Geofilm – “L’uomo che verrà” di Giorgio Diritti, imperdibile esempio di come possano trasformarsi (anche nell’insegnamento scolastico) Geografia e nuova organizzazione territoriale, Storia, Arte filmica e recupero nei ragazzi della Pietas per le (spesso dolorose) vicende umane

la bambina Greta Zuccheri Montanari e Alba Rohrwacher, tra le interpreti del film di Giorgio Diritti "L'uomo che verrà"

   Giorgio Diritti è al suo secondo film, o, potremmo forse meglio dire “docu-film”. Il primo, “Il vento fa il suo giro” era (è) già opera assai ragguardevole, secondo noi un piccolo capolavoro, di significativo successo (una piccola comunità montana che prima accoglie e poi ripudia duramente degli “stranieri”). Questo secondo film di Diritti, “L’uomo che verrà” ha la stessa elevatissima valenza artistica (di saper bene raccontare e attrarre l’attenzione) ma anche storica; significativa delle sofferenze e atrocità del periodo della guerra mondiale del 1939-1945. Rappresenta (con gli occhi di una bambina di otto anni: straordinaria interpretazione di Greta Zuccheri Montanari) la vicenda della strage nazista (delle stragi è da dire, più d’una, perché avvenute in più giornate) nelle colline di Monte Sole a pochi chilometri da Bologna (in particolare il maggiore dei comuni colpiti è Marzabotto, e quest’eccidio è conosciuto con questo nome…) tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944, nel quadro di un’operazione dei nazisti di rastrellamento di vaste proporzioni diretta contro una formazione partigiana.

   Imperdibile questo secondo film (ora nelle sale cinematografiche) di Giorgio Diritti (imperdibile come è stato il “il vento fa il suo giro”). E de “L’uomo che verrà” qui di seguito ve ne diamo conto con alcune osservazioni di critici cinematografici, tutte rivolte a mettere comunque in rilievo il grande spessore di quest’opera filmica. E cerchiamo di farvi memoria (storica) del tema, dello scenario in cui si svolgono le vicende raccontate, e cioè della cosiddetta “strage di Marzabotto” (oltre 800 persone uccise…): uno dei tanti orribili episodi avvenuti in quella terribile prima metà degli anni ’40 del secolo scorso.

   Ma vorremmo qui anche tentare di fare un collegamento, “utilizzando” il film di Diritti, per dire come potrebbe essere l’approccio nuovo, diverso di “fare geografia a scuola” (ma anche “fare storia”) in un momento assai critico per la materia “geografia” che la Ministra Gelmini intende (con la riforma scolastica in itinere) eliminare quasi del tutto dalle scuole italiane (riportiamo, dopo la documentazione sul film di Diritti, alcuni articoli apparsi su quotidiani sulla possibile “scomparsa della geografia” (e vi invitiamo anche a firmare l’appello che trovate nel sito www.luogoespazio.info).

   “Diciamoci la verità”: difendiamo sì la necessità che a scuola ci sia più che mai la materia “geografia”; però riteniamo che il modo come spesso viene ora proposta è un po’ obsoleto, e forse va adeguato ai tempi (e anche “superarli” questi tempi…). Cioè bisogna trovare altri modi e strumenti per “rendere più produttiva” per i giovani (che si vuol formare alla vita) la disciplina geografica in tutte le sue formulazioni: dalla cartografia alla conoscenza del territorio, alla geopolitica…; dall’analisi delle trasformazioni dei luoghi (luoghi dati da “natura, artificio umano e accadimenti”) alle proposte possibili di come organizzare i territori in modo nuovo e coerente, compatibile con le persone e l’ambiente e l’economia (sarebbe importante che le nuove generazioni si confrontassero già a scuola con proposte di cambiamento virtuoso, dove ai più tecnici e scientifici strumenti urbanistici, informatici etc. si connettesse un’acquisizione ragionata, di “senso”, di cosa si vuol ottenere nel riorganizzare un determinato territorio).

   Ad esempio la “lettura del paesaggio e degli accadimenti storici” (spesso discipline come geografia e storia, e antropologia, sono assai connesse) porta a trovare strumenti nuovi di “interpretazione geografica”, attiva, dinamica, innovativa, degli studenti. La possibilità di vedere e, magari ancor di più, costruire docu-film, cioè documentari dove all’aspetto reale, scientifico, delle testimonianze dirette, si possano volutamente ed esplicitamente aggiungere elementi di “finzione filmica” per rendere più interessante la ricerca e la proposta geografica, nella compenetrazione di altre arti e scienze (come la psicologia e le vicende quotidiane che coinvolgono tutti gli “umani”); ebbene tutto questo renderebbe l’esperienza scolastica dell’acquisizione geografica dello studente, come qualcosa di assai coinvolgente, con protagonista lo studente stesso che esercita un’opera di “autoformazione”.

