Lo SPOPOLAMENTO dei COMUNI periferici, e il conseguente accentramento della popolazione nelle maggiori aree urbane, denota sia la crisi di servizi (sanità, scuola, mobilità…) e opportunità dei medi-piccoli comuni, oltreché il loro isolamento politico, economico, culturale – Perché la FUSIONE dei COMUNI in CITTÀ è un PROCESSO istituzionale già in grave ritardo storico

(giovani costretti ad andarsene: lo spopolamento di tanti comuni è particolarmente dovuto alla mancanza di opportunità; foto ripresa da https://www.basilicata24.it/)

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(CLASSIFICAZIONE DELLE AREE INTERNE – da IL SOLE 24ORE del 17/3/2024)

LE AREE INTERNE

I Comuni periferici

Le Aree Interne sono rappresentate dai Comuni italiani più periferici, in termini di accesso ai servizi essenziali (salute, istruzione, mobilità) e quindi maggiormente distanti rispetto ai centri di offerta di servizi. La classificazione delle Aree Interne è il risultato di un percorso metodologico avviato dall’ex-Agenzia per la Coesione Territoriale, all’interno della Strategia Nazionale per le Aree Interne (SNAI), che ha visto coinvolti

l’Istat, la Banca d’Italia e le Regioni. Per individuare i comuni che ricadono nelle aree interne, per prima cosa vengono definiti i Comuni “polo”, cioè le realtà territoriali che offrono contemporaneamente (da soli o insieme ai confinanti): A. un’offerta scolastica secondaria superiore completa, cioè almeno un liceo (classico o scientifico) e almeno uno fra istituto tecnico e istituto professionale; B. almeno un ospedale con capacità operative avanzate; C. una stazione ferroviaria medio-piccola con più di 2.500 passeggeri al giorno.   Maggiore è la distanza dal comune che offre simultaneamente questi tre servizi, maggiore è la connotazione periferica del comune in esame. (Carlo Marroni, da “il Sole 24ore” del 17/3/2024)

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L’INVERNO DEMOGRAFICO

L’ITALIA SPOPOLATA DEI COMUNI INTERNI: GLI ABITANTI FUGGONO, RESTANO GLI OVER 80

di Carlo Marroni, da “il Sole 24ore” del 17/3/2024

– Il 58% del Paese non ha servizi sufficienti, i residenti emigrano verso altri luoghi – Il record spetta a Basilicata, Molise, Calabria e Sardegna. A rischio Liguria e Friuli – il calo Nel 2030 i residenti italiani diminuiranno di 600mila unità e saranno tutti abitanti delle aeree più periferiche – le AREE INTERNE Nelle zone con minor dotazione di servizi abita il 22,7% della popolazione, poco più di 13 milioni di persone –

   L’Italia continua spopolarsi: sempre meno abitanti e più anziani. Il 58% del territorio è coperto da AREE INTERNE (zone non necessariamente lontane dal mare o povere) dove è residente il 23% della popolazione (12 milioni di persone). Qui la minor dotazione (di servizi) si fa sentire e i residenti fuggono. Sul posto restano sempre più over 80. L’abbandono dei territori riguarda regioni del Sud, tra cui Basilicata, Molise, Calabria, Sardegna, ma anche aree ligure, piemontesi, friulane.

   Il primo pensiero va all’immagine di un piccolo agglomerato di case, magari attorno a un vecchio campanile, più o meno in alta collina. L’Italia dei piccoli borghi, con al massimo una bottega. Ma le “aree interne” sono anche altre, e mai si penserebbe che sono tali – per assenza di specifici servizi – città come la splendida Matera o addirittura località costiere, come Termoli. Interna quindi non significa lontano dal mare. E neppure povera, come l’immaginario vorrebbe, visto che ci sono luoghi come Cernobbio.

   L’Italia vede la parte principale del suo territorio, oltre il 58%, coperta da comuni definiti “AREE INTERNE”, dove è residente (non è detto che ci viva) meno di un quarto della popolazione, esattamente il 22,7 per cento, poco più di 13 milioni di persone.

   Per chiarire il concetto: le aree interne sono i comuni italiani più periferici, in termini di accesso ai servizi essenziali (salute, istruzione, mobilità). Per definire quali ricadono nelle aree interne, per prima cosa vengono definiti i COMUNI “POLO”, cioè realtà che offrono contemporaneamente (da soli o insieme ai confinanti): 1) un’offerta scolastica secondaria superiore articolata (cioè almeno un liceo – scientifico o classico – e almeno uno tra istituto tecnico e professionale), 2) almeno un ospedale avanzato, 3) una stazione ferroviaria media con almeno 2.500 passeggeri al giorno.

   Per la sua conformazione del territorio l’Italia, attraversata per larga parte da catene montuose o dalla dorsale appenninica, è innervata di centri minori – classificati dall’Istat in COMUNI INTERMEDI, PERIFERICI e ULTRAPERIFERICI – che, in molti casi, sono in grado di garantire ai residenti soltanto una limitata accessibilità ai servizi essenziali.

   La regione con la maggiore percentuale di comuni in forte spopolamento (tasso di crescita continuo negativo, inferiore al -4 per mille annuo) è la Basilicata (68,7%, 90 comuni su 131), seguita a breve distanza dal Molise (60,3%, 82 comuni su 136) e dalla Calabria (58,4%, 236 comuni su 404). All’opposto, le regioni con la percentuale maggiore di comuni in forte crescita sono il Trentino-Alto Adige/Südtirol e l’Emilia-Romagna, entrambe con il 50% dei comuni in crescita, cioè oltre il 4 per mille annuo (141 comuni su 282 in Trentino e 164 su 328 in Emilia-Romagna), con il caso della Liguria, con circa il 29% dei comuni in forte spopolamento (68 comuni su 234).

   Questo per quanto riguarda i numeri principali, che mettono bene in evidenza come per l’Italia sia essenziale comprendere il problema – e su questo c’è un grosso impegno dell’Università del Molise, che dal 2016 ha costituito il Centro di Ricerca per le Aree Interne e gli Appennini (ArIA). Come mostrano i ricercatori di ArIA Carlo Lallo, Emilio Cameli e Federico Benassi la questione è nel contempo sociale, di sviluppo economico, di rappresentanza politica e di tenuta del territorio.

   Un dato quindi va subito ben chiarito: non sono aree deserte, visto che spesso comprendono città molto abitate. Il tema è quello dei servizi, la cui assenza accentua via via nel tempo un processo di spopolamento, o comunque di impoverimento, vista la migrazione di giovani e l’innalzamento progressivo dell’età media. Non c’è una soluzione unica proprio per la varietà presente, ma per tutti serve una presenza delle istituzioni – dicono gli esperti – con soluzioni che possano attingere anche all’esperienza recente, su tutte il Covid e l’operatività a distanza, sia lavorativa che didattica. Infatti la sfida è portare una struttura digitale dove questa è assente o debole, permettendo magari di aggregare offerte di servizi in aree limitrofe.

   Comunque il tema dello spopolamento non è solo territoriale, visto che l’Italia perde un milione di abitanti ogni 3-4 anni, e in più molti residenti in piccoli centri in realtà lo sono solo nominalmente (spesso per motivi fiscali) ma in realtà vivono in centri maggiori. Se la previsione da ora al 2030 è di un calo di popolazione italiana di circa 600mila persone, queste saranno concentrate soprattutto nelle aree interne: le stime parlano di un calo del 4,2 per mille, rispetto all’1,6 dei maggiori centri abitanti. Poi c’è l’età: nel 19,8% dei comuni italiani (1565 su 7904) gli anziani con più di ottanta anni segnano una forte presenza, tra un decimo ed un terzo dell’intera popolazione. La Regione con il più alto numero di comuni con forte presenza anziana è il Molise (51,5%, 70 comuni su 136), seguita dalla Liguria (50,4%, 118 comuni su 234) e dall’Abruzzo (40%, 122 comuni su 305).

   Come visto le Aree Interne – si rileva in un focus dell’Istat – risultano presenti soprattutto nelle regioni del Mezzogiorno dove complessivamente il 67,4% dei Comuni rientra nelle Aree interne, con picchi in Basilicata Sicilia, Molise e Sardegna dove tali percentuali superano il 70%. Al Centro Italia il peso relativo di queste aree è molto più contenuto e arriva, con 532 Comuni, al 54,8% del totale. Qui la distribuzione regionale appare molto più equilibrata rispetto alle altre ripartizioni ed è compresa tra il 46,3% delle Marche e il 60,1% della Toscana. Nel Nord-ovest e nel Nord-est la quota di Comuni che rientrano nelle Aree Interne si riduce ulteriormente, 33,7%e 41,4% rispettivamente.

   Rispetto all’altimetria i comuni interni montani rappresentano il 48,9% del totale, nelle aree collinari sono presenti 1.625 (42,4%), con significative presenze in Sardegna (218 Comuni), Sicilia (198 Comuni) e Campania (173); quelli localizzati in pianura sono appena 335 (8,7%).

   La distribuzione dei Comuni secondo le altre caratteristiche fisiche conferma il quadro appena descritto: l’84,5% dei Comuni si colloca lontano dal mare (Comune non costiero), per il 79,9% si tratta di Comuni definiti “rurali” secondo la classificazione europea del grado di urbanizzazione. La bassa densità abitativa è la caratteristica maggiormente evidente, ma non mancano le eccezioni. Si tratta di otto comuni con oltre 50mila residenti: il caso più eclatante è quello di Gela in Sicilia (più di 72mila abitanti), classificato come Periferico perché manca di una stazione ferroviaria almeno di tipo Silver. Per le medesime ragioni il comune di Altamura in Puglia è classificato come Intermedio (quasi 70mila abitanti), mentre Vittoria in Sicilia, che ha poco più di 62mila residenti, è classificato come Intermedio per l’assenza di ospedali avanzati e stazioni ferroviarie come requisito. Anche alcuni capoluoghi sono classificati tra le Aree Interne, oltre Matera (quasi 60mila abitanti), risultano Nuoro ed Enna, per la mancanza di una stazione ferroviaria, e Isernia per l’assenza di un ospedale con servizio “Dea” (ndr: Dipartimento di Emergenza Urgenza e Accettazione).

(CARLO MARRONI, da “il Sole 24ore” del 17/3/2024)

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(Numero di Comuni per regione, tabella tratta da https://www.lentepubblica.it/)

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(MAPPA DELLO SPOPOLAMENTO PER REGIONI, da “il Sole 24ore” del 17/3/2024) (CLICCARE SULL’IMMAGINE PER INGRANDIRLA)

LO SPOPOLAMENTO

Basilicata al record

La regione con la maggiore percentuale di comuni in forte spopolamento (tasso di crescita continuo negativo, inferiore al -4 per mille annuo) è la Basilicata (68,7%, 90 comuni su 131), seguita a breve distanza dal Molise (60,3%, 82 comuni su 136) e dalla Calabria (58,4%, 236 comuni su 404). All’opposto, le regioni con la percentuale maggiore di comuni in forte crescita sono il Trentino-Alto Adige/Südtirol e l’EmiliaRomagna, entrambe con il 50% dei comuni in forte crescita, cioè oltre il 4 per mille annuo (141 comuni su 282 in Trentino e 164 su 328 in Emilia-Romagna).

   La polarizzazione Nord in crescita/Sud in spopolamento è evidente: la prima regione del Nord nella classifica è la Liguria, al 10° posto, con circa il 29% dei comuni in forte spopolamento (68 comuni su 234). Al tempo stesso, nessuna regione italiana è esente da fenomeni di spopolamento in almeno una parte dei propri comuni.

Trentino a due velocità

Ad esempio, in Trentino-Alto Adige/Südtirol il 4,6% dei comuni segna comunque una forte diminuzione della popolazione (13 comuni su 282), ed in Emilia-Romagna la percentuale dei comuni in forte contrazione demografica arriva al 17,7% (58 comuni su 328).

   Simmetricamente, anche in Basilicata, Molise e Calabria sono presenti comuni in forte crescita: il 3,1% (4 comuni su 13) in Basilicata, il 9,6% (13 comuni su 136) in Molise e il 7,4% (30 comuni su 404) in Calabria.

(Carlo Marroni, da “il Sole 24ore” del 17/3/2024)

INVECCHIAMENTO

Il peso degli over 80

Nel 19,8% dei comuni italiani (1565 su 7904) gli anziani con più di ottanta anni segnano una forte presenza, tra un decimo ed un terzo dell’intera popolazione. La Regione con il più alto numero di comuni con forte presenza anziana è il Molise (51,5%, 70 comuni su 136), seguita dalla Liguria (50,4%, 118 comuni su 234) e dall’Abruzzo (40%, 122 comuni su 305).   All’opposto, in Trentino-Alto Adige/Südtirol ed in Veneto il numero di comuni con una forte presenza anziana non superano il 5% (sono infatti solo l’1,4% in Trentino ed il 4,1% in Veneto).   In Trentino-Alto Adige in particolare, quasi la metà di comuni sono caratterizzati da una struttura molto più giovane del collettivo nazionale. Il 48.9% dei comuni trentini e altoatesini, 138 comuni su 282, segnano infatti una presenza di ultraottantenni inferiore al 6,4%.

(Carlo Marroni, da “il Sole 24ore” del 17/3/2024)

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L’ITALIA DEI PICCOLI COMUNI TRA CRISI, SPOPOLAMENTO E VOGLIA DI RISCATTO

di Francesca Liani, 24/1/2024, da https://www.lentepubblica.it/

L’Italia rimane un Paese di piccoli Comuni anche se dal 2000 ci sono 205 Comuni in meno.

   È stato recentemente presentato uno studio della Fondazione Think Tank Nord Est, laboratorio di idee, proposte e animatore del dibattito sullo sviluppo del territorio compreso tra le province di Venezia, Treviso, Udine e Pordenone, che ha analizzato il fenomeno della riduzione progressiva del numero dei Comuni italiani alla luce dei dati Istat.

   Dal report si apprende che a partire dal 22 gennaio 2024, il numero dei Comuni in Italia è sceso a 7.896. Quello della diminuzione dei Comuni è stato un processo lento ma inesorabile cominciato all’inizio degli anni Duemila. Nel 2001 infatti, l’Italia esprimeva il numero massimo dei Comuni pari a 8.101 ma da allora c’è stata una diminuzione di 205 unità. Un processo analogo a quello di molti altri Paesi europei ma  più diluito nel tempo: infatti, tra 2006 e 2023, mentre in Italia il calo è stato solamente del 2,5%, in Grecia la riduzione è stata del 68%, nei Paesi Bassi del 25%, in Germania del 13%, in Austria dell’11% e in Francia del 5%. Oggi l’Italia è il quarto Paese europeo per numero di Comuni, dietro a Francia, Germania e Spagna.

L’ITALIA, UN PAESE DI PICCOLI COMUNI TRA CRISI, SPOPOLAMENTO E VOGLIA DI RISCATTO

Nonostante la riduzione del numero di Comuni, l’Italia si presenta ancora come un Paese di piccoli Comuni; il 70% ha meno di 5.000 abitanti (5.521), mentre il 25,5% hanno addirittura meno di 1.000 abitanti (2.012). I piccoli Comuni si trovano soprattutto nelle aree alpine ed appenniniche, ma sono presenti anche nelle basse pianure del Nord e in alcune aree del Meridione.

   Il numero maggiore di Comuni italiani è concentrato nel Nord del Paese: il 19% si trova in Lombardia e quasi il 15% in Piemonte; in queste due regioni ci sono più di 1.000 Enti con meno di 5 mila abitanti. In Valle d’Aosta, capoluogo a parte, tutti i Comuni sono di piccola dimensione, ma una percentuale molto significativa di piccoli Municipi si registra anche in Molise (94,1%), Piemonte (88,6%), Trentino Alto Adige (85,8%), Sardegna (83,8%), Abruzzo (83%) e Basilicata (81,7%).

   Questi Comuni sono attraversati da fenomeni socio-economici e demografici molto simili  ossia: invecchiamento della popolazione, disoccupazione, progressivo abbandono e spopolamento, crisi della natalità.

   In particolare lo spopolamento dovuto alla mancanza di opportunità vincola soprattutto gli anziani e coloro che più faticano a trovare alternative. Di conseguenza, cresce in questi territori il bisogno di Stato sociale che si faccia carico non solo delle persone più fragili ma anche del cambiamento climatico e del dissesto idrogeologico che espone i piccoli Comuni delle aree interne a calamità e ad eventi estremi (piogge torrenziali, inondazioni e frane; siccità e incendi; tempeste di vento ecc.)

   Eppure, nonostante questa fragilità, i piccoli Comuni rimangono custodi di un immenso patrimonio naturale, d’arte, cultura, tradizioni, con una varietà enogastronomica che non ha uguali nel mondo, e forse proprio per le loro piccole dimensioni, sono diventati anche luoghi di sperimentazione di buone pratiche più innovative in fatto di energia, turismo (alberghi diffusi) economia verde e riciclo dei rifiuti, laboratori di accoglienza e inclusione sociale.

   Lo stesso Papa Francesco invita queste comunità a guardare le opportunità oltre i vincoli, ad impegnarsi in “pratiche sociali innovative”, nella cura del territorio in chiave sostenibile, a sperimentare nuove forme di welfare  basate su “forme di mutualità e reciprocità”.

   Nel frattempo, tuttavia, il fenomeno dell’invecchiamento e della riduzione della popolazione italiana farà sentire sempre più i suoi effetti in futuro, con riduzioni di residenti nei piccoli comuni intorno al 5% entro il 2040.

LE STRATEGIE PER ARGINARE L’ABBANDONO DEI BORGHI

Una delle strategie messe in atto per frenare l’abbandono e lo spopolamento dei Comuni è l’accorpamento/fusione che in Veneto è ora norma nel Piano di Riordino Territoriale.

   Ma non è detto che la soluzione migliore sia la fusione. L’unione dei Comuni è una forma di associazione tra comuni confinanti che non prevede la fusione tra amministrazioni ma la gestione condivisa di alcune funzioni e servizi, mantenendo la propria autonomia negli altri aspetti. Le unioni presenti in Italia sono 540. La regione che in termini assoluti registra il maggior numero di enti è il Piemonte (116) seguito da Lombardia (75) e Sicilia (50). Le due aree con il numero minore sono l’Umbria (4) e la provincia autonoma di Trento (2).

   Sicuramente, la condivisione di progettualità a livello sovracomunale è già un passo importante che molti Comuni condividono anche per mettere a sistema l’offerta ed intercettare maggiori risorse ed investimenti sul territorio.

   Per assicurare un futuro a questa parte del Paese, Legambiente promuove dal 2004 PiccolaGrandeItalia, una campagna il cui obiettivo è tutelare l’ambiente e la qualità della vita dei cittadini che vivono in questi centri stretti fra la rarefazione dei servizi e lo spopolamento. Affinché non esistano aree deboli, ma comunità messe in condizione di funzionare al meglio e competere.

Di certo lo spirito di sopravvivenza dei piccoli Comuni d’Italia è ben temprato. Oltre l’inverno demografico, tra le rughe dei pochi anziani rimasti, in mezzo alla crisi economica che incrementa lo spopolamento, si intravede voglia di riscatto e riaffermazione.

   I 4.381 progetti presentati ad Invitalia con il bando Imprese Borghi e gli 850 da finanziabili con il bando MAECI per il  turismo delle radici, testimoniano che i piccoli Comuni non desiderano semplicemente sopravvivere ma vogliano invertire la rotta ed essere protagonisti di una nuova rinascita all’insegna della bellezza, dell’autenticità e della riscoperta delle tradizioni.

(Francesca Liani, 24/1/2024, da https://www.lentepubblica.it/)

(Mappa dei comuni in Italia con meno di 5mila abitanti, tratta da https://www.lentepubblica.it/)

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(tabella tratta da https://www.lentepubblica.it/)

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QUANDO LA GEOGRAFIA ISTITUZIONALE FRENA LO SVILUPPO DEI TERRITORI

di Dario Immordino, da “la voce.info” del 12/12/2023, https://lavoce.info/  

I bacini istituzionali si rivelano molto più piccoli di quelli utilizzati quotidianamente dalla popolazione e dalle imprese. Il riassetto istituzionale dovrebbe riguardare l’intero sistema dei poteri locali, compresa la galassia di società partecipate –

Il peso della geografia istituzionale

Il deficit di qualità istituzionale del sistema italiano certificato dal rapporto dell’Istat, dalla relazione della Commissione europea sulle politiche di coesione e da molte relazioni dei presidenti dei tribunali amministrativi dipende in certa misura dalle criticità dell’assetto istituzionale.

   In una situazione ideale dal punto di vista dell’efficienza, la dimensione demografica del governo locale è strutturata in modo da rispecchiare le caratteristiche socioeconomiche territoriali e da consentire lo sfruttamento di economie di scala (le prestazioni vengono prodotte al minore costo unitario possibile) e la massima coincidenza tra utilizzatori e finanziatori dell’offerta territoriale di prestazioni pubbliche. In queste condizioni, tutti i servizi vengono erogati secondo adeguati standard qualitativi e quantitativi, poiché raggiungono la soglia minima di domanda sufficiente, i cittadini sono in grado di esercitare il massimo controllo sull’operato dei propri amministratori.

   Invece i sistemi locali del lavoro dimostrano inequivocabilmente che i bacini istituzionali non rispecchiano l’assetto e le esigenze della mobilità, del lavoro, della società, della produzione e il sistema di relazioni economiche e sociali, poiché si rivelano molto più piccoli di quelli utilizzati quotidianamente dalla popolazione e dalle imprese.

   Di fatto, la realtà istituzionale, definita dai confini amministrativi, non coincide con quella vissuta da cittadini e imprese, delineata dai flussi di pendolarismo, dalla geografia delle attività produttive, delle residenze e dei luoghi di lavoro. Le relazioni socio-economiche sono fluide e in continua evoluzione e richiedono flessibilità e capacità di adattamento da parte delle politiche pubbliche e degli assetti istituzionali, mentre i confini amministrativi producono rigidità, frazionamento istituzionale e criticità decisionali.

   I piccoli enti non raggiungono la dimensione minima necessaria a conseguire economie di scala e di scopo nella produzione dei servizi, ad abbattere i costi fissi di erogazione delle prestazioni e a garantire lo svolgimento efficiente delle funzioni di loro competenza. Finiscono così per sostenere oneri elevati per fornire a cittadini e imprese servizi inadeguati. Non a caso gli ultimi rapporti della Corte dei conti certificano che sempre più enti locali non sono in grado di offrire prestazioni pubbliche adeguate agli standard qualitativi e quantitativi prescritti e di garantire i diritti essenziali dei cittadini.

   In alcune realtà territoriali, peraltro, la ridotta dimensione demografica si accompagna alla presenza di altri fattori critici: bassa densità abitativa e caratteristiche morfologiche sfavorevoli del territorio, che comportano una lievitazione dei costi di esercizio di alcune funzioni (trasporto pubblico, istruzione, sanità e assistenza), presenza di “motori economici” deboli, progressivo spopolamento dei piccoli comuni, scarsa presenza della popolazione giovanile e forte incidenza di quella anziana, che rende necessaria l’attivazione di servizi assistenziali che gli enti più piccoli difficilmente riescono a sostenere, a causa delle scarse risorse disponibili e degli elevati costi di gestione (distribuiti tra un numero di utenti ridotto che non consente di raggiungere risultati di economicità ed efficacia).

   La competizione nazionale e internazionale, ma anche l’articolato strumentario di target e milestone del Piano nazionale di ripresa e resilienza e delle politiche di coesione, impongono servizi altamente qualificati nel campo della ricerca e dell’innovazione, delle grandi infrastrutture di trasporto e comunicazione, settori che contribuiscono all’attrattività dei territori e richiedono in genere una soglia di domanda elevata per poter essere economicamente sostenibili.

   Sottodimensionamento e frammentazione istituzionale, invece, impongono una barriera burocratica in territori molto integrati dal punto di vista funzionale, ostacolano l’innovazione, escludono i sistemi territoriali da segmenti economici in crescita, perché li rendono inadeguati alle trasformazioni dei flussi turistici e dei settori industriali governati dalle piattaforme elettroniche globali e degli altri fenomeni che condizionano il mercato immobiliare, il tessuto commerciale e produttivo, le esigenze e consuetudini sociali.

   Queste criticità dell’assetto istituzionale comportano non solo marginalizzazione e maggiori oneri economici per il sistema produttivo (con conseguente perdita di competitività), ma anche costi ambientali e sociali sempre più pesanti, che gravano soprattutto sui residenti e sugli utenti dei servizi pubblici (congestione da traffico, inquinamento).

   In più, l’estrema frammentazione della realtà istituzionale implica la moltiplicazione dei centri di programmazione e di spesa e la frantumazione delle politiche di sviluppo territoriale in una infinità di misure e interventi che assorbono risorse pubbliche senza produrre adeguate prestazioni.

