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LE AREE INTERNE
I Comuni periferici
Le Aree Interne sono rappresentate dai Comuni italiani più periferici, in termini di accesso ai servizi essenziali (salute, istruzione, mobilità) e quindi maggiormente distanti rispetto ai centri di offerta di servizi. La classificazione delle Aree Interne è il risultato di un percorso metodologico avviato dall’ex-Agenzia per la Coesione Territoriale, all’interno della Strategia Nazionale per le Aree Interne (SNAI), che ha visto coinvolti
l’Istat, la Banca d’Italia e le Regioni. Per individuare i comuni che ricadono nelle aree interne, per prima cosa vengono definiti i Comuni “polo”, cioè le realtà territoriali che offrono contemporaneamente (da soli o insieme ai confinanti): A. un’offerta scolastica secondaria superiore completa, cioè almeno un liceo (classico o scientifico) e almeno uno fra istituto tecnico e istituto professionale; B. almeno un ospedale con capacità operative avanzate; C. una stazione ferroviaria medio-piccola con più di 2.500 passeggeri al giorno. Maggiore è la distanza dal comune che offre simultaneamente questi tre servizi, maggiore è la connotazione periferica del comune in esame. (Carlo Marroni, da “il Sole 24ore” del 17/3/2024)
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L’INVERNO DEMOGRAFICO
L’ITALIA SPOPOLATA DEI COMUNI INTERNI: GLI ABITANTI FUGGONO, RESTANO GLI OVER 80
di Carlo Marroni, da “il Sole 24ore” del 17/3/2024
– Il 58% del Paese non ha servizi sufficienti, i residenti emigrano verso altri luoghi – Il record spetta a Basilicata, Molise, Calabria e Sardegna. A rischio Liguria e Friuli – il calo Nel 2030 i residenti italiani diminuiranno di 600mila unità e saranno tutti abitanti delle aeree più periferiche – le AREE INTERNE Nelle zone con minor dotazione di servizi abita il 22,7% della popolazione, poco più di 13 milioni di persone –
L’Italia continua spopolarsi: sempre meno abitanti e più anziani. Il 58% del territorio è coperto da AREE INTERNE (zone non necessariamente lontane dal mare o povere) dove è residente il 23% della popolazione (12 milioni di persone). Qui la minor dotazione (di servizi) si fa sentire e i residenti fuggono. Sul posto restano sempre più over 80. L’abbandono dei territori riguarda regioni del Sud, tra cui Basilicata, Molise, Calabria, Sardegna, ma anche aree ligure, piemontesi, friulane.
Il primo pensiero va all’immagine di un piccolo agglomerato di case, magari attorno a un vecchio campanile, più o meno in alta collina. L’Italia dei piccoli borghi, con al massimo una bottega. Ma le “aree interne” sono anche altre, e mai si penserebbe che sono tali – per assenza di specifici servizi – città come la splendida Matera o addirittura località costiere, come Termoli. Interna quindi non significa lontano dal mare. E neppure povera, come l’immaginario vorrebbe, visto che ci sono luoghi come Cernobbio.
L’Italia vede la parte principale del suo territorio, oltre il 58%, coperta da comuni definiti “AREE INTERNE”, dove è residente (non è detto che ci viva) meno di un quarto della popolazione, esattamente il 22,7 per cento, poco più di 13 milioni di persone.
Per chiarire il concetto: le aree interne sono i comuni italiani più periferici, in termini di accesso ai servizi essenziali (salute, istruzione, mobilità). Per definire quali ricadono nelle aree interne, per prima cosa vengono definiti i COMUNI “POLO”, cioè realtà che offrono contemporaneamente (da soli o insieme ai confinanti): 1) un’offerta scolastica secondaria superiore articolata (cioè almeno un liceo – scientifico o classico – e almeno uno tra istituto tecnico e professionale), 2) almeno un ospedale avanzato, 3) una stazione ferroviaria media con almeno 2.500 passeggeri al giorno.