   Oltre ai “docu-film”, e all’opera incessante di “proposta di nuovi modi di gestire il territorio” che dovrebbe caratterizzare l’insegnamento geografico, noi di “Geograficamente” abbiamo potuto sperimentare l’importanza ed il successo (per gli scolari, gli studenti) di operazioni di “cartografia attiva”, cioè luoghi delle propria vita che sono i ragazzi a mappare. Ci riferiamo alla proposta (che stiamo facendo alle scuole) di corsi geografici di mappatura di luoghi di vita degli studenti stessi, chiedendosi (loro) quali sono gli elementi significativi per il loro ambiente e la vita delle persone della loro comunità nella quotidianità. Pertanto, facendo tre operazioni conseguenti: 1- individuando prima cosa è importante inserire nella cartografia che si vuol auto-costruire (strade, monumenti, chiese, l’ufficio postale, il parco giochi, la piazza, la fermata dell’autobus, la scuola, la sala di quartiere, il bar, il presidio sanitario, gli alberi significativi da tutelare etc…) per poi  2- andarli scientificamente a “mappare” con l’uso di strumenti di ricognizione satellitare come i GPS (le più moderne tecnologie), e infine 3- con appositi programmi informatici inserire i dati al computer, con la creazione “propria e vissuta” della cartografia del luogo (da stampare, da rendere disponibile a tutti in internet…). Ebbene, docu-film, mappature del territorio, letture e analisi geo-politiche critiche, le proposte geografiche da fare… sono tutte necessità di un nuovo approccio scolastico alla geografia, come materia di proposta ad un cambiamento virtuoso e innovativo del mondo sia in “micro” che in “macro”.

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L’UOMO CHE VERRÀ – L’eccidio nazista di Marzabotto nell’ascetico ma duro film di Diritti

L’ORRORE  DELLA  STORIA  NEGLI  OCCHI  DI  UNA  BAMBINA

da “il Gazzettino” del 29/1/2010, di Roberto Pugliese
  
Se ricordare è un dovere, a volte raccontare può aiutare a compierlo meglio. E per raccontare ancora una volta l’abominio nazista, Giorgio Diritti sceglie di “inventare” una storia fortemente simbolica intorno a fatti spaventosamente concreti, concentrandosi – come già nel suo stupefacente esordio “Il vento fa il suo giro” – su una piccola comunità rurale, chiusa e illusa di poter sfuggire alle folate sanguinarie dell’occupazione e della lotta di Liberazione.

   E così nove mesi prima dell’eccidio di Marzabotto, fra i boschi dell’Appennino emiliano una bambina, Martina (segnarsi il nome e il volto dell’incredibilmente intensa Greta Zuccheri Montanari), muta da quando le è morto un fratellino fra le braccia, assiste alla nuova gravidanza della mamma e, senza comprenderlo, al lento ma inesorabile precipitare della situazione: con i partigiani che colpiscono e si nascondono, gli uomini in fuga e i tedeschi, descritti nella loro stolida banalità assassina, che sterminano donne vecchi e bambini.

   Diritti, che è un cineasta olmiano, mutua dal maestro bergamasco la visione incantatoria e ascetica del paesaggio, il senso qui concreto e vivo del dialetto strettissimo e sottotitolato, la predilezione per silenzi, ellissi e fuori campo che acquisiscono potenza drammaturgica e rifiutano ogni naturalismo soprattutto nei tremendi momenti finali dell’eccidio.

   È proprio lo stile, durissimo e sobrio insieme, a fare la differenza; e anche se non tutto è perfetto (in mezzo a tanti volti comuni stonano Maya Sansa e Alba Rohrwacher) e c’è qualche scivolata (la sanguinosa vendetta e la brutta fine della stessa Rohrwacher), lo sguardo puro ma consapevole, determinato e “materno” di Martina sull’orrore vale più di troppe parole di circostanza.

