SALVARE LE FORESTE DEL MONDO: popolazioni, persone in contesti difficili (donne, comunità isolate, popoli indigeni…) trovano una loro rivalsa e affermazione salvando gli alberi, la vita globale che dà la foresta. Encomio di un altro sviluppo possibile, da crederci e sostenere (noi che le nostre foreste le abbiamo distrutte)

(Mamas, Indonesia, da https://www.greenme.it/) – THE POWER OF MAMA”: così questo gruppo di donne coraggiose salva le foreste dagli incendi in INDONESIA – Le “MAMAS” dell’Indonesia sono un gruppo di donne vigili del fuoco nato nel 2022 dopo i tanti incendi boschivi che hanno colpito il BORNEO: sono quasi 100 donne di età compresa tra i 19 e i 60 anni (Rebecca Manzi, da https://www.greenme.it/)

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(Carta del BORNEO, da https://it.m.wikivoyage.org/) – Il BORNEO è un’isola di 743.107 km², nel sud-est asiatico, divisa tra MALAYSIA (regioni di Sabah e Sarawak) e BRUNEI nella parte settentrionale, e INDONESIA nella parte meridionale (regione del KALIMANTÀN), la terza isola del mondo per superficie, 4.095 m s.l.m. (da Wikipedia)

FERMARE IL FUOCO

LE «MAMAS» DELL’INDONESIA: LA FORESTA DIFESA DALLE DONNE

di AGNESE RANALDI, dal quotidiano “DOMANI” del 31/3/2024

– Sono una novantina e pattugliano il Borneo, armate di pompe idriche per sconfiggere incendi e deforestazione. Vogliono salvare le loro comunità, ma riescono anche a emanciparsi, trovando un ruolo attivo nella società –

   Le foreste del Borneo sono pattugliate da un reggimento che non imbraccia armi, ma pompe idriche, e che è composto unicamente da donne. Si tratta del POWER OF MAMA, l’unità antincendio che dal 2022 è attiva a KETAPANG, nel KALIMANTAN occidentale indonesiano (NDR: nella carta qui sopra: “KENDAWANGAN”).

   Insieme a una novantina di compagne, di età compresa tra i 19 e i 60 anni, la coordinatrice del collettivo Siti Nuraini presidia il territorio per preservare l’ambiente e proteggere salute e mezzi di sussistenza delle comunità locali. «Ogni anno subivamo incendi», ha raccontato Nuraini alla Bbc, «il fumo diventava così forte che i residenti erano costretti a evacuare e le scuole dovevano chiudere. Molti bambini soffrivano di infezioni respiratorie». L’Indonesian Nature Rehabilitation Initiation, affiliato alla no profit Animal Rescue, ha creato questo collettivo di pompiere forestali per rendere le donne agenti attivi del cambiamento e per combattere attivamente gli incendi che mettono a rischio la fauna selvatica, la vita delle persone e la biodiversità.

Taglia e brucia

Il villaggio di Nuraini si trova affianco alla foresta pluviale, uno dei polmoni verdi del Sudest asiatico. L’estesa presenza di torbiere la rende un importante serbatoio di carbonio: questi habitat, infatti, immagazzinano il doppio del carbonio di tutte le foreste del mondo. Ma il loro lavoro benefico è sempre più minacciato dalla deforestazione selvaggia praticata dalle coltivazioni intensive, che danno fuoco a porzioni di foresta per ampliare gli appezzamenti di terreno coltivabili.

   L’Indonesia è particolarmente suscettibile agli incendi, ma la colpa non è del caldo né del cambiamento climatico (che comunque fa il suo). Bensì di scelte politiche che hanno messo al primo posto la crescita economica, e solo in un secondo piano il benessere degli ecosistemi naturali e sociali. L’Indonesia è la maggior produttrice di olio di palma al mondo. Insieme alla Malesia, è la fondatrice del Council of Palm Oil Producing Countries, l’organizzazione intergovernativa che rappresenta le priorità, gli interessi e le aspirazioni delle nazioni produttrici di olio di palma del mondo cosiddetto in via di sviluppo. Include, infatti, anche l’Honduras e tre osservatori: Papua Nuova Guinea, Colombia, e Ghana.

   «L’olio di palma viene prodotto in modo sostenibile», si legge sul sito ufficiale del Consiglio, «in particolare migliorando la produzione senza aprire nuovi terreni per la coltivazione della palma da olio». Ma nel 2023 l’industria dell’olio di palma ha continuato a disboscare l’Indonesia attraverso la pratica agricola dello slash-and-burn (“taglia e brucia”). Si parla di quasi un milione di ettari di foresta che sono letteralmente andati in fumo, perché per fare spazio alle coltivazioni di olio di palma gli agricoltori producono roghi, che causano ingenti emissioni di carbonio e aggravano il problema della foschia transfrontaliera che riguarda tutta l’isola. Questo ha reso i terreni indonesiani aridi, e le lunghe distese di torbiere secche e suscettibili agli incendi.

La deforestazione

È così che anche fenomeni naturali come El Niño, che contribuisce a creare sull’isola un clima molto torrido, risultano particolarmente inclementi coi boschi del Borneo. Secondo il ministero dell’Ambiente e delle Foreste, più di 994mila ettari (15 volte Giacarta) sono bruciati da gennaio a ottobre 2023.

   Secondo un’analisi di TheTreeMap, le piantagioni industriali sono cresciute di 116mila ettari nel 2023, con un aumento del 54 per cento rispetto all’anno precedente. La deforestazione associata è aumentata del 36 per cento, con 30mila ettari di foresta convertiti nel 2023 rispetto ai 22mila ettari del 2022.

   Il movimento POWER OF MAMA, oltre a proteggere le comunità locali, incoraggia a bruciare i terreni usando la gestione indigena dei fuochi, che promuove la diversità ecologica e protegge le comunità dai rischi di incendi incontrollati.

Il ruolo delle donne

La progressiva infertilità dei campi impatta in modo significativo sulle donne indonesiane. Secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro, meno di un terzo dei lavoratori dell’olio di palma sono donne. I dati però non tengono conto del lavoro informale, come quello svolto dalle donne nei campi curati dai loro mariti. La sfida, per loro, è quella di riuscire a conciliare il peso del lavoro domestico con la necessità di portare avanti l’attività familiare nelle coltivazioni.

   Ma le cose stanno cambiando, anche grazie a iniziative come il Musim Mas’ Women Smallholders Programme, che ha formato circa 500 donne nella regione di Riau, a Sumatra. Nato nel dicembre 2023, il gruppo serve a fornire assistenza sanitaria e aiutare le donne impiegate in questo genere di lavori a mantenere uno stile di vita sano.

   Inoltre, secondo il rapporto Onu “Rural Women and Girls 25Ye rs after Beijing”, a livello globale si è assistito a una progressiva “femminilizzazione” del lavoro agricolo nelle aree rurali. Ciò è dovuto anche al fenomeno dell’urbanizzazione, dettato dalle nuove opportunità di lavoro offerte dallo sviluppo industriale, che nel Sudest asiatico – considerato in buona parte composto da economie “emergenti” – in alcuni casi è ancora in corso.

   Sono molti gli uomini che si sono spostati per cercare impiego in città, anche se restano la percentuale più alta dei proprietari terrieri nella campagna. Anche per questo, le donne indonesiane devono caricarsi, oltre al lavoro domestico, anche delle attività di sostentamento della loro famiglia e della comunità in cui vivono. Subiscono così, molto più spesso e in modo più sproporzionato, anche le conseguenze più inclementi del cambiamento climatico che si abbatte sui campi.

L’autodeterminazione

Il lavoro del POWER OF MAMA mira a ispirare le donne locali a svolgere un ruolo attivo nella protezione delle foreste, per garantire la sopravvivenza delle comunità e della fauna locale, come gli orangotango. Le Mamas battono quattro aree boschive: Pematang, Dagung, Sungai Besar, Sungai Awan Kiri e Sukamaju.

   Evitare che le foreste e le torbiere, un tempo umide e ricche di carbonio, siano prosciugate dall’agricoltura industriale è importante per ragioni che intersecano giustizia sociale, giustizia di genere e ambientalismo.

   Nuraini si alza presto tutte le mattine, esce indossando un hijab marrone con su scritto “the power of mama” e scarponi di gomma al ginocchio. «Ci deridevano perché indossavamo le uniformi e ci univamo alle pattuglie di controllo», ha raccontato, «gli uomini del villaggio ci prendevano in giro e dicevano cose come: “Donne che pattugliano? Davvero?”».

   Laili Khairnur, ambientalista e attivista per i diritti delle donne, ha raccontato che soprattutto nelle aree rurali le donne sono attori chiave dei programmi che coinvolgono le comunità. «Questo perché le donne sono le prime beneficiarie», ha detto alla Bbc, «il senso di appartenenza a un programma è la base del loro coinvolgimento». In altre parole, partecipare a iniziative collettive come il Power of Mama consente loro di aiutare la propria comunità, di autodeterminarsi, e quindi di aiutare sé stesse.

(AGNESE RANALDI, dal quotidiano “DOMANI” del 31/3/2024)

(Carta dell’INDONESIA, da WikIpedia)
BORNEO, la foresta pluviale esistente, quella rasa al suolo e le PIANTAGIONI di PALMA da OLIO (foto ripresa da https://ilfattoalimentare.it/). L’Indonesia è il massimo produttore al mondo di questo olio vegetale, ma ora sembra che il suo massimo produttore, la Golden Agri Resources, ha raggiunto un’intesa per la cessazione della deforestazione: Vai all’articolo di Arturo Cocchi (da “la Repubblica”)

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GLI ULTIMI 30 ANNI DELLE FORESTE NEL MONDO
Fonte: Global Forest Resources Assessment 2020, Main report (FAO)
Le foreste sono cruciali per l’equilibrio dell’ambiente globale, fornendo habitat alla fauna selvatica ed essendo i più grandi assorbitori di carbonio del mondo sulla terraferma. Ma negli ultimi tre decenni, il 43% dei paesi ha visto una riduzione netta della propria area forestale, mentre il 38% ha guadagnato area forestale e il 19% non ha avuto alcun cambiamento complessivo

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(I «Fronti di deforestazione» secondo il Wwf)

PATRIMONIO VERDE

NON SOLO AMAZZONIA: LE 15 FORESTE PIÙ A RISCHIO DEL PIANETA

di Carola Traverso Saibante, da https://www.corriere.it/

– Le foreste coprono il 30% delle terre emerse e contengono la gran parte di biodiversità. Ogni minuto 26 ettari di foresta (pari a 35 campi da calcio) vengono distrutti. Dal Congo al Kenya, dal Cile a Sumatra, ecco alcune tra quelle più a rischio –

I «Fronti di deforestazione» secondo il Wwf

Alcune tra le foreste di cui abbiamo parlato sono state identificate quali «Fronti di deforestazione» nell’ultimo capitolo del rapporto Living Forests Report: Saving Forests at Risk, realizzato recentemente dal Wwf. Piantagioni di palma da olio, soia; agricoltura e allevamento; legna per combustibile e carta; attività estrattiva; infrastrutture, dighe e altri progetti minacciano questi polmoni verdi. Secondo il rapporto, con gli attuali ritmi di deforestazione, nel giro di quindici anni si perderà un’area della taglia di Francia, Germania, Spagna e Portogallo messi insieme.