Come riorganizzare l’assetto degli enti locali

Il percorso riformatore innescato dal Pnrr costituisce l’occasione per riorganizzare l’assetto degli enti locali incentrandolo sul criterio della funzionalità, cioè sull’esistenza di esigenze e caratteristiche comuni a più territori, secondo un approccio che consenta di utilizzare in modo strategico le risorse e le potenzialità di ogni contesto, di valorizzarne il potenziale competitivo (capitale infrastrutturale, naturale, produttivo, cognitivo, sociale e relazionale), di attivare sinergie, di strutturare nuove efficienti politiche territoriali e di programmazione (dalla pianificazione strategica alla progettazione partecipata); di individuare limiti di soglia o sostenibilità.

   L’obiettivo dovrebbe essere strutturare un sistema di governo locale calibrato sulla base delle specificità territoriali come la compenetrazione urbanistica, la condivisione di servizi culturali e scolastici, lo sviluppo urbano ed economico e le prospettive potenziali di crescita (logistica e portualità, industria ed energia, turismo e servizi d’area vasta) e in grado di favorire la gestione e il consumo razionale e sostenibile del suolo e degli spazi urbani, oltre che di altri beni collettivi come welfare, sanità, ricerca e formazione, acqua, energia, la connessione delle reti urbane e infrastrutturali.

   Il sistema di governo locale deve essere incentrato sul potenziamento delle filiere (scuola-formazione-politiche per l’impiego, pianificazione-paesaggio-tutela ambiente e così via) e della dimensione di area vasta, attraverso la riorganizzazione degli enti intermedi e la promozione di forme associative e di cooperazione e di spazi di concertazione tra gli enti e i soggetti operanti nel territorio, al fine di contenere il consumo di suolo, organizzare la mobilità e i flussi di pendolari e di merci, gestire i servizi su scala adeguata, pianificare gli insediamenti produttivi e di servizio, gestire le politiche ambientali, programmare lo sviluppo locale, l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, le reti infrastrutturali.

   Bisogna dunque riconfigurare la dimensione istituzionale del governo locale, ma per conseguire gli impegnativi obiettivi di efficienza imposti dal Pnrr e dalle politiche europee, l’accrescimento dimensionale degli enti locali deve essere accompagnato da una riconfigurazione qualitativa delle politiche territoriali, calibrata in ragione delle caratteristiche demografiche e strutturali delle singole funzioni e dei diversi contesti territoriali, della diffusione delle infrastrutture e dei servizi, della densità amministrativa e demografica, della diffusione dell’attività manifatturiera, turistica, del lavoro, e della ricchezza, in modo da individuare la dimensione appropriata degli interventi di sviluppo territoriale e di coesione sociale, della pianificazione e dell’allocazione delle risorse.

   Qualunque riassetto istituzionale, per rivelarsi efficace, dovrebbe riguardare l’intero sistema dei poteri locali, le strutture periferiche statali e regionali e la vasta galassia di società partecipate, enti e organismi strumentali, agenzie, soggetti d’ambito, unioni, Gal, convenzioni, distretti, consorzi. Ciò consentirebbe di garantire l’effettiva corrispondenza tra costi delle funzioni e risorse, di salvaguardare l’autonomia territoriale e al contempo di offrire ai cittadini e alle imprese un livello adeguato di servizi e prestazioni senza gravare troppo sulle tasche dei contribuenti, razionalizzando il vasto apparato di enti e società regionali che la Corte dei conti ha definito “fuori controllo” ed eliminando duplicazioni e sovrapposizioni di competenze che appesantiscono l’azione pubblica e ne incrementano i costi annacquando le responsabilità.

(Dario Immordino, da “la voce.info” del 12/12/2023, https://lavoce.info/)

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(tabella ripresa da https://www.lentepubblica.it/) (CLICCARE SULL’IMMAGINE PER INGRANDIRLA) – Progetti pilota per la rigenerazione culturale, sociale ed economica di Borghi a rischio di abbandono o abbandonati, sostenuti dal Ministero della Cultura con fondi del PNRR (M1C3 Turismo e Cultura 4.0 misura 2 Rigenerazione di piccoli siti culturali, patrimonio culturale religioso e rurale)
(RECOARO TERME, qui parte del BORGO STORICO, comune con un illustre passato termale e turistico, ora in grave crisi di abbandono; foto ripresa da https://www.confcommerciovicenza.info/)

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(RIPRENDIAMO QUI una parte di un post qui pubblicato, in questo blog “Geograficamente”, dove formulavamo alcune PROPOSTE PER RIVITALIZZARE I PAESI ABBANDONATI o in corso di abbandono. Siccome ci sembrano idee e proposte ancora valide da realizzarsi, le riproponiamo qui di seguito):

(…..)  Un fenomeno tangibile, visibile, l’abbandono e la desertificazione di paesi specie di montagna o lontani da centri urbani significativi, frutto dell’incedere della storia nei territori, dove ogni luogo (fatto di natura, artificio umano, accadimenti storici) può essere oggettivamente destinato all’abbandono. Ma la cosa non è rassicurante (l’oggettività):la rassegnazione all’abbandono denota incapacità di trasformarsi, un declino culturale, economico, ambientale, sociale, urbano….

Tentiamo, nell’individuare in questo post geografie dei luoghi, cause dell’abbandono, effetti, di dare spunti per un ritorno alla vita di paesi ora desolatamente vuoti di giovani, bambini (spesso ci sono solo pochi anziani…), senza persone che ci vivono, lavorano, vivono.

LE CAUSE DELL’ABBANDONO

   I motivi di spopolamento sono molteplici. I vecchi alpeggi, ad esempio, sono stati abbandonati con il boom economico del secondo dopoguerra, preferendo ad essi condizioni di vita migliori, più comode, andando a lavorare in fabbrica o emigrando in altri Paesi. Ci sono borghi abbandonati perché troppo isolati; altri perché distrutti da continui terremoti, frane e alluvioni (forse questa è la causa principale dell’abbandono: si va a costruire in zona più sicura il “nuovo paese”, a volte ragionevolmente e con buone riuscite urbanistiche, la maggior parte creando degli obbrobri…). Ma non da meno ci sono in primis, come motivo dell’abbandono, ragioni economiche, come nel caso dei villaggi minerari in Sardegna, oppure nella Alpi e nella catena appenninica per l’insostenibilità di una vita magra, fatta di privazioni non più sopportabili nell’era dell’inizio del benessere economico dagli anni 60 del secolo scorso.

LE PROPOSTE DI RIPOPOLAMENTO (OLTRE ALLE FONDAMENTALI “SANITÀ, SCUOLA, MOBILITÀ”)

1- Innanzitutto noi crediamo a una vera nuova riorganizzazione istituzionale dei territori, coinvolgendoli tutti in AREE METROPOLITANE (se non piace questo termine per zone e paesi di montagna, chiamiamoli AGROPOLITANI o quant’altro di simile e più accattivante…). Non può essere che il “sistema-Paese” (nazione) pensi di potenziare e investire risorse e innovazione solo in 15 Aree-Città (metropolitane) (più o meno corrispondenti ai maggiori nuclei urbani che ci sono adesso), tralasciando il ruolo di tutto il resto del territorio nazionale. Continua a leggere

AGRICOLTORI EUROPEI IN SOFFERENZA – Ma è una protesta condivisibile? …visti gli aiuti UE, e la assai scarsa propensione alla riconversione ecologica? (agricoltura pulita e bio; e allevamenti dignitosi per gli animali)? – Poi gli aumenti dei costi agricoli, la grande distribuzione dominante sui ricavi dei prodotti, la fatica dei campi (con il cambiamento climatico), dà loro ragione

(protesta dei trattori, foto da https://www.legambiente.it/) –
L’UE RITIRA LA PROPOSTA SULLA RIDUZIONE DELL’USO PESTICIDI DOPO LE PROTESTE DEGLI AGRICOLTORI
6/2/2024 – Marcia indietro di Ursula von der Leyen nel pieno delle proteste degli agricoltori in mezza Europa: “La Commissione ha proposto il ritiro del regolamento sui pesticidi”.
La Commissione europea proporrà il ritiro della proposta di legge sulla riduzione dell’uso di pesticidi nell’Ue dopo le proteste degli agricoltori europei. L’annuncio è stato fatto dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen.
(https://www.fanpage.it/, di Annalisa Cangemi)

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Perché protestano gli agricoltori europei (tabella da ISPI https://www.ispionline.it/)

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EUROPA: LA PROTESTA DEGLI AGRICOLTORI

La protesta degli agricoltori europei arriva a Bruxelles e costringe l’Europa a ripensare alle sue politiche per la transizione ecologica

da https://www.ispionline.it/, 2/2/2024

    La protesta degli agricoltori arriva a Bruxelles e si impone al vertice straordinario dei capi di stato e di governo europei, riuniti per discutere del nuovo pacchetto di aiuti all’Ucraina. Giovedì 1° febbraio oltre 1300 trattori hanno bloccato Place de Luxembourg, mentre i manifestanti lanciavano bottiglie e uova contro la sede del Parlamento europeo, appiccando roghi e abbattendo una statua. Anche se l’agricoltura non era all’ordine del giorno, i leader europei – che nel vertice del 1° febbraio hanno finalmente superato l’impasse sul nuovo pacchetto di aiuti da Kiev – si sono ritrovati a parlare di agevolazioni fiscali sui carburanti agricoli, limitazioni ai prodotti alimentari di importazione e sostenibilità ambientale nelle colture e negli allevamenti.

   I blocchi stradali, che hanno paralizzato la capitale belga, sono stati rimossi solo dopo che i 27 avevano promesso di rivedere le norme ambientali, ridurre la burocrazia e ripensare la parte del Green Deal relativa al comparto, chiedendo ai ministri dell’Agricoltura di presentare un piano per il 26 febbraio. In Francia, dove negli ultimi giorni gli agricoltori avevano bloccato le autostrade intorno a Parigi e in tutto il paese, il primo ministro Gabriel Attal ha annunciato una serie di misure, tra cui l’impegno a riconsiderare le limitazioni sui pesticidi e un possibile divieto di importazione per frutta e verdura trattate con insetticidi vietati dalla normativa nazionale. La Francia è il principale produttore agricolo dell’Ue e il maggior beneficiario di sussidi provenienti dalla Politica Agricola Comune (Pac), pari a quasi 60 miliardi di euro annuali.  

COSA LAMENTANO GLI AGRICOLTORI?

Nel mirino degli agricoltori, ci sono le normative nazionali e quelle dell’Unione Europeain particolare la cosiddetta ‘Farm to fork’ – parte del Green Deal che mira a rendere il blocco dei 27 climaticamente neutro entro il 2050 – e che prevede, tra le altre cose, di dimezzare i pesticidi, ridurre di un quinto l’uso di fertilizzanti, aumentare i terreni ad uso non agricolo – ad esempio lasciandolo a riposo o piantando alberi non produttivi – e raddoppiare la produzione biologica portandola al 25% di tutti i terreni agricoli dell’Ue.

   La guerra in Ucraina ha peggiorato le cose. Ad una prima fiammata dei prezzi per alcuni prodotti come il grano è seguito uno sconvolgimento dei flussi commerciali che ha provocato un eccesso di offerta e una corsa a misure protezionistiche da parte di alcuni paesi dell’Europa Orientale.

   E se le preoccupazioni variano da paese a paese – dalle proteste tedesche contro i tagli ai sussidi per il gasolio a quelle francesi contro gli accordi di libero scambio – ci sono anche lamentele comuni: una di queste riguarda l’aumento dei prezzi dell’energia e dei fattori di produzione, combinato con il crescente divario tra i margini di profitto dei produttori e quelli dei grandi colossi dell’agro-industria e delle catene di supermercati.  Non a caso, fra i bersagli delle proteste degli ultimi giorni figurano le sedi di diversi colossi agroalimentari, davanti ai quali i camionisti in sciopero hanno rovesciato grossi carichi di letame

PIÙ CIBO E PIÙ GREEN

Non sarebbe corretto, però, ridurre la battaglia degli agricoltori europei a una lotta di resistenza contro il Green Deal e le misure volte a favorire la transizione ecologica del continente. Il settore agricolo, che causa appena l’11% delle emissioni di gas serra dell’Ue, è il primo a pagare il prezzo degli eventi meteorologici estremi dovuti ai cambiamenti climatici, che negli ultimi anni hanno influenzato sempre più la produzione.

   Tanti agricoltori sono costretti a cambiare le colture a causa di periodi prolungati di siccità, mentre altri, che vorrebbero preservare quelle tradizionali, reclamano nuovi bacini e infrastrutture di raccolta dell’acqua a cui i governi non sempre danno la giusta priorità. Dal 2005 ad oggi oltre un terzo delle aziende agricole ha chiuso i battenti, in un panorama che vede sorgere sempre più colossi e in cui le realtà più piccole sono sempre meno competitive. Più in generale, oltre a sentirsi perseguitati da una burocrazia che sa poco della loro attività, molti agricoltori lamentano di sentirsi intrappolati tra due fuochi: la richiesta di produrre più di cibo a basso costo, ma rispettando al contempo il clima e l’ambiente. Sostengono che le politiche verdi per come sono concepite attualmente sono ingiuste, economicamente insostenibili e che alla fine si riveleranno autodistruttive. 

LA DESTRA CERCA DI CAVALCARE LA PROTESTA? 

Di fronte a una protesta così diffusa e massiccia, i governi nazionali corrono ai ripari: Berlino ha cancellato il taglio ai sussidi per i carburanti agricoli e Parigi ha annullato l’aumento della tassa sul diesel, e soprattutto ha promesso di fare pressione sulla Commissione per frenare l’accordo di libero scambio con il Mercosur (Mercado Común del Sur, organizzazione internazionale istituita da Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay con il Trattato di Asunción del marzo 1991, integrato dal Protocollo di Ouro Preto del dicembre 1994, in pratica allargato a quasi tutti i paesi dell’America Latina, NDR), che gli allevatori denunciano come un atto di ‘concorrenza sleale’ poiché consentirebbe un aumento delle importazioni di carne bovina, semi di soia e altri prodotti che non sono soggetti alle stringenti normative europee.

   I critici delle proteste, tuttavia, sottolineano che nonostante l’alto livello di sussidi – pari a un terzo del bilancio dell’Ue – il settore agricolo opponga una forte resistenza ad ogni forma di cambiamento strutturale. Inoltre, c’è chi lamenta l’influenza che la lobby agricola già esercita sul processo decisionale a Bruxelles e nelle capitali europee in vista delle prossime elezioni, dato che gli agricoltori ricevono sempre più sostegno dai partiti di estrema destra. Il cambiamento è significativo: mentre un tempo l’indignazione degli agricoltori trovava la sua voce nella sinistra – che prendeva di mira gli accordi di libero scambio e le multinazionali – questa volta a cercare di cavalcarla sono i partiti di destra, intenzionati a far crollare l’attuale maggioranza a Bruxelles e il suo Green Deal. 

(da https://www.ispionline.it/, 2/2/2024)

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(Agricoltori in rivolta, foto da https://www.adnkronos.com/)

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LEGAMBIENTE SULLE PROTESTE DEI TRATTORI

5 Febbraio 2024, https://www.legambiente.it/

Il Green deal non è il nemico, ma un alleato strategico del mondo agricolo e una bussola importante per il futuro dell’agricoltura nella lotta alla crisi climatica. Il vero problema è il basso reddito della maggioranza delle aziende agricole, sopraffatte da crisi economica, cambiamenti climatici e speculazioni finanziare. Serve una forte alleanza tra mondo agricolo e mondo ambientalista.

   Al Governo Meloni chiediamo subito interventi per supportare la transizione ecologica del settore ma al tempo stesso garantire il reddito: si snellisca la burocrazia, si garantisca assistenza tecnica e politiche che premiano economicamente chi punta su agroecologia e servizi ecosistemici, si incentivi lo sviluppo delle rinnovabili in ambito agricolo per ridurre i costi energetici”.

   In questi giorni caldi di protesta del mondo agricolo, Legambiente risponde ai tanti agricoltori scesi per le strade d’Italia e al Governo Meloni difendendo il Green Deal europeo e indicando gli interventi chiave da mettere in campo per aiutare gli operatori agricoli in grave difficoltà dal punto di vista economico e accelerare la transizione ecologia di questo settore. L’auspicio è che si imbocchi la strada del dialogo, avendo ben chiaro che per un’agricoltura sostenibile e innovativa la bussola è rappresentata proprio dal Green Deal europeo e dal suo percorso di decarbonizzazione, senza il quale si rischia un contraccolpo economico per il settore davvero rilevante. Stando, infatti, a quanto previsto dal Piano Nazionale di Adattamento Climatico, varato a fine 2023 dal Governo Meloni, in Italia si stima una riduzione del valore della produzione agricola pari a 12,5 miliardi di euro nel 2050 in uno scenario climatico con emissioni climalteranti dimezzate al 2050 e pari a zero al 2080.

   “Il Green deal non è il nemico, ma un alleato strategico del mondo agricolo. Gli agricoltori – dichiara Stefano Ciafani presidente nazionale di Legambiente – devono essere consapevoli che dal Green deal passa il loro futuro e non la loro fine. I veri nemici sono l’emergenza climatica, chi difende le fossili e rallenta la transizione ecologica, strumentalizzando le legittime e indiscutibili ragioni di chi opera nel settore. Detto ciò, è evidente che le manifestazioni di questi giorni fanno il gioco della lobby delle fossili e dei partiti contrari alla decarbonizzazione, in vista delle elezioni europee del prossimo giugno, ma mettere in discussione le strategie Ue come la From farm to fork e la Biodiversity 2030 significa stravolgerne completamente i presupposti. Così come è una fake news dire che il Green Deal possa provocare danni economici a livello europeo e all’attività agricola italiana. Ciò che chiede l’Europa è esattamente ciò di cui l’agricoltura ha bisogno per poter sopravvivere. Occorre creare le basi per una forte alleanza tra il mondo agricolo e mondo ambientalista proprio perché gli agricoltori sono i protagonisti principali di un cambiamento in chiave ecologica dell’intero settore, ma per fare ciò occorre garantire reddito alle tante piccole e medie aziende che oggi sono sopraffatte dalla crisi economica, dagli effetti dei cambiamenti climatici e dalle speculazioni sul prezzo dei prodotti agricoli”.

   Al Governo Meloni Legambiente ricorda che quello che è mancato sino ad oggi è un chiaro supporto agli agricoltori e alla transizione ecologica di questo settore, che è sia vittima sia carnefice della crisi climatica. Per questo l’associazione chiede all’Esecutivo che si introducano interventi concreti per aiutare davvero gli agricoltori partendo dallo snellimento della burocrazia, garantendo assistenza tecnica e politiche a sostegno del reddito, incentivando l’agroecologia, premiando chi punta sui servizi ecosistemici, lo sviluppo delle rinnovabili per produrre energia utilizzando ad esempio il modello agrivoltaico o la produzione di biogas o biometano.

   “Le differenze fra quanto vengono pagati i prodotti agricoli all’origine e il prezzo finale sono fin troppo evidenti, così come la forte precarietà che sta vivendo oggi il mondo agricolo sempre più in difficoltà, ma non ha senso prendersela con le politiche ambientali europee. La transizione – dichiara Angelo Gentili, responsabile agricoltura Legambiente – non può permettersi battute di arresto. Anche solo pensare di stare alla larga da misure ambientalmente sostenibili in agricoltura significherebbe infatti sancire la fine di ogni qualsivoglia attività agricola nei prossimi decenni. La crisi climatica corre velocissima e nessun trattore per strada riuscirà a fermarla. Senza dimenticare che oggi la grande sfida è quella di realizzare un modello di agricoltura in grado di rispondere alle esigenze dei consumatori che chiedono cibo più sano e di filiera corta, capace di mettere in pratica la transizione ecologica e pensato per sostenere fortemente il reddito degli agricoltori: questa è l’unica via che ci permetterà di  dare maggiore dignità ad un comparto oggi in difficoltà con una visone che punta ad un cambiamento in chiave sostenibile dell’intero modello agroalimentare”.

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(VI NUTRIAMO MA MORIAMO: La protesta a Bruxelles degli agricoltori; foto da https://www.ispionline-it/)

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I PRIVILEGI NON SONO ETERNI

di Andrea Bonanni, da “la Repubblca” del 2/2/2024

   Gli agricoltori che hanno occupato e devastato Bruxelles, e che da giorni assediano le città d’Europa, sono spinti da difficoltà reali della loro categoria. Essi incolpano di queste difficoltà l’Europa fingendo di dimenticare che, se non esistesse l’Europa che da oltre mezzo secolo li sostiene e li finanzia con i soldi dei contribuenti, probabilmente non esisterebbero neppure loro.

   Ma il problema posto dalle ricorrenti proteste del popolo dei trattori va ben oltre la lista dei torti e delle ragioni della categoria. È ormai divenuto un enorme problema politico e, allo stesso tempo, culturale.  Vediamo innanzitutto qualche cifra per inquadrare il problema. La politica agricola europea (Pac) assorbiva fino a qualche tempo fa il cinquanta per cento del bilancio comunitario. Oggi questa percentuale è scesa al 25 per cento ma, in cifra assoluta, gli stanziamenti a favore dell’agricoltura non sono calati di molto e si collocano attorno ai 55 miliardi di euro all’anno.

   Il dato, però, è ingannevole. Infatti la tutela che l’Europa offre agli agricoltori si manifesta soprattutto nei forti dazi doganali con cui Bruxelles penalizza le importazioni provenienti dai Paesi terzi, molto più competitive, creando così un mercato artificiale che tiene in vita l’Europa verde. Una simile politica commerciale non è, evidentemente, a costo zero sia per i consumatori, che pagano più cari i prodotti, sia per le ambizioni politiche della Ue.

   Gli accordi di libero scambio con l’America latina, per esempio, che aprirebbero all’industria europea un mercato enorme, sono bloccati dall’impossibilità di dare libero accesso alle carni e ai cereali prodotti in Brasile e Argentina per non mettere fuori gioco la nostra agricoltura. La questione agricola è stata di inciampo anche nel fallito negoziato commerciale con gli Stati Uniti. E quando la Ue, per solidarietà, ha abolito i dazi sul grano ucraino a buon mercato, i contadini di Polonia, Ungheria e Romania sono insorti bloccando coi trattori le frontiere e costringendo Bruxelles a una parziale marcia indietro.

   A fronte di sovvenzioni che assorbono il 25 per cento del bilancio comunitario, il settore agricolo rappresenta l’1,4 per cento del Pil europeo. E produce il 10,5 per cento del gas a effetto serra emesso in tutta la Ue. Nel 2022 il Pil dell’Europa verde è stato di 220 miliardi, di cui circa un quarto sono fondi comunitari. Secondo le cifre della Commissione europea, il reddito pro capite degli addetti all’agricoltura in Europa è cresciuto nel 2022 dell’11 per cento. Rispetto al 2015, l’aumento è stato del 44 per cento.

   Ovviamente ci sono molte buone ragioni che hanno fatto degli agricoltori europei una categoria altamente protetta. La prima è la manutenzione del territorio, anche se le organizzazioni di categoria contestano la norma Ue che impone di lasciare a maggese il 4 per cento dei terreni per favorire la biodiversità. Un’altra ottima ragione è quella di evitare il totale spopolamento delle campagne e un eccessivo inurbamento della popolazione. Infine, soprattutto dopo la drammatica esperienza della guerra, c’era e in parte c’è ancora la preoccupazione di mantenere una «sovranità alimentare», cioè di riuscire a produrre abbastanza cibo per sfamare la popolazione senza dover dipendere da fonti esterne.

   Un altro aspetto positivo della sovranità alimentare è la possibilità di accedere a prodotti che rispettino norme qualitative, igieniche e sanitarie che gli europei si sono liberamente e sovranamente dati: niente carne agli ormoni, niente polli lavati in candeggina, limiti all’uso di pesticidi e diserbanti e anche alla produzione di cibo geneticamente modificato.

   Ma storicamente un altro e determinante motivo per cui, fin dalla sua nascita, l’Europa ha strenuamente deciso di sovvenzionare i propri agricoltori è essenzialmente politico. Questi, infatti, per oltre sessant’anni, hanno costituito il principale serbatoio elettorale del voto moderato, tradizionalmente monopolizzato dai partiti popolari e democristiani. Le campagne hanno fatto da contrappeso al voto socialmente più progressista degli agglomerati urbani. Il risultato è stato la lunga, antagonistica ma fruttuosa cooperazione tra Popolari e Socialisti che ha governato l’Europa, e la maggior parte dei suoi Stati nazionali, nell’ultimo mezzo secolo.