Per la sua conformazione del territorio l’Italia, attraversata per larga parte da catene montuose o dalla dorsale appenninica, è innervata di centri minori – classificati dall’Istat in COMUNI INTERMEDI, PERIFERICI e ULTRAPERIFERICI – che, in molti casi, sono in grado di garantire ai residenti soltanto una limitata accessibilità ai servizi essenziali.
La regione con la maggiore percentuale di comuni in forte spopolamento (tasso di crescita continuo negativo, inferiore al -4 per mille annuo) è la Basilicata (68,7%, 90 comuni su 131), seguita a breve distanza dal Molise (60,3%, 82 comuni su 136) e dalla Calabria (58,4%, 236 comuni su 404). All’opposto, le regioni con la percentuale maggiore di comuni in forte crescita sono il Trentino-Alto Adige/Südtirol e l’Emilia-Romagna, entrambe con il 50% dei comuni in crescita, cioè oltre il 4 per mille annuo (141 comuni su 282 in Trentino e 164 su 328 in Emilia-Romagna), con il caso della Liguria, con circa il 29% dei comuni in forte spopolamento (68 comuni su 234).
Questo per quanto riguarda i numeri principali, che mettono bene in evidenza come per l’Italia sia essenziale comprendere il problema – e su questo c’è un grosso impegno dell’Università del Molise, che dal 2016 ha costituito il Centro di Ricerca per le Aree Interne e gli Appennini (ArIA). Come mostrano i ricercatori di ArIA Carlo Lallo, Emilio Cameli e Federico Benassi la questione è nel contempo sociale, di sviluppo economico, di rappresentanza politica e di tenuta del territorio.
Un dato quindi va subito ben chiarito: non sono aree deserte, visto che spesso comprendono città molto abitate. Il tema è quello dei servizi, la cui assenza accentua via via nel tempo un processo di spopolamento, o comunque di impoverimento, vista la migrazione di giovani e l’innalzamento progressivo dell’età media. Non c’è una soluzione unica proprio per la varietà presente, ma per tutti serve una presenza delle istituzioni – dicono gli esperti – con soluzioni che possano attingere anche all’esperienza recente, su tutte il Covid e l’operatività a distanza, sia lavorativa che didattica. Infatti la sfida è portare una struttura digitale dove questa è assente o debole, permettendo magari di aggregare offerte di servizi in aree limitrofe.
Comunque il tema dello spopolamento non è solo territoriale, visto che l’Italia perde un milione di abitanti ogni 3-4 anni, e in più molti residenti in piccoli centri in realtà lo sono solo nominalmente (spesso per motivi fiscali) ma in realtà vivono in centri maggiori. Se la previsione da ora al 2030 è di un calo di popolazione italiana di circa 600mila persone, queste saranno concentrate soprattutto nelle aree interne: le stime parlano di un calo del 4,2 per mille, rispetto all’1,6 dei maggiori centri abitanti. Poi c’è l’età: nel 19,8% dei comuni italiani (1565 su 7904) gli anziani con più di ottanta anni segnano una forte presenza, tra un decimo ed un terzo dell’intera popolazione. La Regione con il più alto numero di comuni con forte presenza anziana è il Molise (51,5%, 70 comuni su 136), seguita dalla Liguria (50,4%, 118 comuni su 234) e dall’Abruzzo (40%, 122 comuni su 305).
Come visto le Aree Interne – si rileva in un focus dell’Istat – risultano presenti soprattutto nelle regioni del Mezzogiorno dove complessivamente il 67,4% dei Comuni rientra nelle Aree interne, con picchi in Basilicata Sicilia, Molise e Sardegna dove tali percentuali superano il 70%. Al Centro Italia il peso relativo di queste aree è molto più contenuto e arriva, con 532 Comuni, al 54,8% del totale. Qui la distribuzione regionale appare molto più equilibrata rispetto alle altre ripartizioni ed è compresa tra il 46,3% delle Marche e il 60,1% della Toscana. Nel Nord-ovest e nel Nord-est la quota di Comuni che rientrano nelle Aree Interne si riduce ulteriormente, 33,7%e 41,4% rispettivamente.