   I 170 milioni di ettari di foreste che andranno persi nel globo tra il 2010 e il 2030 si concentreranno all’80% negli undici fronti di deforestazione identificati: Amazzonia, foresta atlantica, Chocó-Darién e Gran Chaco, Borneo, Nuova Guinea, Sumatra e bacino del Congo. La savana tropicale del Serrado in Brasile, un tempo estesa quanto mezza Europa, oggi è terra di coltura per biocarburanti. Le foreste dell’Africa orientale e quelle dell’Australia orientale. E infine, quelle della regione del Greater Mekong, tra Cambogia, Laos, Myanmar, Thailandia e Vietnam, che ne ha già perse un terzo, e potrebbe perderne un altro terzo entro il 2030.

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LA MAPPA DELLE FORESTE: QUANTE NE ABBIAMO PERSE E QUANTE NE SONO CRESCIUTE IN 30 ANNI

di Giacomo Talignani, da www.repubblica.it del 22/1/2022

– Negli ultimi tre decenni il 43% dei Paesi ha visto una riduzione netta della propria area forestale, mentre il 38% l’ha guadagnata. In Africa e Amazzonia i danni peggiori della deforestazione. Ma dal 2000 sono ricresciuti 59 milioni di ettari –

   Qual è lo stato delle foreste del mondo? Quante ne stiamo perdendo e dove? Altre ricrescono? E come impatta l’azione dell’uomo su alberi e piante del nostro Pianeta?

   I polmoni verdi del mondo sono un organo straordinario per permettere la vita sulla Terra e mantenere la biodiversità. Negli ultimi decenni però l’agricoltura intensiva, gli incendi, le monocolture e l’espansione delle attività umane hanno contribuito a una crescente deforestazione mettendo a rischio il fondamentale contributo delle foreste, dall’assorbimento di CO2 nella lotta al riscaldamento globale sino agli habitat per milioni di specie.

   Osservando i dati dell’ultimo rapporto Fao 2020 sullo stato delle foreste e incrociando le cifre delle più recenti ricerche scientifiche, proviamo a rispondere ad alcune delle domande più importanti per conoscere le condizioni delle foreste globali. Le foreste ricoprono oggi circa il 31% della superficie del Pianeta, pari più o meno a 4 miliardi di ettari, ovvero circa a 0,52 ettari a persona.

Quante ne stiamo perdendo

Ogni anno nel mondo spariscono in media 10 milioni di ettari di foreste (media 2015-2020). Negli ultimi trent’anni, secondo la Fao, circa 420 milioni di ettari di foresta (a partire dal 1990) sono andati perduti per diverse ragioni: in primis per la conversione da parte dell’uomo del suolo ad altri usi, come l’agricoltura intensiva, ma anche per urbanizzazione, incendi e altri fattori. Il tasso di deforestazione nell’ultimo decennio è in calo: questo vale per esempio per le foreste europeenord americane e dell’Asia, ma non per l’Africa o il Sudamerica.

Quante ne crescono

Secondo un’analisi di Trillion Trees, join venture fra Wwf e Birdlife international e Wildlife conservation society, negli ultimi 20 anni quasi 59 milioni di ettari di foreste nel mondo sono ricresciuti. Una quantità pari alla superficie dell’intera Francia e che aiuta ad assorbire l’equivalente di 5,9 miliardi di tonnellate di CO2, più di tutte le emissioni annuali degli Usa.

Dove si trovano le grandi foreste

Più della metà delle foreste del mondo si trovano in Russia, Brasile, Canada, Stati Uniti d’America, Congo e Cina. La maggior parte delle foreste (45%) sono nella fascia tropicale, seguite da quella boreale. Le due più grandi foreste pluviali al mondo sono considerate quelle dell’Amazzonia e della Repubblica Democratica del Congo. Negli ultimi 30 anni il 43% dei Paesi ha visto una riduzione netta della propria area forestale, il 38% ha invece guadagnato area forestale e il 19% non ha avuto cambiamenti. Il 30% di tutte le foreste pluviali tropicali, delle foreste subtropicali secche e delle foreste temperate delle coste oceaniche si trovano oggi all’interno di aree protette e oggi 2,05 miliardi di ettari di foreste, oltre la metà del totale, sono soggetti a programmi di gestione.

Dove crescono o diminuiscono

Secondo la Fao i 10 Paesi che in media hanno registrato la più alta perdita annua netta di superficie forestale (tra 2010 e 2020) sono stati Brasile, Repubblica democratica del Congo, Indonesia, Angola, Tanzania, Paraguay, Myanmar, Cambogia, Bolivia e Mozambico. Al contrario, i dieci con il maggiore aumento netto nello stesso periodo sono Cina, Australia, India, Cile, Vietnam, Turchia, Stati Uniti d’America, Francia, Italia e Romania.

Amazzonia e Africa

Nel mondo le emissioni prodotte dalla perdita di superficie forestale sono diminuite di circa un terzo dal 1990. Per due aree però questo andamento positivo sembra non valere. In Amazzonia, secondo l’ong Imazon, solo nell’ultimo anno sono andati distrutti 10.476 chilometri quadrati, un’area più grande del 57% rispetto all’anno precedente e la più estesa dal 2012. Il tasso annuo più alto di perdita netta di foresta negli ultimi dieci anni si osserva però in Africa: qui è stato perduto un totale di 3,9 milioni di ettari. Studi recenti raccontano che questa perdita dovuta alla deforestazione sta già contribuendo ad aumentare gli effetti del riscaldamento globale, a rafforzare l’intensità dei temporali e delle inondazioni, soprattutto nelle aree costiere.

La biodiversità

L’80% della biodiversità terrestre sulla Terra è ospitata dalle foreste. Queste contengono oltre 60mila specie diverse di alberi e ospitano l’80% delle specie di anfibi, il 75% di uccelli e il 68% di mammiferi. La maggior parte delle superfici forestali (93% del totale) è costituita da foreste che si rigenerano naturalmente, il resto da foreste piantate.

La sussistenza

Per la Fao le foreste forniscono oltre 86 milioni di “posti di lavoro verdi” e si stima che di coloro che vivono in condizioni di estrema povertà oltre il 90% dipenda dalle foreste come mezzo di sussistenza, dal cibo sino alla legna.

Come proteggerle

Per preservare le foreste e i suoi abitanti è necessario continuare ad invertire la rotta della deforestazione e per la Fao possiamo farlo attraverso “un cambiamento radicale nel modo in cui produciamo e consumiamo il cibo”. Inoltre è “necessario conservare e gestire le foreste e gli alberi con un approccio che integri il paesaggio e rimediare ai danni finora causati dagli interventi di bonifica”.

(Giacomo Talignani, da www.repubblica.it del 22/1/2022)

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DAVI KOPENAWA portavoce del popolo YANOMANI (foto da Wikipedia)

DAVI KOPENAWA, portavoce del popolo YANOMANI I momenti salienti della vita di Davi Kopenawa – Survival International

EVENTI | 5-6-7 APRILE 2024

UN GRIDO DALL’AMAZZONIA. INSIEME A DAVI KOPENAWA YANOMAMI PER UN VIAGGIO DI CONOSCENZA

Convegno sulla salvaguardia della foresta Amazzonica con Butterfly Effect Butterfly effect project in Amazzonia. Tre giorni di incontri e dialogo con il portavoce del popolo Yanomami e sciamano Davi Kopenawa

L’Associazione Il mondo di Tommaso organizza un convegno di tre giorni che si svolgerà tra la foresta del Cansiglio, il Convento San Francesco della Vigna, a Venezia, e Parco Fenderl a Vittorio Veneto TV. Un vero e proprio viaggio di conoscenza sull’importanza della salvaguardia della Foresta Amazzonica e dei suoi popoli nativi, in particolare degli Indios Yanomami. Il progetto “Butterfly Effect Butterfly effect project in Amazzonia” promosso dall’Associazione, nasce proprio in difesa degli Indios che da sempre vivono e custodiscono la più grande foresta pluviale del mondo, luogo fondamentale per la vita sulla terra. Numerosi gli ospiti che interverranno nel corso delle giornate: Davi Kopenawa, portavoce del popolo Yanomami, sciamano e noto a livello internazionale per il suo impegno in difesa dei diritti indigeni, della salvaguardia della foresta amazzonica e della tutela dell’ambiente; Carlo Zaquini missionario della Consolata in Brasile; Marco Tobon antropologo, accademia degli studi amazzonici dell’Università Nazionale Colombiana, Luca Mercalli climatologo e divulgatore scientifico, Luise Raffaele giornalista e scrittore, autore del libro “Amazzonia. viaggio al tempo della fine”; Toio de Savorgnani scrittore e ambientalista; Michele Boato Direttore dell’Ecoistituto del Veneto Alex Langer.

Tante voci diverse accomunate da una stessa consapevolezza: salvaguardare la foresta, e i suoi abitanti, è fondamentale per salvaguardare l’esistenza stessa del nostro Pianeta.

Il programma degli eventi gratuiti

📆 5 APRILE 2024

📍 Rifugio Alpino Vallorch Al Pian del Cansiglio

▶ 15:00 | Passeggiata con Davi Kopenawa Yanomami, Carlo Zacquini, Toio De Savorgnani e Marco Tobon.

▶ Concerto in foresta con Zumusic Project.