   Oggi, però, questo dato politico sta rapidamente cambiando. Il popolo dei trattori contesta l’Europa che lo ha nutrito e tenuto in vita per tanti anni perché si rende conto che una realtà globale e globalizzata come la Ue non potrà difendere per sempre tutti i privilegi che finora ha garantito. Si genera così l’idea, totalmente illusoria, che solo gli stati nazione possano offrire le tutele corporative che gli agricoltori reclamano in contrapposizione alle «imposizioni europee».

   Nasce da questo corto-circuito ideologico l’alleanza, oggi sempre più stretta, tra il mondo rurale e le forze della destra populista e sovranista. In Polonia, in Francia, in Italia, in Spagna, in Olanda, in Germania, il voto delle campagne alimenta l’estrema destra e la sua retorica anti-sistema che ne cavalca il malcontento.

   Ciò pone i partiti tradizionali di fronte ad un dilemma. Possono cercare di recuperare il consenso di quella frangia, minoritaria ma importante, della popolazione pagando un prezzo economico e politico sempre più alto. Oppure possono voltarle le spalle contando che il progresso selezionerà i pochi in grado di continuare a produrre con profitto grazie ad un salto qualitativo e abbandonando gli altri nella discarica della politica e della storia. Non sarà comunque una scelta facile, né indolore.

(Andrea Bonanni, da “la Repubblca” del 2/2/2024)

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(Farm to Fork, il Green Deal europeo per un’economia sostenibile, ripreso da https://www.federconsumatorier.it/)

A maggio 2020 la Commissione europea ha pubblicato la strategia “Farm to Fork” (dalla fattoria alla tavola, ndr), come parte importante dell’European Green Deal, l’ambiziosa proposta legislativa in tema di ambiente a cui ha lavorato la nuova Commissione.

CHE COS’È LA STRATEGIA “FARM TO FORK” E CHI DOVRÀ ADOTTARLA?

L’uso dei pesticidi in agricoltura contribuisce a inquinare il suolo, le acque e l’aria.
La Commissione Europea adotterà misure per:

– ridurre del 50% l’uso di pesticidi chimici e il rischio che rappresentano entro il 2030;

– ridurre del 50% l’uso dei pesticidi più pericolosi entro il 2030.

   L’eccesso di nutrienti nell’ambiente è una delle principali cause di inquinamento dell’aria, del suolo e dell’acqua e ha un impatto negativo sulla biodiversità e sul clima. La Commissione agirà per:

– ridurre almeno del 50% le perdite di nutrienti, senza che ciò comporti un deterioramento della fertilità del suolo;

– ridurre almeno del 20% l’uso di fertilizzanti entro il 2030.

 Si calcola che la resistenza antimicrobica collegata all’uso di antimicrobici nella salute umana e animale causi 33 000 vittime nell’UE ogni anno. La Commissione 

– ridurrà del 50% le vendite di sostanze antimicrobiche per gli animali di allevamento e l’acquacoltura entro il 2030.

   L’agricoltura biologica è una pratica ecologica che deve essere ulteriormente sviluppata.

Verrà rilanciato lo sviluppo delle aree dell’UE dedicate all’agricoltura biologica affinché il 25% del totale dei terreni agricoli sia dedicato all’agricoltura biologica entro il 2030.

QUALI SONO GLI OBIETTIVI PRINCIPALI DELLA STRATEGIA?

Realizzare la transizione. Scelte informate e più efficienza:

– Etichettare i prodotti alimentari per consentire ai consumatori di scegliere un’alimentazione sana e sostenibile;

– Intensificare la lotta contro gli sprechi alimentari

– Ricerca e innovazione;

– Promuovere la transizione globale.

​(tratto da priorities-2019-2024/european-green-deal/actions-being-taken-eu/farm-fork)

(ripreso da https://www.federconsumatorier.it/ )

(Farm to Fork, immagine da Unione Europea)

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QUANTO VALGONO I SUSSIDI EUROPEI ALL’AGRICOLTURA

da IL POST.IT https://www.ilpost.it/, 3/2/2024

– Tra il 2021 e il 2027 sono stati stanziati quasi 390 miliardi di euro, circa il 20 per cento di tutto il bilancio comunitario –

   Da qualche settimana sono in corso in vari paesi europei, tra cui FranciaGermania e anche Italia, estese proteste organizzate dagli agricoltori, che si sono fatti notare soprattutto perché in molte occasioni hanno bloccato strade e autostrade con trattori e altri mezzi agricoli. Giovedì c’è stata anche una grossa manifestazione vicino ai palazzi delle istituzioni europee a Bruxelles, dove intanto era in corso una seduta straordinaria del Consiglio Europeo.

   Gli agricoltori protestano per diversi motivi, che spesso hanno a che fare con la situazione politica e normativa dei vari paesi in cui vivono e lavorano. Le loro richieste sono accumunate da una critica generale nei confronti della Politica agricola comune (PAC), l’insieme di norme che regolano l’erogazione dei fondi europei per l’agricoltura, considerata eccessivamente ambientalista e poco attenta alle necessità dei lavoratori. Storicamente però il settore dell’agricoltura è sempre stato uno dei più sussidiati, e oggi buona parte delle fattorie e delle aziende agricole europee riesce a sostenersi proprio grazie ai fondi europei per l’agricoltura.

   La PAC viene aggiornata ogni cinque anni: l’ultima è entrata in vigore nel 2023, e sarà valida fino al 2027. È un pacchetto di norme molto corposo, che viene concordato durante lunghe negoziazioni tra tutti gli stati membri dell’Unione. Si basa su alcuni obiettivi fondamentali: tra gli altri garantire un reddito equo agli agricoltori, proteggere la qualità dell’alimentazione e della salute, tutelare l’ambiente e contrastare i cambiamenti climatici.

   L’ultima PAC è stata finanziata con 386,6 miliardi di euro, ossia il 31 per cento di tutto il bilancio europeo per il periodo 2021-2027, che vale più di 1.200 miliardi euro. La percentuale scende al 23,5 per cento se comprendiamo nel totale del bilancio anche i circa 800 miliardi di euro forniti dal Next Generation EU, il piano di aiuti economici per i paesi colpiti dalla pandemia, spesso chiamato Recovery Fund. Le cifre utilizzate per questi calcoli rispecchiano i prezzi vigenti ad aprile del 2023: possono variare in base all’inflazione, ma l’ordine di grandezza generale rimane questo.

   I fondi della PAC sono divisi in due pilastri fondamentali: il Fondo europeo agricolo di garanzia (FEAGA) e il Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (FEASR). Il primo ha una dotazione complessiva da 291 miliardi di euro, e il secondo di 95,5 miliardi, di cui 8 miliardi forniti dal Next Generation EU.

   Complessivamente tra il 2023 e il 2027 la maggior parte dei fondi europei per l’agricoltura sarà usata per dare dei sussidi diretti agli agricoltori: riceveranno quasi 190 miliardi di euro, il 72 per cento del totale. La parte restante sarà divisa in progetti per lo sviluppo rurale (25 per cento) e interventi in specifici settori, tra cui quelli del vino, dell’olio d’oliva e dell’apicoltura (3 per cento dei fondi).

   L’agricoltura riceverà quindi quasi un quarto dei fondi previsti dal bilancio europeo. È senza dubbio una componente molto rilevante, che però in passato era ancora più alta: all’inizio degli anni Ottanta la quota di fondi dedicata all’agricoltura era del 66 per cento, ed è poi scesa gradualmente fino a raggiungere il 38 per cento nel periodo 2014-2020 e infine al 31 per cento dell’ultimo bilancio approvato. A partire dal 1992 la quota dedicata ai contributi diretti per gli agricoltori ha cominciato ad aumentare moltissimo, a scapito degli altri settori finanziati, come i sussidi alle esportazioni o alle attività educative e promozionali, i cui finanziamenti sono stati ridotti.

   I fondi europei vanno divisi tra tutti i 27 paesi membri dell’Unione (ed erano 28 fino al gennaio del 2020, quando c’era ancora il Regno Unito). Secondo gli ultimi dati disponibili, nel 2019 la Francia ricevette la quota più alta dei fondi del FEAGA, pari al 17,3 per cento del totale, seguita da Spagna, Germania e Italia, con il 10,4 per cento. Anche dell’altro fondo, il FEASR, beneficiarono soprattutto la Francia e l’Italia, che ricevettero rispettivamente il 15 e il 10,4 per cento dei fondi.

   La maggior parte degli agricoltori che nel 2019 beneficiò dei contributi diretti ricevette meno di 5mila euro, mentre una parte – circa il 2 per cento del totale – incassò più di 50mila euro. Con la nuova PAC sono stati modificati i criteri di distribuzione dei contributi e le modalità per accedervi, inserendo nuovi vincoli per la tutela dell’ambiente: agli agricoltori che non li rispettano possono essere ridotti o anche sospesi i pagamenti.

Secondo l’Unione Europea, i sussidi sono necessari perché nella maggior parte dei casi le aziende agricole hanno redditi inferiori a quelli degli altri settori produttivi: secondo i dati della Commissione Europea, nel 2022 gli agricoltori hanno guadagnato poco più del 60 per cento del reddito medio dei dipendenti nell’Unione. È una situazione che sta migliorando, considerando per esempio che nel 2005 il reddito medio degli agricoltori era pari al 30 per cento di quello degli altri dipendenti.

   Inoltre il settore deve fare i conti con molte incertezze: i prezzi sono volatili e le normative continuano a cambiare, così come le condizioni climatiche e i vincoli per ottenere i sostegni pubblici, fattori che nel complesso rendono molto difficile fare programmi a lungo termine. Anche per questo il settore agricolo è così sussidiato.

   Allo stesso tempo, però, gli agricoltori si oppongono a molti cambiamenti che l’Unione Europea sta cercando di introdurre per salvaguardare l’ambiente, e in alcuni casi avanzano richieste poco concrete o comunque molto difficili da realizzare. Tra le altre cose, in Italia chi sta partecipando alle proteste chiede il blocco delle importazioni dei prodotti agricoli da paesi con standard produttivi e sanitari meno rigidi rispetto a quelli europei, che farebbero concorrenza sleale; il divieto di vendita e produzione per i cosiddetti “cibi sintetici”; una riqualificazione della figura pubblica dell’agricoltore, che dal loro punto di vista sarebbe troppo spesso additata «come responsabile dell’inquinamento ambientale».

(IL POST.IT https://www.ilpost.it/, 3/2/2024)

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Frans Timmermans vice presidente della Commissione Europea e grande sostenitore del GREEN DEAL europeo (foto la press ripresa da https://europa.today.it/)­ – “(…) Con il piano industriale del Green Deal, presentato a febbraio 2023, l’UE si pone l’obiettivo di “zero emissions” per il 2050 e questo comporta numerosi altri impegni per gli agricoltori, come lo stop a numerosi pesticidi -e quindi la sostituzione di una serie di colture, in particolare ortofrutticole, per le quali determinati pesticidi erano di uso corrente- e l’aumento della rotazione delle colture, cioè una messa a riposo, in maniera alternata di superfici importanti dell’impresa agricola. (…)” (Elena Fattori, da https://www.huffingtonpost.it/ 29/1/2024)

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(da ISPI, sintesi della protesta a Bruxelles)

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L’AGRICOLTURA EUROPEA NON È PIÙ UN’ATTIVITÀ ECONOMICAMENTE SOSTENIBILE

di Elena Fattori, da https://www.huffingtonpost.it/ 29/1/2024

– Siamo a un bivio, l’abbinamento di tutele ambientali, sanitarie, e sociali con il libero mercato si è dimostrato inefficace –

   Gli agricoltori stanno protestando nelle piazze di tutta Europa e il motivo è molto semplice: l’agricoltura europea non è più una attività economicamente sostenibile; i costi di produzione di un prodotto agricolo non sono più coperti dal ricavo della sua vendita.

   Le decisioni di politica agricola sono competenza dell’unione europea sin dalle sue origini. Nel dopoguerra, i sei paesi fondatori dell’allora Comunità europea (Belgio, Francia, Italia, Germania, Paesi Bassi, Lussemburgo) avviarono i primi colloqui per un approccio comune all’agricoltura. L’Europa usciva dalla guerra annientata e affamata, la produzione agricola era scarsa e il reddito degli agricoltori basso rispetto ad altri settori. Era necessario riavviare la produzione alimentare in maniera sostenuta e alimentare la popolazione europea stremata dalla guerra.

   Una politica agricola comunitaria strutturata nasce nel 1962 con la PAC (politica agricola comunitaria) e ingenti stanziamenti. Viene istituito un meccanismo di controllo e sostegno dei prezzi di mercato, che fornisce agli agricoltori un prezzo garantito per i loro prodotti, introduce dazi per prodotti esteri e assicura l’intervento dello Stato in caso di calo dei prezzi di mercato.

   Gli agricoltori ricevono aiuti economici proporzionali alla quantità di prodotto. Il sistema raggiunge gli obiettivi prefissati e, in breve tempo, l’Europa diviene autosufficiente dal punto di vista della produzione alimentare. Nel corso degli anni 70 e 80 la produzione supera la domanda determinando le cosiddette eccedenze. Montagne di prodotti agricoli vengono distrutte o vendute a paesi terzi a prezzi molto bassi con ingenti spese per l’UE che deve garantire il prezzo dei prodotti agli agricoltori. Si introduce perciò il sistema delle quote: Continua a leggere

PFAS IN VENETO (e anche in Lombardia, e in tanti Paesi…) – Si risolverà mai il problema dell’inquinamento delle acque dato dalle sostanze perfluoroalchiliche (PFAS)? …causa di malattie gravi…. (e la Regione Veneto ha rinunciato a una indagine epidemiologica per capire gli effetti sulla salute di più di 100mila suoi cittadini esposti)

(PERICOLO PFAS, manifestazione in Regione Veneto di GREENPEACE) – I PFAS sono sostanze chimiche persistenti e difficilmente degradabili, che tendono ad accumularsi nell’ambiente e nei tessuti degli organismi. Per sette anni la Regione Veneto ha lasciato in sospeso, “per ragioni di approfondimenti di natura economica-finanziaria”, l’effettuazione dell’indagine epidemiologica per valutare gli effetti sulla popolazione delle province di VicenzaPadova e Verona, interessate all’inquinamento da sostanze perfluoroalchiliche (appunto i PFAS).
Sin dalla loro introduzione sul mercato globale a partire dalla metà del secolo scorso, i PFAS hanno trovato un massiccio impiego perché conferiscono proprietà idro- e oleo-repellenti. Queste sostanze sono utilizzate per la loro capacità di respingere sia i grassi che l’acqua, per le loro proprietà ignifughe, per la loro elevata stabilità e resistenza alle alte temperature, grazie al loro legame carbonio-fluoro.
Oggi però, nella maggior parte dei trattamenti in cui i PFAS vengono impiegati esistono alternative più sicure.
I PFAS trovano un massiccio impiego in una vasta gamma di applicazioni industriali e prodotti di largo consumo, tra cui:
– imballaggi alimentari, padelle antiaderenti, filo interdentale, carta forno, farmaci, dispositivi medici, cosmetici;
– capi di abbigliamento, prodotti tessili e di arredamento, capi in pelle;
– nell’industria galvanica (in particolare cromatura), scioline, cosmetici, gas refrigeranti, nell’industria elettronica e dei semiconduttori, nell’attività estrattiva dei combustibili fossili, in alcune applicazioni dell’industria della gomma e della plastica, nelle cartiere, nei lubrificanti, nei trattamenti anticorrosione, nelle vernici, in prodotti per l’igiene e la pulizia e nelle schiume antincendio.

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COSA SONO I PFAS? – da http://scienzamateria.blog.tiscali.it/?doing_wp_cron – Una famiglia di COMPOSTI CHIMICI POLI E PERFLUORATI UTILIZZATI IN MOLTI SETTORI INDUSTRIALI, soprattutto per la produzione di materiali resistenti ai grassi e all’acqua. Sono molecole caratterizzate da un forte legame tra fluoro e carbonio che le rende difficilmente degradabili, perciò SI ACCUMULANO NELL’AMBIENTE E POSSONO FACILMENTE PASSARE NEI VIVENTI interferendo anche in modo grave con il loro metabolismo

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(Poscola a Trissino in Via Pianeta, foto da Wikipedia) – Il torrente Poscola è un corso d’acqua della provincia di Vicenza. Nasce a Priabona di Monte di Malo, da una piccola grotta. Scorre inoltre a Castelgomberto, Trissino sfociando a Montecchio Maggiore nel fiume Guà. (da Wikipedia)

POSCOLE, PASSATO E PRESENTE. TESTIMONIANZE DI UNA VIOLENZA AMBIENTALE SENZA PRECEDENTI. TRA SPECULAZIONE E PFBA. I NUOVI DATI ARPAV

di SERGIO FORTUNA, 18/10/2023, da https://pfas.land/

La questione delle Poscole ci è sempre stata a cuore perché era un luogo bellissimo. La Poscola nasce in una grotta di acqua freschissima e chiarissima al Passo di Priabona e poi scende dalle creste del Pulgo e dei Campi Piani del Faedo per risorgere sulla Praderia. Tanto era bello, importante, unico, questo luogo baciato da Dio e da Pan, da mito e da storia (qui addirittura prende nome il Priaboniano), che si era pensato prima di proteggerlo e poi di farlo diventare perfino area di interesse comunitario. Poi sono arrivati i barbari (i Veneti contemporanei, con la lettera maiuscola identitaria), la speculazione iniziata con i Marzotto, la Superstrada Pedemontana Veneta voluta senza né scienza né sentimento da Luca Zaia e dai suoi satelliti politici ed economici, in joint “project financing” venture. Risultato. La distruzione di una zona bellissima, ricca di acqua e di storia, di flora e di fauna, e di umanità.

La Poscola oggi, dopo essere stata violentata ed inquinata dai PFBA (vedi nota su nuovi dati ARPAV in calce, con la presenza degli inquinanti a Sarego), dopo essere stata deviata per ben 3 volte dal suo alveo naturale e imbrigliata dentro al cemento, dopo essere stata lo scarico mefitico per decenni della Miteni di Trissino, rappresenta il torrente più violentato e inquinato d’Italia e forse d’Occidente. Un vero e proprio crimine ambientale permesso dalla politica distruttrice dei valori fondamentali di una civiltà. Da coloro che piangono il Vajont e in Dolomiti per le Olimpiadi e qui per la speculazione hanno fatto e stanno facendo lo stesso. La Poscola è la vergogna del Veneto a cielo aperto. La vergogna “naturalistica”.

A raccontarci tutto ciò un nativo del luogo e una grande sensibile artista. Nel mentre in alto passa la nuova Alta Via dei Montecchiani ribelli. Quelli che attraversando i territori in punta di piedi, su sentieri remoti e non allineati, si rivoltano contro il malaffare di chi li sta distruggendo quotidianamente.
Comitato di Redazione PFAS.land

POSCOLA, PASSATO E PRESENTE

di Sergio Fortuna

   Il passato di quei luoghi, data l’età, lo posso ricordare. Il fondovalle della Poscola a nord di Castelgomberto, dopo le Casarette, era fatto solo di campi, alberate, siepi e fossi. Alcune case c’erano, sui due versanti, ma ai piedi delle colline, costruite sul “sengio”, saldo e fuori dall’acqua.

   Perché il posto si trova allo sbocco della valle della Poscola sulla più ampia valle dell’Agno e i sedimenti portati dal torrente principale avevano  sbarrato la valle secondaria, creando una zona paludosa. Questa era stata bonificata nel Medio Evo mediante le “fosse” (toponimo attestato fin dal 1269), canali che drenavano l’acqua dai campi, ma essendo in buona  parte al livello della Poscola erano (e sono ancora oggi) piene d’acqua tutto l’anno. 

   Fino agli anni Settanta la zona era rimasta in questo stato. Nelle Fosse si pescavano le tinche, mentre nella Poscola, che scorreva lenta e senza arginature, contornata da pioppi, si potevano trovare le “salgarele” e i “marsoni”, spesso pescati abusivamente mediante le “moscarole”. Il posto migliore era il Fosson, ufficialmente Poscoletta, che scendeva dai declivi di Cereda e portava acqua in ogni stagione, mentre a monte della confluenza spesso d’estate la Poscola era secca.

   Siepi e alberate poi fornivano il terreno ideale ai cacciatori locali. Dal paese ci si arrivava attraverso una strada bianca che correva tra il ripido pendio del monte di Santo Stefano e la Poscola, che alle Cengelle veniva attraversata da un vecchio ponte in pietra a due arcate, con balaustra in ferro. La strada proseguiva verso il Tezzon, dall’altra parte della valle, verso Cereda, e incrociava con un angolo retto la roggia che da lì scendeva, con paracarri in pietra uniti da traversi in ferro: lì, si diceva, erano stati uccisi quattro soldati tedeschi, alla fine della guerra; ora c’è una rotatoria. 

   Ricordi personali, perché abitavo alla Villa, il vecchio centro del paese, e bastava poco per uscire verso quei luoghi favolosi. Dopo il ponte c’erano “cavezzagne” che si inoltravano nei campi, spesso coltivati a mais: bastava inoltrarsi per qualche decina di metri per sentirsi fuori dal mondo. Alcuni di questi campi venivano coltivati da una famiglia vicina a casa mia, i cui ragazzi dopo che i prati erano stati “segati” avevano il permesso di giocare a calcio in questi con gli amici. Così decine di bambini raggiungevano in bicicletta i prati, circondati dalle alte canne del mais, e potevano sfogarsi per un pomeriggio dietro a un pallone senza disturbare nessuno. Per la sete, c’era la limpida acqua della Poscola: sì, abbiamo fatto quello che oggi sarebbe un tentativo di suicidio, e senza danni. 

   Poi negli anni Sessanta la strada delle Cengelle venne allargata e asfaltata, e anche il ponte, con una gettata di cemento. Cominciò il traffico, perché dal paese attraverso questa strada si poteva raggiungere la provinciale di Priabona, e data la tortuosità del percorso, anche incidenti, diversi dei quali mortali. Più a sud, lungo la strada delle Casarette, venne costruito uno stabilimento dove si lavorava la plastica, primo insediamento che veniva a rompere l’integrità della Praderia, come era chiamato quel largo fondovalle allora fatto solo di campi coltivati e ora in parte occupato dalla zona industriale di Castelgomberto e Cornedo. Per la parte più a nord, che per la presenza di numerosi corsi d’acqua veniva detta “le Poscole”, al plurale, si cominciava a parlare di zona protetta.

(continua il racconto su: 18 ottobre 2023 | POSCOLE, PASSATO E PRESENTE. TESTIMONIANZE DI UNA VIOLENZA AMBIENTALE SENZA PRECEDENTI. TRA SPECULAZIONE E PFBA. I NUOVI DATI ARPAV – forever chemicals – informazione e azione contro i crimini ambientali (pfas.land) 

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(Mamme NO PFAS, foto da Il Corriere del Veneto) – Ad essere più a rischio dalla CONTAMINAZIONE DA PFAS, come spesso avviene in casi del genere, è innanzitutto la salute dei BAMBINI: per questo ne è sorto un MOVIMENTO di cosiddette MAMME NO PFAS, che si sono prese direttamente il compito di testare e conoscere quel che è accaduto e quel che accade, manifestando contro le sottovalutazioni (delle autorità, ma anche dell’opinione pubblica) di quanto sta accadendo…

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VENETO PFAS – Area ROSSA: area di massima esposizione sanitaria – Area ARANCIO: area captazioni autonome – Area GIALLO CHIARO: area di attenzione – Area VERDE: area di approfondimento – Area OMBREGGIATA: Plume di contaminazione

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PFAS, ELIMINATO L’ULTIMO DUBBIO: “SONO CANCEROGENI CERTI”

di Stefano Baudino, da L’indipendente,  https://www.lindipendente.online/, 4/12/2023

   Trenta scienziati dell’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC) hanno fatto chiarezza sul legame tra esposizione a sostanze perfluoroalchiliche (PFAS) e insorgenza di tumori. In un lavoro che verrà presto pubblicato sulla rivista scientifica The Lancet Oncology, i ricercatori hanno infatti concluso che una delle tipologie di PFAS più diffuse è certamente cancerogena e che pertanto va inserita nel gruppo 1 delle sostanze che possono causare neoplasie. L’aggiornamento della lista avrà una forte rilevanza in tutti quei processi in cui le vittime di queste pericolose sostanze industriali chiedono giustizia, come nel caso dei cittadini veneti che da anni si battono contro le istituzioni e l’azienda che ha sversato PFAS nella falda idrica sotto le province di Vicenza, Padova e Verona.