Rispetto all’altimetria i comuni interni montani rappresentano il 48,9% del totale, nelle aree collinari sono presenti 1.625 (42,4%), con significative presenze in Sardegna (218 Comuni), Sicilia (198 Comuni) e Campania (173); quelli localizzati in pianura sono appena 335 (8,7%).
La distribuzione dei Comuni secondo le altre caratteristiche fisiche conferma il quadro appena descritto: l’84,5% dei Comuni si colloca lontano dal mare (Comune non costiero), per il 79,9% si tratta di Comuni definiti “rurali” secondo la classificazione europea del grado di urbanizzazione. La bassa densità abitativa è la caratteristica maggiormente evidente, ma non mancano le eccezioni. Si tratta di otto comuni con oltre 50mila residenti: il caso più eclatante è quello di Gela in Sicilia (più di 72mila abitanti), classificato come Periferico perché manca di una stazione ferroviaria almeno di tipo Silver. Per le medesime ragioni il comune di Altamura in Puglia è classificato come Intermedio (quasi 70mila abitanti), mentre Vittoria in Sicilia, che ha poco più di 62mila residenti, è classificato come Intermedio per l’assenza di ospedali avanzati e stazioni ferroviarie come requisito. Anche alcuni capoluoghi sono classificati tra le Aree Interne, oltre Matera (quasi 60mila abitanti), risultano Nuoro ed Enna, per la mancanza di una stazione ferroviaria, e Isernia per l’assenza di un ospedale con servizio “Dea” (ndr: Dipartimento di Emergenza Urgenza e Accettazione).
(CARLO MARRONI, da “il Sole 24ore” del 17/3/2024)
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LO SPOPOLAMENTO
Basilicata al record
La regione con la maggiore percentuale di comuni in forte spopolamento (tasso di crescita continuo negativo, inferiore al -4 per mille annuo) è la Basilicata (68,7%, 90 comuni su 131), seguita a breve distanza dal Molise (60,3%, 82 comuni su 136) e dalla Calabria (58,4%, 236 comuni su 404). All’opposto, le regioni con la percentuale maggiore di comuni in forte crescita sono il Trentino-Alto Adige/Südtirol e l’Emilia–Romagna, entrambe con il 50% dei comuni in forte crescita, cioè oltre il 4 per mille annuo (141 comuni su 282 in Trentino e 164 su 328 in Emilia-Romagna).
La polarizzazione Nord in crescita/Sud in spopolamento è evidente: la prima regione del Nord nella classifica è la Liguria, al 10° posto, con circa il 29% dei comuni in forte spopolamento (68 comuni su 234). Al tempo stesso, nessuna regione italiana è esente da fenomeni di spopolamento in almeno una parte dei propri comuni.
Trentino a due velocità
Ad esempio, in Trentino-Alto Adige/Südtirol il 4,6% dei comuni segna comunque una forte diminuzione della popolazione (13 comuni su 282), ed in Emilia-Romagna la percentuale dei comuni in forte contrazione demografica arriva al 17,7% (58 comuni su 328).
Simmetricamente, anche in Basilicata, Molise e Calabria sono presenti comuni in forte crescita: il 3,1% (4 comuni su 13) in Basilicata, il 9,6% (13 comuni su 136) in Molise e il 7,4% (30 comuni su 404) in Calabria.