▶ 19:30 | Cena di beneficenza nel Rifugio Alpino Vallorch AL Pian del Cansiglio. (Su prenotazione)

È gradita la prenotazione: info@ilmondoditommaso.org | WhatsApp a Claudio 338 6213782 oppure Toio 346 6139393

📆 6 APRILE 2024

📍 Convento San Francesco della Vigna, Venezia

▶ 16:00 | Convegno sull’Amazzonia con Davi Kopenawa Yanomami, Carlo Zacquini, Luca Mercalli, Marco Tobon, Simone Morandini, Raffaele Luise, Toio De Savorgnani e Michele Boato

📆 7 APRILE 2024

📍 Parco Fenderl, Via San Gottardo 91, Vittorio Veneto (TV)

▶ 10:00 | Incontro con “Artigian e Contadin”

▶ 10:30 | Passeggiata con Davi Kopenawa Yanomami

▶ 11:00 | Spettacolo di burattini con Alberto de Bastiani

▶ 15:00 | Inaugurazione Murales di Ericailcane e Bastardilla

▶ 16:00 | Convegno sull’Amazzonia con Davi Kopenawa Yanomami, Marco Tobon, Paola Favero, Raffaele Luise, Toio De Savorgnani, Michele Boato

▶ 20:30 | Concerto con l’OrcheStraForte, orchestra giovanile formata da una quarantina di studenti di musica

EVENTI GRATUITI

È gradita la prenotazione: info@ilmondoditommaso.org

WhatsApp a Claudio 338 6213782 oppure Toio 346 6139393

Per ulteriori informazioni e rimanere aggiornati sui progetti dell’Associazione: ilmondoditommaso.org

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(Movimento Chipko: abbracciare gli alberi per salvare le foreste dell’Himalaya e dell’India, foto ripresa da https://www.corriere.it/) – (…) Sotto la guida di due discepoli diretti di Gandhi, Mira e Sarala Bhen, e del locale Sunderlal Bahuguna, nel 1973 è nato il Movimento Chipko, che lotta contro il crescente e irrazionale sfruttamento delle risorse forestali sulle pendici dell’Himalaya e dell’India.  Un’iniziativa che è stata ispirata alla storia di Amrita Devi Bishnoi che venne decapitata insieme alle sue tre figlie per aver guidato nel 1730 la difesa pacifica di una foresta di alberi khejri, che l’allora governatore aveva ordinato di abbattere per costruire un nuovo palazzo. (…)” (REBECCA MANZI, da https://www.greenme.it/)

MOVIMENTO CHIPKO, ABBRACCIARE GLI ALBERI PER SALVARE LE FORESTE DELL’HIMALAYA E DELL’INDIA

di Rebecca Manzi, da https://www.greenme.it/, 12/1/2024

– Uno sforzo collettivo, in primis delle donne contadine, per preservare le foreste ed evitare l’abbattimento degli alberi, ispirandosi ad un episodio del 1730 –

   Sotto la guida di due discepoli diretti di Gandhi, Mira e Sarala Bhen, e del locale Sunderlal Bahuguna, nel 1973 è nato il Movimento Chipko, che lotta contro il crescente e irrazionale sfruttamento delle risorse forestali sulle pendici dell’Himalaya e dell’India.

   Un’iniziativa che è stata ispirata alla storia di Amrita Devi Bishnoi che venne decapitata insieme alle sue tre figlie per aver guidato nel 1730 la difesa pacifica di una foresta di alberi khejri, che l’allora governatore aveva ordinato di abbattere per costruire un nuovo palazzo.

   Si narra che la sua ultima frase sia stata: “Una testa mozzata è più economica di un albero abbattuto”.  Quando la notizia si diffuse, i bishnoi di diversi villaggi si recarono sul posto per manifestare contro il disboscamento.

   Uomini, donne, anziani e bambini iniziarono ad abbracciare gli alberi, ma i soldati non ebbero pietà. Tanti, tantissimi, fecero infatti la stessa fine di Amrita. Quel giorno a terra rimasero i corpi di 363 persone uccise mentre proteggevano la foresta.

GLI ESORDI DEL MOVIMENTO CHIPKO

Per far sì che il loro gesto non sia stato vano, si diede vita al Movimento Chipko che da allora si spende per salvare gli alberi pacificamente. La prima azione risale al 1973, quando un gruppo di abitanti della comunità di Mandal si recò nella foresta battendo i tamburi per proteggere 300 frassini che dovevano essere abbattuti.

   Questa volta, però, ebbero più fortuna. Gli operatori con le motoseghe, vedendo la comunità organizzata e determinata ad abbracciare gli alberi, desistettero dall’abbatterli. Proprio da qui il movimento prese il nome di Chipko, che in hindi significa “abbracciare” o “aggrapparsi”.

   Un movimento di donne e uomini, ma soprattutto di donne contadine che furono protagoniste nonostante i propri mariti lavorassero nelle segherie. Spesso si trovarono a contrastare i loro stessi compagni, ma gli ideali erano più forti di tutto.

   Inizialmente l’obiettivo del Chipko era solo la sopravvivenza delle comunità rurali, che avevano bisogno delle risorse forestali, ma a poco a poco il movimento si è evoluto e si è affermato nel corso del tempo anche grazie a fenomeni nati successivamente ma che qui ebbero i loro esordi come il femminismo o l’ambientalismo. (Rebecca Manzi, da https://www.greenme.it/, 12/1/2024)

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(Alberi abbattuti a Cortina, immagine da https://www.today.it/) – (marzo 2024) 500 larici a CORTINA abbattuti; un abbattimento programmato nel BOSCO di RONCO per fare posto alla PISTA da BOB per le Olimpiadi 2026

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LE DONNE INDIGENE CI STANNO MOSTRANDO COME LOTTARE PER I DIRITTI AMBIENTALI E UMANI

di CARLOTTA SISTI, 7/2/2024, da https://www.elle.com/it/magazine/

– Le donne indigene attiviste del Sud America hanno cambiato completamente il panorama politico e non hanno intenzione di mollare –

   Il Sud America è attraversato da Continua a leggere

Lo SPOPOLAMENTO dei COMUNI periferici, e il conseguente accentramento della popolazione nelle maggiori aree urbane, denota sia la crisi di servizi (sanità, scuola, mobilità…) e opportunità dei medi-piccoli comuni, oltreché il loro isolamento politico, economico, culturale – Perché la FUSIONE dei COMUNI in CITTÀ è un PROCESSO istituzionale già in grave ritardo storico

(giovani costretti ad andarsene: lo spopolamento di tanti comuni è particolarmente dovuto alla mancanza di opportunità; foto ripresa da https://www.basilicata24.it/)

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(CLASSIFICAZIONE DELLE AREE INTERNE – da IL SOLE 24ORE del 17/3/2024)

LE AREE INTERNE

I Comuni periferici

Le Aree Interne sono rappresentate dai Comuni italiani più periferici, in termini di accesso ai servizi essenziali (salute, istruzione, mobilità) e quindi maggiormente distanti rispetto ai centri di offerta di servizi. La classificazione delle Aree Interne è il risultato di un percorso metodologico avviato dall’ex-Agenzia per la Coesione Territoriale, all’interno della Strategia Nazionale per le Aree Interne (SNAI), che ha visto coinvolti

l’Istat, la Banca d’Italia e le Regioni. Per individuare i comuni che ricadono nelle aree interne, per prima cosa vengono definiti i Comuni “polo”, cioè le realtà territoriali che offrono contemporaneamente (da soli o insieme ai confinanti): A. un’offerta scolastica secondaria superiore completa, cioè almeno un liceo (classico o scientifico) e almeno uno fra istituto tecnico e istituto professionale; B. almeno un ospedale con capacità operative avanzate; C. una stazione ferroviaria medio-piccola con più di 2.500 passeggeri al giorno.   Maggiore è la distanza dal comune che offre simultaneamente questi tre servizi, maggiore è la connotazione periferica del comune in esame. (Carlo Marroni, da “il Sole 24ore” del 17/3/2024)

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L’INVERNO DEMOGRAFICO

L’ITALIA SPOPOLATA DEI COMUNI INTERNI: GLI ABITANTI FUGGONO, RESTANO GLI OVER 80

di Carlo Marroni, da “il Sole 24ore” del 17/3/2024

– Il 58% del Paese non ha servizi sufficienti, i residenti emigrano verso altri luoghi – Il record spetta a Basilicata, Molise, Calabria e Sardegna. A rischio Liguria e Friuli – il calo Nel 2030 i residenti italiani diminuiranno di 600mila unità e saranno tutti abitanti delle aeree più periferiche – le AREE INTERNE Nelle zone con minor dotazione di servizi abita il 22,7% della popolazione, poco più di 13 milioni di persone –

   L’Italia continua spopolarsi: sempre meno abitanti e più anziani. Il 58% del territorio è coperto da AREE INTERNE (zone non necessariamente lontane dal mare o povere) dove è residente il 23% della popolazione (12 milioni di persone). Qui la minor dotazione (di servizi) si fa sentire e i residenti fuggono. Sul posto restano sempre più over 80. L’abbandono dei territori riguarda regioni del Sud, tra cui Basilicata, Molise, Calabria, Sardegna, ma anche aree ligure, piemontesi, friulane.

   Il primo pensiero va all’immagine di un piccolo agglomerato di case, magari attorno a un vecchio campanile, più o meno in alta collina. L’Italia dei piccoli borghi, con al massimo una bottega. Ma le “aree interne” sono anche altre, e mai si penserebbe che sono tali – per assenza di specifici servizi – città come la splendida Matera o addirittura località costiere, come Termoli. Interna quindi non significa lontano dal mare. E neppure povera, come l’immaginario vorrebbe, visto che ci sono luoghi come Cernobbio.

   L’Italia vede la parte principale del suo territorio, oltre il 58%, coperta da comuni definiti “AREE INTERNE”, dove è residente (non è detto che ci viva) meno di un quarto della popolazione, esattamente il 22,7 per cento, poco più di 13 milioni di persone.

   Per chiarire il concetto: le aree interne sono i comuni italiani più periferici, in termini di accesso ai servizi essenziali (salute, istruzione, mobilità). Per definire quali ricadono nelle aree interne, per prima cosa vengono definiti i COMUNI “POLO”, cioè realtà che offrono contemporaneamente (da soli o insieme ai confinanti): 1) un’offerta scolastica secondaria superiore articolata (cioè almeno un liceo – scientifico o classico – e almeno uno tra istituto tecnico e professionale), 2) almeno un ospedale avanzato, 3) una stazione ferroviaria media con almeno 2.500 passeggeri al giorno.

   Per la sua conformazione del territorio l’Italia, attraversata per larga parte da catene montuose o dalla dorsale appenninica, è innervata di centri minori – classificati dall’Istat in COMUNI INTERMEDI, PERIFERICI e ULTRAPERIFERICI – che, in molti casi, sono in grado di garantire ai residenti soltanto una limitata accessibilità ai servizi essenziali.