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LA TRAMA

Inverno, 1943. Martina, unica figlia di una povera famiglia di contadini, ha 8 anni e vive alle pendici di Monte Sole. Anni prima ha perso un fratellino di pochi giorni e da allora ha smesso di parlare. La mamma rimane nuovamente incinta e Martina vive nell’attesa del bambino che nascerà, mentre la guerra man mano si avvicina e la vita diventa sempre più difficile, stretti fra le brigate partigiane del comandante Lupo e l’avanzare dei nazisti. Nella notte tra il 28 e il 29 settembre 1944 il bambino viene finalmente alla luce. Quasi contemporaneamente le SS scatenano nella zona un rastrellamento senza precedenti, che passerà alla storia come la strage di Marzabotto.

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STRAGE DI MARZABOTTO

Da Wikipedia, l’enciclopedia libera.

   L’eccidio di Monte Sole (più noto come strage di Marzabotto, dal maggiore dei comuni colpiti) fu un insieme di stragi compiute dalle truppe naziste in Italia tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944, nel territorio di Marzabotto e nelle colline di Monte Sole in provincia di Bologna, nel quadro di un’operazione di rastrellamento di vaste proporzioni diretta contro la formazione partigiana Stella Rossa.

   La strage di Marzabotto è uno dei più gravi crimini di guerra contro la popolazione civile perpetrati dalle forze armate tedesche in Europa occidentale durante la Seconda guerra mondiale.

Gli avvenimenti

   Dopo il Massacro di Sant’Anna di Stazzema commesso il 12 agosto 1944, gli eccidi nazifascisti contro i civili sembravano essersi momentaneamente fermati. Ma il feldmaresciallo Albert Kesselring aveva scoperto che a Marzabotto agiva con successo la brigata Stella Rossa, e voleva dare un duro colpo a questa organizzazione e ai civili che la appoggiavano. Già in precedenza Marzabotto aveva subito rappresaglie, ma mai così gravi come quella dell’autunno 1944.

   Capo dell’operazione fu nominato il maggiore Walter Reder, comandante del 16° battaglione corazzato ricognitori della 16. SS-Panzergrenadier-Division Reichsführer SS, sospettato a suo tempo di essere uno tra gli assassini del cancelliere austriaco Engelbert Dollfuss.

   La mattina del 29 settembre, prima di muovere all’attacco dei partigiani, quattro reparti delle truppe naziste, comprendenti sia SS che soldati della Wermacht, accerchiarono e rastrellarono una vasta area di territorio compresa tra le valli del Setta e del Reno, utilizzando anche armamenti pesanti. «Quindi – ricorda lo scrittore bolognese Federico Zardi – dalle frazioni di Panico, di Vado, di Quercia, di Grizzana, di Pioppe di Salvaro e della periferia del capoluogo le truppe si mossero all’assalto delle abitazioni, delle cascine, delle scuole», e fecero terra bruciata di tutto e di tutti.

  

resti della chiesa di Casaglia di Monte Sole

Nella frazione di Casaglia di Monte Sole, la popolazione atterrita si rifugiò nella chiesa di Santa Maria Assunta, raccogliendosi in preghiera. Irruppero i tedeschi, uccidendo con una raffica di mitragliatrice il sacerdote, don Ubaldo Marchioni, e tre anziani. Le altre persone, raccolte nel cimitero, furono mitragliate: 195 vittime, di 28 famiglie diverse tra le quali 50 bambini.

   Fu l’inizio della strage. Ogni località, ogni frazione, ogni casolare fu setacciato dai soldati nazisti e non fu risparmiato nessuno. La violenza dell’eccidio fu inusitata: alla fine dell’inverno fu ritrovato sotto la neve il corpo decapitato del parroco Giovanni Fornasini.

   Fra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944, dopo sei giorni di violenze, il bilancio delle vittime civili si presentava spaventoso: oltre 800 morti. Le voci che immediatamente cominciarono a circolare relative all’eccidio furono negate dalle autorità fasciste della zona e dalla stampa locale (Il Resto del Carlino), indicandole come diffamatorie; furono minimizzate anche presso il Duce che chiedeva conferme (e che protestò per l’inaudita crudeltà tedesca); solo dopo la Liberazione lentamente cominciò a delinearsi l’entità del massacro.