(Carlo Marroni, da “il Sole 24ore” del 17/3/2024)
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INVECCHIAMENTO
Il peso degli over 80
Nel 19,8% dei comuni italiani (1565 su 7904) gli anziani con più di ottanta anni segnano una forte presenza, tra un decimo ed un terzo dell’intera popolazione. La Regione con il più alto numero di comuni con forte presenza anziana è il Molise (51,5%, 70 comuni su 136), seguita dalla Liguria (50,4%, 118 comuni su 234) e dall’Abruzzo (40%, 122 comuni su 305). All’opposto, in Trentino-Alto Adige/Südtirol ed in Veneto il numero di comuni con una forte presenza anziana non superano il 5% (sono infatti solo l’1,4% in Trentino ed il 4,1% in Veneto). In Trentino-Alto Adige in particolare, quasi la metà di comuni sono caratterizzati da una struttura molto più giovane del collettivo nazionale. Il 48.9% dei comuni trentini e altoatesini, 138 comuni su 282, segnano infatti una presenza di ultraottantenni inferiore al 6,4%.
(Carlo Marroni, da “il Sole 24ore” del 17/3/2024)
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L’ITALIA DEI PICCOLI COMUNI TRA CRISI, SPOPOLAMENTO E VOGLIA DI RISCATTO
di Francesca Liani, 24/1/2024, da https://www.lentepubblica.it/
L’Italia rimane un Paese di piccoli Comuni anche se dal 2000 ci sono 205 Comuni in meno.
È stato recentemente presentato uno studio della Fondazione Think Tank Nord Est, laboratorio di idee, proposte e animatore del dibattito sullo sviluppo del territorio compreso tra le province di Venezia, Treviso, Udine e Pordenone, che ha analizzato il fenomeno della riduzione progressiva del numero dei Comuni italiani alla luce dei dati Istat.
Dal report si apprende che a partire dal 22 gennaio 2024, il numero dei Comuni in Italia è sceso a 7.896. Quello della diminuzione dei Comuni è stato un processo lento ma inesorabile cominciato all’inizio degli anni Duemila. Nel 2001 infatti, l’Italia esprimeva il numero massimo dei Comuni pari a 8.101 ma da allora c’è stata una diminuzione di 205 unità. Un processo analogo a quello di molti altri Paesi europei ma più diluito nel tempo: infatti, tra 2006 e 2023, mentre in Italia il calo è stato solamente del 2,5%, in Grecia la riduzione è stata del 68%, nei Paesi Bassi del 25%, in Germania del 13%, in Austria dell’11% e in Francia del 5%. Oggi l’Italia è il quarto Paese europeo per numero di Comuni, dietro a Francia, Germania e Spagna.
L’ITALIA, UN PAESE DI PICCOLI COMUNI TRA CRISI, SPOPOLAMENTO E VOGLIA DI RISCATTO
Nonostante la riduzione del numero di Comuni, l’Italia si presenta ancora come un Paese di piccoli Comuni; il 70% ha meno di 5.000 abitanti (5.521), mentre il 25,5% hanno addirittura meno di 1.000 abitanti (2.012). I piccoli Comuni si trovano soprattutto nelle aree alpine ed appenniniche, ma sono presenti anche nelle basse pianure del Nord e in alcune aree del Meridione.
Il numero maggiore di Comuni italiani è concentrato nel Nord del Paese: il 19% si trova in Lombardia e quasi il 15% in Piemonte; in queste due regioni ci sono più di 1.000 Enti con meno di 5 mila abitanti. In Valle d’Aosta, capoluogo a parte, tutti i Comuni sono di piccola dimensione, ma una percentuale molto significativa di piccoli Municipi si registra anche in Molise (94,1%), Piemonte (88,6%), Trentino Alto Adige (85,8%), Sardegna (83,8%), Abruzzo (83%) e Basilicata (81,7%).
Questi Comuni sono attraversati da fenomeni socio-economici e demografici molto simili ossia: invecchiamento della popolazione, disoccupazione, progressivo abbandono e spopolamento, crisi della natalità.