   La regione con la maggiore percentuale di comuni in forte spopolamento (tasso di crescita continuo negativo, inferiore al -4 per mille annuo) è la Basilicata (68,7%, 90 comuni su 131), seguita a breve distanza dal Molise (60,3%, 82 comuni su 136) e dalla Calabria (58,4%, 236 comuni su 404). All’opposto, le regioni con la percentuale maggiore di comuni in forte crescita sono il Trentino-Alto Adige/Südtirol e l’Emilia-Romagna, entrambe con il 50% dei comuni in crescita, cioè oltre il 4 per mille annuo (141 comuni su 282 in Trentino e 164 su 328 in Emilia-Romagna), con il caso della Liguria, con circa il 29% dei comuni in forte spopolamento (68 comuni su 234).

   Questo per quanto riguarda i numeri principali, che mettono bene in evidenza come per l’Italia sia essenziale comprendere il problema – e su questo c’è un grosso impegno dell’Università del Molise, che dal 2016 ha costituito il Centro di Ricerca per le Aree Interne e gli Appennini (ArIA). Come mostrano i ricercatori di ArIA Carlo Lallo, Emilio Cameli e Federico Benassi la questione è nel contempo sociale, di sviluppo economico, di rappresentanza politica e di tenuta del territorio.

   Un dato quindi va subito ben chiarito: non sono aree deserte, visto che spesso comprendono città molto abitate. Il tema è quello dei servizi, la cui assenza accentua via via nel tempo un processo di spopolamento, o comunque di impoverimento, vista la migrazione di giovani e l’innalzamento progressivo dell’età media. Non c’è una soluzione unica proprio per la varietà presente, ma per tutti serve una presenza delle istituzioni – dicono gli esperti – con soluzioni che possano attingere anche all’esperienza recente, su tutte il Covid e l’operatività a distanza, sia lavorativa che didattica. Infatti la sfida è portare una struttura digitale dove questa è assente o debole, permettendo magari di aggregare offerte di servizi in aree limitrofe.

   Comunque il tema dello spopolamento non è solo territoriale, visto che l’Italia perde un milione di abitanti ogni 3-4 anni, e in più molti residenti in piccoli centri in realtà lo sono solo nominalmente (spesso per motivi fiscali) ma in realtà vivono in centri maggiori. Se la previsione da ora al 2030 è di un calo di popolazione italiana di circa 600mila persone, queste saranno concentrate soprattutto nelle aree interne: le stime parlano di un calo del 4,2 per mille, rispetto all’1,6 dei maggiori centri abitanti. Poi c’è l’età: nel 19,8% dei comuni italiani (1565 su 7904) gli anziani con più di ottanta anni segnano una forte presenza, tra un decimo ed un terzo dell’intera popolazione. La Regione con il più alto numero di comuni con forte presenza anziana è il Molise (51,5%, 70 comuni su 136), seguita dalla Liguria (50,4%, 118 comuni su 234) e dall’Abruzzo (40%, 122 comuni su 305).

   Come visto le Aree Interne – si rileva in un focus dell’Istat – risultano presenti soprattutto nelle regioni del Mezzogiorno dove complessivamente il 67,4% dei Comuni rientra nelle Aree interne, con picchi in Basilicata Sicilia, Molise e Sardegna dove tali percentuali superano il 70%. Al Centro Italia il peso relativo di queste aree è molto più contenuto e arriva, con 532 Comuni, al 54,8% del totale. Qui la distribuzione regionale appare molto più equilibrata rispetto alle altre ripartizioni ed è compresa tra il 46,3% delle Marche e il 60,1% della Toscana. Nel Nord-ovest e nel Nord-est la quota di Comuni che rientrano nelle Aree Interne si riduce ulteriormente, 33,7%e 41,4% rispettivamente.

   Rispetto all’altimetria i comuni interni montani rappresentano il 48,9% del totale, nelle aree collinari sono presenti 1.625 (42,4%), con significative presenze in Sardegna (218 Comuni), Sicilia (198 Comuni) e Campania (173); quelli localizzati in pianura sono appena 335 (8,7%).

   La distribuzione dei Comuni secondo le altre caratteristiche fisiche conferma il quadro appena descritto: l’84,5% dei Comuni si colloca lontano dal mare (Comune non costiero), per il 79,9% si tratta di Comuni definiti “rurali” secondo la classificazione europea del grado di urbanizzazione. La bassa densità abitativa è la caratteristica maggiormente evidente, ma non mancano le eccezioni. Si tratta di otto comuni con oltre 50mila residenti: il caso più eclatante è quello di Gela in Sicilia (più di 72mila abitanti), classificato come Periferico perché manca di una stazione ferroviaria almeno di tipo Silver. Per le medesime ragioni il comune di Altamura in Puglia è classificato come Intermedio (quasi 70mila abitanti), mentre Vittoria in Sicilia, che ha poco più di 62mila residenti, è classificato come Intermedio per l’assenza di ospedali avanzati e stazioni ferroviarie come requisito. Anche alcuni capoluoghi sono classificati tra le Aree Interne, oltre Matera (quasi 60mila abitanti), risultano Nuoro ed Enna, per la mancanza di una stazione ferroviaria, e Isernia per l’assenza di un ospedale con servizio “Dea” (ndr: Dipartimento di Emergenza Urgenza e Accettazione).

(CARLO MARRONI, da “il Sole 24ore” del 17/3/2024)

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(Numero di Comuni per regione, tabella tratta da https://www.lentepubblica.it/)

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(MAPPA DELLO SPOPOLAMENTO PER REGIONI, da “il Sole 24ore” del 17/3/2024) (CLICCARE SULL’IMMAGINE PER INGRANDIRLA)

LO SPOPOLAMENTO

Basilicata al record

La regione con la maggiore percentuale di comuni in forte spopolamento (tasso di crescita continuo negativo, inferiore al -4 per mille annuo) è la Basilicata (68,7%, 90 comuni su 131), seguita a breve distanza dal Molise (60,3%, 82 comuni su 136) e dalla Calabria (58,4%, 236 comuni su 404). All’opposto, le regioni con la percentuale maggiore di comuni in forte crescita sono il Trentino-Alto Adige/Südtirol e l’EmiliaRomagna, entrambe con il 50% dei comuni in forte crescita, cioè oltre il 4 per mille annuo (141 comuni su 282 in Trentino e 164 su 328 in Emilia-Romagna).

   La polarizzazione Nord in crescita/Sud in spopolamento è evidente: la prima regione del Nord nella classifica è la Liguria, al 10° posto, con circa il 29% dei comuni in forte spopolamento (68 comuni su 234). Al tempo stesso, nessuna regione italiana è esente da fenomeni di spopolamento in almeno una parte dei propri comuni.

Trentino a due velocità

Ad esempio, in Trentino-Alto Adige/Südtirol il 4,6% dei comuni segna comunque una forte diminuzione della popolazione (13 comuni su 282), ed in Emilia-Romagna la percentuale dei comuni in forte contrazione demografica arriva al 17,7% (58 comuni su 328).

   Simmetricamente, anche in Basilicata, Molise e Calabria sono presenti comuni in forte crescita: il 3,1% (4 comuni su 13) in Basilicata, il 9,6% (13 comuni su 136) in Molise e il 7,4% (30 comuni su 404) in Calabria.

(Carlo Marroni, da “il Sole 24ore” del 17/3/2024)

INVECCHIAMENTO

Il peso degli over 80

Nel 19,8% dei comuni italiani (1565 su 7904) gli anziani con più di ottanta anni segnano una forte presenza, tra un decimo ed un terzo dell’intera popolazione. La Regione con il più alto numero di comuni con forte presenza anziana è il Molise (51,5%, 70 comuni su 136), seguita dalla Liguria (50,4%, 118 comuni su 234) e dall’Abruzzo (40%, 122 comuni su 305).   All’opposto, in Trentino-Alto Adige/Südtirol ed in Veneto il numero di comuni con una forte presenza anziana non superano il 5% (sono infatti solo l’1,4% in Trentino ed il 4,1% in Veneto).   In Trentino-Alto Adige in particolare, quasi la metà di comuni sono caratterizzati da una struttura molto più giovane del collettivo nazionale. Il 48.9% dei comuni trentini e altoatesini, 138 comuni su 282, segnano infatti una presenza di ultraottantenni inferiore al 6,4%.

(Carlo Marroni, da “il Sole 24ore” del 17/3/2024)

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L’ITALIA DEI PICCOLI COMUNI TRA CRISI, SPOPOLAMENTO E VOGLIA DI RISCATTO

di Francesca Liani, 24/1/2024, da https://www.lentepubblica.it/

L’Italia rimane un Paese di piccoli Comuni anche se dal 2000 ci sono 205 Comuni in meno.

   È stato recentemente presentato uno studio della Fondazione Think Tank Nord Est, laboratorio di idee, proposte e animatore del dibattito sullo sviluppo del territorio compreso tra le province di Venezia, Treviso, Udine e Pordenone, che ha analizzato il fenomeno della riduzione progressiva del numero dei Comuni italiani alla luce dei dati Istat.

   Dal report si apprende che a partire dal 22 gennaio 2024, il numero dei Comuni in Italia è sceso a 7.896. Quello della diminuzione dei Comuni è stato un processo lento ma inesorabile cominciato all’inizio degli anni Duemila. Nel 2001 infatti, l’Italia esprimeva il numero massimo dei Comuni pari a 8.101 ma da allora c’è stata una diminuzione di 205 unità. Un processo analogo a quello di molti altri Paesi europei ma  più diluito nel tempo: infatti, tra 2006 e 2023, mentre in Italia il calo è stato solamente del 2,5%, in Grecia la riduzione è stata del 68%, nei Paesi Bassi del 25%, in Germania del 13%, in Austria dell’11% e in Francia del 5%. Oggi l’Italia è il quarto Paese europeo per numero di Comuni, dietro a Francia, Germania e Spagna.

L’ITALIA, UN PAESE DI PICCOLI COMUNI TRA CRISI, SPOPOLAMENTO E VOGLIA DI RISCATTO

Nonostante la riduzione del numero di Comuni, l’Italia si presenta ancora come un Paese di piccoli Comuni; il 70% ha meno di 5.000 abitanti (5.521), mentre il 25,5% hanno addirittura meno di 1.000 abitanti (2.012). I piccoli Comuni si trovano soprattutto nelle aree alpine ed appenniniche, ma sono presenti anche nelle basse pianure del Nord e in alcune aree del Meridione.