   In particolare, i Pfoa, composto chimico della famiglia dei Pfas, sono stati considerati cancerogeni per gli esseri umani “sulla base di prove sufficienti di cancro negli esperimenti sugli animali – scrivono i ricercatori – e di prove meccanicistiche forti nell’uomo esposto”. Si parla, nello specifico, di un rapporto causa-effetto tra la presenza di Pfoa nel sangue, nei tessuti e negli organi dei soggetti contaminati e le patologie da essi sviluppate. I Pfos, altro appartenente al gruppo dei Pfas, sono stati invece fatti rientrare nel gruppo 2B (a cui in precedenza appartenevano i Pfoa) poiché “possibilmente” cancerogeni. La ricerca, che presto vedrà la luce, illustrerà gli utilizzi industriali dei Pfas e prenderà in esame le correlazioni con determinate tipologie di tumore, in particolare quelli del rene e dei testicoli. Il rapporto, inoltre, conferma la trasmissibilità da mamme a neonati, nonché il fatto che i Pfas determinano una minore reazione dei vaccini e una maggiore vulnerabilità alle infezioni.

   I contenuti del nuovo studio costituiscono l’ennesimo tassello tecnico-scientifico che ha evidenziato la grande pericolosità dei Pfas, dando ragione a quell’universo di movimenti e associazioni – primo tra tutti quello delle “Mamme No Pfas” – che da sempre, in piazza come nelle aule giudiziarie, denunciano la questione. Attualmente è in corso davanti alla Corte d’Assise di Vicenza un processo che vede alla sbarra i dirigenti della Miteni di Trissino – azienda chimica specializzata in produzione di intermedi fluorurati per agrochimica, farmaceutica e chimica, dichiarata fallita nel 2018 – per le responsabilità sottese al grave inquinamento da sostanze perfluoroalchiliche di una vasta falda acquifera in Veneto, che avrebbe coinvolto 350mila cittadini nelle aree di Vicenza, Padova e Verona.

   In aula Pietro Comba, ex dirigente in pensione di Iss, lo scorso giugno ha riferito che nel 2017 svolse con i tecnici della Regione un lavoro atto a porre le basi dello studio epidemiologico per accertare le possibili correlazioni tra la presenza di Pfas nel sangue e l’insorgenza di tumori. Un progetto che si sarebbe arenato, a detta di Comba, per motivazioni politiche.

   Recentemente, in seguito alle pressioni ricevute dalle associazioni ambientaliste e dalle forze di opposizione, l’assessora regionale leghista alla Sanità Manuela Lanzarin ha ammesso che a bloccarlo furono «ragioni di approfondimenti di natura economica-finanziaria».

   Un mese fa, peraltro, è stata archiviata l’indagine a carico degli stessi manager della Miteni per omicidio colposo ai danni di tre lavoratori e per lesioni colpose rispetto alle patologie che hanno colpito 18 loro colleghi. Il gip, su proposta dei pm, aveva deciso di archiviare anche per la difficoltà di delineare una connessione certa tra Pfas e patologie riscontrate. Ma ora i risultati della ricerca dello IARC sembrano dire esattamente l’opposto.

   Un importantissimo ruolo, nella cornice di questa battaglia per la verità e la giustizia, è stato giocato da vari movimenti ambientalisti che, tra il 2015 e il 2016, riuscirono a inaugurare una rilevazione a campione che mise in luce valori elevati di Pfas nel sangue dei residenti dei comuni coinvolti dal disastro ambientale.

   La questione fu così grave da indurre, nel 2018, il governo a dichiarare lo stato di emergenza, istituendo una zona rossa in ben 30 comuni, e, tra il novembre e il dicembre 2021, l’Alto Commissariato dell’Onu a inviare in missione in Veneto una delegazione per comprendere se la gestione dell’emergenza abbia violato i diritti umani. Ne conseguì un rapporto in cui si evidenziò come “in troppi casi, l’Italia non è riuscita a proteggere le persone dall’esposizione a sostanze tossiche”.

   Successivamente, l’allarme Pfas è risuonato anche in Lombardia. Uno scenario inquietante è infatti emerso dal rapporto “Pfas e acque potabili in Lombardia, i campionamenti di Greenpeace Italia”, pubblicato due mesi fa dall’associazione ambientalista, in cui è stato attestato che ben 11 dei 31 campioni raccolti nelle acque potabili di una serie di Comuni di tutte le province Lombarde risultano contaminati da Pfas.

   In 4 casi l’organizzazione ha registrato una contaminazione da Pfas superiore al limite indicato nella Direttiva europea 2020/2184, ovvero 100 nanogrammi per litro. Lo scorso maggio, in seguito a numerose richieste di accesso agli atti inoltrate alle Agenzie di tutela della salute e agli enti gestori delle acque lombarde, la stessa associazione aveva pubblicato i risultati delle analisi eseguite dalle autorità competenti sulla concentrazione di Pfas nell’acqua destinata a uso potabile in Lombardia tra il 2018 e il 2022.  Dall’esame era risultato positivo alla presenza di sostanze perfluoroalchiliche circa il 19% dei campioni (ben 738). Il valore più alto di positività ai Pfas (pari all’84% dei campioni) era stato trovato nelle acque della provincia di Lodi, seguita da Bergamo (60,6%) e Como (41,2%), mentre a Milano era risultato contaminato quasi un campione su tre. (STEFANO BAUDINO)

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Vedi su questo BLOG GEOGRAFICAMENTE:

Risultati della ricerca per “pfas” – Geograficamente (wordpress.com)

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RAPPORTO TECNICO GREENPEACE SUI PFAS IN VENETO (novembre 2023):

c00256b4-relazione-analisi-vegetali-e-alimenti-2023-3-novembre-2023.pdf (greenpeace.org)

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Un’indagine dell’ISPRA (Istituto superiore per la protezione e ricerca ambientale) rivela la quantità di prodotti chimici e pesticidi presenti nelle acque italiane: secondo le ultime rilevazioni quasi il 64% delle acque di fiumi e laghi sono contaminate. E l’AREA GEOGRAFICA con i livelli più alti di contaminazione acquifera è quella della pianura padano-veneta. Circa il 70% delle acque superficiali risulta inquinato in Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna. Tante, troppe, le cause di tale situazione di precarietà. Inquinamento da pesticidi e, in Veneto, anche (non solo) inquinamento da PFAS. (mappa da ISPRA, INQUINAMENTO ACQUE ITALIA)

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ANALISI TEMPORALE PFAS VENETO // 2015-2022entra nella mappa >> https://www.datawrapper.de/_/B4Wzo/ [per gentile concessione di FELICE SIMEONE, ricercatore CNR] – da https://pfas.land/

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SCONCERTANTI COSTI SOCIALI DELL’INQUINAMENTO DA PFAS

(nuove mappe interattive dei territori contaminati del Veneto)

di Dario Zampieri, 25/7/2023, da https://pfas.land/

– “Nonostante la cortina di silenzio stesa dalle autorità, la saga dei Pfas che ha investito il territorio del Veneto occidentale si arricchisce continuamente di nuovi elementi. Il mito di un territorio operoso, affluente e felice, portato quotidianamente ad esempio dalla narrazione ufficiale e dalla stampa, si infrange non appena si cerchino informazioni non ufficiali, ma autorevoli in quanto provenienti da fonti indipendenti assolutamente attendibili. Sebbene chiunque ne possa intuire l’esistenza, quello dei veri costi della produzione e dell’uso dei Pfas è un argomento da conoscere nei suoi termini quantitativi, che sono veramente sconcertanti. Tenendo sempre presente che le sofferenze delle persone colpite nella salute non sono in alcun modo monetizzabili.

Dati alla mano, che troverete nell’articolo, risultano ancora insufficienti i nuovi limiti di sommatoria PFAS messi dalla Regione Veneto recentemente, su direttiva Europea, alle acque potabili. Da 390 ng/litro sui PFAS diversificati (vecchi e nuovi) siamo passati a 100 ng/litro (tutti inclusi). Piccoli passi di fronte ai grandi crimini ambientali permessi per decenni nei nostri territori. Talmente grandi che i nuovi limiti, seppur ancora alti, stanno mettendo a rischio la chiusura di molti acquedotti comunali, come accaduto poche settimane fa nel Comune di Montebello. Sta per collassare un intero sistema fondato sul silenzio. A dimostrazione di ciò le recenti mappe create da Felice Simeone, ricercatore CNR, che riportiamo in calce al nostro nuovo articolo, scritto dal prof. Dario Zampieri”.
Comitato di Redazione PFAS.land

COSTI SOCIALI E PROFITTI PRIVATI DEI PFAS

Nel mondo, le aziende responsabili della produzione della maggior parte dei Pfas sono solo una dozzina (3M, AGC, Archroma, Arkema, BASF, Bayer, Chemours, Daikin, Dongyue, Honeywell, Merk, Solvay). A causa di scarsa trasparenza non è facile acquisire le informazioni sui volumi di sostanze chimiche prodotte annualmente. ChemSec (https://chemsec.org/reports/the-top-12-pfas-producers-in-the-world-and-the-staggering-societal-costs-of-pfas-pollution/) è riuscita ad investigare sui principali produttori di Pfas scoprendo che i costi sociali di tale produzione sono enormemente superiori ai profitti delle aziende.

   La ChemSec, Segretariato internazionale di chimica, è un’organizzazione indipendente no-profit con base in Svezia nata nel 2002, che opera per la sostituzione dei prodotti chimici tossici con prodotti alternativi non tossici. È supportata economicamente dal governo svedese, da privati e da organizzazioni no-profit svedesi ed è membro dell’Ufficio Europeo per l’ambiente (EEB).

   Lo sforzo investigativo sui Pfas ha prodotto dei risultati sconcertanti. I volumi di denaro della vendita dei Pfas – 26 miliardi di euro – non sono esorbitanti se confrontati col volume generato da tutti i prodotti chimici – 4,4 migliaia di miliardi di euro. In pratica, si tratta solo dello 0,5%.

   Ma quanti sono i profitti effettivi? La mega corporazione americana 3M dichiara di realizzare con i Pfas un margine di profitto del 16% su volumi di vendita di 1,3 miliardi di dollari, cioè appena 200 milioni all’anno. Assumendo questa percentuale per tutta l’industria dei Pfas, i profitti generati globalmente in un anno sarebbero di circa 4 miliardi di euro, una cifra importante, ma poca cosa rispetto ai profitti ottenuti con tutti i prodotti chimici.

IN EUROPA

Ma qual è il costo reale della produzione e vendita dei Pfas? Un report del 2019 sponsorizzato dal Consiglio Nordico dei Ministri (https://www.norden.org/en) con il titolo Il costo dell’inazione stima che solo in Europa i costi sanitari diretti per esposizione ai Pfas sarebbero tra 52 e 84 miliardi di euro l’anno. A questi bisogna aggiungere i costi per rimuovere i Pfas dall’ambiente. Per i suoli si stimano 2000 miliardi di euro. Per le acque d’Europa (pensiamo ad esempio ai costi di rifacimento degli acquedotti e ai costi annui di filtraggio con carboni attivi in Veneto) si stimano 238 miliardi di euro. Estrapolando a tutto il mondo sarebbero 16 migliaia di miliardi di euro l’anno. A questi costi andrebbero aggiunti i danni agli animali e al deprezzamento di terreni e abitazioni delle zone contaminate. ChemSec conclude che se le aziende produttrici dovessero pagare i danni causati la maggior parte di esse andrebbe in fallimento.

   Va inoltre ricordato che l’EFSA (Agenzia Europea per la Sicurezza Alimentare), modificando il proprio parere del 2018, nel 2020 ha stabilito una nuova soglia di sicurezza raccomandando una dose tollerabile di 4,4 nanogrammi per chilogrammo di peso corporeo alla settimana. Anche la sicurezza alimentare ha costi sanitari, sociali ed economici. Si veda questo documento >> https://doi.org/10.2903/j.efsa.2020.6223

Il prezzo medio dei Pfas è di quasi 19 euro per chilogrammo, ma il vero costo sarebbe di 18.297 euro per chilogrammo, cioè circa 1000 volte superiore.

   In pratica, la produzione dei Pfas è insostenibile anche dal punto di vista economico. È tempo di includere nel prezzo delle merci anche i costi sociali, fra cui una ridotta durata della vita e una diminuzione dei giorni lavorativi; il mondo non dovrebbe essere una discarica e le persone non sono merci usa e getta o strumento per far ulteriore profitto con le cure sanitarie.

   Senza tener conto che le sofferenze prodotte dalle patologie non sono monetizzabili.

NEGLI USA

Negli Usa, tre aziende, Chemours, Dupont e Corteva hanno dichiarato di aver raggiunto l’accordo di sborsare 1,19 miliardi di dollari per contribuire a filtrare i Pfas dal sistema di distribuzione delle acque potabili (https://www.nytimes.com/2023/06/02/business/pfas-pollution-settlement.html). Centinaia di comunità hanno citato in giudizio 3M, Chemours e altre aziende, chiedendo miliardi di dollari di danni per far fronte agli impatti sulla salute e al costo della bonifica e del monitoraggio dei siti inquinati.
   Bloomberg News ha riferito che 3M ha raggiunto un accordo provvisorio del valore di almeno 10 miliardi di dollari con città e paesi statunitensi per risolvere le richieste relative ai Pfas. Tuttavia, la responsabilità di 3M potrebbe essere ancora maggiore. In una presentazione online a marzo, CreditSights, una società di ricerca finanziaria, ha stimato che il contenzioso Pfas potrebbe alla fine costare a 3M più di 140 miliardi di dollari.

   L’avvocato Robert Bilott ha dichiarato che il processo iniziato nel mese di giugno 2023 presso il tribunale federale della Carolina del Sud è un banco di prova per queste cause legali, un passo incredibilmente importante in quelli che sono stati decenni di lavoro per cercare di assicurarsi che i costi di questa massiccia contaminazione da PFAS non siano sostenuti dalle vittime, ma siano sostenuti dalle aziende che hanno causato il problema.

   L’accordo preliminare con Chemours, DuPont e Corteva, che si sono tutti rifiutati di commentare l’annuncio, potrebbe non essere la fine dei costi per quelle società.

   La società 3M ha dichiarato che entro la fine del 2025 prevede di abbandonare tutta la produzione di Pfas e lavorerà per porre fine all’uso di Pfas nei suoi prodotti. Dopo il rapporto Bloomberg, le azioni di 3M sono aumentate notevolmente, così come le azioni di Chemours, DuPont e Corteva. 

   Lo scorso anno l’EPA (Agenzia per la protezione ambientale degli Usa) ha stabilito che anche livelli delle sostanze chimiche molto inferiori a quanto precedentemente stabilito potrebbero causare danni e che quasi nessun livello di esposizione è sicuro. L’EPA ha consigliato che l’acqua potabile non contenga più di 4 ng/L (nanogrammi/litro) di PFOA (acido perfluoroottanoico) e altrettanti di PFOS (acido perfluoroottansolfonico). In precedenza, l’agenzia aveva consigliato che l’acqua potabile non contenesse più di 70 ng/L di queste sostanze chimiche, mentre ora afferma che il governo richiederà per la prima volta livelli vicini allo zero.

   L’EPA ha stimato che questo standard costerebbe ai servizi idrici statunitensi 772 milioni di dollari all’anno. Ma molti servizi pubblici affermano di aspettarsi che i costi siano molto più alti.

NEL VENETO

L’ex azienda locale che conosciamo è, tutto sommato, piccola rispetto alle 12 principali, ma il territorio interessato del Veneto è grande, date le caratteristiche idrogeologiche della zona e la durata almeno trentennale della contaminazione delle acque sotterranee. Infatti, la localizzazione dell’impianto Miteni in un tratto di valle con sottosuolo costituito da sabbie e ghiaie molto permeabili, perdipiù a ridosso del torrente Poscola, ha permesso che lo spandimento di reflui liquidi raggiungesse la falda idrica sottostante, generando un plume che si è lentamente propagato per decine di chilometri a valle. Di fatto, la falda indifferenziata del tratto di valle tra Castelgomberto e Montecchio Maggiore costituisce la ricarica del sistema multifalde (più falde ospitate in materiali sabbiosi separati da strati impermeabili argillosi, che da Montecchio in giù costituiscono il sottosuolo), protette solo sulla verticale, ma non lateralmente da monte.

   Come troppo spesso, se non quasi sempre, la pianificazione territoriale, quand’anche esista, considera gli interessi economici (di alcuni) e non le conoscenze scientifiche del territorio, rendendo di fatto i disastri cosiddetti “ambientali” e quelli “naturali” dei disastri artificiali largamente annunciati.

   L’estrattivismo produce profitti per pochissimi, mentre territori definiti sacrifice zones sono sacrificati nella discarica globale del Wasteocene, l’epoca degli scarti. Quando i cittadini contaminati e ora costretti a pagare per tentare di risolvere i problemi apriranno gli occhi, chiedendo conto alla politica, che sembra sorda?

(DARIO ZAMPIERI, 25/7/2023, da https://pfas.land/)

da https://pfas.land/

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MESSA AL BANDO DEI PFAS: LE ALTERNATIVE ESISTONO? (PFAS: 5 PAESI EUROPEI CHIEDONO LA RESTRIZIONE, di Daniele Di Stefano, da https://www.rigeneriamoterritorio.it/ del 26/9/2023)

I PFAS sono impiegati in una miriade di processi industriali: dalla manifattura che usa gas fluorurati al tessile, dall’edilizia al petrolchimico, all’elettronica. Ma le alternative esistono. L’Appendice E2 del documento pubblicato dall’ECHA le riporta raggruppate per settore di applicazione. (…)   In GERMANIA, nonostante le alternative ai PFAS siano già sul mercato, l’industria generalmente non ha preso bene l’idea del bando. Sebbene la Germania sia uno dei Paesi che hanno avanzato la proposta, le aziende dell’automotive, dell’elettronica e della meccanica hanno avvertito che senza PFAS non ci saranno turbine eoliche, accumulatori di energia, auto elettriche e semiconduttori. Mettendo in subbuglio il governo.

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Leggi anche:
• Pfas Veneto: nel sito della Miteni si aspetta la bonifica da 6 anni
• Pfas Lombardia, Greenpeace lancia l’allarme

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PROCESSO PFAS, A VICENZA PARLANO LE VITTIME

di Laura Fazzini, da https://www.osservatoriodiritti.it/ 2/11/2023

– Al tribunale di Vicenza prosegue il processo per il grave inquinamento da Pfas. Questa volta hanno testimoniato i cittadini, che per decenni hanno bevuto acqua contaminata –

   Nel tribunale di Vicenza, in un’aula piena e silenziosa, il 26 ottobre si sono alternate le diverse parti civili davanti alla giuria popolare che da due anni raccoglie testimonianze nelle tre provincie venete stravolte dalla contaminazione da Pfas nell’acqua di rubinetto.

   Sindacati, associazioni e semplici mamme hanno cercato di spiegare cosa ha voluto dire aver paura dell’acqua, l’ansia di non sapere cosa fosse finito nel loro corpo né di come sarà il loro futuro.

PROCESSO PFAS, LA TESTIMONIANZA DEL SINDACATO

Il primo ad essere sentito è stato il referente Cgil della provincia di VicenzaGianpaolo Zanni. Sin dal 2013, il sindacato ha cercato di raccogliere le paure dei circa 500 operai che per decenni hanno lavorato le sostanze Pfas, considerate “perfette” perchè impossibili da distruggere. Paure legate alle analisi del sangue fatte dentro lo stabilimento dal medico aziendale, Giovanni Costa. Medico che avrebbe sempre tranquillizzato sulla bassa tossicità di questi composti, considerati però dalla comunità scientifica come interferenti endocrini e correlate a diverse patologie come colesterolo alto e ipertensione.

   «Abbiamo chiesto all’azienda e allo Spisal (Servizio sanitario locale destinato al monitoraggio sanitario negli ambienti di lavoro, ndr) come stessero gli operai, cosa fossero queste sostanze. Per anni ci hanno tranquillizzati, ora mi siedo qui come parte civile in un processo per avvelenamento delle acque e disastro ambientale per sostanze considerate tossiche».

   Alle domande degli avvocati difensori sulla mancata azione del sindacato, Zanni ha risposto così: «L’azienda ci ha promesso nuove misure di sicurezza e che le produzioni erano sicure. Gli operai hanno i valori di Pfas più alti al mondo, quale sicurezza hanno fatto prima di essere imputati per disastro ambientale?».

LEGAMBIENTE E ISDE IN LOTTA CONTRO I PFAS

Piergiorgio Boscagin, presidente del circolo PerlaBlu di Legambiente e volto noto nel mondo della lotta no Pfas, è tra i testimoni che sono stati ascoltati. Dopo aver lottato 10 anni per ottenere questo processo, si è preso tempo per guardare in faccia chi giudicherà quello che potrebbe risultare essere il più vasto inquinamento da sostanze pericolose d’Europa.

   «Dal 2007 mi occupo degli scarichi della zona industriale dove insisteva Miteni. Abbiamo fatto denunce, manifestazioni e presidi. All’inizio ci tranquillizzavano sia l’azienda che le istituzioni, poi hanno smesso di venire ai nostri incontri e ora siamo qui», spiega con voce ferma. Legambiente, insieme ai medici per l’ambiente Isde, dalla scoperta dei Pfas nelle acque potabili di tre province nel 2013 ha cercato di avvisare la popolazione.

   «Abbiamo sempre chiesto che chi inquina paghi, che le acque pulite destinate alla nostra agricoltura non vengano perse per diluire i reflui industriali dei privati, di Miteni. Dopo 10 anni di lotte io sono qui, con i miei 135 nanogrammi di Pfoa nel sangue quando la soglia è 8», conclude Boscagin.

LE MAMME NO PFAS CHIEDONO GIUSTIZIA AL TRIBUNALE DI VICENZA

Anche il movimento Mamme No Pfas, un gruppo di madri e padri che da anni chiede giustizia e prevenzione, interviene al processo. «All’inizio non ci credevo, mi pareva impossibile che dai nostri rubinetti uscissero sostanze pericolose. Ma poi ho visto le analisi dei miei figli e ho detto no, non era Scherzi a Parte, era la nostra vita», ha detto una di loro.

   Le analisi Pfas vengono svolte per la popolazione che vive nella zona più inquinata, denominata rossa, dal 2017. «In quel periodo stavo vivendo un altro incubo, un tumore che mi aveva colpito dopo aver travolto mia sorella. Ci siamo chieste come mai fossimo malate, ora che conosco i Pfas come interferenti endocrini si spiega tutto».

   Lei da quel tumore si è ripresa, la paura però rimane per quelle sostanze che studia notte e giorno. «All’inizio con alcune mamme volevamo condannare i gestori dell’acqua per averci dato un prodotto guasto. Ma poi abbiamo capito che non era un prodotto guasto, era una violenza contro il nostro territorio e i nostri figli. E siamo arrivate a sederci qui, per chiedere giustizia per il nostro futuro»

ACQUA INQUINATA, L’AIUTO NEGATO A UNA GIOVANE MADRE

«Nel 2017, quando ho fatto il prelievo per le analisi Pfas, ho detto all’infermiere che stavo allattando il mio primo figlio. Mi ha detto che i Pfas passavano al feto dalla placenta e poi nel latte materno». A dirlo – in un’aula immobile e muta – è stata una giovane Mamma No Pfas.

   «Poche settimane dopo, in un’assemblea pubblica nel teatro del mio comune, dove le istituzioni ci spiegavano cosa fossero i Pfas, mi sono alzata e ho chiesto se dovevo smettere di allattare dopo l’allarme di quell’infermiere. Un rappresentate dell’’istituzione sanitaria locale mi ha risposto che la notizia dell’infermiere non era fondata a livello scientifico e ho continuato ad allattare, tranquillizzata». Ma dal 2019 è dimostrato a livello scientifico che i Pfas, interferenti endocrini, passano attraverso il latte materno e la placenta.

Il marito della donna ha 208 nanogrammi di Pfoa nel sangue, quando la soglia italiana è 8.

PROCESSO PFAS, LE VITTIME RACCONTANO L’ANGOSCIA PER FIGLI E PARENTI

A sedersi al posto dei testimoni c’è stata anche una madre di Lonigo, lì dove l’acqua potabile ha raggiunto mille nanogrammi per litro di Pfoa. Anche lei, come le altre, ci ha chiesto di non essere citata per nome.

«Siamo tutti e quattro parti civili, abitando nell’epicentro della tragedia abbiamo tutti valori alti. Ma vi immaginate cosa voglia dire fare fatica a pagarsi una casa nuova e sapere solo dopo di aver scelto uno dei posti più inquinati d’Europa? Sapete cosa significa vivere nell’incertezza di non sapere cosa succederà ai miei figli, a quel futuro che ho voluto io?» chiede alla giuria.