In particolare lo spopolamento dovuto alla mancanza di opportunità vincola soprattutto gli anziani e coloro che più faticano a trovare alternative. Di conseguenza, cresce in questi territori il bisogno di Stato sociale che si faccia carico non solo delle persone più fragili ma anche del cambiamento climatico e del dissesto idrogeologico che espone i piccoli Comuni delle aree interne a calamità e ad eventi estremi (piogge torrenziali, inondazioni e frane; siccità e incendi; tempeste di vento ecc.)
Eppure, nonostante questa fragilità, i piccoli Comuni rimangono custodi di un immenso patrimonio naturale, d’arte, cultura, tradizioni, con una varietà enogastronomica che non ha uguali nel mondo, e forse proprio per le loro piccole dimensioni, sono diventati anche luoghi di sperimentazione di buone pratiche più innovative in fatto di energia, turismo (alberghi diffusi) economia verde e riciclo dei rifiuti, laboratori di accoglienza e inclusione sociale.
Lo stesso Papa Francesco invita queste comunità a guardare le opportunità oltre i vincoli, ad impegnarsi in “pratiche sociali innovative”, nella cura del territorio in chiave sostenibile, a sperimentare nuove forme di welfare basate su “forme di mutualità e reciprocità”.
Nel frattempo, tuttavia, il fenomeno dell’invecchiamento e della riduzione della popolazione italiana farà sentire sempre più i suoi effetti in futuro, con riduzioni di residenti nei piccoli comuni intorno al 5% entro il 2040.
LE STRATEGIE PER ARGINARE L’ABBANDONO DEI BORGHI
Una delle strategie messe in atto per frenare l’abbandono e lo spopolamento dei Comuni è l’accorpamento/fusione che in Veneto è ora norma nel Piano di Riordino Territoriale.
Ma non è detto che la soluzione migliore sia la fusione. L’unione dei Comuni è una forma di associazione tra comuni confinanti che non prevede la fusione tra amministrazioni ma la gestione condivisa di alcune funzioni e servizi, mantenendo la propria autonomia negli altri aspetti. Le unioni presenti in Italia sono 540. La regione che in termini assoluti registra il maggior numero di enti è il Piemonte (116) seguito da Lombardia (75) e Sicilia (50). Le due aree con il numero minore sono l’Umbria (4) e la provincia autonoma di Trento (2).
Sicuramente, la condivisione di progettualità a livello sovracomunale è già un passo importante che molti Comuni condividono anche per mettere a sistema l’offerta ed intercettare maggiori risorse ed investimenti sul territorio.
Per assicurare un futuro a questa parte del Paese, Legambiente promuove dal 2004 PiccolaGrandeItalia, una campagna il cui obiettivo è tutelare l’ambiente e la qualità della vita dei cittadini che vivono in questi centri stretti fra la rarefazione dei servizi e lo spopolamento. Affinché non esistano aree deboli, ma comunità messe in condizione di funzionare al meglio e competere.
Di certo lo spirito di sopravvivenza dei piccoli Comuni d’Italia è ben temprato. Oltre l’inverno demografico, tra le rughe dei pochi anziani rimasti, in mezzo alla crisi economica che incrementa lo spopolamento, si intravede voglia di riscatto e riaffermazione.
I 4.381 progetti presentati ad Invitalia con il bando Imprese Borghi e gli 850 da finanziabili con il bando MAECI per il turismo delle radici, testimoniano che i piccoli Comuni non desiderano semplicemente sopravvivere ma vogliano invertire la rotta ed essere protagonisti di una nuova rinascita all’insegna della bellezza, dell’autenticità e della riscoperta delle tradizioni.