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L’eccidio di Monte Sole visto attraverso una collettività di sguardi e una prospettiva di speranza (di Edoardo Becattini, da www.mymovies )

   Alle pendici di Monte Sole, sui colli appenninici vicini a Bologna, la comunità agraria locale vede i propri territori occupati dalle truppe naziste e molti giovani decidono di organizzarsi in una brigata partigiana. Per una delle più giovani abitanti del luogo, la piccola Martina, tutte quelle continue fughe dai bombardamenti e quegli scontri a fuoco sulle vallate hanno poca importanza. Da quando ha visto morire il fratello neonato fra le sue braccia, Martina ha smesso di parlare e vive unicamente nell’attesa che arrivi un nuovo fratellino. Il concepimento avviene in una mattina di dicembre del 1943, esattamente nove mesi prima che le SS diano inizio al rastrellamento di tutti gli abitanti della zona.
   L’eccidio di Marzabotto è uno di quegli episodi che premono sulla grandezza della Storia per stringerla dentro alla dimensione del dolore del singolo. Per raccontare quella strage degli ultimi giorni del nazifascismo nella quale vennero uccisi circa 770 paesani radunati nelle case, nei cimiteri e sui sagrati delle chiese, Giorgio Diritti si affida a un proposito simile a quello del suo precedente Il vento fa il suo giro: partire dalla lingua del dialetto per raccontare una comunità e dal linguaggio del cinema per costruire un messaggio sull’identità culturale.

   Rispetto al lungometraggio d’esordio, L’uomo che verrà si confronta direttamente con la memoria storica e tende a ricostruire la storia del massacro in modo strategico ma senza risultare affettato, puntando sul lato emozionale ma mai ricattatorio della messa in scena. Non più il punto di vista di uno straniero che tenta di confondersi e integrarsi con quello di una comunità ostile, ma quello di un piccolo membro di una collettività, Martina, che si congiunge e si scambia con quello di tutte le vittime della strage.

   Per rendere questa idea, Diritti riscopre la fluidità delle immagini e, lontano dal facile realismo delle immagini sgranate girate con macchina a mano, costruisce scene a volte statiche e a volte in movimento, inquadrature fisse e piani sequenza, ma sempre modulati in funzione dei movimenti e delle emozioni della comunità rurale. La funzione patemica si concede un solo, brevissimo ralenti durante la scena dell’esecuzione, e delega il suo lavoro a delle semi-soggettive a lunga e media distanza dall’evento.

   La “visione con” di queste inquadrature diviene “con-divisione” di punti di vista e di emozioni sulla tragedia: dietro a quelle nuche che affiorano dai margini delle inquadrature fino ad occludere la visibilità degli scontri, c’è il progetto di una personificazione dello sguardo nella strage, l’idea che dietro ad ognuna di quelle morti ingiustificabili ci sia sempre un corpo e un punto di vista. Sguardi nella tragedia che si fanno sguardi sulla tragedia, per il modo in cui questo visibile parziale richiede il nostro coinvolgimento ottico ed emotivo.

   La distanza che fin dall’inizio pone l’antico dialetto bolognese si annulla così grazie alle scelte di messe in scena di Diritti, che elabora un modo di vedere la guerra dove non c’è bisogno di suddivisioni manichee o di una crudeltà pittoresca per comprendere da che parte stare. Per capire che i “partigiani” di oggi sono quelli che sanno collocare il proprio sguardo sul passato in prospettiva di un futuro pacifico di condivisione che ci riguarda tutti.

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L’uomo che verrà

Inverno, 1943. Martina ha otto anni ed è l’unica figlia d’una famiglia contadina che vive alle pendici del monte Sole, non distante da Bologna. Anni addietro, ella ha perso un fratellino di pochi giorni e da quel momento non è più riuscita a parlare. La mamma Lena è, ora, rimasta nuovamente incinta e Martina attende con ovvia ansia il fratellino. Frattanto, dopo l’armistizio firmato dal re e dal generale Badoglio con l’esercito alleato, la vita è sempre più difficile per la popolazione locale, stretta fra le brigate partigiane del comandante Lupo e l’avanzare delle truppe naziste. Nella notte tra il 28 e il 29 settembre 1944, mentre la creatura viene infine alla luce, gli eventi della Storia assumono toni drammatici: è quasi in contemporanea, infatti, che le SS mettono in atto nella zona un rastrellamento senza precedenti, che prelude ad un’orrenda strage… Al secondo lungometraggio dopo “Il vento fa il suo giro”, divenuto due anni fa un piccolo caso cinematografico (restò nelle sale di diverse città per alcuni mesi, quasi soltanto per merito del passaparola), Giorgio Diritti – bolognese, classe 1959, già assistente alla regia di Pupi Avati – conferma il suo talento non comune, firmando ancora una pellicola che ha al proprio centro il tema della memoria storica. Attenzione, però: il film, che pure esprime senza infingimenti il proprio sdegno per la strage di Marzabotto (in realtà, si trattò di vari massacri perpetrati dai nazisti tra il 29 settembre ed il 5 ottobre 1944, in provincia di Bologna, nel corso dei quali furono trucidate circa 780 persone), sceglie tuttavia di soffermarsi sull’esistenza quotidiana della povera gente del luogo. Parlato nel dialetto emiliano dell’epoca (preferito a quello bolognese, cui in un primo momento s’era pensato di fare ricorso), “L’uomo che verrà” – il titolo allude al bambino che sta per nascere – è una sommessa elegia per le vittime civili della guerra. Con uno sguardo più vicino a quello di Olmi che non dei capofila dell’ impegno nostrano, Diritti racconta con vigore e pudore, senza cedere a tentazioni revisioniste. Assai convincente è la scelta degli interpreti, professionisti e non felicemente frammisti (ma Alba Rohrwacher, a suo agio in ogni ruolo, merita particolare plauso); i contributi tecnici, a partir dalla suggestiva fotografia di Roberto Cimatti, sono tutti all’altezza del compito.
Francesco Troiano (Rai News)