   Il numero maggiore di Comuni italiani è concentrato nel Nord del Paese: il 19% si trova in Lombardia e quasi il 15% in Piemonte; in queste due regioni ci sono più di 1.000 Enti con meno di 5 mila abitanti. In Valle d’Aosta, capoluogo a parte, tutti i Comuni sono di piccola dimensione, ma una percentuale molto significativa di piccoli Municipi si registra anche in Molise (94,1%), Piemonte (88,6%), Trentino Alto Adige (85,8%), Sardegna (83,8%), Abruzzo (83%) e Basilicata (81,7%).

   Questi Comuni sono attraversati da fenomeni socio-economici e demografici molto simili  ossia: invecchiamento della popolazione, disoccupazione, progressivo abbandono e spopolamento, crisi della natalità.

   In particolare lo spopolamento dovuto alla mancanza di opportunità vincola soprattutto gli anziani e coloro che più faticano a trovare alternative. Di conseguenza, cresce in questi territori il bisogno di Stato sociale che si faccia carico non solo delle persone più fragili ma anche del cambiamento climatico e del dissesto idrogeologico che espone i piccoli Comuni delle aree interne a calamità e ad eventi estremi (piogge torrenziali, inondazioni e frane; siccità e incendi; tempeste di vento ecc.)

   Eppure, nonostante questa fragilità, i piccoli Comuni rimangono custodi di un immenso patrimonio naturale, d’arte, cultura, tradizioni, con una varietà enogastronomica che non ha uguali nel mondo, e forse proprio per le loro piccole dimensioni, sono diventati anche luoghi di sperimentazione di buone pratiche più innovative in fatto di energia, turismo (alberghi diffusi) economia verde e riciclo dei rifiuti, laboratori di accoglienza e inclusione sociale.

   Lo stesso Papa Francesco invita queste comunità a guardare le opportunità oltre i vincoli, ad impegnarsi in “pratiche sociali innovative”, nella cura del territorio in chiave sostenibile, a sperimentare nuove forme di welfare  basate su “forme di mutualità e reciprocità”.

   Nel frattempo, tuttavia, il fenomeno dell’invecchiamento e della riduzione della popolazione italiana farà sentire sempre più i suoi effetti in futuro, con riduzioni di residenti nei piccoli comuni intorno al 5% entro il 2040.

LE STRATEGIE PER ARGINARE L’ABBANDONO DEI BORGHI

Una delle strategie messe in atto per frenare l’abbandono e lo spopolamento dei Comuni è l’accorpamento/fusione che in Veneto è ora norma nel Piano di Riordino Territoriale.

   Ma non è detto che la soluzione migliore sia la fusione. L’unione dei Comuni è una forma di associazione tra comuni confinanti che non prevede la fusione tra amministrazioni ma la gestione condivisa di alcune funzioni e servizi, mantenendo la propria autonomia negli altri aspetti. Le unioni presenti in Italia sono 540. La regione che in termini assoluti registra il maggior numero di enti è il Piemonte (116) seguito da Lombardia (75) e Sicilia (50). Le due aree con il numero minore sono l’Umbria (4) e la provincia autonoma di Trento (2).

   Sicuramente, la condivisione di progettualità a livello sovracomunale è già un passo importante che molti Comuni condividono anche per mettere a sistema l’offerta ed intercettare maggiori risorse ed investimenti sul territorio.

   Per assicurare un futuro a questa parte del Paese, Legambiente promuove dal 2004 PiccolaGrandeItalia, una campagna il cui obiettivo è tutelare l’ambiente e la qualità della vita dei cittadini che vivono in questi centri stretti fra la rarefazione dei servizi e lo spopolamento. Affinché non esistano aree deboli, ma comunità messe in condizione di funzionare al meglio e competere.

Di certo lo spirito di sopravvivenza dei piccoli Comuni d’Italia è ben temprato. Oltre l’inverno demografico, tra le rughe dei pochi anziani rimasti, in mezzo alla crisi economica che incrementa lo spopolamento, si intravede voglia di riscatto e riaffermazione.

   I 4.381 progetti presentati ad Invitalia con il bando Imprese Borghi e gli 850 da finanziabili con il bando MAECI per il  turismo delle radici, testimoniano che i piccoli Comuni non desiderano semplicemente sopravvivere ma vogliano invertire la rotta ed essere protagonisti di una nuova rinascita all’insegna della bellezza, dell’autenticità e della riscoperta delle tradizioni.

(Francesca Liani, 24/1/2024, da https://www.lentepubblica.it/)

(Mappa dei comuni in Italia con meno di 5mila abitanti, tratta da https://www.lentepubblica.it/)

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(tabella tratta da https://www.lentepubblica.it/)

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QUANDO LA GEOGRAFIA ISTITUZIONALE FRENA LO SVILUPPO DEI TERRITORI

di Dario Immordino, da “la voce.info” del 12/12/2023, https://lavoce.info/  

I bacini istituzionali si rivelano molto più piccoli di quelli utilizzati quotidianamente dalla popolazione e dalle imprese. Il riassetto istituzionale dovrebbe riguardare l’intero sistema dei poteri locali, compresa la galassia di società partecipate –

Il peso della geografia istituzionale

Il deficit di qualità istituzionale del sistema italiano certificato dal rapporto dell’Istat, dalla relazione della Commissione europea sulle politiche di coesione e da molte relazioni dei presidenti dei tribunali amministrativi dipende in certa misura dalle criticità dell’assetto istituzionale.

   In una situazione ideale dal punto di vista dell’efficienza, la dimensione demografica del governo locale è strutturata in modo da rispecchiare le caratteristiche socioeconomiche territoriali e da consentire lo sfruttamento di economie di scala (le prestazioni vengono prodotte al minore costo unitario possibile) e la massima coincidenza tra utilizzatori e finanziatori dell’offerta territoriale di prestazioni pubbliche. In queste condizioni, tutti i servizi vengono erogati secondo adeguati standard qualitativi e quantitativi, poiché raggiungono la soglia minima di domanda sufficiente, i cittadini sono in grado di esercitare il massimo controllo sull’operato dei propri amministratori.

   Invece i sistemi locali del lavoro dimostrano inequivocabilmente che i bacini istituzionali non rispecchiano l’assetto e le esigenze della mobilità, del lavoro, della società, della produzione e il sistema di relazioni economiche e sociali, poiché si rivelano molto più piccoli di quelli utilizzati quotidianamente dalla popolazione e dalle imprese.

   Di fatto, la realtà istituzionale, definita dai confini amministrativi, non coincide con quella vissuta da cittadini e imprese, delineata dai flussi di pendolarismo, dalla geografia delle attività produttive, delle residenze e dei luoghi di lavoro. Le relazioni socio-economiche sono fluide e in continua evoluzione e richiedono flessibilità e capacità di adattamento da parte delle politiche pubbliche e degli assetti istituzionali, mentre i confini amministrativi producono rigidità, frazionamento istituzionale e criticità decisionali.

   I piccoli enti non raggiungono la dimensione minima necessaria a conseguire economie di scala e di scopo nella produzione dei servizi, ad abbattere i costi fissi di erogazione delle prestazioni e a garantire lo svolgimento efficiente delle funzioni di loro competenza. Finiscono così per sostenere oneri elevati per fornire a cittadini e imprese servizi inadeguati. Non a caso gli ultimi rapporti della Corte dei conti certificano che sempre più enti locali non sono in grado di offrire prestazioni pubbliche adeguate agli standard qualitativi e quantitativi prescritti e di garantire i diritti essenziali dei cittadini.

   In alcune realtà territoriali, peraltro, la ridotta dimensione demografica si accompagna alla presenza di altri fattori critici: bassa densità abitativa e caratteristiche morfologiche sfavorevoli del territorio, che comportano una lievitazione dei costi di esercizio di alcune funzioni (trasporto pubblico, istruzione, sanità e assistenza), presenza di “motori economici” deboli, progressivo spopolamento dei piccoli comuni, scarsa presenza della popolazione giovanile e forte incidenza di quella anziana, che rende necessaria l’attivazione di servizi assistenziali che gli enti più piccoli difficilmente riescono a sostenere, a causa delle scarse risorse disponibili e degli elevati costi di gestione (distribuiti tra un numero di utenti ridotto che non consente di raggiungere risultati di economicità ed efficacia).

   La competizione nazionale e internazionale, ma anche l’articolato strumentario di target e milestone del Piano nazionale di ripresa e resilienza e delle politiche di coesione, impongono servizi altamente qualificati nel campo della ricerca e dell’innovazione, delle grandi infrastrutture di trasporto e comunicazione, settori che contribuiscono all’attrattività dei territori e richiedono in genere una soglia di domanda elevata per poter essere economicamente sostenibili.

   Sottodimensionamento e frammentazione istituzionale, invece, impongono una barriera burocratica in territori molto integrati dal punto di vista funzionale, ostacolano l’innovazione, escludono i sistemi territoriali da segmenti economici in crescita, perché li rendono inadeguati alle trasformazioni dei flussi turistici e dei settori industriali governati dalle piattaforme elettroniche globali e degli altri fenomeni che condizionano il mercato immobiliare, il tessuto commerciale e produttivo, le esigenze e consuetudini sociali.

   Queste criticità dell’assetto istituzionale comportano non solo marginalizzazione e maggiori oneri economici per il sistema produttivo (con conseguente perdita di competitività), ma anche costi ambientali e sociali sempre più pesanti, che gravano soprattutto sui residenti e sugli utenti dei servizi pubblici (congestione da traffico, inquinamento).

   In più, l’estrema frammentazione della realtà istituzionale implica la moltiplicazione dei centri di programmazione e di spesa e la frantumazione delle politiche di sviluppo territoriale in una infinità di misure e interventi che assorbono risorse pubbliche senza produrre adeguate prestazioni.

Come riorganizzare l’assetto degli enti locali

Il percorso riformatore innescato dal Pnrr costituisce l’occasione per riorganizzare l’assetto degli enti locali incentrandolo sul criterio della funzionalità, cioè sull’esistenza di esigenze e caratteristiche comuni a più territori, secondo un approccio che consenta di utilizzare in modo strategico le risorse e le potenzialità di ogni contesto, di valorizzarne il potenziale competitivo (capitale infrastrutturale, naturale, produttivo, cognitivo, sociale e relazionale), di attivare sinergie, di strutturare nuove efficienti politiche territoriali e di programmazione (dalla pianificazione strategica alla progettazione partecipata); di individuare limiti di soglia o sostenibilità.