(Francesca Liani, 24/1/2024, da https://www.lentepubblica.it/)
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QUANDO LA GEOGRAFIA ISTITUZIONALE FRENA LO SVILUPPO DEI TERRITORI
di Dario Immordino, da “la voce.info” del 12/12/2023, https://lavoce.info/
– I bacini istituzionali si rivelano molto più piccoli di quelli utilizzati quotidianamente dalla popolazione e dalle imprese. Il riassetto istituzionale dovrebbe riguardare l’intero sistema dei poteri locali, compresa la galassia di società partecipate –
Il peso della geografia istituzionale
Il deficit di qualità istituzionale del sistema italiano certificato dal rapporto dell’Istat, dalla relazione della Commissione europea sulle politiche di coesione e da molte relazioni dei presidenti dei tribunali amministrativi dipende in certa misura dalle criticità dell’assetto istituzionale.
In una situazione ideale dal punto di vista dell’efficienza, la dimensione demografica del governo locale è strutturata in modo da rispecchiare le caratteristiche socioeconomiche territoriali e da consentire lo sfruttamento di economie di scala (le prestazioni vengono prodotte al minore costo unitario possibile) e la massima coincidenza tra utilizzatori e finanziatori dell’offerta territoriale di prestazioni pubbliche. In queste condizioni, tutti i servizi vengono erogati secondo adeguati standard qualitativi e quantitativi, poiché raggiungono la soglia minima di domanda sufficiente, i cittadini sono in grado di esercitare il massimo controllo sull’operato dei propri amministratori.
Invece i sistemi locali del lavoro dimostrano inequivocabilmente che i bacini istituzionali non rispecchiano l’assetto e le esigenze della mobilità, del lavoro, della società, della produzione e il sistema di relazioni economiche e sociali, poiché si rivelano molto più piccoli di quelli utilizzati quotidianamente dalla popolazione e dalle imprese.
Di fatto, la realtà istituzionale, definita dai confini amministrativi, non coincide con quella vissuta da cittadini e imprese, delineata dai flussi di pendolarismo, dalla geografia delle attività produttive, delle residenze e dei luoghi di lavoro. Le relazioni socio-economiche sono fluide e in continua evoluzione e richiedono flessibilità e capacità di adattamento da parte delle politiche pubbliche e degli assetti istituzionali, mentre i confini amministrativi producono rigidità, frazionamento istituzionale e criticità decisionali.
I piccoli enti non raggiungono la dimensione minima necessaria a conseguire economie di scala e di scopo nella produzione dei servizi, ad abbattere i costi fissi di erogazione delle prestazioni e a garantire lo svolgimento efficiente delle funzioni di loro competenza. Finiscono così per sostenere oneri elevati per fornire a cittadini e imprese servizi inadeguati. Non a caso gli ultimi rapporti della Corte dei conti certificano che sempre più enti locali non sono in grado di offrire prestazioni pubbliche adeguate agli standard qualitativi e quantitativi prescritti e di garantire i diritti essenziali dei cittadini.
In alcune realtà territoriali, peraltro, la ridotta dimensione demografica si accompagna alla presenza di altri fattori critici: bassa densità abitativa e caratteristiche morfologiche sfavorevoli del territorio, che comportano una lievitazione dei costi di esercizio di alcune funzioni (trasporto pubblico, istruzione, sanità e assistenza), presenza di “motori economici” deboli, progressivo spopolamento dei piccoli comuni, scarsa presenza della popolazione giovanile e forte incidenza di quella anziana, che rende necessaria l’attivazione di servizi assistenziali che gli enti più piccoli difficilmente riescono a sostenere, a causa delle scarse risorse disponibili e degli elevati costi di gestione (distribuiti tra un numero di utenti ridotto che non consente di raggiungere risultati di economicità ed efficacia).
La competizione nazionale e internazionale, ma anche l’articolato strumentario di target e milestone del Piano nazionale di ripresa e resilienza e delle politiche di coesione, impongono servizi altamente qualificati nel campo della ricerca e dell’innovazione, delle grandi infrastrutture di trasporto e comunicazione, settori che contribuiscono all’attrattività dei territori e richiedono in genere una soglia di domanda elevata per poter essere economicamente sostenibili.