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L’ALTRO  FILM  (IL  PRIMO)  DI  GIORGIO  DIRITTI  (“IL  VENTO  FA  IL  SUO  GIRO”)

Il vento fa il suo giro è un film del 2005, diretto dal regista Giorgio Diritti. Si tratta di un film in lingua italiana, occitana (il titolo in occitano è E l’aura fai son vir) e francese; queste ultime sono sottotitolate in italiano. La vicenda è ambientata nella Valle Maira, una delle valli occitane della Provincia di Cuneo, e precisamente nel piccolo paese di Ussolo, sito nel Comune di Prazzo. Nel film non viene citato il nome reale del paese; si fa invece riferimento a Chersogno, nome di fantasia, probabilmente ispirato dal vicino Monte Chersogno. Gli attori (eccetto Thierry Toscan e Alessandra Agosti) sono tutti non professionisti, abitanti del luogo che hanno accettato di partecipare al film.
Dopo essere stato presentato con successo in molti festival internazionali, a partire dall’anteprima al London Film Festival fino alla Festa del Cinema di Roma 2006, ha infine avuto una distribuzione limitata nelle sale italiane nel maggio 2007.

Trama

Philippe, ex professore dedicatosi alla pastorizia sui Pirenei francesi, è alla ricerca di una nuova sistemazione per la sua famiglia, dato che nel luogo in cui vive è in costruzione una centrale nucleare. Dopo aver inutilmente cercato casa in Svizzera, nel fare ritorno in Francia si ritrova nella Valle Maira, nel paesino di Chersogno, ormai spopolato e abitato quasi unicamente da anziani, visto che il resto degli abitanti raggiunge il piccolo borgo montano soltanto per trascorrevi le vacanze nei mesi estivi. Si tratta di una comunità molto chiusa, ultimo retaggio della lingua e cultura occitana in Italia. Dopo qualche dubbio iniziale, l’amministrazione comunale si adopera per trovare a Philippe una casa in affitto e gli abitanti si mettono al lavoro per restaurarla. Inizialmente il paese sembra lieto di accogliere la giovane famiglia, composta, oltreché da Philippe, dalla moglie e tre figli. Ben presto però nascono le prime incomprensioni, causate dalle abitudini dei nuovi arrivati, non sempre rispettose delle tradizioni locali e dei diritti di proprietà ed in particolare dalla gelosia di un’allevatrice di mucche che non esiterà a mentire per porre in difficoltà i nuovi arrivati. In particolare, le capre di Philippe si avventurano spesso nei terreni ormai abbandonati dai vecchi contadini, suscitando la rabbia dei proprietari. Così, col passare del tempo, la nuova famiglia diviene sgradita alla maggioranza degli abitanti, i quali dall’iniziale gentilezza passano alla manifesta insofferenza, che si esplicita in veri e propri atti di boicottaggio verso l’attività del pastore.

   Il vento fa il suo giro (E l’aura fai son vir in occitano), trae origine dal detto popolare che vede il vento come origine di tutte le cose, come movimento circolare in cui ogni cosa ha inizio e fine. Questa immagine è rappresentata nel film anche attraverso la figura dello scemo del villaggio, che corre per i prati con le braccia allargate simulando il gesto del volo.

Al film ha collaborato il gruppo folk rock dei Lou Dalfin; una scena del film è ambientata durante un loro concerto.