   L’obiettivo dovrebbe essere strutturare un sistema di governo locale calibrato sulla base delle specificità territoriali come la compenetrazione urbanistica, la condivisione di servizi culturali e scolastici, lo sviluppo urbano ed economico e le prospettive potenziali di crescita (logistica e portualità, industria ed energia, turismo e servizi d’area vasta) e in grado di favorire la gestione e il consumo razionale e sostenibile del suolo e degli spazi urbani, oltre che di altri beni collettivi come welfare, sanità, ricerca e formazione, acqua, energia, la connessione delle reti urbane e infrastrutturali.

   Il sistema di governo locale deve essere incentrato sul potenziamento delle filiere (scuola-formazione-politiche per l’impiego, pianificazione-paesaggio-tutela ambiente e così via) e della dimensione di area vasta, attraverso la riorganizzazione degli enti intermedi e la promozione di forme associative e di cooperazione e di spazi di concertazione tra gli enti e i soggetti operanti nel territorio, al fine di contenere il consumo di suolo, organizzare la mobilità e i flussi di pendolari e di merci, gestire i servizi su scala adeguata, pianificare gli insediamenti produttivi e di servizio, gestire le politiche ambientali, programmare lo sviluppo locale, l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, le reti infrastrutturali.

   Bisogna dunque riconfigurare la dimensione istituzionale del governo locale, ma per conseguire gli impegnativi obiettivi di efficienza imposti dal Pnrr e dalle politiche europee, l’accrescimento dimensionale degli enti locali deve essere accompagnato da una riconfigurazione qualitativa delle politiche territoriali, calibrata in ragione delle caratteristiche demografiche e strutturali delle singole funzioni e dei diversi contesti territoriali, della diffusione delle infrastrutture e dei servizi, della densità amministrativa e demografica, della diffusione dell’attività manifatturiera, turistica, del lavoro, e della ricchezza, in modo da individuare la dimensione appropriata degli interventi di sviluppo territoriale e di coesione sociale, della pianificazione e dell’allocazione delle risorse.

   Qualunque riassetto istituzionale, per rivelarsi efficace, dovrebbe riguardare l’intero sistema dei poteri locali, le strutture periferiche statali e regionali e la vasta galassia di società partecipate, enti e organismi strumentali, agenzie, soggetti d’ambito, unioni, Gal, convenzioni, distretti, consorzi. Ciò consentirebbe di garantire l’effettiva corrispondenza tra costi delle funzioni e risorse, di salvaguardare l’autonomia territoriale e al contempo di offrire ai cittadini e alle imprese un livello adeguato di servizi e prestazioni senza gravare troppo sulle tasche dei contribuenti, razionalizzando il vasto apparato di enti e società regionali che la Corte dei conti ha definito “fuori controllo” ed eliminando duplicazioni e sovrapposizioni di competenze che appesantiscono l’azione pubblica e ne incrementano i costi annacquando le responsabilità.

(Dario Immordino, da “la voce.info” del 12/12/2023, https://lavoce.info/)

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(tabella ripresa da https://www.lentepubblica.it/) (CLICCARE SULL’IMMAGINE PER INGRANDIRLA) – Progetti pilota per la rigenerazione culturale, sociale ed economica di Borghi a rischio di abbandono o abbandonati, sostenuti dal Ministero della Cultura con fondi del PNRR (M1C3 Turismo e Cultura 4.0 misura 2 Rigenerazione di piccoli siti culturali, patrimonio culturale religioso e rurale)
(RECOARO TERME, qui parte del BORGO STORICO, comune con un illustre passato termale e turistico, ora in grave crisi di abbandono; foto ripresa da https://www.confcommerciovicenza.info/)

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(RIPRENDIAMO QUI una parte di un post qui pubblicato, in questo blog “Geograficamente”, dove formulavamo alcune PROPOSTE PER RIVITALIZZARE I PAESI ABBANDONATI o in corso di abbandono. Siccome ci sembrano idee e proposte ancora valide da realizzarsi, le riproponiamo qui di seguito):

(…..)  Un fenomeno tangibile, visibile, l’abbandono e la desertificazione di paesi specie di montagna o lontani da centri urbani significativi, frutto dell’incedere della storia nei territori, dove ogni luogo (fatto di natura, artificio umano, accadimenti storici) può essere oggettivamente destinato all’abbandono. Ma la cosa non è rassicurante (l’oggettività):la rassegnazione all’abbandono denota incapacità di trasformarsi, un declino culturale, economico, ambientale, sociale, urbano….

Tentiamo, nell’individuare in questo post geografie dei luoghi, cause dell’abbandono, effetti, di dare spunti per un ritorno alla vita di paesi ora desolatamente vuoti di giovani, bambini (spesso ci sono solo pochi anziani…), senza persone che ci vivono, lavorano, vivono.

LE CAUSE DELL’ABBANDONO

   I motivi di spopolamento sono molteplici. I vecchi alpeggi, ad esempio, sono stati abbandonati con il boom economico del secondo dopoguerra, preferendo ad essi condizioni di vita migliori, più comode, andando a lavorare in fabbrica o emigrando in altri Paesi. Ci sono borghi abbandonati perché troppo isolati; altri perché distrutti da continui terremoti, frane e alluvioni (forse questa è la causa principale dell’abbandono: si va a costruire in zona più sicura il “nuovo paese”, a volte ragionevolmente e con buone riuscite urbanistiche, la maggior parte creando degli obbrobri…). Ma non da meno ci sono in primis, come motivo dell’abbandono, ragioni economiche, come nel caso dei villaggi minerari in Sardegna, oppure nella Alpi e nella catena appenninica per l’insostenibilità di una vita magra, fatta di privazioni non più sopportabili nell’era dell’inizio del benessere economico dagli anni 60 del secolo scorso.

LE PROPOSTE DI RIPOPOLAMENTO (OLTRE ALLE FONDAMENTALI “SANITÀ, SCUOLA, MOBILITÀ”)

1- Innanzitutto noi crediamo a una vera nuova riorganizzazione istituzionale dei territori, coinvolgendoli tutti in AREE METROPOLITANE (se non piace questo termine per zone e paesi di montagna, chiamiamoli AGROPOLITANI o quant’altro di simile e più accattivante…). Non può essere che il “sistema-Paese” (nazione) pensi di potenziare e investire risorse e innovazione solo in 15 Aree-Città (metropolitane) (più o meno corrispondenti ai maggiori nuclei urbani che ci sono adesso), tralasciando il ruolo di tutto il resto del territorio nazionale. Continua a leggere

Il MOLISE che vuole ritornare negli ABRUZZI: ipotesi (necessaria) di due regioni accorpate in una (com’era in origine) – Ma costi, efficienza dei servizi, identità territoriale, dialogo allargato geopolitico, mostrano la necessità di MACROREGIONI che interessino tutte le attuali regioni, in un processo federalista (oltre e per ogni tipo di autonomia)

(Foto da https://www.open.online/) – Dopo un divorzio durato 60 anni il MOLISE vorrebbe tornare negli ABRUZZI. Infatti la minuscola regione fino al 1963 si chiamava proprio «Abruzzi e Molise»

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COM’ERA fino al 1963 e COM’È oggi (mappe riprese da “il Corriere della Sera” del 11/3/2024)

IL MOLISE? ESISTE, MA SI PUÒ ACCORPARE ALL’ABRUZZO. ECCO IL REFERENDUM PER FARE «A PEZZI» LA REGIONE PIÙ BISTRATTATA D’ITALIA

di Diego Messini, da https://www.open.online/, 1/2/2024

– Presentata la raccolta firme per chiedere che la provincia di Isernia sia accorpata alla regione confinante. «Se ci riusciamo il Molise crollerà» –

   Unire il Molise all’Abruzzo, un pezzetto alla volta. È l’idea dei promotori di un referendum popolare presentato il primo febbraio scorso, che si propone, per ora, di accorpare la provincia di Isernia alla Regione confinante. «Il percorso per accorpare direttamente il Molise all’Abruzzo – ha spiegato all’Ansa il presidente del Comitato, Antonio Libero Bucci – richiede due passaggi molto complicati: una modifica di natura costituzionale e l’approvazione dei Consigli regionali delle regioni coinvolte. Quindi abbiamo cercato un percorso alternativo, ovvero chiedere l’accorpamento di enti locali con la regione confinante, nel nostro caso della Provincia di Isernia con l’Abruzzo». In questo modo si evita di dover far approvare dal Parlamento una legge di rango costituzionale. Ne basterebbe una ordinaria.

   «Prima, però, è necessario un referendum indetto dall’ente locale in questione per il quale il nostro Comitato ha avviato una petizione popolare. Sono necessarie, secondo lo Statuto della Provincia di Isernia, 5000 firme per richiederlo», ha spiegato ancora Bucci. E se il piano andasse in porto? Se davvero la provincia di Isernia dovesse passare all’Abruzzo, è la tesi dei proponenti del referendum, a quel punto «il Molise non potrà restare in piedi come Regione con una sola provincia, quella di Campobasso.

A quel punto si procederà con una legge di natura costituzionale per eliminare la regione Molise», assicura Bucci. Ma per quale ragioni i dieci proponenti e chi li sostiene vuole proprio “disfarsi” della Regione più piccola d’Italia? Le ragioni, viene spiegato, «attengono alle aspettative dei cittadini i quali, in Molise, non hanno più un servizio sanitario efficiente, dei collegamenti infrastrutturali al passo con i tempi, hanno difficoltà in ogni servizio erogato e pagano tasse altissime. Ciò produce l’inarrestabile spopolamento». (Diego Messini, da https://www.open.online/, 1/2/2024)

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(CARTA del MOLISE ripresa da https://futuromolise.com/)

L’autonomia del Molise è un fallimento, a Isernia ne sono convinti e vogliono un referendum. E l’inchiesta del Corsera fa rumore

E IL MOLISE ORA PENSA AL RICONGIUNGIMENTO

di MILENA GABANELLI e FRANCESCO TORTORA, da “il Corriere della Sera” del 11/3/2023

– E’ appena partita la raccolta firme per tornare in Abbruzzo. La Regione si era staccata nel 1963 dopo lunghe battaglie: 60 anni più tardi è un territorio spopolato e pieno di debiti –

   Dopo un divorzio durato 60 anni il Molise vorrebbe tornare negli Abruzzi. Infatti la minuscola regione fino al 1963 si chiamava proprio «Abruzzi e Molise». Qualche anno fa addirittura la Bbc, incuriosita dall’hashtag «il Molise non esiste», inviò un reporter alla scoperta della «regione che non c’è» e narrò di una separazione che aveva confinato questo territorio impervio e struggente all’invisibilità. In un’area sempre più disabitata e sommersa dai debiti, oggi una parte della popolazione si sta dando da fare per fondersi con la comunità abruzzese. Ma perché il piccolo Molise è riuscito a diventare una Regione, status negato ad aree più estese e popolate come la Romagna e il Salento?