   Dai primi articoli sulla contaminazione usciti nel 2013 ha smesso di usare l’acqua di rubinetto e spende soldi ogni mese per avere acqua pulita in bottiglia. «Sapete cosa vuol dire riempirsi la casa di bottiglie di vetro e preferire l’insalata in sacchetto per non doverla lavare con acqua inquinata? Non è un incubo, è la nostra vita dal 2013».

   E ancora: «Sapete cosa significa avere un marito giovane che per anni ha perdite ematiche spaventose per una colite ulcerosa tremenda? Questa malattia, cronica, è una delle cinque patologie correlate all’esposizione da Pfas. E lo sappiano noi perchè studiamo giorno e notte per difenderci e per difendere i nostri figli».

(LAURA FAZZINI, da https://www.osservatoriodiritti.it/ 2/11/2023)

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I PFAS E LO STUDIO «DESAPARECIDO»: CRISANTI INFILZA LANZARIN, ANNICHIARICO, TONIOLO E RUSSO

di MARCO MILIONI, da https://www.veronasera.it/ del 12/10/2023 Continua a leggere

COP28 a Dubai: ?un compromesso tra produzione fossile (con impianti per trattenere il carbonio?) e la finalità della Cop, cioè la transizione energetica? …tra pozzi petroliferi e pannelli solari (e rilanci nuclearisti)… – Gli interessi dei paesi del petrolio convivono con le energie rinnovabili? (e in ogni caso niente impegni per uno stile di vita meno energivoro)

(LA COP28 A DUBAI, foto da https://valori.it/) – “(…) La Cop28 si tiene a Dubai, negli Emirati arabi, nel quartiere Expo City. A ospitare negoziatori, membri delle ong e media, sarà una struttura enorme (la cosiddetta Blue zone); ci sarà, inoltre, un’area dedicata  alla società civile (Green zone). Novanta tra ristoranti e caffè serviranno 250mila pasti al giorno, dichiarano gli organizzatori, tutti “allineati all’obiettivo di contenere il riscaldamento entro gli 1,5 gradi” con un conteggio calorico preliminare sui menu.   I grattacieli con hotel a sette stelle, lo sfarzo ostentato e le piste da sci nei centri commerciali non fanno di Dubai una città dalla fama di attenta alla sostenibilità, ma le autorità dichiarano di prendere sul serio la transizione energetica e di essere sulla strada di una riconversione. (…)” (ANTONIO PIEMONTESE, da https://www.wired.it/ 29/9/2023)

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(dove si trova DUBAI, negli Emirati Arabi Uniti; mappa da Istituto Geografico De Agostini) – Gli Emirati Arabi Uniti è un paese situato nel sud-est della penisola arabica, in Asia occidentale; confina con l’Oman a sud-est, con l’Arabia Saudita a sud-ovest ed è bagnato dal Golfo Persico a nord. Lo Stato è composto da sette emirati: Abu Dhabi, ʿAjmān, Dubai, Fujaira, Ra’s al-Khayma, Sharja e Umm al-Qaywayn. Dubai è il più celebre degli emirati, come città di destinazione turistica e importante centro di commerci marittimi e della Finanza (le enormi riserve petrolifere sono in particolare concentrate nell’emirato di Abu Dhabi). Dubai ha una popolazione di circa 3 milioni e mezzo di abitanti. (da Wikipedia)

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7 COSE DA SAPERE SU COP28, LA CONFERENZA SUL CLIMA

di Antonio Piemontese, da https://www.wired.it/ 29/11/2023

– Si svolge a Dubai, è guidata dall’ad dell’azienda petrolifera di Stato e dovrà fare il punto sugli impegni presi dai Paesi nel 2015 a Parigi –

   Cop28, la ventottesima edizione della Conferenza delle parti delle Nazioni unite dedicata al clima, si è aperta il 30 novembre a Dubai: ha richiamato negli Emirati Arabi Uniti settantamila partecipanti, il numero più alto di sempre. Dopo l’accordo sul fondo per perdite e danni raggiunto l’anno scorso alla Cop di Sharm el Sheikh, in Egitto, a Dubai si attendono i dettagli operativi. Ma il piatto principale del menu emiratino è senz’altro il cosiddetto global stocktake, cioè il primo “tagliando” dell’accordo di Parigi siglato nel 2015.

LE 7 COSE DA SAPERE SU COP28

COSA SONO LE COP

La Conferenza delle parti sul clima nasce dalla Conferenza di Rio de Janeiro del 1992 per raccogliere attorno a un tavolo tutti i Paesi del globo allo scopo di tagliare le emissioni di gas serra. Il mondo attuale è molto diverso da quello del 1992: la Cina di oggi ha definitivamente abbandonato la povertà, l’India è ben avviata sulla strada dello sviluppo. Ma, nonostante oggi inquinino moltissimo, la posizione nei trattati è rimasta la stessa, e anche gli oneri, parametrati alle emissioni degli anni Novanta.

   È difficile dare l’idea della complessità di queste conferenze: oltre centottanta paesi, ognuno con decine di negoziatori, un calendario fittissimo. Le posizioni negoziali, in un’assemblea del genere, spesso sono agli antipodi: per questo i lavori vengono preparati con ampio anticipo dai cosiddetti sherpaIl voto finale non avviene per alzata di mano ma con una procedura chiamata consenso: in mancanza di opposizioni evidenti, la mozione passa.

COP28 A DUBAI

   La Cop28 si tiene a Dubai, negli Emirati arabi, nel quartiere Expo City. A ospitare negoziatori, membri delle ong e mediasarà una struttura enorme (la cosiddetta Blue zone); ci sarà, inoltre, un’area dedicata alla società civile (Green zone). Novanta tra ristoranti e caffè serviranno 250mila pasti al giorno, dichiarano gli organizzatori, tutti “allineati all’obiettivo di contenere il riscaldamento entro gli 1,5 gradi” con un conteggio calorico preliminare sui menu.

   I grattacieli con hotel a sette stelle, lo sfarzo ostentato e le piste da sci nei centri commerciali non fanno di Dubai una città dalla fama di attenta alla sostenibilità, ma le autorità dichiarano di prendere sul serio la transizione energetica e di essere sulla strada di una riconversione.

IL NODO DEL PETROLIO

Cop28 avviene in un paese produttore di petrolio e il presidente è Sultan Ahmed Al Jaber, amministratore delegato della Abu Dhabi national oil company (Adnoc), la compagnia petrolifera statale. Scelte contestate dagli attivisti. “Comprendo il ragionamento, ma dal mio punto di vista è necessario dialogare anche con queste realtà – afferma Silvia Francescon, esperta di politica estera per il think tank italiano Ecco -. Si tratta di interlocutori necessari per arrivare a un negoziato realmente rappresentativo”.

   Che conferenza sarà?Da Madrid in poi le Cop sono state esclusivamente politiche – chiosa Jacopo Bencini, policy advisor del gruppo di ricerca Italian Climate Network, che aggrega scienziati e studiosi italiani -. L’accordo di Parigi è chiuso, il Paris Rulebook è entrato in vigore: ora bisogna solo applicarli e implementarli. Dal punto di vista negoziale, insomma, credo che non ci saranno grandi passi in avanti, a parte le decisioni sul global stocktake”. “Sono convinto però che vedremo – prosegue Bencini – una Conferenza della parti a due velocità”. Se nelle sale negoziali potrebbe essere un anno di transizione, dice l’esperto, “a latere mi aspetto un iperattivismo emiratino, con molti annunci su finanza e rinnovabili“. Perché il minuscolo Paese mediorientale è ansioso di sfruttare la visibilità garantita dalla kermesse globale, e forte delle note disponibilità di denaro l’occasione è buona per stringere qualche nuova alleanza e proiettare l’influenza all’estero. Nei mesi scorsi Dubai ha promesso all’Africa 5 miliardi per la cooperazione climatica.

   Quest’anno i lobbisti (da sempre tanti, vengono contati tutti gli anni dalle ong) dovranno indicare sul badge l’organizzazione di appartenenza. Basterà a far luce sui partecipanti a Cop? Sono inoltre rigorosamente vietate le proteste al di fuori dell’area di Cop28, niente slogan politici, equipaggiamento video rigorosamente schedato per tutti i giornalisti che entrano nel Paese. Le limitazioni nelle applicazioni di messagging in vigore nel Paese mediorientale, da Whatsapp a Telegram, non renderanno facili le comunicazioni.

LA SITUAZIONE INTERNAZIONALE

(…..) “Per noi sarà un successo solo se si verificheranno due condizioni – annuncia Chiara Martinelli, direttrice di Climate Action Network Europe, rete che raccoglie 180 organizzazioni ambientaliste continentali -. Primo, un impegno concreto nella dichiarazione finale all’eliminazione di tutte le fonti fossili, il cosiddetto phase out. Secondo, più finanziamenti veri per tutti paesi poveri: fair funded future potrebbe essere lo slogan”. Una buona notizia, al riguardo, è giunta pochi giorni fa: sarebbe stato raggiunto l’obiettivo di cento miliardi in aiuti per la crisi climatica all’anno, secondo dati preliminari dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico. La promessa era stata fatta a Copenaghen nel 2009, e il traguardo arriva tre anni dopo rispetto all’obiettivo fissato per il 2020, ma era inaspettato. La Cop28 avviene in quello che è ormai riconosciuto come l’anno più caldo della storia e non si contano i disastri ambientali.

L’ACCORDO DI PARIGI E IL TAGLIANDO

Con l’accordo di Parigi del 2015 per la prima volta tutti i Paesi si sono impegnati a mantenere la temperatura “ben al di sotto” dei 2 gradi rispetto all’era preindustriale e a proseguire gli sforzi per restare entro gli 1,5 gradi, soglia ritenuta più sicura per combattere i devastanti effetti del cambiamento climatico. Il problema, fanno notare gli scienziati, è che il mondo è già arrivato oltre gli 1,3 gradi e il margine di manovra è estremamente ridotto. L’accordo di Parigi stabilisce che ogni Paese fissi da sé i propri obiettivi climatici (Ndc – National determined contributions).

   Ma il mondo saprà chi bara, con il global stocktake. Si tratta del controllo dei compiti a casa, da tenersi ogni cinque anni a partire dal 2023. Al momento, ognuno fa i conti a modo proprio, rendendo molto difficile il lavoro di comparazione. Gli indicatori dicono che con gli impegni presi fino a oggi l’aumento delle temperature non resterà confinato entro i limiti di Parigi, ma sfiorerà i 3 gradi entro il 2100.

IL NUOVO FONDO PER LOSS AND DAMAGE

Letteralmente “perdite e danni”, la terza gamba della finanza climatica, dopo mitigazione (ridurre, cioè, le emissioni serra), e adattamento (predisporre misure di contenimento per prepararsi agli eventi estremi).  Se la Cop di Sharm, partita sotto tono, si è conclusa con un successo è perché in Egitto si è deciso di istituire un nuovo fondo.

   Un incontro ad Abu Dhabi a inizio novembre ha formalizzato alcune raccomandazioni da portare a Cop28. La più controversa riguarda la possibilità di ospitare il fondo presso la Banca Mondiale, dominata dagli Stati Uniti. Troppo potere all’Occidente, sostiene alcuni paesi, che lo accusano essersi arricchito sfruttando l’energia derivata dalle fonti fossili e chiedono di poter fare lo stesso. Il gruppo negoziale G77 + Cina (composto dagli Stati in via di sviluppo con l’aggiunta di Pechino) spinge in questo senso, ed è dotato del peso per spostare gli equilibri.

   Un altro punto nodale del nascituro fondo sarà l’allargamento della base dei donatori. “I paesi che hanno inquinato di più storicamente devono ovviamente contribuire per primi – dice Chiara Martinelli di Climate Action Network Europe – anche per togliere un alibi agli altri: è a quel punto che giganti come Cina e India saranno costretti a entrare in gioco”. L’obiettivo è rendere il fondo operativo già nel 2024. A dare il buon esempio potrebbe essere l’Unione europea: il nuovo commissario al clima Wopke Hoekstra nei giorni scorsi ha annunciato “un sostanziale contributo finanziario da parte della Ue e dei suoi stati membri”.  “Sembrava tutto bloccato a livello continentale: poi la dichiarazione di Hoesktra e quella congiunzione che include tutti gli Stati membri lasciano ben sperare” chiosa Bencini.

NODO FAKE NEWS

Se dopo il sesto rapporto del Panel intergovernativo sul cambiamento del clima (Ipcc, il gruppo di scienziati che assiste l’Onu sul tema) è assodato che la crisi a cui assistiamo ha una matrice industriale, la disinformazione negli anni è cambiata, raffinando le armi e adattandole al mutato contesto: “Non si parla più di negazionismo – rileva Martinelli – ma l’accento si è spostato sul fatto che le soluzioni proposte a oggi non funzionerebbero e aumenterebbero povertà e disuguaglianze”. Un argomento non privo di mordente tra i cittadini esasperati dall’inflazione, ma che piace molto anche al Sud globale. Il compromesso tra istanze climatiche, economiche e sociali sarà il sacro Graal dei prossimi anni. (Antonio Piemontese, da https://www.wired.it/)

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Tutti i numeri di Cop28 – Lavoce.info

(premi il link qui sopra)

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SULTAN AHMED AL JABER­, amministratore delegato dell’azienda petrolifera degli Emirati Arabi Uniti, la ABU DHABI NATIONAL OIL COMPANY (ADNOC) è presidente della COP28 (foto da Nigrizia)

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(SCHEMA storico che indica i Paesi più avanzati responsabili del cambiamento climatico, tratto da https://www.carbonbrief.org/) – A proposito di “Current GHG emissions”, GHG che significa? Greenhouse Gas Protocol. Lanciato nel 1998, il GHG Protocol è il quadro di riferimento globale per la misurazione e la gestione delle emissioni di gas a effetto serra – (da notare poi il ruolo quasi irrilevante del “resto del mondo” rispetto ai G20 nella responsabilità al cambiamento climatico – paesi poveri che più di tutti subiscono -)

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COP 28, I TRE TEMI CHIAVE DELLA CONFERENZA ONU SUL CLIMA 2023

di Andrea Barbabella, da “Il Sole 24ore” del 27/11/2023

– Al centro del dibattito il sostegno ai Paesi in via di sviluppo nel rispondere agli effetti del riscaldamento globale; la riduzione delle emissioni di gas serra; la necessità di una tabella di marcia per ridurre l’uso di carbone, petrolio e gas –

   Tre sono i temi chiave della 28° Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 2023 (Cop 28) – in programma dal 30 novembre al 12 dicembre all’Expo City di Dubai (video) – su cui si potranno misurarne gli esiti e, alla fine dei lavori, capire se l’evento ospitato dagli Emirati Arabi Uniti, uno dei Paesi con le più alte emissioni pro capite di gas serra al mondo, abbia realmente consentito di fare un passo in avanti significativo nel contrasto alla crisi climatica.

La sfida “Loss and Damage”

Il primo tema riguarda il sostegno ai Paesi in via di sviluppo nel rispondere agli effetti del riscaldamento globale. Siamo entrati oramai in una fase di “anormalità climatica permanente”, il 2022 è stato un anno funestato da eventi meteo estremi, con gli 8 milioni di sfollati per l’inondazione del Pakistan e la peggiore siccità che ha colpito l’Europa negli ultimi cinquecento anni. E il 2023, secondo l’Organizzazione mondiale della meteorologia, si candida a essere l’anno più caldo mai registrato nella storia.

   Tenendo conto che i Paesi più poveri sono quelli che hanno contribuito meno alla crisi climatica e, al tempo stesso, ne subiranno le peggiori conseguenze, con quasi la metà dei morti causati dalla crisi climatica che secondo le stime si concentrerà in Africa, aiutarli ad affrontare questa crisi non può non rappresentare una priorità.

   Secondo un recentissimo report pubblicato dall’Unep, il Programma ambientale dell’Onu, servirebbero tra i 215 e i 387 miliardi all’anno per consentire ai Paesi più poveri di difendersi dal riscaldamento globale, ossia tra 10 e 18 volte in più di quanto fatto fino a oggi. Per tutti questi motivi la sfida della Cop28 sarà quella di rendere pienamente operativo lo strumento Loss and Damage, istituito nella precedente Cop di Sharm El-Sheik per riparare ai danni che Paesi più poveri inevitabilmente subiranno dal cambiamento climatico.

Il nodo dei gas serra

Il secondo tema riguarda la riduzione delle emissioni di gas serra. Come previsto dall’Accordo di Parigi, la Cop28 ospiterà il primo stocktake sul clima, ossia il momento in cui si valuterà l’effetto congiunto di tutti gli impegni nazionali (i c.d. Nationally Determined Contribution – NDC) e, soprattutto, si chiederà un aumento delle ambizioni degli NDC nel caso in cui questo non risulti compatibile con gli obiettivi concordati a Parigi nel 2015. Il 14 novembre è stato reso pubblico il report ufficiale delle Nazioni Unite, nel quale sono stati analizzati gli impatti di 168 NDC, corrispondenti al 95% delle emissioni globali di gas serra. Gli esiti sono, purtroppo, sconfortanti.

   Sommando tutti gli NDC – e immaginando, quindi, che gli obiettivi in essi contenuti siano tutti pienamente raggiunti – rispetto al 2019 le emissioni mondiali di gas serra si ridurrebbero, nella migliore delle ipotesi, di meno del 10%, passando da 53 a 48 miliardi di tonnellate all’anno. Molto lontano da quello che dovrebbe essere, se pensiamo che per limitare l’aumento della temperatura globale tra 1,5 e 2°C, obiettivo dell’Accordo di Parigi, dovremmo tagliarle tra il 30% e il 43%. Riuscirà la conferenza di Dubai a far fare lo scatto in avanti necessario per adeguare i livelli di ambizione dei Governi?

Roadmap per ridurre l’uso del carbone

Il terzo e ultimo tema, strettamente collegato al precedente, riguarda la necessità di definire una roadmap chiara per ridurre drasticamente l’utilizzo di carbone, petrolio e gas. Un altro recentissimo report, sempre promosso dall’Unep, ha svelato una scomoda verità: nonostante in molti casi abbiano presentato obiettivi di azzeramento delle proprie emissioni di gas serra, i 20 più importanti Paesi produttori di combustibili fossili hanno programmi di sviluppo della produzione di carbone, petrolio e gas del tutto incompatibili con l’Accordo di Parigi, che al 2030 porterebbero queste Nazioni a produrre in un anno il doppio dei combustibili fossili che potremmo materialmente consumare. Considerando che tra questi compare anche il Paese ospitante della 28° Conferenza mondiale sul clima, anche su questo punto non c’è, purtroppo, di che essere ottimisti.

Andrea Barbabella, da “Il Sole 24ore” del 27/11/2023

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(Mappa della PENISOLA ARABICA, ripresa da https://www.rivistamissioniconsolata.it/) – “(…) Settimo produttore al mondo di petrolio, gli Emirati Arabi sono decisi a sfruttare ancora questa risorsa, finché sarà disponibile. Stesso discorso per gli altri Paesi del Golfo, intenzionati a potenziare ulteriormente la loro capacità di estrazione ed esportazione. Se Arabia Saudita e Bahrein hanno deciso di posticipare la neutralità climatica al 2060, Kuwait e Qatar non hanno previsto affatto obiettivi climatici. Al tempo stesso però la regione è a corto di acqua e di cibo coltivato in casa, col caldo che ha raggiunto livelli insopportabili nonostante i condizionatori nei grattacieli di città costruite nel deserto. Altro rischio che incombe: l’innalzamento del livello del mare. Anche i colossi del petrolio sono soggetti insomma alla minaccia climatica, ma con quello che stanno guadagnando dai fossili stanno al contempo finanziando la loro transizione energetica. (…) (ALESSIA CAPASSO, da https://europa.today.it/ 24/11/2023)

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MENO GAS PER SALVARE IL CLIMA E I PETROLIERI: COSÌ GLI SCEICCHI GUIDANO LA COP DI DUBAI

di Alessia Capasso, da https://europa.today.it/ 24/11/2023

– Gli Emirati Arabi ospitano la conferenza per il clima più discussa degli ultimi anni. Al centro ci saranno il metano, i fondi per i Paesi in via di sviluppo e le tecnologie per l’abbattimento delle emissioni –

   Scetticismo e sfiducia sono le parole sottese a questa Cop28, il vertice annuale delle Nazioni Unite sul clima iniziato il 30 novembre e proseguirà fino al 12 dicembre. Il primo fattore che suscita questa sensazione è il luogo in cui verrà organizzato: Dubai, capitale degli Emirati Arabi Uniti, uno dei colossi petroliferi del Medio Oriente. Le preoccupazioni derivano poi dal fatto che i leader globali sono alle prese con ben due guerre ad alto profilo: quella in Ucraina scatenata dalla Russia e quella in Medio Oriente, dove Israele è decisa a distruggere Hamas. Due conflitti che stanno risucchiando energie e risorse di mezzo mondo, sottraendole a quelle necessarie per accelerare la transizione energetica.

Anche i Signori del petrolio soffrono il clima

Settimo produttore al mondo di petrolio, gli Emirati Arabi sono decisi a sfruttare ancora questa risorsa, finché sarà disponibile. Stesso discorso per gli altri Paesi del Golfo, intenzionati a potenziare ulteriormente la loro capacità di estrazione ed esportazione. Se Arabia Saudita e Bahrein hanno deciso di posticipare la neutralità climatica al 2060, Kuwait e Qatar non hanno previsto affatto obiettivi climatici. Al tempo stesso però la regione è a corto di acqua e di cibo coltivato in casa, col caldo che ha raggiunto livelli insopportabili nonostante i condizionatori nei grattacieli di città costruite nel deserto. Altro rischio che incombe: l’innalzamento del livello del mare. Anche i colossi del petrolio sono soggetti insomma alla minaccia climatica, ma con quello che stanno guadagnando dai fossili stanno al contempo finanziando la loro transizione energetica.

Le rinnovabili degli sceicchi

Gli Emirati Arabi rappresentano l’esempio più significativo, dato che hanno già investito in modo deciso nella decarbonizzazione. Un progetto per eliminare gas serra, equivalenti alle emissioni annuali di mezzo milione di automobili a benzina, è stato presentato a settembre. Altre operazioni riguardano la riduzione delle emissioni di metano. La Abu Dhabi National Oil Company  (Adnoc) sta spendendo quasi 4 miliardi di dollari per spedire elettricità senza emissioni di carbonio, tramite cavi sottomarini che si collegano alle piattaforme offshore, per sostituire la combustione del gas naturale. C’è poi la Masdar, una società specializzata in energia rinnovabile, che gestisce enormi parchi solari. Questo colosso, in cui anche Adnoc ha delle partecipazioni, si è impegnata a installare 100 gigawatt di capacità di energia rinnovabile entro il 2030, mentre nel 2021 era ferma ad appena 15 gigawatt. Il lavoro sulle rinnovabili è iniziato nel 2006, molto prima che la rivoluzione solare venisse reputata indispensabile.

   Masdar è già approdata anche in Europa con progetti in Germania, Polonia, Serbia e Regno Unito, tra gli altri. Al vertice sia della Adnoc che di Masdar c’è lo stesso uomo, il sultano Ahmed Al Jaber, a cui è stata affidata l’organizzazione di questa Cop28 e la figura più discussa e inseguita dalle polemiche. Ad ottobre Al Jaber ha incontrato il primo ministro Giorgia Meloni in Italia. I due hanno richiesto “un’azione forte e ambiziosa da parte di tutti i Paesi per rafforzare i rispettivi piani al 2030. Contributi determinati a livello nazionale (Ndc’s) in tutte le dimensioni e a un ritmo molto più rapido, al fine di raggiungere gli obiettivi di lungo termine previsti dall’Accordo di Parigi”, si legge in una nota rilasciata dalla Presidenza del Consiglio al termine dell’incontro.

Ridurre le emissioni di gas

In un vertice caratterizzato da migliaia di obiettivi tecnici e complesse procedure, si prevede saranno tre i grandi temi che attrarranno maggiore attenzione. In cima dovrebbe esserci il metano, un gas serra che per troppo tempo non è stato preso a sufficienza in considerazione rispetto all’anidride carbonica. Di recente si possono però segnalare alcuni passi avanti positivi. L’Unione europea ha appena concordato limiti più rigorosi alle emissioni di questo gas, includendo maggiori controlli anche sulle importazioni. La Cina, che risulta il principale emettitore di metano al mondo, ha assicurato che per la prima volta includerà il gas nel suo piano nazionale sul clima. Arginare le fughe di metano potrebbe essere un passo in avanti più rapido per rallentare il riscaldamento globale, ma quello che manca è un impegno sottoscritto dalle principali aziende energetiche del settore. Secondo il Time, il sultano Ahmed Al Jaber avrebbe esercitato forti pressioni sulle grandi società affinché si impegnino nella riduzione delle emissioni di metano.