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IL VENTO FA IL SUO GIRO: Un film genuino e privo di retorica che possiede la forza di un trattato antropologico

Quando si incontrano sul proprio cammino pellicole simili, vien da gridare che il cinema italiano non solo non è morto, ma si ha voglia di abbassare la testa e volgere lo sguardo altrove, vergognandosi persino di averlo pensato. Girato interamente nelle valli occitane del Piemonte, un ex professore decide di trasferirsi con tutta la sua famiglia – una moglie e tre figli – in un paesino di poche anime, sulle montagne, per poter vivere secondo natura. Nella diffidenza generale, Philippe e sua moglie vivono di pastorizia, cercando di raggiungere quel difficile equilibrio con le cose del mondo e con gli anziani abitanti del posto.
Il film di Giorgio Diritti vale almeno quattro stelle. Una per il coraggio, due per le difficoltà della distribuzione (il film fa la spola fra una sala e l’altra di Italia, dove il mercato non sembra accorgersene, mentre all’estero ha fatto incetta di premi e riconoscimenti), la terza per la prova corale di tutti gli attori, bravissimi e non professionisti (eccezion fatta per Thierry Toscan e Alessandra Agosti), la quarta per risarcirlo moralmente di tutto ciò che ha subito e per tutto ciò che subirà, nella cecità dei nostri critici e dei nostri speculatori culturali. “E l’aura fai son vir” – questo il titolo occitano del film – si riferisce al detto popolare che vuole il vento una metafora di tutte le cose, un movimento circolare in cui tutto torna, come rappresentato nel film dalla figura di uno scemo del villaggio che corre nei prati simulando il gesto del volo. Questa pellicola, senza scomodare miti e profeti, ha la forza di un trattato antropologico, ma senza perdersi nella retorica dei buoni sentimenti, sottolineando piuttosto come la vita si componga di sensazioni contrastanti e sgradevoli, in un cinismo che contagia, ma rende liberi da pregiudizi e ipocrisie. Tre aggettivi per descriverlo? Genuino, inaspettato, meraviglioso. Come le anime salve che descrive, uomini in cerca di un senso che l’esistenza stessa allontana ogni giorno di più.

(di Pierpaolo Simone, da http://www.mymovies.it/ )

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IN MERITO ALLA SCOMPARSA DELLA GEOGRAFIA DALLE SCUOLE (NELLA PROPOSTA DI RIFORMA SCOLASTICA DELLA MINISTRA GELMINI) RIPORTIAMO QUI ALCUNI ARTICOLI (E UNA “LETTERA APERTA” AL MINISTRO) APPARSI SUI GIORNALI IN QUESTI GIORNI:

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LETTERA APERTA di Calogero Muscarà (insigne geografo, professore universitario e studioso dei contesti geografici; ha scritto numerosi libri e altre pubblicazioni su argomenti geografici)

CARO  MINISTRO,  SALVI  LA  GEOGRAFIA

da “il Gazzettino” del 27 Gennaio 2010

Gentile Ministro Gelmini, 

   sono un professore di geografia che ha insegnato nelle Università di Ca’Foscari a Venezia, di Padova, di Bergamo e alla Sapienza di Roma a partire dall’ormai lontano 1961.

    Come scrivono i giornali, il Consiglio dei Ministri dovrebbe approvare tra breve la riforma della Scuola media superiore a partire da un progetto che cancella la geografia da tutti gli ordini di scuole, licei, istituti tecnici e istituti professionali. Stop. La geografia non esiste più come disciplina da insegnare dopo la Scuola media inferiore. Noi geografi non manchiamo certo di responsabilità perché, impegnati negli ultimi anni in altre direzioni di studio, abbiamo riservato poca importanza alla funzione, essenziale a questo proposito, di contribuire alla definizione della identità della società italiana e delle identità delle parti (non solo le Regioni) in cui essa si articola.
      Altri, su altri giornali, hanno messo in luce perché avvenga questo paradosso in una stagione in cui il territorio è all’ordine del giorno della vita politica quotidianamente: confini varcati più o meno clandestinamente dall’immigrazione; regionalismo e federalismo; Europa e Stati Uniti, Irak ed Iran, Pakistan e Afganistan, Cina e India e Giappone nel linguaggio giornaliero dei media oltre che della politica estera, dell’economia, degli imprenditori.
      A un ministro intelligente e sensibile come si è dimostrato lei nei confronti della malridotta università italiana tutto questo non può essere sfuggito.
      Perché dunque scriverle?
      Ma perché un paio almeno di considerazioni non mi risulta siano emerse nel dibattito. Già nella Scuola media superiore attuale il posto della geografia, salvo che negli Istituti Tecnici Commerciali, è del tutto marginale: l’ultimo anno. E soprattutto affidato agli insegnamenti di scienze naturali che, per stare ai libri di testo prevalenti, propongono qualche considerazione della cosiddetta geografia matematica (astronomia), di geomorfologia, di climatologia. Nessuna geografia umana, dell’uomo con i suoi ardimenti e le sue malefatte che opera sul territorio, sull’ambiente e sul paesaggio trova spazio nei programmi delle nostre Scuole medie secondarie. Affidato poi ad insegnanti che, preparatissime nei loro campi, non hanno alcun obbligo di aver sostenuto un esame di geografia nei loro corsi universitari, e spesso sono zoologi, botanici, farmacisti, perfino medici o architetti. Forse è propria questa la maggiore debolezza della nostra disciplina: che tutti credono di conoscerla perché se ne parla tutti i giorni, come nel caso della psicologia da bar. Non lasciamo che questa falsa convinzione continui ad operare nella malandata scuola italiana.
      Calogero Muscarà