Sottodimensionamento e frammentazione istituzionale, invece, impongono una barriera burocratica in territori molto integrati dal punto di vista funzionale, ostacolano l’innovazione, escludono i sistemi territoriali da segmenti economici in crescita, perché li rendono inadeguati alle trasformazioni dei flussi turistici e dei settori industriali governati dalle piattaforme elettroniche globali e degli altri fenomeni che condizionano il mercato immobiliare, il tessuto commerciale e produttivo, le esigenze e consuetudini sociali.
Queste criticità dell’assetto istituzionale comportano non solo marginalizzazione e maggiori oneri economici per il sistema produttivo (con conseguente perdita di competitività), ma anche costi ambientali e sociali sempre più pesanti, che gravano soprattutto sui residenti e sugli utenti dei servizi pubblici (congestione da traffico, inquinamento).
In più, l’estrema frammentazione della realtà istituzionale implica la moltiplicazione dei centri di programmazione e di spesa e la frantumazione delle politiche di sviluppo territoriale in una infinità di misure e interventi che assorbono risorse pubbliche senza produrre adeguate prestazioni.
Come riorganizzare l’assetto degli enti locali
Il percorso riformatore innescato dal Pnrr costituisce l’occasione per riorganizzare l’assetto degli enti locali incentrandolo sul criterio della funzionalità, cioè sull’esistenza di esigenze e caratteristiche comuni a più territori, secondo un approccio che consenta di utilizzare in modo strategico le risorse e le potenzialità di ogni contesto, di valorizzarne il potenziale competitivo (capitale infrastrutturale, naturale, produttivo, cognitivo, sociale e relazionale), di attivare sinergie, di strutturare nuove efficienti politiche territoriali e di programmazione (dalla pianificazione strategica alla progettazione partecipata); di individuare limiti di soglia o sostenibilità.
L’obiettivo dovrebbe essere strutturare un sistema di governo locale calibrato sulla base delle specificità territoriali come la compenetrazione urbanistica, la condivisione di servizi culturali e scolastici, lo sviluppo urbano ed economico e le prospettive potenziali di crescita (logistica e portualità, industria ed energia, turismo e servizi d’area vasta) e in grado di favorire la gestione e il consumo razionale e sostenibile del suolo e degli spazi urbani, oltre che di altri beni collettivi come welfare, sanità, ricerca e formazione, acqua, energia, la connessione delle reti urbane e infrastrutturali.
Il sistema di governo locale deve essere incentrato sul potenziamento delle filiere (scuola-formazione-politiche per l’impiego, pianificazione-paesaggio-tutela ambiente e così via) e della dimensione di area vasta, attraverso la riorganizzazione degli enti intermedi e la promozione di forme associative e di cooperazione e di spazi di concertazione tra gli enti e i soggetti operanti nel territorio, al fine di contenere il consumo di suolo, organizzare la mobilità e i flussi di pendolari e di merci, gestire i servizi su scala adeguata, pianificare gli insediamenti produttivi e di servizio, gestire le politiche ambientali, programmare lo sviluppo locale, l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, le reti infrastrutturali.
Bisogna dunque riconfigurare la dimensione istituzionale del governo locale, ma per conseguire gli impegnativi obiettivi di efficienza imposti dal Pnrr e dalle politiche europee, l’accrescimento dimensionale degli enti locali deve essere accompagnato da una riconfigurazione qualitativa delle politiche territoriali, calibrata in ragione delle caratteristiche demografiche e strutturali delle singole funzioni e dei diversi contesti territoriali, della diffusione delle infrastrutture e dei servizi, della densità amministrativa e demografica, della diffusione dell’attività manifatturiera, turistica, del lavoro, e della ricchezza, in modo da individuare la dimensione appropriata degli interventi di sviluppo territoriale e di coesione sociale, della pianificazione e dell’allocazione delle risorse.