Salvare l’ambiente dei Paesi vulnerabili

Un punto molto dibattuto è quello che riguarda i finanziamenti per il clima. I Paesi in via di sviluppo rivendicano i fondi concordati di circa cento miliardi di dollari, che dovevano essere versarti entro il 2020. Promessa non mantenuta. Alla Cop27 in Egitto si era parlato di un fondo “perdite e danni”, ma la struttura non risulta ancora finanziata, nonostante l’intercessione della Banca Mondiale. I paesi più vulnerabili, come le isole del Pacifico o alcuni Stati africani, sono spesso quelli che producono minori emissioni. I fondi sono reputati insufficienti, visto anche il susseguirsi di disastri naturali che stanno mettendo in ginocchio tante aree del mondo. Durante la Cop28 Bruxelles potrebbe annunciare alcuni finanziamenti appositi per alleviare questi problemi e sostenere le rinnovabili in alcuni Paesi “poveri” ma ricchi di altre risorse, mentre gli Emirati Arabi in qualità di Paese ospitante vorrebbero lanciare un fondo globale di finanziamento da 25 miliardi di dollari, partendo con soldi ottenuti tramite le ricchezze petrolifere.

   Il terzo punto è quello più problematico e riguarda il ritmo a cui i Paesi intendono procedere nel ridurre o eliminare del tutto le fonti fossili. Uno dei campi di battaglia riguarderà l’ammissibilità o meno di TECNOLOGIE DI “ABBATTIMENTO”, CHE CONSENTONO LA CATTURA E LO STOCCAGGIO DELLE EMISSIONI DI GAS SERRA, i cui effetti positivi ancora non sono stati verificati. Ammetterle, come ha già previsto l’Unione europea facendo ricorso ai pozzi di carbonio rappresentati da agricoltura e foreste, significa continuare a consentire l’utilizzo di combustibili fossili e puntare su forme di “compensazione” poco convincenti rispetto alla rapidità con cui procede la crisi climatica. Pensare che le fonti fossili scompaiano in breve tempo risulta altrettanto impensabile al momento, dato che ancora costituiscono l’80% della fornitura energetica mondiale. Anche nel 2050, quando l’Unione europea prevede di raggiungere l’obiettivo delle emissioni zero, avremo ancora a che fare con queste fonti, seppur in misura di gran lunga più ridotta.

Tagliare i fondi per le fonti fossili

Tutto dipenderà dagli sforzi per investire nelle alternative, ma soprattutto se si inizierà a PRENDERE IN CONSIDERAZIONE O MENO UNO STILE DI VITA MENO ENERGIVORO. Un’opzione che sembra molto distante dalla mentalità di leader ossessionati dalla crescita. L’Agenzia Internazionale dell’Energia (Aie) ha lanciato a novembre un appello a ridurre i fondi destinati ai combustibili fossili. Altrimenti sarà impossibile raggiungere gli obiettivi fissati dall’Accordo di Parigi del 2015. Diventa urgente dimezzare gli attuali 800 miliardi di dollari investiti ogni anno nel settore del petrolio e del gas. Va fatto entro il 2030 se si vuole raggiungere l’obiettivo di limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi Celsius, hanno scritto gli esperti dell’Aie in un rapporto, sottolineando inoltre che il settore dovrà ridurre le emissioni del 60% entro il 2030 per allinearsi a questo obiettivo.

(Alessia Capasso, da https://europa.today.it/ 24/11/2023)

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(Parco fotovoltaico, da https://www.qualenergia.it/) – 20 novembre 2023. Inaugurato negli Emirati Arabi il parco fotovoltaico più grande del mondo. L’impianto da 2 GW si trova a 35 km circa da Abu Dhabi. È stato realizzato dalla società statale Masdar e da partner francesi e cinesi. Il taglio del nastro a meno di due settimane dall’avvio della CoP 28 a Dubai. (da https://www.qualenergia.it/)

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LA COP28 NON CURA LE CAUSE DELLA CRISI

di Mario Tozzi, da “La Stampa” del 1/12/2023

   Il fallimento annunciato della Conferenza delle parti sul clima (COP28) di Dubai sta tutto nei suoi fragili e ambigui presupposti, che si concretizzano nel procrastinare sine die qualsivoglia azione strutturale per agire sulle cause della crisi climatica. Del resto quando non si chiama mai direttamente in causa la responsabilità gravissima e reiterata delle corporation gaspetrocarboniere, e degli Stati che con loro si identificano, e non le si mettono mai sul banco degli imputati chiamandole a un sostanziale risarcimento, non ci si può aspettare, al massimo, che qualche successo di facciata. Ma a Dubai, probabilmente, non registreremo neppure quello, non essendo possibile uscire incontaminati da un confronto con Lucifero in persona nella casa stessa del diavolo.

   Tutte le major dei combustibili fossili sapevano benissimo a cosa si sarebbe andati incontro continuando a estrarli e bruciarli: studi commissionati a ricercatori dalle stesse compagnie, fino dagli anni ’70 del XX secolo, avevano messo impietosamente in luce come si sarebbe arrivati a 420 ppm (parti per milione) di anidride carbonica attorno al 2020, cosa che si è puntualmente verificata. La dimostrazione più lampante che la scienza è unanime sulle cause della crisi climatica, anche quando viene pagata dall’industria che auspicherebbe risultati più addomesticati.

   Naturalmente ci auguriamo di venire smentiti, ma ciò avverrebbe solo se al termine dei lavori si prendessero provvedimenti strutturali, non più negoziabili, obbligatori e tempestivi. Cioè se si mettesse fine allo scandalo dei finanziamenti pubblici al settore oil & gas (calcolati a circa 7 trilioni di dollari/anno secondo FMI), senza andare tanto per il sottile se si tratta di forme dirette o indirette di sostegno; se si impedisse di continuare a trivellare allegramente perfino nei santuari di protezione della natura o ai poli; e se si imponesse un prezzo di riconversione che tenga conto del costo sociale del carbonio, in pratica se si destinasse una percentuale di quei profitti alle energie rinnovabili.

   E se a tutto questo si imponesse un controllo effettuato da un organismo super partes e se queste operazioni partissero immediatamente, perché di tempo ne abbiamo già perso abbastanza. Invece noi non facciamo nulla di tutto ciò e vediamo serenamente fallire la previsione che ci ha finora tenuto appesi alla speranza di un cambio di rotta, cioè che avremmo contenuto le emissioni in modo da non vedere incrementare la temperatura media atmosferica più di 1,5°C nel prossimo futuro, come sbandierato più volte nel corso dei meeting economici internazionali (G20 e G7 compresi). Invece, valutando gli investimenti e i programmi di sviluppo delle compagnie gaspetrocarboniere, quello che emerge è che l’incremento sarà di 2,7°C, un valore temuto da tutti gli specialisti perché foriero di conseguenze irreversibili non solo per gli ecosistemi, ma anche per la biologia dei viventi, sapiens compresi.

   Difendere le foreste residue, piantare miliardi di alberi, tutelare le balene (sì, contribuiscono pesantemente a stoccare la CO2 in eccesso), sono tutte operazioni positive, ma agiscono sugli effetti, non toccano le cause della crisi climatica, perciò rischiano di non essere commisurate a un cambiamento che si preannuncia molto più cospicuo del previsto. Mitigare senza agire sulle cause nello stesso tempo serve a poco, riunirsi in conferenze in cui non pestare i piedi a un’economia distruttiva è più importante dello stato di salute della biosfera che ci sostiene serve ancora a meno. Ci risparmiassero la presa in giro, comunque mascherata. (Mario Tozzi, da “La Stampa”)

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(Inquinamento mondiale: ecco i primi colpevoli, schema da https://www.truenumbers.it/)

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LOSS AND DAMAGE: letteralmente “perdite e danni”, la terza gamba della finanza climatica, dopo mitigazione (ridurre, cioè, le emissioni serra), e adattamento (predisporre misure di contenimento per prepararsi agli eventi estremi).

La sfida “Loss and Damage”

Riguarda il sostegno ai Paesi in via di sviluppo nel rispondere agli effetti del riscaldamento globale. Siamo entrati oramai in una fase di “anormalità climatica permanente”, il 2022 è stato un anno funestato da eventi meteo estremi, con gli 8 milioni di sfollati per l’inondazione del Pakistan e la peggiore siccità che ha colpito l’Europa negli ultimi cinquecento anni. E il 2023, secondo l’Organizzazione mondiale della meteorologia, si candida a essere l’anno più caldo mai registrato nella storia.

   Tenendo conto che i Paesi più poveri sono quelli che hanno contribuito meno alla crisi climatica e, al tempo stesso, ne subiranno le peggiori conseguenze, con quasi la metà dei morti causati dalla crisi climatica che secondo le stime si concentrerà in Africa, aiutarli ad affrontare questa crisi non può non rappresentare una priorità. (Andrea Barbabella, da “Il Sole 24ore” del 27/11/2023)

LOSS AND DAMAGE, APPROVATO ALLA COP28 IL FONDO PER I PAESI VULNERABILI (di Andrea Barolini, da https://valori.it/ 30/11/2023) – Nel primo giorno della Cop28 di Dubai è stato approvato il fondo per il loss and damage. Restano tuttavia alcuni importanti punti interrogativi  (…)

Il primo riguarda la decisione di far gestire il fondo alla Banca Mondiale. Ciò per almeno quattro anni, in via provvisoria. Si tratta di una decisione sofferta, e che a lungo è stata osteggiata con forza dai Paesi in via di sviluppo più vulnerabili di fonte agli impatti del riscaldamento globale. (…) Il fatto di affidare il fondo alla Banca Mondiale significa passare attraverso un istituto che è di fatto, indiscutibilmente, dominato dagli Stati Uniti e dall’Unione europea. Quanta voce in capitolo avranno, insomma, i Paesi vulnerabili ai quali i capitali dovrebbero arrivare? (…)

Poi (secondo punto), sarà fondamentale capire quanti fondi arriveranno. I Paesi sviluppati, Stati Uniti in testa, hanno rifiutato categoricamente che i contributi possano essere obbligatori. E hanno vinto, su questo punto: i fondi per il loss and damage saranno versati su base volontaria. (…) Ma quanto valgono le prime promesse avanzate? Per ora si tratta di gocce in mezzo al mare della crisi climatica. Nonostante gli appelli alla generosità giunti da più parti, gli Stati Uniti hanno promesso un apporto pari a 17,5 milioni di dollari. Gli Emirati Arabi Uniti 100 milioni, il Regno Unito 76. Altri 225 arriveranno dall’Unione europea (100 di questi promessi dalla Germania). Complessivamente, per ora, si è arrivati ad un totale di impegni per qualche centinaio di milioni. Nulla, a confronto di quanto necessario: il costo dei danni irreversibili causati da inondazioni, tempeste, ondate di caldo e di siccità o dalla risalita del livello dei mari potrebbe raggiungere 580 miliardi di dollari all’anno di qui al 2030 per i Paesi esposti. «Ci aspettiamo promesse in miliardi, non in milioni», ha dichiarato Rachel Cleetus, della Union of Concerned Scientists americana. Mentre Madeleine Diouf Sarr, che presiede il gruppo dei Paesi meno avanzati (composto dalle 46 nazioni più povere della Terra) ha parlato di decisione «di enorme rilevanza per la giustizia climatica», ma ha avvertito che «un fondo vuoto non aiuterà i nostri cittadini».

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ACCORDO IN AVVIO PER UNA COP28 INTERLOCUTORIA

di Marzio Galeotti, Alessandro Lanza e Valeria Zanini

da “La Voce.Info”, 1/12/2023, https://lavoce.info/

– L’accordo per rendere operativo il fondo Perdite e Danni arriva in avvio di Cop28. È un successo dopo le tensioni che hanno accompagnato il negoziato e in una Conferenza che si preannuncia comunque interlocutoria. Gli altri temi in discussione –

La Cop28 di Dubai

È iniziata con un accordo la Cop28, che si è aperta il 30 novembre a Dubai: il via libera al fondo “Loss and Damage”. L’agenda, tuttavia, non include l’adozione di obiettivi di riduzione dei gas-serra più ambiziosi e dunque la Cop28 è una Conferenza di passaggio, un’occasione per fare il punto sull’azione climatica in tutte e tre le sue declinazioni: mitigazione, adattamento e finanza. Nonostante molti altri eventi, come i meeting del G7 o del G20, abbiano acquisito una rilevanza maggiore sul tema, le Cop sono ancora il luogo dove vengono valutati i risultati raggiunti e vengono concordate le basi per andare avanti. Sono anche le uniche occasioni in cui ogni paese può fare sentire la sua voce. Di seguito, una breve rassegna dei dossier rilevanti per Cop28.

Global Stocktake

Il più importante punto in agenda è il Global Stocktake, il meccanismo di valutazione quinquennale dei progressi collettivi fatti verso gli obiettivi dell’Accordo di Parigi del 2015 sui tre pilastri dell’azione climatica: mitigazione, adattamento e finanza.

   L’azione è riassunta nelle Ndcs (Nationally Determined Contributions) che hanno visto un primo round di impegni nel 2015-2016 e un secondo Continua a leggere

Al Parlamento europeo è stata approvata la NATURE RESTORATION LAW (il vincolo agli Stati del ripristino degli ecosistemi) – La divisione tra favorevoli e contrari, mostra che la QUESTIONE AMBIENTALE sarà la priorità alle elezioni europee del 2024 – (? ma è poi vero che un ambiente sano e biodiverso sia contro gli interessi degli agricoltori??)

(Il Parlamento europeo vota la NATURE RESTORATION LAW, foto da https://tg24.sky.it/) – Mercoledì 12 luglio gli europarlamentari, nella plenaria del Parlamento Ue, hanno approvato la Nature Restoration Law, la legge per il ripristino della natura. Si tratta di un provvedimento, proposto dalla Commissione europea, molto contestato. Il via libera è passato con 336 voti favorevoli, 300 voti contrari e 13 astenuti. La Plenaria del Parlamento europeo poco prima aveva respinto la proposta di reiezione della legge. LaNATURE RESTORATION LAW prevede di istituire obiettivi giuridicamente vincolanti per gli Stati membri per il ripristino degli ecosistemi. Si serve dello strumento legislativo per ripristinare ecosistemifluviali, forestali, urbani e agricolidegradati e per fermare la perdita di biodiversità.

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(Il MANIFESTO per la NATURE RESTORATION LAW – tratto da www.wwf.it/) – Il MANIFESTO è stato sottoscritto, in una grande iniziativa, da oltre 150 organizzazioni italiane di livello nazionale e territoriale, e da un gran numero di accademici, ricercatori e personalità della scienza e della cultura.   –   La Nature Restoration Law – si legge nel Manifesto – è la più grande occasione per rigenerare la natura d’Europa e garantire sostenibilità, futuro e benessere ai suoi cittadini. Ripristinare almeno il 20% del territorio terrestre e marino dell’Unione europea e gli ecosistemi in sofferenza o andati persi; impedirne l’ulteriore deterioramento; rinaturalizzare i corsi fluviali abbattendo le barriere artificiali dove creano più danni che benefici; reinserire elementi naturali negli agroecosistemi, per un’agricoltura più sana e ricca di biodiversità, in special modo di insetti impollinatori e uccelli; promuovere una maggiore strutturazione delle foreste per migliorarne la qualità; favorire un’opera di greening delle città, spesso troppo grigie e povere di natura: sono solo alcuni degli obiettivi che la Nature Restoration Law si pone e che potrà concretamente perseguire negli Stati membri dell’Unione, Italia compresa”.

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CHE COS’È LA NATURE RESTORATION LAW

   La proposta di legge sul ripristino degli ambienti naturali fa parte del cosiddetto “Pacchetto natura”, approvato il 22 giugno 2022, che prevede di istituire obiettivi giuridicamente vincolanti per gli Stati membri, con il fine di ripristinare entro il 2030 almeno il 20 per cento delle superfici terrestri e marine dell’Unione, il 15 per cento dei fiumi nella loro lunghezza e la realizzazione, sempre entro la stessa data, di elementi paesaggistici ad alta biodiversità su almeno il 10 per cento della superficie agricola utilizzata.

   Un grande progetto di riqualificazione degli ambienti naturali che non riguarderà solo le aree protette, ma tutti gli ecosistemi, compresi i terreni agricoli e le aree urbane. “La legge europea sul ripristino degli habitat naturali rappresenta la punta di lancia di uno dei tre assi dello European Green Deal (ndr: gli altri due già approvati sono: la Legge sul Clima e il divieto dei nuovi veicoli benzina e diesel), lo sforzo senza precedenti di reinventare l’economia europea attorno alla transizione energetica, la salvaguardia della biodiversità e il passaggio a un’economia circolare”, ha detto Ariel Burner, direttore di Birdlife International. “Rappresenta la messa in pratica dello storico accordo internazionale raggiunto alla fine del 2022 a Montreal, nel quadro della Convenzione sulla biodiversità”.

   Secondo l’ultima valutazione dell’Agenzia europea dell’ambiente (Eea) sullo “Stato della natura nell’UE 2020”, l’81 per cento degli habitat protetti, il 39 per cento delle specie di uccelli protetti e il 63 per cento delle altre specie si trovano in un cattivo stato di conservazione. Le cause vanno ricercate nelle continue pressioni antropiche sui sistemi naturali, quali l’agricoltura intensiva, il consumo di suolo, l’inquinamento, la silvicoltura non sostenibile e il cambiamento climatico.

   E il punto della proposta di legge poggia su queste fondamenta, ovvero sul fatto che ecosistemi sani forniscono alimenti e sicurezza alimentare, acqua pulita, pozzi di assorbimento del carbonio e protezione dalle catastrofi naturali provocate dalla crisi climatica.

   Nel 2022 lo stesso IPCC (l’Intergovernmental Panel on Climate Change, IPCC, è il principale organismo internazionale per la valutazione dei cambiamenti climatici, e fa parte dell’ONU; ndr) sottolineava come l’Europa stesse già registrando un aumento degli eventi meteorologici e climatici estremi, a causa del costante e insostenibile sfruttamento dei sistemi naturali e umani oltre la loro capacità di adattamento, determinando già conseguenze irreversibili.

   Ripristinare gli ecosistemi degradati infatti è una delle soluzioni fondamentali proposte dai membri delle Nazioni Unite per mitigare gli impatti dei cambiamenti climatici, in particolare attraverso la ricostituzione di zone umide, fiumi, foreste ed ecosistemi agricoli degradati.

(da https://www.nationalgeographic.it/, Rudi Bressa, 20/6/2023)

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“La Nature Restoration Law va approvata, è indispensabile per il nostro benessere”: nella foto Manifestazione a favore (prima dell’approvazione) il 12 luglio scorso dei giovani ambientalisti fuori dal Parlamento europeo (foto da https://roccarainola.net/)

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(Schema GREEN DEAL EUROPEO, fonte Commissione Europea) – Il GREEN DEAL, almeno nelle intenzioni della UE, intende essere una STRATEGIA DI FORTE RILANCIO economico dell’Unione tutta imperniata sulla piena TRANSIZIONE VERSO LA GREEN ECONOMY. Un vero e proprio piano di azione che, attraverso più di 100 punti, intende innescare UN’ECONOMIA MODERNA, efficiente sotto il profilo delle risorse, competitiva e, soprattutto, NEUTRALE DAL PUNTO DI VISTA DELLE EMISSIONI DI GAS SERRA.   Il GREEN DEAL EUROPEO INTERESSA TUTTI I SETTORI DELL’ECONOMIA: i trasporti, l’energia, l’agricoltura, l’edilizia e settori industriali quali l’acciaio, il cemento, i prodotti tessili, le sostanze chimiche, le ICT (ndr: cioè le Information and Communication Technologies, le tecnologie riguardanti i sistemi integrati di telecomunicazione: linee di comunicazione cablate e senza fili, i computer, le tecnologie audio-video e relativi software, etc.). SI TRATTA DI UN’AMBIZIOSA STRATEGIA che mira a trasformare l’UE in una società giusta e prospera, per il benessere dei cittadini e del pianeta, e che propone di cambiare abitudini e stili di tutti, da quelli di vita a quelli produttivi. (da http://www.pianetapsr.it/)

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COS’È LA LEGGE SUL RIPRISTINO DELLA NATURA: LA NATURE RESTORATION LAW APPROVATA DAL PARLAMENTO UE CRITICATA DAGLI AGRICOLTORI

di Antonio Lamorte – 13/7/2023, da L’UNITÀ, https://www.unita.it/

– La proposta non impone la creazione di nuove aree protette in UE né blocca la costruzione di nuove infrastrutture per l’energia rinnovabile. Agricoltori allarmati, destra spaccata –

   La Nature Restoration Law è stata approvata mercoledì 12 luglio (2023) dagli europarlamentari nel corso della plenaria del Parlamento dell’Unione Europea. La base del testo votata si avvicinava all’accordo raggiunto lo scorso giugno in Consiglio Affari Ambiente. Il via libera è stato accolto da un lungo applauso e seguito dal voto favorevole che rinvia la proposta di regolamento alla Commissione Ambiente. La legge però è molto contestata e controversa: è appoggiata dalle associazioni ambientaliste ma è criticata dagli agricoltori. Anche il governo italiano è molto critico su alcuni aspetti del cosiddetto “Green Deal” europeo.  La prossima tappa prevede negoziati con il Consiglio Ue sul testo definitivo della legge, che sarà concordata anche con la Commissione Europea. Il cosiddetto trilogo.

   È stata approvata con 336 voti favorevoli, 300 voti contrari e 13 astenuti. La proposta ha spaccato il Partito Popolare. Il testo è stato approvato con diversi emendamenti presentati da Renew. La Restoration Law è uno dei capisaldi del pacchetto clima della Commissione von der Leyen e si inserisce nella strategia sulla biodiversità per il 2030, anche in osservanza agli impegni internazionali presi dall’Ue come quelli indicati nel quadro globale sulla biodiversità della Nazioni Unite di Kunming Montreal. Prevede di istituire obiettivi giuridicamente vincolanti per gli Stati membri per il ripristino degli ecosistemi. Si serve dello strumento legislativo per ripristinare ecosistemi – fluviali, forestali, urbani e agricoli – degradati e per fermare la perdita di biodiversità.

   Alcuni degli obiettivi, da raggiungere entro il 2030: ripristino di almeno il 20% delle superfici terrestri e marine dell’Unione e il 15% dei fiumi nella loro lunghezza; realizzazione di elementi paesaggistici ad alta biodiversità su almeno il 10% della superficie agricola utilizzata. La legge punta a recuperare tutti gli ecosistemi che necessitano di azioni di ripristino entro il 2050. Altri obiettivi: ridurre le barriere che limitano la connettività dei fiumi, aumentare gli stock di carbonio migliorando la gestione forestale, diminuire l’uso di pesticidi, rendere più sostenibile la pesca, aumentare il verde urbano, diversificare le aree coltivate per favorire farfalle, insetti impollinatori e uccelli, combattere l’uso indiscriminato di fertilizzanti e monocolture intensive.

   È altissima però la preoccupazione negli ambienti degli agricoltori, allertati dalla possibilità che la legge possa ridurre nettamente gli spazi destinati alle attività agricole. Un disappunto esplicitato da Pekka Pekkonen, segretario generale del Copa-Cogeca, il sindacato degli agricoltori e delle cooperative agricole europee: “Ridurremmo di fatto la nostra capacità di produrre cibo e saremmo più esposti alle importazioni che noi e tante Ong e organizzazioni considerano rischiose. Vogliamo produrre cibo per i cittadini europei e questa legislazione minaccia seriamente questo obiettivo del nostro settore“.

   Il commissario europeo all’ambiente Virginijus Sinkevičius ha assicurato in un’intervista a Politico.eu che “la legislazione è una minaccia” e che “la realtà sta raccontando una storia diversa”, ovvero che i raccolti degli agricoltori sono danneggiati dai cambiamenti climatici. I Popolari, come si accennava, si sono spaccati. Manfred Weber, presidente e capogruppo del Ppe, ha esortato il vicepresidente della Commissione Frans Timmermans a ritirare la bozza di legge perché “pericolosa per i cittadini e le imprese”. Parte dei parlamentari del Ppe ha però votato contro la linea del presidente: sono stati 21 quelli che hanno appoggiato la proposta. Contraria tutta l’estrema destra.

   César Luna, relatore del gruppo Socialisti e Democratici, ha dichiarato: “La legge sul ripristino della natura è un elemento essenziale del Green Deal europeo e segue le raccomandazioni e i pareri scientifici che sottolineano la necessita di ripristinare gli ecosistemi europei. Gli agricoltori e i pescatori ne beneficeranno e verrà garantita una terra abitabile alle generazioni future. La posizione adottata oggi invia un messaggio chiaro. Ora dobbiamo continuare a lavorare bene, difendere la nostra posizione durante i negoziati con i Paesi UE e raggiungere un accordo prima della fine del mandato di questo Parlamento per approvare il primo regolamento sul ripristino della natura nella storia dell’UE”. Secondo la Commissione la nuova legge tradurrebbe ogni euro investito in otto euro di benefici.