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SE  DALLA  SCUOLA  (PER  LEGGE)  SCOMPARE  LA  GEOGRAFIA

di Ilvo Diamanti, da “la Repubblica” del 21/1/2010

   ll Consiglio dei Ministri dovrebbe presto approvare la riforma della scuola superiore. Nei nuovi curricoli dei licei e degli istituti tecnici e professionali, in via di definizione, la geografia scompare del tutto  –  o quasi. Non si sono sentite proteste, al proposito.

   Ad eccezione di quelle sollevate, comprensibilmente,  dalle “associazioni di categoria” (in testa l’Associazione Italiana Insegnanti di Geografia e la Società Geografica Italiana), che hanno lanciato un appello accorato (su www.aiig.it e www.luogoespazio.info).

   Ma c’è da dubitare che troveranno grande ascolto. I problemi che contano e appassionano sono ben altri. Anche se il territorio continua ad essere evocato, per ragioni politiche e polemiche. I confini: vengono chiamati in causa quando c’è da respingere i clandestini. Frontiere invisibili divengono muri visibili per marcare la distanza dagli “stranieri”. Per alimentare domanda di sicurezza, per richiamare la comunità perduta. Il nostro piccolo mondo che scompare, schiacciato dal grande mondo che incombe. Così si invocano le ronde, senza poi formarle. E i “confini” della città sono marcati da cartelli segnaletici che, accanto al nome di città “straniere” gemellate, avvertono: non vogliamo “stranieri”, guai ai “clandestini”. (Quasi che i clandestini si dichiarassero come tali, apertamente, all’ingresso della città).
   Siamo orfani dei confini che, tuttavia, non riconosciamo. E non  conosciamo più. Come il territorio. Rimozione singolare, visto che mai come in quest’epoca le identità ruotano intorno ai riferimenti geografici. L’Oriente e l’Occidente. Che, dopo la caduta del muro di Berlino, non sappiamo più come e dove delimitare. In Italia, il Nord e il Sud. La Lega Nord e il Partito del Sud.

   Si rimuove la geografia mentre la geografia si muove. Insieme ai confini. Centinaia di comuni vorrebbero cambiare provincia. Oppure regione. E molte province si spezzano; mentre, parallelamente, ne nascono altre di nuove.

   E se guardiamo oltre i nostri confini abbiamo bisogno di aggiornare le mappe. Un anno dopo l’altro. Per de-finire i paesi (ri)sorti in seguito al crollo degli imperi geopolitici. Per “nominare” contesti senza nome oppure ignoti, un attimo prima, il cui nome è rivendicato da popoli che ambiscono all’indipendenza. Da minoranze che vorrebbero venire riconosciute e da maggioranze che ne reprimono le pulsioni. Così, scopriamo, all’improvviso, dell’esistenza di Cecenia, Abkhazia, Ossezia, Timor Est. Mentre Cekia e Slovacchia sono, da tempo, felicemente divise. Ma molti non lo sanno e continuano a “nominare” la Cecoslovacchia.

