggressione di Mosca. Nel secondo, per impedire a profughi e migranti di raggiungere le nostre coste.
Mohamed era uno di loro. Veniva da una provincia del Darfur, regione di mattanze per le quali a marzo, nel pieno della crisi ucraina, si è aperto un processo davanti alla Corte penale internazionale dell’Aja. Mohamed sognava l’Europa, ma si sarebbe accontentato anche di un trasferimento in un altro Paese africano individuato come sicuro dall’Onu. Invece è rimasto incastrato in Libia. Era nel campo di prigionia di Ain Zara, uno di quelli tenuti in piedi dalle autorità generosamente sostenute da Roma e Bruxelles. Torturato e abusato, come molti altri, Mohamed non se l’è più sentita di prestarsi ai giochi degli aguzzini di Stato stipendiati in euro. Ha preso una corda, ha fatto un giro intorno al collo. E si è lasciato andare. Aveva 19 anni.
Anche la giustizia internazionale è gradita a giorni alterni. Quando, nell’aprile 2022, Karim Khan, il nuovo procuratore capo dell’Aja, ha mandato gli investigatori in Ucraina, gli uffici stampa di leader politici e capi di governo europei hanno dovuto fare gli straordinari per inviare dichiarazioni alle agenzie di stampa, inondare i social di commenti, rilasciare interviste a sostegno della giusta causa contro i crimini di guerra commessi in Ucraina.
Ma quando Khan, negli stessi giorni, ha consegnato al Consiglio di sicurezza Onu il suo rapporto sulla Libia, la reazione è stata il silenzio. Non per indifferenza, bensì per lasciar cadere le accuse. «Gli abusi contro i migranti», si leggeva nel report dell’Aja, «possono essere qualificati come crimini di guerra e crimini contro l’umanità». E perché non ci fossero dubbi sulla corretta interpretazione, Khan parlava di «crimini commessi nei centri di detenzione». Strutture ufficiali sotto il controllo del governo. Quello di Ain Zara è tra i principali. A migliaia vi sono rinchiusi, rastrellati dalla sbirraglia e consegnati al Dipartimento per il contrasto dell’immigrazione. Uomini, donne e bambini. Non fa differenza.
E non c’è tempo per scandalizzarsi davanti ai soprusi subiti dagli ultimi della fila. Le guerre che subiscono ci sembrano lontane. Poco importa se le armi usate anche lì hanno marchi che ci sono familiari. (NELLO SCAVO)