   “La nostra battaglia continua, senza natura non c’è futuro”, ha detto ai cronisti Greta Thunberg, l’attivista svedese che ha fatto partire i Friday For Future che si è unita al presidio in sostegno alla legge organizzato da Socialisti, Verdi e Sinistre davanti al Parlamento. “È scandaloso che si debba lottare per le briciole, questi problemi non dovrebbero neanche esistere”.

   I deputati a favore ritengono che il ripristino combatta il cambiamento climatico. La proposta inoltre non impone la creazione di nuove aree protette in UE né tantomeno blocca la costruzione di nuove infrastrutture per l’energia rinnovabile, al contrario sottolinea come questi impianti siano di interesse pubblico.

   “È stato un testa a testa ma cosi è la democrazia – ha commentato il vicepresidente della Commissione Ue, Frans Timmermans -, il Parlamento ha un posizione negoziale, ora torniamo a negoziare e andiamo avanti a convincere anche chi non è ancora convinto”. Per quanto riguarda il Green Deal, i suoi due pezzi principali sono già stati approvati: la Legge sul Clima e il divieto dei nuovi veicoli benzina e diesel. La prima vincola l’Ue a ridurre del 55% entro il 2030 le emissioni nette e di azzerarle entro il 2050 (“Fit for 55”), la seconda riguarda il divieto di vendere nuovi veicoli a benzina e diesel a partire dal 2035.

(Antonio Lamorte – 13/7/2023, da L’UNITÀ, https://www.unita.it/)

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(Nella foto la PROTESTA di alcuni AGRICOLTORI fuori dal Parlamento europeo – foto da https://tg24.sky.it/)   –   “(…) Tra le motivazioni dietro alla netta spaccatura che si è andata a creare attorno al regolamento sul ripristino della natura, uno riguarda una narrazione erronea (a cui è collegato un pensiero produttivo), che vede natura e agricoltura in contrapposizione. Chi si oppone infatti sostiene che la legge non può essere applicata nel concreto e che andrà a ledere i diritti delle categorie interessate di agricoltura e pesca, o peggio ancora che il provvedimento minerà la sicurezza e la sovranità alimentare dell’Unione. Questa visione trascura il fatto che senza un ambiente sano e biodiverso i raccolti saranno sempre più vulnerabili alle malattie e agli effetti del cambiamento climatico. Così come ignora che per tutelare la sicurezza e la sovranità alimentare non serve aumentare la produzione, ma bisogna agire sull’accessibilità del cibo, sulla riduzione dello spreco e sull’adozione di abitudini alimentari più sostenibili quali mangiare locale e stagionale o scegliere di mangiare proteine animali di qualità e in minor quantità. (…)” (Carlo Petrini, da “la Repubblica” del 13/7/2023)

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(ITALIA FRAGILE, da https://www.wwf.it/, 12/5/2023)   –   Sempre per quanto riguarda il GREEN DEAL, i suoi due pezzi principali sono già stati approvati: la Legge sul Clima e il divieto dei nuovi veicoli benzina e diesel. La prima vincola l’Ue a ridurre del 55% entro il 2030 le emissioni nette e di azzerarle entro il 2050 (“Fit for 55”), la seconda riguarda il divieto di vendere nuovi veicoli a benzina e diesel a partire dal 2035. (Antonio Lamorte – 13/7/2023, da L’UNITÀ, https://www.unita.it/)

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IL RIPRISTINO DELLA NATURA

di Carlo Petrini, da “la Repubblica” del 13/7/2023

   Seppur con una maggioranza risicata il 12 luglio al Parlamento europeo è passata la legge per il ripristino della natura. Nei giorni in cui il pianeta Terra registra le più alte temperature da quando si è iniziato a misurarle circa duecento anni fa, l’Europa ha mandato un messaggio chiaro che ci schiera dal lato giusto della lotta alla crisi climatico-ambientale: quello del pianeta.

   La legge, che ricade sotto il cappello della strategia sulla biodiversità al 2030 nell’ambito del Green Deal europeo, è lo strumento formale che consente di lavorare per mettere in sicurezza gli ecosistemi, creando i presupposti per un futuro più roseo per noi e per le generazioni che verranno. E mentre è fondamentale celebrare il traguardo (anche se su alcuni emendamenti proposti e accettati ci sarebbe da discutere), è anche giusto riflettere sulle motivazioni dietro alla netta spaccatura che si è andata a creare attorno al regolamento sul ripristino della natura.

   Ne citerò una fra tutte che mi tange direttamente e che riguarda una narrazione erronea (a cui è collegato un pensiero produttivo), che vede natura e agricoltura in contrapposizione. Chi si oppone infatti sostiene che la legge non può essere applicata nel concreto e che andrà a ledere i diritti delle categorie interessate di agricoltura e pesca, o peggio ancora che il provvedimento minerà la sicurezza e la sovranità alimentare dell’Unione.

   Questa visione trascura il fatto che senza un ambiente sano e biodiverso i raccolti saranno sempre più vulnerabili alle malattie e agli effetti del cambiamento climatico. Così come ignora che per tutelare la sicurezza e la sovranità alimentare non serve aumentare la produzione, ma bisogna agire sull’accessibilità del cibo, sulla riduzione dello spreco e sull’adozione di abitudini alimentari più sostenibili quali mangiare locale e stagionale o scegliere di mangiare proteine animali di qualità e in minor quantità.

   La natura non è senz’altro funzionale all’agricoltura convenzionale che gestisce la terra come un mero input di un processo di produzione che è tanto più efficiente quanto si utilizzano impattanti pesticidi e fertilizzanti. Ma d’altronde quell’agricoltura che è ora uno dei settori più climalteranti non è più compatibile con l’attualità. C’è bisogno di dare spazio, di fare ricerca, e di accompagnare gli agricoltori nella transizione verso pratiche agricole rigenerative (come l’agroecologia), dove la natura è il primo alleato e non un acerrimo nemico.

   A chi pensa – e qui mi rivolgo anche, e soprattutto, agli attuali rappresentanti della maggioranza di governo italiano che si sono opposti all’unanimità alla legge sul ripristino della natura – che questi ragionamenti siano pura ideologia che esula dal discorso economico e di crescita del Pil dico che si sbaglia. Stando a dati forniti dalla Commissione Europea, sanare gli habitat ricchi di biodiversità dovrebbe costare a livello europeo circa 154 miliardi di euro. Mentre i benefici che ne deriverebbero in termini di servizi ecosistemici (salute del suolo, regolazione del clima, depurazione dell’acqua, produzione di cibo) si aggirerebbero intorno ai 1.860 miliardi di euro. Insomma: un investimento eccezionalmente efficiente.

   L’approvazione della legge sul ripristino della natura da sola di certo non basta, ma segna e legittima un percorso di vera transizione ecologica che rallenta un po’ lo slancio delle destre negazioniste e anti Europa.   A tal proposito mi permetto di dire che la politica, destra o sinistra che sia, deve rendersi conto che in materia ambientale è finito il tempo di ragionare per mandati politici e in previsione delle elezioni di turno.

   Dalla salubrità degli ecosistemi dipende la sopravvivenza dell’umanità. Il tempo dei trastulli che vedono nella preoccupazione ambientale un vezzo, si è protratto fin troppo a lungo, ora dobbiamo passare all’azione. Le esigenze del Pianeta devono essere trattate come prerogative inderogabili che si collocano su un piano altro, e più alto delle posizioni pericolose delle alleanze e dei partiti.

   Siccome su questo campo probabilmente si giocherà molta della campagna elettorale per le elezioni europee del prossimo anno è bene che i cittadini siano coscienti di questo. Il rischio altrimenti è di cadere in una trappola propagandista che altro non è che un pericoloso specchietto per le allodole che porterà l’homo sapiens dritto verso il baratro. (Carlo Petrini, da “la Repubblica” del 13/7/2023)

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(CAMBIAMETO CLIMATICO, foto da https://ilbolive.unipd.it/) – senza un ambiente sano e biodiverso i raccolti saranno sempre più vulnerabili alle malattie e agli effetti del cambiamento climatico

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IL REPORT WWF

BIODIVERSITÀ FRAGILE, MANEGGIARE CON CURA

da https://www.wwf.it/, 12/5/2023

– Il 68% degli ecosistemi della penisola italiana è in pericolo mentre il 30% delle specie di vertebrati e il 25% delle specie animali marine rischiano l’estinzione –

IL 68% DEGLI ECOSISTEMI ITALIANI È IN PERICOLO

Il declino degli ecosistemi nel mondo ha raggiunto le dimensioni di una vera catastrofe: gli scienziati calcolano che l’impatto del genere umano su tutte le altre forme di vita sia arrivato ad accelerare tra le 100 e le 1.000 volte il tasso di estinzione naturale delle specie, avviando la sesta estinzione di massa. Ci resta un misero 12,5% della foresta atlantica, abbiamo perso più del 50% delle barriere coralline e una vastissima porzione della foresta amazzonica (probabilmente il 20% se non di più) è stata distrutta.

   Questa crisi di natura è evidente anche in Italia, dove la biodiversità raggiunge valori elevatissimi (contiamo metà delle specie vegetali e circa 1/3 di tutte le specie animali presenti in Europa), ma che con cieca determinazione stiamo erodendo e distruggendo, mettendo a rischio la nostra stessa sicurezza e il nostro benessere.

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I SEGNALI DELLA FRAGILITÀ

Dalle Liste Rosse nazionali della flora dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN) emerge che, in Italia circa l’89% degli habitat di interesse comunitario si trova in uno stato di conservazione sfavorevole. Dei 43 habitat forestali italiani, ad esempio, 5 hanno uno stato di conservazione “criticamente minacciato” e 12 “in pericolo”.  Il 68% degli ecosistemi italiani si trova in pericolo, il 35% in pericolo critico. Il 100% degli ecosistemi è a rischio nell’ecoregione padana, il 92% in quella adriatica e l’82% in quella tirrenica.

   Il 57% dei fiumi e l’80% dei laghi si trova in uno stato ecologico non buono. E i dati sullo stato di conservazione delle specie non sono meno allarmanti: il 30% delle specie di animali vertebrati e il 25% delle specie animali marine del Mediterraneo sono a rischio estinzione.

LE MINACCE PER LA BIODIVERSITÀ E GLI EFFETTI DELLA CRISI IDRICA

Oltre alle pressioni dirette su specie, habitat ed ecosistemi, esercitate attraverso l’inesauribile richiesta di risorse naturali operata dalle società, esistono anche altre forze che agiscono indirettamente senza degradare o distruggere l’ambiente, ma ostacolando e rallentando la risoluzione dei problemi.

   Si tratta, ad esempio, della cosiddetta governance ambientale (si pensi solo alla regolamentazione dello sfruttamento della risorsa idrica), inadeguata rispetto alla complessità dei problemi ed ostacolata da investimenti limitati, nonché dalla resistenza di soggetti con interessi politici o economici a breve termine, con scarsa attenzione alla tutela della biodiversità, alle comunità più deboli ed esposte e alle generazioni future.

   Tra i fattori alla base della perdita di biodiversità c’è anche il cambiamento climatico, processo profondamente interconnesso all’estinzione delle specie. La perdita di biodiversità influenza il clima, soprattutto attraverso l’impatto sull’azoto, il carbonio e sul ciclo dell’acqua. A sua volta il cambiamento climatico influenza la biodiversità attraverso fenomeni come l’aumento della temperatura e la riduzione delle precipitazioni. Queste si manifestano ormai sempre più spesso come piogge torrenziali, causa di frane e alluvioni disastrose.

   Altro effetto della crisi climatica è l’innalzamento del livello del mare. Sono 21.500 i km quadrati di suolo italiano cementificato, mentre si calcolano oltre 1.150 km2 di suolo consumati in 15 anni, una superficie quasi corrispondente a quella di una città come Roma, mentre nel Mediterraneo le temperature stanno aumentando il 20% più velocemente rispetto alla media globale.

   Poi ci sono le specie aliene invasive, identificate da alcuni studi come la seconda principale minaccia alla biodiversità globale, che ha contribuito in modo determinate al 54% delle estinzioni delle specie animali conosciute, tramite predazione su specie autoctone o competizione per le risorse (es. cibo, luoghi di riproduzione). Attualmente, si stima che in Italia ci siano intorno a 3.000 specie aliene, con un incremento del 96% negli ultimi 30 anni.

   La perdita di natura non rappresenta solo una minaccia di per sé, ma mette a rischio sistemi che ci garantiscono la vita, primo fra tutti quello che regge l’equilibrio della crisi idrica. A causa del riscaldamento globale in atto, la disponibilità media annua di acqua si potrebbe ridurre da un minimo del 10% entro il 2030 ad un massimo del 40% entro il 2100, con picchi fino al 90% per l’Italia meridionale. Il ciclo perverso della crisi idrica provoca effetti sulla biodiversità con l’estinzione (già in atto) di molte specie, perdita delle zone umide, l’incremento di parassiti e patologie, della frequenza e intensità degli incendi forestali. Gli effetti sulle persone, oltre alla riduzione delle disponibilità di acqua, saranno l’incremento dell’erosione del suolo e la riduzione della fertilità dei terreni agricoli.

LE SOLUZIONI

Il report WWF lancia anche un appello: è necessario di intervenire in maniera concreta mettendo immediatamente in pratica la Strategia Nazionale per la Biodiversità al 2030, che prevede che almeno il 30% delle specie e degli habitat di interesse comunitario il cui stato di conservazione non è soddisfacente, lo raggiungano entro il 2030.

   La strategia prevede anche che gli ecosistemi vengano tutelati attraverso l’incremento della superficie protetta al 30% del territorio terrestre e marino e che il 30% degli ecosistemi attualmente degradati vengano ripristinati. Per ogni ambiente da tutelare il report WWF approfondisce le soluzioni da mettere in atto: dal recupero e ripristino delle zone umide, al potenziamento della rete di monitoraggio delle acque interne superficiali e sotterranee; dalla necessità di un Piano di Adattamento alla crisi climatica, promuovendo le Nature Based Solutions, alla gestione forestale; dalla drastica riduzione dell’uso dei pesticidi in agricoltura, fino all’ampliamento della superficie marina protetta.

   Oggi più che mai è importantissima l’attivazione di tutti, a partire dalla società civile, per strappare la crisi dei sistemi naturali da quel cono d’ombra che impedisce ai cittadini di capire la portata di quello che sta succedendo e alle istituzioni di agire riconoscendo alla natura la priorità che ha, di fatto, nel presente e nel futuro. (da https://www.wwf.it/, 12/5/2023)

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‘(…) “La nostra battaglia continua, senza natura non c’è futuro”, ha detto ai cronisti Greta Thunberg, l’attivista svedese che ha fatto partire i Friday For Future che si è unita al presidio in sostegno alla legge organizzato da Socialisti, Verdi e Sinistre davanti al Parlamento. (…)’ (Antonio Lamorte – 13/7/2023, da L’UNITÀ, https://www.unita.it/)

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LA (GIUSTA) VISIONE SU EUROPA E AMBIENTE

di Francesco Giavazzi, da “il Corriere della Sera” del 16/7/2023

I RISCHI, LE SCELTE – Sarà la capacità dei Paesi di comprendere e sostenere la transizione che li renderà più o meno competitivi –

   L’ambiente, e in particolare le politiche per rallentare il riscaldamento della terra, saranno il tema centrale della campagna elettorale per il voto del Parlamento europeo che si terrà dal 6 al 9 giugno del prossimo anno. Vediamo perché. Continua a leggere

La CRISI CLIMATICA e la NEGAZIONE di essa: il mondo precipita nel disastro ambientale e poco nulla si fa (o, peggio, c’è il dileggio e la negazione) –  I 5 grandi temi legati alla sfida ambientale: lotta alle povertà; lotta alle disuguaglianze; transizione energetica; parità di genere; produzione di cibo sana per l’ambiente e per l’umanità

IL NEGAZIONISMO AMBIENTALE PORTATO AVANTI DA ALCUNI QUOTIDIANI ITALIANI (immagine tratta da https://www.climalteranti.it/)

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(nell’immagine: LA CRISI CLIMATICA AFFAMA IL MONDO: RAPPORTO OXFAM) — Secondo il rapporto “Hunger in a heating World – How the climate crisis is fuelling hunger in an already hungry world” pubblicato da OXFAM, «In soli 6 anni il numero di persone colpite dalla fame è più che raddoppiato nei 10 Paesi che hanno registrato il maggior numero di eventi climatici estremi: erano 21 milioni nel 2016, oggi sono 48 milioni, 18 milioni dei quali realmente sull’orlo della carestia.   Siccità, desertificazione, cicloni e alluvioni sempre più frequenti stanno mettendo a rischio milioni di vite nei contesti più vulnerabili del pianeta. Per far fronte alle crisi umanitarie che ne conseguono servono 49 miliardi di dollariossia la cifra richiesta dalle Nazioni Unite nell’appello per il 2022: un ammontare equivalente ai profitti realizzati in meno di 18 giorni dalle grandi aziende energetiche dei combustibili fossili».
   I 10 Paesi al mondo più colpiti da eventi climatici estremi negli ultimi 20 anni sono Somalia, Haiti, Gibuti, Kenya, Niger, Afghanistan, Guatemala, Madagascar, Burkina Faso e Zimbabwe.
   Stati che, pur pagando il prezzo più alto del cambiamento climatico, messi assieme sono responsabili di appena lo 0,13% delle emissioni globali di CO2 in atmosfera, mentre i Paesi del G20 ne producono il 76,60%. (…) (da https://greenreport.it/, 19/9/2022)

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UNA TERRA PER TUTTI, L’ULTIMO RAPPORTO DEL CLUB DI ROMA: ABBIAMO POCO PIÙ DI SEI ANNI PER EVITARE IL BARATRO

di Silvia Zamboni, Europa Verde, vicepresidente Assemblea legislativa Emilia Romagna, 6/4/2023, da https://www.ilfattoquotidiano.it/

Una Terra per tutti – l’ultimo rapporto al Club di Roma, uscito cinquant’anni dopo il primo, rivoluzionario, The Limits to Growth – è una raccolta di contributi di autorevoli scienziati, economisti ed esperti di ecologia. Andrebbe diffuso ai quattro angoli del Pianeta per creare consapevolezza sulle devastazioni che infliggiamo alla Terra a causa del modello oggi prevalente di produrre e consumare. Un modello fallimentare anche sul piano sociale e all’origine di inaccettabili disuguaglianze dentro i singoli popoli, e tra i diversi popoli.

   E se anche è vero che questi rapporti appartengono ormai a un genere consolidato di pubblicazioni, ciò che rende unico Una Terra per tutti, oltre alle diverse competenze complementari di autori ed autrici, è l’inedita exit strategy dall’emergenza climatica e sociale che delinea.

   Per Europa Verde ho contribuito alla conoscenza del volume organizzando una presentazione a Bologna, alla quale hanno portato il proprio contributo il professor Vincenzo Balzani, professore emerito dell’Università di Bologna, fondatore di Energia per l’Italia e membro del comitato scientifico di Europa Verde, e Gianfranco Bologna, direttore scientifico e Senior Advisor del Wwf Italia e segretario generale della Fondazione Aurelio Peccei, che rappresenta il Club di Roma in Italia. I loro interventi hanno confermato che Una terra per tutti è lo studio più completo sulla necessità di cambiare l’attuale sistema economico e sociale: da un capitalismo di “rapina” per pochi a una prosperità equilibrata che non lasci indietro nessuno.

   Il cambiamento da mettere in campo è declinato dal rapporto in cinque grandi sfide: lotta alle povertà; lotta alle disuguaglianze per ridurre la crescente forbice tra chi ha tanto e chi ha niente; transizione energetica verso un sistema elettrico alimentato da fonti rinnovabili; parità di genere ed empowerment delle donne; cambiamento del sistema alimentare per una produzione di cibo sana per l’ambiente e per l’uomo.

   Quello che si propone è dunque un radicale cambio di paradigma perché, se per economia intendiamo il bene delle persone e dell’ambiente, l’attuale modello è con tutta evidenza diseconomico. Come aveva già evidenziato il pioneristico The Limits to Growth – che sovvertiva il dogma della crescita illimitata alla base dell’idea novecentesca di economia – in un Pianeta finito le risorse non rinnovabili sono finite. E come tali vanno gestite, se vogliamo garantire una vita dignitosa per tutti ed evitare il collasso ecosistemico del Pianeta.

   L’importanza di questo rapporto è ben sintetizzata dalle parole di Vanessa Nakate, la nota attivista africana, fondatrice del movimento Rise Up, che forse ricorderete assieme a Greta Thunberg in uno dei tanti inconcludenti vertici globali sul clima. Ha scritto Vanessa: “Le idee esplorate in questo libro dovrebbero essere discusse in tutti i parlamenti del mondo. Dobbiamo cambiare le nostre economie in modo da cominciare ad anteporre le persone al profitto e abbiamo bisogno che i ricchi, gli inquinatori, paghino la loro parte per i danni che la crisi climatica sta scatenando sulle comunità povere in tutto il mondo. È ormai giunto il momento di creare un mondo più giusto e equo per tutti”.

   La grande tragedia odierna è che, in risposta all’accelerazione della crisi climatica e agli allarmi lanciati dagli scienziati sulle conseguenze, anche sociali, del riscaldamento globale, a prevalere sono una sostanziale inazione della politica (vedi le Conferenze Onu sul clima dopo quella di Parigi) e l’inerzia del “continuare a fare come si è sempre fatto”. Mentre Una terra per tutti ci dice chiaramente che il decennio 2020-2030 è l’ultima occasione che abbiamo per invertire la rotta prima che il cambiamento climatico sfugga dal nostro controllo. Ce lo dice anche il climate clock, l’orologio climatico che, grazie a Europa Verde, è stato caricato sulla home page del sito dell’Assemblea legislativa Emilia-Romagna e che presto apparirà su un display all’ingresso degli uffici regionali: abbiamo poco più di sei anni per evitare il baratro.

   Infine, una nota a margine. Il titolo del primo rapporto al Club di Roma è stato tradotto maldestramente con I limiti dello sviluppo (mentre il titolo corretto era “I limiti alla crescita”) implicando, in una lettura altrettanto sbagliata, che si volesse bloccare un democratico accesso generalizzato al benessere. Mentre quel testo evidenziava che, a quel passo di consumo di risorse non rinnovabili e di incremento demografico, l’economia sarebbe collassata per esaurimento delle risorse naturali disponibili.

Mi sono spesso chiesta se vengano (anche) da lì le critiche agli ecologisti di essere dei radical chic. Sta di fatto che già in quel primo rapporto erano chiare le contraddizioni di un sistema che ci ha portato a poco più di sei anni di distanza dal punto di non ritorno. Scrive in proposito Bill McKibben, autore di The End of Nature e di Eaarth: “Se nel 1972 avessimo prestato attenzione a The Limits to Growth non saremmo nella situazione in cui ci troviamo oggi. Ciò che resta di questo decennio potrebbe essere la nostra ultima opportunità di procedere, almeno in parte, nel modo giusto”.

Più che dibattere sulle parole, sarebbe stato più utile guardare la luna e non il dito. Abbiamo sei anni per recuperare. (Silvia Zamboni, 6/4/2023, da https://www.ilfattoquotidiano.it/)

(Il rapporto UNA TERRA PER TUTTI) — UNA TERRA PER TUTTI – Il più autorevole progetto internazionale per il nostro futuro, a cura di Jørgen Randers, Johan Rockström, Sandrine Dixson-Declève, Owen Gaffney, Jayati Ghosh, Per Espen Stoknes (novembre 2022, Edizioni Ambiente, pagg. 276, euro 25) – Una Terra per tutti è un antidoto alla perdita di speranza. Un insieme di indicazioni chiare verso un futuro migliore di quello prospettato oggi. Utilizzando i più avanzati software di simulazione e modellizzazione, gli autori esplorano le politiche in grado di portare il massimo beneficio al maggior numero di persone

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(THE LIMITS TO GROWTH) — Il rapporto del Club di Roma, uscito nel 1972, il primo, rivoluzionario, The Limits to Growth (i limiti della crescita) – Cinquant’anni fa un libro ci metteva in guardia sulle possibili derive della crescita. The Limits to Growth – in italiano I limiti dello sviluppo – parlava chiaro: l’umanità si stava spingendo verso un punto di non ritorno (“Il titolo del primo rapporto al Club di Roma è stato tradotto maldestramente con I limiti dello sviluppo, mentre il titolo corretto era “I limiti alla crescita”, implicando, in una lettura altrettanto sbagliata, che si volesse bloccare un democratico accesso generalizzato al benessere. Mentre quel testo evidenziava che, a quel passo di consumo di risorse non rinnovabili e di incremento demografico, l’economia sarebbe collassata per esaurimento delle risorse naturali disponibili” – Silvia Zamboni, 6/4/2023, da “Il Fatto Quotidiano”) (nell’immagine qui sopra: la copertina della versione inglese del Rapporto)

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AVANZA L’ONDA DEL NEGAZIONISMO CLIMATICO, ANCHE IN EUROPA

di Gianni Silvestrini, da https://www.qualenergia.it/, 6/6/2023

Negazionismo climatico e opposizione alle politiche energetiche verdi saranno al centro dei programmi di molti partiti di destra nelle elezioni europee del 2024. Uno snodo fondamentale per le strategie di questo decennio.