   In questo paese  –  ma non solo in questo – il “popolo” più detestato è quello Rom. Gli zingari. Accusati di molte colpe  –  talora a ragione. La principale fra tutte: non avere una patria. Una residenza. Rifiutarla. Troppo, per una società che ha dimenticato il territorio – sepolto sotto una plaga immobiliare immensa e disordinata. Ma continua a evocare le “radici”. E non sopporta chi è nomade. Sempre altrove.
   Questa società: non ha più bisogno di mappe, bussole, atlanti, carte geografiche. Basta il Gps. Ciascuno guidato da un satellitare o dal proprio cellulare. In auto ma anche a piedi, in giro per la città. Una voce metallica, senza accento, intima. “Ora girare leggermente a destra, poi andare dritto per 100 metri”. Ma se finisci contromano, una marea di auto che ti corre (in)contro; oppure davanti a un muro, a un divieto di circolazione, e ti fermi, preoccupato, si altera: “Andare dritto!!”. E quando cambi direzione, per non essere travolto, non si rassegna e ordina: “Ora fare inversione a U”. Anche se hai imboccato una strada a senso unico.
   La società del Gps è popolata di persone etero-dirette, che si muovono senza un disegno, né un progetto. Non sanno dove andare e neppure dove sono. Questa società  –  questa scuola – non ha bisogno di geografia, né di geografi. Ma neppure della storia: visto che la geografia spiega la storia e viceversa. Questa società  –  questa scuola  –  questo paese: dove il tempo si è fermato e il territorio è scomparso. Dove le persone stanno ferme. Nello stesso punto e nello stesso istante. In attesa che il Gps parli. E ci indichi la strada. (Ilvo Diamanti)

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Geografia: non è solo nozionismo

(da “il Corriere della Sera” del 28/1/2010)

Cari Italians,
   in riferimento alla lettera pubblicata il 23 gennaio “Geografia addio?” (M. Henry), vorrei dire la mia. Sono dottorando di Geografia Economica e il mio percorso di studi è stato pienamente improntato sulle discipline geografiche.

   Apprezzo molto la volontà del lettore di esporre tale problema e di appassionarsi alla vicenda ma, fin quando continueremo a vedere la geografia come la disciplina che indichi dove si trovi il Belize, quali siano i confini dell’Austria e quale sia la strada giusta senza l’aiuto del GPS, allora c’è un problema di fondo: il fatto che noi geografi – o comunque vicini alle discipline geografiche – manchiamo di capacità comunicativa verso i cittadini di spiegare cosa siamo e perché facciamo geografia. Il lettore dà una visione nozionistica della disciplina, che è quella che va per la maggiore e che porta gli insegnanti di qualsiasi livello scolastico a trattarla come tale.

   La geografia parte certo da nozioni di base: insomma, se uno non sa dove si trovi l’Egitto meglio che non si dedichi alla disciplina. Giunge poi, però, a un tentativo molto più alto: “comprendere” (non semplicemente “descrivere”) le relazioni tra gli uomini e tra gli uomini e il territorio, in ottica multiscalare valicando tranquillamente i confini statali; ancora, cerca di capire perché un fenomeno umano avviene e perché avviene in un territorio invece che in un altro.

   Essa aiuta a diventare cittadini del mondo, a porsi criticamente di fronte alla dinamiche che ne sottendono l’esistenza e, quindi, a porsi criticamente e curiosamente nei confronti del pianeta Terra. Il problema non è il GPS, ma l’uso sbagliato – anche per pigrizia – del GPS, che non ci invita a essere curiosi quando si percorre una strada, si vede una città o si incontrano persone.

   E’ questo che vorrebbe fare la geografia ed è questo sforzo comunicativo che noi geografi non compiamo. Credo sia giusto informarvi su “cosa” siamo, anche per giustificare la nostra esistenza in ambito accademico e scientifico.
Giuseppe Forino, g.forino@gmail.com  

2 risposte a "Geofilm – “L’uomo che verrà” di Giorgio Diritti, imperdibile esempio di come possano trasformarsi (anche nell’insegnamento scolastico) Geografia e nuova organizzazione territoriale, Storia, Arte filmica e recupero nei ragazzi della Pietas per le (spesso dolorose) vicende umane"

  1. Agata Lo Tauro domenica 31 gennaio 2010 / 8:28

    Qual’è il significato dei “martiri” nella storia: di ieri e di oggi?
    L’importante è salvare/implementare i contenuti più dei “nomi”?

  2. Paolo lunedì 19 giugno 2023 / 18:20

    Non risulta che i partigiani abbiano giustiziato prigionieri tedeschi durante le loro azioni nell’ Appennino tosco emiliano.
    Anche perché era prassi scambiare i prigionieri tedeschi catturati con i partigiani catturati durante i rastrellamenti.
    L’episodio nel film si basa su un fatto realmente accaduto oppure è una libera fantasia della sceneggiatura.

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