La Costituente e la legge del 1963

Già nel 1947, durante l’Assemblea costituente, viene proposta la creazione della regione Molise, un’area prevalentemente montano-collinare di 4.460 km² con appena 418 mila abitanti. La richiesta è bocciata perché si riconoscono solo le regioni storiche, ma i costituenti stabiliscono anche la condizione per costituire nuove regioni: la presenza di almeno 1 milione di residenti (art 132). I fautori dell’autonomia però non demordono e riescono a inserire nelle disposizioni transitorie una deroga che congela il limite demografico ai primi anni della Repubblica. Così, dopo un acceso dibattito parlamentare, nel 1963 arriva la legge costituzionale che sancisce la nascita del Molise. La nuova regione è definita da Alberto Cavallari in un reportage dell’epoca sul Corriere della Sera «una provincia cenerentola, eternamente seconda, rimasta in fondo alla serie B dei Paesi sottosviluppati». Per tutti gli anni ‘60 l’ente è composto dal solo capoluogo Campobasso. Nel 1970, quando le regioni entrano effettivamente in funzione, si aggiunge la provincia di Isernia.

Le motivazioni della separazione

Al momento della separazione, le regioni italiane sono solo sulla carta e anche negli anni successivi hanno una limitata discrezionalità fiscale. Le motivazioni che portano alla creazione del nuovo ente sono sostanzialmente tre:
1) Identitaria-culturale. In un intervento al Senato l’esponente della Dc Giuseppe Magliano, primo firmatario della riforma costituzionale, afferma che il Molise si considera «un complesso etnico, storico, geografico e politico nettamente distinto e separato dagli Abruzzi». In realtà tutta questa differenza non c’è: salvo lungo i confini dove le inflessioni sono più napoletane o pugliesi, i molisani parlano abruzzese.
2) Logistica-amministrativa. Gli abitanti dei 136 comuni del Molise hanno difficoltà a raggiungere i 20 specifici uffici pubblici perché dislocati troppo lontano o addirittura in altre province fuori dalla regione «Abruzzi e Molise». Ad esempio, per l’esame della patente bisogna raggiungere la motorizzazione a Pescara, per il distretto militare si deve andare a Bari, per la Corte d’Appello a Napoli, i servizi erariali a Benevento e così via. Problemi, nell’Italia contadina del tempo, comuni a molti altri territori.  Sarebbe bastato modificare la giurisdizione e aprire qualche ufficio a Campobasso. Si è preferito dar vita ad una Regione. L’ironia della storia è che di quei 20 uffici, a distanza di 60 anni, solo 9 sono stati trasferiti effettivamente nel capoluogo di provincia, mentre il resto è rimasto altrove, come il comando generale dei carabinieri, che sta in Abruzzo.
3) Elettorale. Nell’articolo 57 della Costituzione è inserito il comma che prevede due senatori provenienti dal territorio. La Democrazia Cristiana, dunque, si assicura nel feudo elettorale molisano un seggio di senatore in più. Forse questa la vera ragione.

Il confronto tra Abruzzo e Molise

All’inizio degli anni Sessanta le due Regioni sono molto arretrate. L’agricoltura occupa la maggior parte della popolazione attiva, mentre l’industria è rappresentata per lo più da piccole imprese artigianali. Il tenore di vita delle due popolazioni è inferiore di un terzo rispetto alla media italiana. Con un reddito netto pro-capite di 298.121 lire, il Molise è più povero dell’Abruzzo (323.766 lire, in linea con quello dell’Italia meridionale che è di 324.977 lire). Nel 1974 la situazione è già diversa: in Molise il reddito netto raggiunge le 923.547 lire, mentre in Abruzzo diventa il più alto del Sud Italia: 1.176.068 lire, molto vicino alla media italiana (82,8%). In entrambi i territori cala drasticamente l’occupazione in agricoltura, mentre quasi uno su tre lavora nell’industria. All’inizio degli anni ’90 l’economia abruzzese si avvicina a quella nazionale (85%), mentre quella molisana migliora (76%) ma non decolla. Poi la crescita rallenta fino a vivere un brusco crollo nei primi due decenni del secolo, ma con enorme differenza fra le due Regioni: tra 2001 e 2014 il Pil dell’Abruzzo cala del 3,3%, quello molisano precipita a quasi -20%.

Il Molise oggi: crisi economica, spopolamento, carenza di servizi

Nel corso degli anni il Molise si è spopolato, e a fine 2023 i residenti sono 289.294. E’ l’unica regione italiana ad avere una popolazione inferiore rispetto al tempo dell’Unità d’Italia. Dagli ultimi dati Istat il Pil pro-capite raggiunge i 24.500 euro contro i 27 mila dell’Abruzzo, e i 32.983 della media nazionale. In Molise la crisi morde più forte: nel 2023 le chiusure delle imprese hanno superato le aperture con un saldo negativo di 188 aziende, il peggiore in Italia e in controtendenza con l’andamento nazionale dove 17 regioni su 20 registrano dati positivi. Cresce il disavanzo pubblico che a fine 2021 ha superato i 573 milioni di euro, la Sanità è commissariata da 15 anni ed ha ancora un debito di 138 milioni (qui, pag.113). Nell’ultima legge di bilancio il governo Meloni ha stanziato 40 milioni a favore della regione, vincolati alla riduzione del disavanzo.

   Per questo la giunta di centro-destra guidata da Francesco Roberti ha deciso di aumentare l’addizionale Irpef per i redditi superiori a 28 mila euro al 3,33%, l’aliquota più alta d’Italia (in Abruzzo è ferma all’1,73%).  La capacità di gettito però resta limitata, anche perché bisogna mantenere un apparato regionale che costa 30,7 milioni di euro, circa 105 euro a testa contro i 60 dell’Abruzzo (guarda qui, pag 210). In un report della «Fondazione Gazzetta Amministrativa» sulle spese per incarichi di studi e ricerca effettuati nel 2021 il Molise si classifica ultimo con 225 mila euro.

   Cronica la carenza di personale medico-sanitario: all’appello mancano 20 specialisti di medicina d’urgenza, 17 radiologi, 16 pediatri, 14 ortopedici, 12 anestesisti, 3 ginecologi, 2 oncologi e 140 infermieri. Per tamponare l’emorragia sono stati ingaggiati medici venezuelani: 8 già lavorano nei reparti degli Ospedali Cardarelli di Campobasso e San Timoteo di Termoli.

Il referendum per il ritorno al passato

Alla fine il «meglio da soli» non ha portato prosperità. Il 9 marzo è partita la raccolta firme per un referendum che mira a portare la provincia di Isernia dentro l’Abruzzo, e poi l’intero Molise. Secondo l’ex questore Gian Carlo Pozzo, uno dei promotori dell’iniziativa popolare, la Regione è gravata da un pesante debito che combatte a suon di tasse e tagli e non è più in grado di garantire ai cittadini servizi essenziali come sanità, trasporti e formazione. Si sta muovendo nella stessa direzione la provincia di Campobasso con un comitato a Montenero di Bisaccia, e iniziative anche nei comuni di Petacciato, Termoli e Campomarino.

   E il Molise è tutto qui: 80 mila abitanti nella provincia di Isernia, e poco più di 200 mila in quella di Campobasso, con enormi difficoltà a sostenere uno sviluppo in grado di camminare con le proprie gambe. Già a suo tempo i padri costituenti avevano intuito i pericoli dei territori infiammati dalle aspirazioni a diventare piccole patrie, ma con pochi abitanti e ancor meno risorse.

(MILENA GABANELLI e FRANCESCO TORTORA, da “il Corriere della Sera” del 11/3/2023)

(Spopolamento, il Molise regione più vecchia d’Italia (youtube.com) – Nella foto veduta di parte del centro storico di TERMOLI, circa 32mila abitanti nella provincia di Campobasso, il secondo comune più popoloso del Molise dopo il capoluogo Campobasso

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(regioni d’Italia; da Wikipedia)

MACROREGIONI AL POSTO DELLE ATTUALI REGIONI

Ancora una decina di anni fa (nel 2014) due deputati dem, Roberto Morassut e Raffaele Ranucci, avevano preso carta e penna per ridisegnare la cartina d’Italia. Ne era uscito fuori UNO STIVALE DIVISO IN DODICI AREE, OMOGENEE PER «STORIA, AREA TERRITORIALE, TRADIZIONI LINGUISTICHE E STRUTTURA ECONOMICA». Alcune sono frutto di una semplice addizione (il Triveneto con Friuli, Trentino e Veneto, oppure l’Alpina con Piemonte, Valle d’Aosta e Liguria). Altre invece mettono assieme province di Regioni diverse: il Levante “ospita” Puglia, Matera e Campobasso, mentre la Tirrenica tiene assieme Campania, Latina e Frosinone. Solo Sicilia e Sardegna manterrebbero il privilegio dello statuto speciale. (Tommaso Ciriaco, da “la Repubblica” del 23/12/2014)

PROPOSTA MACROREGIONI MORASSUT-RANUCCI, da “Il Messaggero”

L’IPOTESI DELLE 12 MACROREGIONI

1- Valle D’Aosta Piemonte Liguria

2- Regione Lombardia

3- Regione Triveneto (Veneto, Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige)

4- Regione Emilia Romagna (Emilia Romagna + Provincia Pesaro)

5- Regione Adriatica (Abruzzo + Province Macerata, Ancona, Rieti, Ascoli, Isernia)

6- Regione Appenninica (Toscana, Umbria + Provincia Viterbo)

7- Regione Sardegna

8- Regione di Roma (Capitale Roma + Provincia di Roma)

9- Regione Tirrenica (Campania + Province Latina, Frosinone)

10- Regione Sicilia

11- Regione del Ponente (Calabria + Provincia Potenza)

12- Regione del Levante (Puglia + Province Matera e Campobasso)

SIMULAZIONE – La mappa qui sopra mostra come sarebbero ridisegnate le Regioni secondo la proposta di legge (di dieci anni fa, ma ancora in auge) dei deputati del Pd Roberto Morassut e Raffaele Ranucci

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LUCIO GAMBI

Lucio Gambi (1920 – 2006) è considerato il più importante geografo italiano del ‘900, il più innovativo, in grado di aprire la geografia al contributo metodologico della ricerca storica, letteraria, sociologica, demografica.