   Dopo due leader come Trump e Bolsonaro che hanno negato la pericolosità dell’emergenza climatica, rallentando di fatto la transizione ambientale, l’attenzione è ora puntata sulla vecchia Europa, riferimento negli ultimi trent’anni per le politiche ambientali.

   Gli equilibri che si definiranno dopo le elezioni europee del 2024 influenzeranno infatti notevolmente le politiche di questo decennio.

   Ma le sicurezze del passato sono incrinate dall’emergere di forze di estrema destra che, oltre alle note posizioni sul fronte sociale, pensiamo ai migranti, stanno sempre più definendosi come negazioniste climatiche.

   In Germania l’AFD negli ultimi sondaggi ha sfiorato il 20% ponendosi come terza forza politica e superando i Verdi. Le sue posizioni rispecchiano quelle di altri partiti di destra, contrari alle trasformazioni verso la mobilità elettrica e le rinnovabili.

   Tonia Mastrobuoni scrive su Repubblica: “l’ideologo della Nuova destra tedesca, Goetz Kubitschek, trait d’union tra l’Afd e i movimenti giovanili neonazisti come gli Identitari, spiega che la destra non considerava più i comunisti e i socialisti come principali avversari politici, bensì i verdi: “Un nemico antropologico.

   Alza la testa anche l’estrema destra spagnola che si era già opposta alla legge sul cambiamento climatico. E i neonazisti svedesi in forte crescita appoggiano il nuovo governo di destra puntando, oltre al solito blocco dell’immigrazione, al contrasto delle fonti rinnovabili.

   E potremmo continuare evidenziando gli spostamenti che stanno avvenendo in vari paesi, Italia inclusa.

   Insomma, si configurano posizioni politiche che rappresentano un chiaro attacco alla scienza. Sempre più spesso, infatti, vengono messe in discussione e sbeffeggiate le posizioni degli esperti climatici dell’IPCC di tutte le discipline e di tutti i paesi, consolidatesi negli ultimi decenni.

   Che sia in atto un riscaldamento del pianeta viene accettato, ma vengono negate clamorosamente le responsabilità dell’uomo, il ruolo combustibili fossili…

   Durante la pandemia di Covid una rumorosa minoranza criticava le posizioni di medici e ricercatori rifiutando di vaccinarsi, ma la gran maggioranza ha invece fatto il vaccino. Sul clima, malgrado l’aumento dei fenomeni estremi, cresce in maniera impressionante lo scetticismo. Secondo un recente sondaggio condotto dall’Università di Chicago la quota di coloro che ritengono fondamentale la responsabilità dell’uomo nei cambiamenti climatici è crollata negli Usa dal 60%, registrato solo cinque anni fa, al 49%.

   E secondo un recente sondaggio IPSOS, relativo a due terzi della popolazione mondiale, quasi quattro persone su dieci credono che il cambiamento climatico sia dovuto principalmente a cause naturali.

   Rimane il fatto che “puoi dire che la forza di gravità non è vera, ma se ti butti da una scogliera, precipiti”, come ricordano gli studenti e docenti dell’Ohio State University che lottano contro un disegno di legge che limiterebbe le discussioni sulle politiche climatiche.

   L’avanzata del negazionismo climatico fa capire l’importanza delle elezioni europee del 2024. La critica alle politiche climatiche sarà infatti al centro dei programmi, in particolare da parte di coloro che vogliono minare il riferimento rappresentato dall’Unione europea.

   È bene ricordare, ad esempio, che se le rinnovabili stanno espandendosi in maniera clamorosa nel mondo è anche grazie alle politiche assunte dall’Europa dopo la firma del Protocollo di Kyoto nel 1997.  Ed è interessante il fatto che la decisione di Bruxelles sul passaggio dal 2035 alla vendita di sole auto elettriche, sia stato rapidamente replicata dalla California e da altri sei Stati degli Usa.

   In questo contesto difficile, dovremo evidenziare con forza i vantaggi occupazionali e sociali della rivoluzione energetico-climatica, ponendoci anche i problemi connessi con la transizione, come per le industrie della componentistica dell’auto.

   Ma fortunatamente l’accelerazione in atto delle tecnologie green difficilmente si fermerà, come ci ricorda la notizia che probabilmente la Cina riuscirà a raggiungere con dieci anni di anticipo i suoi obiettivi di decarbonizzazione.

   E la stessa Iea ha alzato la stima per il 2023 a 440 GW rinnovabili, cioè il doppio di quanto installato globalmente nel 2019. (Gianni Silvestrini)

(Articolo tratto dall’editoriale della rivista bimestrale QualEnergia n.2/2023) 

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(Nell’immagine: CLIMATE CHANGE, la mappa con i sedici punti di non ritorno, da “Il Sole 24ore” del 3/1/2023) — (da https://www.infodata.ilsole24ore.com/ del 3/1/2023) Uno studio pubblicato in questi giorni sulla rivista scientifica Science ha identificato 16 punti di non ritorno che potranno verificarsi con un innalzamento delle temperature sopra 1,5°C. I Climate tipping points sono punti di svolta nella crisi climatica, superati i quali le conseguenze sono irreversibili, con un pericoloso impatto sull’umanità. Lo studio è basato sulla revisione di oltre 200 articoli scientifici a partire dal 2008 ed è coordinato da David Armstrong McKay dell’Università britannica di Exeter. La tesi è che anche rispettando l’accordo di Parigi che chiedeva di limitare il riscaldamento globale sotto i 2°C si rischia di assistere al superamento di numerosi punti di non ritorno.
Nella mappa in alto è indicata la posizioni dei punti di non ritorno nella criosfera (blu), nella biosfera (verde) e nell’oceano/atmosfera (arancione) e i livelli di riscaldamento globale ai quali verranno probabilmente attivati.  Il colore degli indicatori esprime la stima della soglia centrale di riscaldamento globale inferiore a 2°C, ovvero all’interno dell’intervallo dell’accordo di Parigi (arancione chiaro, cerchi); tra 2 e 4°C, cioè accessibile con le attuali policy (arancione, rombi); e 4°C e oltre (rosso, triangoli).

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(VANESSA NAKATE, attivista per il clima) — Vanessa Nakate (nella FOTO), la nota attivista africana, fondatrice del movimento Rise Up, che forse ricorderete assieme a Greta Thunberg in uno dei tanti inconcludenti vertici globali sul clima. Ha scritto Vanessa: “(…) Dobbiamo cambiare le nostre economie in modo da cominciare ad anteporre le persone al profitto e abbiamo bisogno che i ricchi, gli inquinatori, paghino la loro parte per i danni che la crisi climatica sta scatenando sulle comunità povere in tutto il mondo. È ormai giunto il momento di creare un mondo più giusto e equo per tutti”. (Silvia Zamboni, 6/4/2023, da “Il Fatto Quotidiano”)

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LA CRISI CLIMATICA AFFAMA IL MONDO

da https://greenreport.it/, 19/9/2022

– Oxfam: nei 10 Paesi più colpiti dal cambiamento climatico sono raddoppiati gli affamati –

   Secondo il rapporto “Hunger in a heating World – How the climate crisis is fuelling hunger in an already hungry world” pubblicato da OXFAM, «In soli 6 anni il numero di persone colpite dalla fame è più che raddoppiato nei 10 Paesi che hanno registrato il maggior numero di eventi climatici estremi: erano 21 milioni nel 2016, oggi sono 48 milioni, 18 milioni dei quali realmente sull’orlo della carestia.   Siccità, desertificazione, cicloni e alluvioni sempre più frequenti stanno mettendo a rischio milioni di vite nei contesti più vulnerabili del pianeta. Per far fronte alle crisi umanitarie che ne conseguono servono 49 miliardi di dollariossia la cifra richiesta dalle Nazioni Unite nell’appello per il 2022: un ammontare equivalente ai profitti realizzati in meno di 18 giorni dalle grandi aziende energetiche dei combustibili fossili».

   I 10 Paesi al mondo più colpiti da eventi climatici estremi negli ultimi 20 anni sono Somalia, Haiti, Gibuti, Kenya, Niger, Afghanistan, Guatemala, Madagascar, Burkina Faso e Zimbabwe.

   Stati che, pur pagando il prezzo più alto del cambiamento climatico, messi assieme sono responsabili di appena lo 0,13% delle emissioni globali di CO2 in atmosfera, mentre i Paesi del G20 ne producono il 76,60%. Con i Paesi G7 che impattano da soli per quasi la metà delle emissioni globali a fronte di una capacità di risposta e adattamento nemmeno lontanamente paragonabile a quella di questi 10 paesi.

   Gli effetti più drammatici della crisi climatica si riscontrano in questo momento nei seguenti stati:

Somalia – al 172° posto su 182 paesi per la capacità di risposta alla crisi climatica – con la peggiore siccità mai registrata, una carestia già in corso nei distretti di Baidoa e Burhakaba e 1 milione di persone costrette a lasciare le proprie case per sopravvivere;

Kenya, dove la siccità ha ucciso quasi 2,5 milioni di capi di bestiame e lasciato 2,4 milioni di persone senza cibo, tra cui centinaia di migliaia di bambini;

Niger, con 2,6 milioni di persone che soffrono di fame acuta (+767% rispetto al 2016), mentre la produzione di cereali è crollata di quasi il 40% per l’impatto di alluvioni, siccità e del conflitto che attraversa il Paese;

Burkina Faso dove i livelli di fame sono cresciuti del 1350% dal 2016, con oltre 3,4 milioni di persone senza cibo a causa del conflitto in corso nel paese e del processo di desertificazione che sta bruciando campi e pascoli;

Guatemala, dove una gravissima siccità ha contribuito alla perdita di quasi l’80% del raccolto di mais e devastato le piantagioni di caffè. Mariana López, madre, che vive a Naranjo, nel Corridoio Secco del Guatemala, ha detto a Oxfam: «Non abbiamo mangiato per otto giorni e ho dovuto vendere la terra dove non cresceva più niente per la siccità».

   Il rapporto è stato pubblicato in vista dell’Assemblea generale dell’Onu e della 27esima Conferenza delle parti Unfccc e Francesco Petrelli, policy advisor per la sicurezza alimentare di Oxfam Italia, fa notare che «La crisi climatica non è più un’emergenza pronta ad esplodere, ma una realtà di portata epocale che si sta consumando sotto i nostri occhi. Il numero di eventi climatici sempre più estremi e imprevedibili è cresciuto di ben 5 volte nell’ultimo mezzo secolo. Per milioni di persone già colpite dagli effetti della guerra in Ucraina e dalle crescenti disuguaglianze, è impossibile fronteggiare i disastri climatici. Basti pensare che tra il 2010 e il 2019 i danni materiali diretti e indiretti dovuti al clima sono stati in media di 3,43 milioni di dollari al giorno. Siamo di fronte ad una tempesta perfetta che produce una crescita esponenziale della fame globale, per la quale devono essere adottate misure urgenti, radicali e non più rinviabili. Di questo passo tra il 2030 e il 2050 fino a 720 milioni di persone – ovvero 1 abitante su 11 del pianeta – rischia di ritrovarsi in condizioni di povertà estrema a causa della crisi climatica».

   Il rapporto ricorda che «L’Africa produce il 2% delle emissioni, ma entro il 2030 118 milioni di persone saranno colpite dalla crisi climatica. Una catastrofe destinata a peggiorare se le temperature medie globali supereranno i 2° C di aumento (rispetto al periodo pre-industriale), con le produzioni di cereali come miglio e sorgo che potrebbero calare fino al 25% in paesi con Kenya e Burkina Faso. Nel complessol’Africa produce appena il 2% alle emissioni globali di CO2, ma gli effetti del cambiamento climatico entro il 2030 potrebbero costringere fino a 118 milioni di persone a fare i conti con siccità, inondazioni e temperature sempre più estreme».

   Petrelli denuncia che «La fame, alimentata dal cambiamento climatico, è la riprova delle profonde disuguaglianze che attraversano il pianeta. I Paesi che hanno minori responsabilità per la crisi climatica e quasi nessuno strumento per affrontarla, ne pagano il prezzo più alto. Nell’indice globale che misura quanto i diversi paesi siano in grado di adattarsi al cambiamento climatico, quelli più colpiti sono agli ultimi posti. Paradossalmente, i leader delle nazioni più ricche, come quelle del G20 – che controllano l’80% dell’economia mondiale – continuano a difendere gli interessi delle aziende più ricche e inquinanti, spesso tra i primi sostenitori delle loro campagne politiche ed elettorali. Si stima che le aziende che producono energia dai combustibili fossili abbiano realizzato in media 2,8 miliardi di dollari al giorno di profitti negli ultimi 50 anni. È evidente quindi quanto sia urgente un cambio di paradigma per far fronte a questa immane crisi».

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   Petrelli conclude: «È necessario inoltre stanziare immediatamente le risorse richieste dalle Nazioni Unite per fronteggiare l’emergenza. Farlo è un dovere etico, non è carità. È un’assunzione di responsabilità che riguarda il nostro comune futuro. È poi evidente, che non possiamo risolvere la crisi climatica senza correggere le disuguaglianze presenti nel sistema alimentare e in quello energetico. La strada da seguire è far pagare chi inquina di più: un’addizionale di appena l’1% sui profitti annui delle multinazionali che producono energia da combustibili fossili porterebbe circa 10 miliardi di dollari di entrate per gli stati, sufficienti a colmare gli ammanchi finanziari per far fronte all’aumento della fame globale». (da https://greenreport.it/, 19/9/2022)

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(Mappa da https://www.foodandtec.com/) — Quanto sono seri i Paesi rispetto ai loro impegni climatici? Pochissimo, anzi per nulla: anche quest’anno nessuno Stato tra quelli considerati dal report Climate Change Performance Index 2023 raggiunge le performance necessarie a contrastare la crisi climatica.
L’Italia traccheggia sempre al centro della classifica al 29° posto.
Danimarca, Svezia, Cile, Marocco e India sono in testa.
Iran, Arabia Saudita e Kazakistan ultimi.
USA e Cina sono i principali responsabili delle emissioni globali, e si piazzano nelle posizioni di retroguardia.
(da https://www.foodandtec.com/ 21/11/2022)

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LA MALATTIA DEL NEGAZIONISMO

di Mario Tozzi, da “La Stampa” del 12/6/2023

– Dal fumo ai pesticidi e ora il clima: non-verità scientifiche alternative difendono il capitalismo dal 1970 ma la crisi è reale: basta ipocrisia – La loro religione è quella del mercato così nasce il livore contro gli ambientalisti – Si vuole far passare l’idea che la scienza, non sia unanime ma lo è: la causa è l’uomo –

   E’ almeno dagli anni Novanta del XX secolo che il dibattito sul cambiamento climatico all’interno della comunità degli scienziati specialisti (unico terreno di dibattito possibile nella scienza) si è concluso con la dichiarazione che l’attuale riscaldamento globale è anomalo e accelerato rispetto al passato e dipende, con una confidenza e un consenso oltre il 90%, dalle attività produttive dei sapiens. Perché allora sta affiorando un rigurgito non di dubbi (lo scetticismo è il sale della ricerca scientifica), ma di negazionismo vero e proprio che arriva a mettere in discussione il metodo stesso, riportando tutto al rango di semplice opinione? Da dove nasce? Dove vuole arrivare?

   Tutto nasce negli Usa alla fine della Guerra Fredda, quando alcuni scienziati precedentemente occupati nel programma atomico nazionale, di grande personalità e fieramente anticomunisti, si trovano progressivamente senza una occupazione specifica e con un nemico che andava piano piano scolorendo. C’era bisogno di conquistare nuove posizioni remunerate di rilievo, che trovavano nelle consulenze federali, e di un nuovo nemico, che identificavano nella salute dei sapiens e nell’ambiente. I nomi, tra i quali spiccano Frederick Seitz e Fred Singer, sono sempre quelli: li ritroviamo in tutte le storie che seguono.

   Il casus belli sono le ricerche scientifiche che, fino dagli anni Cinquanta, mettono in luce la correlazione diretta fra il cancro ai polmoni e fumo di sigaretta. E, dagli anni Settanta, anche con il fumo passivo, svincolando la malattia dalla decisione libera dell’individuo di fumare oppure no. A quel punto iniziano le battaglie legali contro le major del tabacco, che assoldano quegli scienziati per un lavoro di controinformazione pseudoscientifico avvalorato dalla loro precedente autorevolezza in altri campi. E i mezzi di comunicazione decidono colpevolmente di prestare fede ai dubbi mercanteggiati da questa lobby, trincerandosi dietro il principio di equilibrio informativo, principio che in scienza ha ragione di esistere quanto la favola di Cappuccetto Rosso: non si danno la stessa importanza e lo stesso peso informativo alla scienza certificata e a quella prezzolata e non verificata. In questo modo si intimidiscono gli organi di controllo e le vittime, che riescono a organizzarsi solo a partire dagli anni Novanta nelle prime class actions di successo: si sono guadagnati almeno 40 di profitti.

   Lo stesso accade per le piogge acide, un problema ambientale che aveva portato a bruciare letteralmente le foreste nordamericane e scandinave negli anni Settanta. In questo caso la ricerca scientifica aveva identificato nello zolfo il chiaro e solo responsabile, ma desolforare gli impianti di produzione di energia statunitensi era oneroso e avrebbe comportato una riduzione dei profitti, ragione per cui i negazionisti si sono messi all’opera per insinuare il dubbio che non fosse quello il meccanismo, tirando in ballo fenomeni particolari e, in sostanza, facendo perdere tempo alla regolamentazione del settore.

   Sul Ddt le cose sono andate peggio: ancora oggi ci sono “scienziati” che, al di fuori del campo delle riviste certificate, criticano il bando del Ddt, perché così si sarebbero condannati milioni di bambini per le malattie nei paesi poveri. Colpevoli i democratici e i radicali statunitensi, influenzati surrettiziamente dagli ambientalisti fomentati dal libro di Rachel Carson Primavera Silenziosa (1962). Nel libro si mettevano in luce i danni micidiali che i pesticidi stavano recando agli uccelli e agli altri viventi, facendo emergere che se qualcuno fosse costretto a scegliere su chi far rimanere in vita sul pianeta fra i sapiens e le api, la scelta sarebbe immediata e irrevocabile: gli ecosistemi possono fare a meno dei sapiens, ma non degli insetti. Si è poi scoperto che le zanzare si “adattano” al Ddt e che questo risultava inefficace già nelle seconde ondate di malaria susseguenti alle prime irrorazioni.

   Nel 1995 Rowland, Crutzen e Molina vincono il Nobel per la chimica per aver scoperto il meccanismo di impoverimento dell’ozono che lacerava l’atmosfera causando il cosiddetto buco dell’ozono. E attribuendone la responsabilità al cloro contenuto nei Cfc, utilizzati come propellenti nelle bombolette spray e come additivi nei refrigeratori. Per anni i negazionisti avevano tentato di impedire quel rapporto causa—effetto, per proteggere gli interessi delle corporation che fabbricavano Cfc, obbligate poi a cessare la produzione e al bando dei Cfc solo dopo anni di estenuanti trattative a Montreal (1987). Anche in questo caso la scienza certificata aveva correttamente previsto tutto, compreso il fatto che con il bando gli strappi si sarebbero ricuciti, cosa che si completerà fra il 2040 e il 2066.

   E oggi tocca al cambiamento climatico, in una guerra senza quartiere che vede protagonisti anche organi senza alcuna autorevolezza scientifica, in cui appaiono pochissimi scienziati, quasi sempre non specialisti, e molti signor nessuno (nella diramazione italiana perfino un sommelier!), approfittando dell’analfabetismo funzionale del 47% degli italiani e dell’idea, tutta giornalistica, che sulla scienza si deve discutere anche fuori dai circoli deputati. Oppure reclutando scienziati pure autorevoli, ma non specialisti, che danno la colpa del cambiamento al sole, mentre i dati Nasa dicono esattamente il contrario, oppure sostengono che è sempre stato così e l’uomo non c’entra nulla. Posizioni però sostenute non sulle riviste scientifiche peer reviewed, dove avrebbero un senso anche se scettiche, ma nelle interviste a giornalisti compiacenti che si sono occupati fino al giorno prima di cronaca nera o di costume.

   Creando così una confusione generale che è il vero obbiettivo: i negazionisti non vogliono proporre una verità scientifica alternativa, che non esiste in nessun dato, ma dimostrare che il dibattito è ancora aperto e che la scienza non è unanime. Proprio quando sono ormai anni che il consenso su le riviste scientifiche a proposito del ruolo forzante dell’uomo nel riscaldamento globale è superiore al 97%. L’obiettivo è impedire ogni forma di regolamentazione del libero mercato, vista come figlia e madre di quel comunismo che i negazionisti ancestrali volevano combattere. Ideologia pura, in base alla quale si bollano paradossalmente come ideologici gli ambientalisti “verdi fuori e rossi dentro” (espressione non a caso coniata proprio negli Usa in quegli anni ruggenti). Oggi il comunismo è scomparso, ma il nemico è diventato l’ambientalismo: per questo si alimenta un vento oscurantista che tende a ridurre tutto a opinione sulla quale è possibile discettare. E perché devo fare sacrifici o redistribuire ricchezza ai Paesi poveri, quando gli scienziati non sono nemmeno d’accordo fra loro?

   La massimizzazione dei profitti, scaricando costi sociali e ambientali, e il mercato senza regole, questa la vera religione, altro che quella di Greta o di Ultima Generazione. E non è un caso che si riscontri un vero livore contro questi ragazzi, alimentato da un’ipocrisia indecente, additando loro come nemici e alzando una cortina fumogena attorno ai veri responsabili. La crisi ambientale mette a nudo i limiti intrinseci del sistema economico capitalista che non riesce a trovare un rimedio nel libero mercato perché il capitale naturale non è infinito: se Marx avesse messo la questione ambientale nel giusto conto, le sue previsioni si sarebbero rivelate più azzeccate. Il banchetto è finito, è arrivato il conto e non serve a nulla ignorare il cameriere o additare lui come responsabile del prezzo salato. (Mario Tozzi, da “La Stampa” del 12/6/2023)

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LA CRISI CLIMATICA È UN’EMERGENZA UMANITARIA (foto da https://www.unhcr.org/)

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CAMBIAMENTO CLIMATICO E DISASTRO AMBIENTALE

di Davide Papotti, da https://www.doppiozero.com/, 1/6/2023

   La geografia è considerata di norma una disciplina che studia lo spazio, come già suggerisce la stessa etimologia della parola: “scrittura/descrizione della Terra”. Eppure, a ben pensarci, basta introdurre parole, quali quelle che stiamo leggendo ed ascoltando sempre più frequentemente nei discorsi mediatici di questi ultimi mesi, come “dinamiche territoriali”, “trasformazioni dello spazio”, “cambiamento climatico”, per comprendere come la dimensione temporale sia inevitabilmente intrecciata con l’analisi geografica.

   In un interessante volume uscito nel 2006, intitolato significativamente La geografia del tempo. Saggio di geografia culturale (Torino, Utet), il geografo Adalberto Vallega (1934-2006) esprimeva in questo modo il cuore della questione: “[…] chiederci come sia possibile cogliere il senso del tempo nel segno del luogo e, così facendo, come si possa scoprire a quali valori e a quali significati il tempo del singolo luogo conduca. In sostanza, si pone la questione del modo in cui affrontare un apparente paradosso, che consiste nel costruire una ‘geografia del tempo’, intesa come rappresentazione del tempo che connota i luoghi”.

   Le acute parole di Vallega possono essere un utile punto di partenza per svolgere qualche riflessione sulle urgenti (un altro aggettivo di natura temporale…) questioni che i tragici eventi degli ultimi mesi hanno posto con evidenza alla nostra attenzione. I fenomeni di estrema siccità, seguiti a distanza di poche settimane da inondazioni ed alluvioni, hanno provocato un cortocircuito di percezioni contrastanti: acqua in quantità insufficiente vs acqua in eccesso.

   Questa contrapposizione, evidenziata dai mass media, suggerisce implicitamente la Continua a leggere