Qualunque riassetto istituzionale, per rivelarsi efficace, dovrebbe riguardare l’intero sistema dei poteri locali, le strutture periferiche statali e regionali e la vasta galassia di società partecipate, enti e organismi strumentali, agenzie, soggetti d’ambito, unioni, Gal, convenzioni, distretti, consorzi. Ciò consentirebbe di garantire l’effettiva corrispondenza tra costi delle funzioni e risorse, di salvaguardare l’autonomia territoriale e al contempo di offrire ai cittadini e alle imprese un livello adeguato di servizi e prestazioni senza gravare troppo sulle tasche dei contribuenti, razionalizzando il vasto apparato di enti e società regionali che la Corte dei conti ha definito “fuori controllo” ed eliminando duplicazioni e sovrapposizioni di competenze che appesantiscono l’azione pubblica e ne incrementano i costi annacquando le responsabilità.
(Dario Immordino, da “la voce.info” del 12/12/2023, https://lavoce.info/)
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(RIPRENDIAMO QUI una parte di un post qui pubblicato, in questo blog “Geograficamente”, dove formulavamo alcune PROPOSTE PER RIVITALIZZARE I PAESI ABBANDONATI o in corso di abbandono. Siccome ci sembrano idee e proposte ancora valide da realizzarsi, le riproponiamo qui di seguito):
(…..) Un fenomeno tangibile, visibile, l’abbandono e la desertificazione di paesi specie di montagna o lontani da centri urbani significativi, frutto dell’incedere della storia nei territori, dove ogni luogo (fatto di natura, artificio umano, accadimenti storici) può essere oggettivamente destinato all’abbandono. Ma la cosa non è rassicurante (l’oggettività):la rassegnazione all’abbandono denota incapacità di trasformarsi, un declino culturale, economico, ambientale, sociale, urbano….
Tentiamo, nell’individuare in questo post geografie dei luoghi, cause dell’abbandono, effetti, di dare spunti per un ritorno alla vita di paesi ora desolatamente vuoti di giovani, bambini (spesso ci sono solo pochi anziani…), senza persone che ci vivono, lavorano, vivono.
LE CAUSE DELL’ABBANDONO
I motivi di spopolamento sono molteplici. I vecchi alpeggi, ad esempio, sono stati abbandonati con il boom economico del secondo dopoguerra, preferendo ad essi condizioni di vita migliori, più comode, andando a lavorare in fabbrica o emigrando in altri Paesi. Ci sono borghi abbandonati perché troppo isolati; altri perché distrutti da continui terremoti, frane e alluvioni (forse questa è la causa principale dell’abbandono: si va a costruire in zona più sicura il “nuovo paese”, a volte ragionevolmente e con buone riuscite urbanistiche, la maggior parte creando degli obbrobri…). Ma non da meno ci sono in primis, come motivo dell’abbandono, ragioni economiche, come nel caso dei villaggi minerari in Sardegna, oppure nella Alpi e nella catena appenninica per l’insostenibilità di una vita magra, fatta di privazioni non più sopportabili nell’era dell’inizio del benessere economico dagli anni 60 del secolo scorso.
LE PROPOSTE DI RIPOPOLAMENTO (OLTRE ALLE FONDAMENTALI “SANITÀ, SCUOLA, MOBILITÀ”)
1- Innanzitutto noi crediamo a una vera nuova riorganizzazione istituzionale dei territori, coinvolgendoli tutti in AREE METROPOLITANE (se non piace questo termine per zone e paesi di montagna, chiamiamoli AGROPOLITANI o quant’altro di simile e più accattivante…). Non può essere che il “sistema-Paese” (nazione) pensi di potenziare e investire risorse e innovazione solo in 15 Aree-Città (metropolitane) (più o meno corrispondenti ai maggiori nuclei urbani che ci sono adesso), tralasciando il ruolo di tutto il resto del territorio nazionale. Continua a leggere