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REGIONI DA CAMBIARE” (trasformare in MACROREGIONI): parte di uno scritto del 1995 di LUCIO GAMBI:

   “Con la Costituzione del 1948 le regioni non sono state disegnate ex novo in base ad una analisi delle reali situazioni del dopoguerra. Sono state chiamate «regioni» delle ripartizioni territoriali di valore non giuridico, che già esistevano dal 1864 col nome di «compartimenti»: erano destinate cioè ad inquadrare territorialmente le elaborazioni e i risultati delle inchieste e delle rilevazioni statistiche nazionali.

   Ma neanche questi «compartimenti» potevano fregiarsi di una nascita ex novo, perché in realtà erano stati per lo più costituiti con l’aggruppamento di un certo numero di province fra loro finitime, che prima dell’unificazione nazionale avevano fatto parte del medesimo Stato, e in quest’ultimo avevano ricoperto insieme uno spazio che nei secoli della romanità imperiale o in epoca comunale aveva ricevuto un nome regionale.

   I «compartimenti» del 1864 risultano quindi da uno sforzo di identificazione di quelle vecchissime regioni, la cui fama era stata ribadita e divulgata nel rinascimento da una rigogliosa tradizione di studi. Però è irrefutabile che le identificazioni regionali da cui erano nati i «compartimenti» statistici del 1864, in molte zone della penisola non avevano più alcuna presa nel 1948 quando la nuova costituzione entrò in funzione. E da quest’ultima data ad oggi il valore di quella ripartizione si è rivelato via via anche più insoddisfacente e vulnerabile.

   Uno dei nodi più gravi nella gestione dello Stato italiano ai nostri giorni sta precisamente nella istanza, non più rimandabile, di adeguare la irrazionale e quindi inceppante – diciamo antistorica – rete della sua organizzazione territoriale, agli effetti delle trasmutazioni che il paese ha sperimentato dopo l’ultima guerra”. (LUCIO GAMBI, 1995, dal saggio “L’irrazionale continuità del disegno geografico delle unità politico-amministrative”) (vedi anche lo studio di Anna Treves su “Lucio Gambi e le Regioni”): Acme-04-II-10-Treves

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   Lo scritto, sopra riportato, del 1995 di LUCIO GAMBI (uno dei più importanti geografi del ‘900), viene a dimostrare l’inadeguatezza e l’antistoricità dell’attuale disegno territoriale dei confini delle istituzioni italiche (non solo le regioni, ma anche i comuni, e le province che ancora in qualche modo persistono…). Questo disegno dei confini territoriali va necessariamente ripensato e concretamente rivisto.

   Regioni indicate nella Costituzione del 1948 ed effettivamente nate con grandi speranze nel 1970. Speranze subito deluse. Apparati “statuali” si sono insediati, e se l’idea di avere Istituzioni più vicine al cittadino, più attente alla spese (meno sprechi degli apparati centrali) ebbene, ciò si è dimostrato ampiamente errato. Venti piccoli stati con i loro tanti consiglieri regionali, con le prebende e gli onori (e nessun onere) a loro spettanti… con burocrazie lente ed autoreferenti. A prescindere anche della paventata autonomia differenziata –che per sommi capi spieghiamo qui di seguito- per alcune di esse (il Veneto, la Lombardia, l’Emilia Romagna…).

   Tra l’altro nella Costituzione veniva sottolineato che il vero obiettivo delle Regioni era quello di legislazione, programmazione e controllo: cosa del tutto disattesa fin dall’inizio. Le Regioni si sono “accollate” buona parte della gestione di tanti servizi, con consorzi, consigli di amministrazione, altri apparati dispendiosi messi in campo. La situazione è del tutto degenerata con la riforma del titolo V della Costituzione del 2001: lo scopo era di dare allo Stato italiano una fisionomia più “federalista”, spostando i centri di spesa e di decisione dal centro al “locale”, dove di più si poteva “toccare il problema”, avvicinandosi ai cittadini.

   E’ così che la riforma del titolo V della costituzione ribaltava la filosofia del “potere” dello Stato nei confronti delle Regioni: si specificava quali erano le competenze esclusive dello Stato, lasciando alle regioni tutto il resto, di tutte quelle cose non nominate esplicitamente. Un’autonomia pertanto non solo della Sanità (che già c’era prima del 2001) ma in particolare della gestione finanziaria (con cui poter decidere liberamente come spendere i loro soldi) e organizzativa (con cui poter decidere quanti consiglieri e quanti assessori avere e quanto pagarli).

   Questa riforma dalle ottime intenzioni perché federalista (com’era stato poi fin dall’inizio l’istituzione delle Regioni) è stato un disastro: il picco di spesa incontrollata è salito, la creazione di cosiddette “società PARTECIPATE” (cioè società di servizi più o meno utili in cui le Regioni hanno percentuali di partecipazione, e che paiono più modi per gestire denari e sistemare consiglieri di amministrazione…) è salito esponenzialmente.

   Pertanto una realtà istituzionale regionale in Italia diversificata tra cinque Regioni a statuto speciale e 15 regioni a statuto ordinario; 20 Regioni che hanno raggiunto un livello di costi non più sostenibile dal bilancio nazionale. Da ciò si capisce che LE REGIONI COSÌ COME SONO NON FUNZIONANO PIÙ e rischiano di rimanere schiacciate sotto una montagna di debiti.

   Con l’attuazione dell’autonomia differenziata in corso di approvazione quest’anno (2024), sono ben 20 le materie che potranno passare integralmente a carico delle REGIONI. E altre tre materie strategiche, oggi di competenza solo centrale (l’organizzazione della giustizia di pace, le norme generali sull’istruzione, la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali), potrebbero essere decentrate se la riforma arriverà alla meta. Il punto fondamentale della legge è adesso quello della determinazione dei LEP (Livelli essenziali delle prestazioni) previsti dalla Costituzione: cioè dovrà essere stabilito il livello minimo di servizi da rendere al cittadino, che sia in maniera uniforme in tutto il territorio nazionale. Altro motivo per cui l’inadeguatezza di buona parte delle attuali Regioni, porta a prospettare la necessità di creare MACROREGIONI.

   MA NON E’ SOLO UNA QUESTIONE DI COSTI e di apparati di parassitismo… e se LE REGIONI DECIDONO DI SVOLGERE ALCUNE ALTRE FUNZIONI, È ANCHE VERO CHE LE REGIONI NON RAPPRESENTANO PIÙ LA COMPLESSITÀ DEI LORO TERRITORI: apparati politici e burocratici non sono più in grado di controllare virtuosamente lo scacchiere delle varie aree regionali. Non è un caso che regioni montane, solo esclusivamente montane, gestiscono meglio la loro territorialità potendo offrire un’unica politica specifica per quel tipo di territorio di alta quota (pur, è vero, godendo anche dello status di “regione a statuto speciale” che aiuta molto finanziariamente).

   Per fare un esempio del disordine programmatorio delle regioni vi è un’incapacità di fermare colate di cemento inutili (centri commerciali che aprono e che chiudono, e altri ne vengono aperti, su aree tolte al verde, alla fertilità agricola, e lasciando aree dismesse, abbandonate al degrado…). Territori di montagna e mezza montagna abbandonati, pianure e aree collinari devastate da forme agricole di pura speculazione. Pensiamo ai vitigni pregiati, come quelli del prosecco nel Veneto: tutti capiscono che l’odierno eccessivo sfruttamento farà sì che di qui a qualche decina d’anni quelle terre collinari non saranno più in grado di “reggere” le iper-produzioni agricole di adesso ed è probabile che saranno abbandonate al degrado, alla necessità di ricomposizioni lunghe e difficili…

   Le politiche di sviluppo del lavoro (agrario, industriale, dei servizi, del turismo…) appartengono sempre meno agli apparati regionali, che così perdono progressivamente ogni senso di programmazione con i propri territori, limitandosi a gestire e controllare innumerevoli società, consorzi di servizi come dicevamo proliferati in modo abnorme.

   In questa situazione la virtuosa fusione della cura dei territori, del loro eco-sviluppo, delle tutele dell’ambiente e della salute dei cittadini…tutto questo unito nell’Organismo regionale, in ciascuna delle venti regioni cui è suddiviso il nostro territorio… tutto questo nella realtà ha perso di ogni valore….

   Ben per cui il superamento di questa attuale suddivisione regionale in 20 mini-Stati (con apparati politici e burocrazie incredibili) non potrebbe che essere vista positivamente.

   Ecco allora che l’ipotesi delle MACROREGIONI sarebbe auspicabile (sollecitati dal micro-esempio di necessità prioritaria del Molise di ritornare assieme all’Abbruzzo.

   L’IPOTESI DI UNA NUOVA RADICALE GEOGRAFIA DELLA SUDDIVISIONE TERRITORIALE È L’UNICA AUSPICABILE e vera riforma nell’individuazione di territori che tra l’altro sono fortemente cambiati dal dopoguerra ad adesso.

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   DA PARTE NOSTRA CREDIAMO CHE POTREBBERO ESSERE SOLO 5 LE MACROREGIONI IN ITALIA, e cioè:

– due MACROREGIONI DEL NORD, una del NORDEST (Emilia Romagna, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige) e l’altra del NORDOVEST (Lombardia, Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria);

– poi due MACROREGIONI DEL CENTRO (la prima formata dai territori attuali di Toscana, Umbria, Marche; e la seconda da Lazio, Abruzzo, Molise, ma anche dalla Sardegna così da togliere quest’ultima dall’isolamento politico-insulare);

– e una sola possibile MACROREGIONE MERIDIONALE (formata dai territori di Campania, Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia)

   L’idea di UN’UNICA MACROREGIONE MERIDIONALE è sostenuta da chi crede che il mancato sviluppo nei decenni (nei secoli) del meridione d’Italia dipenda anche da poteri locali (regionali) non in grado di uscire da clientelismi, da rapporti indiretti con organizzazioni criminose (mafia, ndrangheta, camorra…). Azzerare le regioni meridionali, sostituendole con un’unica Macroregione, toglierebbe l’aria al malcostume amministrativo radicato, mettendo in auge un nuovo sistema in grado di distogliere mafia, camorra, ndrangheta, “sacra corona unita” etc. dai rapporti locali che ancora riescono a mantenere i gruppi criminosi… 

   E l’azzeramento degli attuali poteri regionali meridionali, con la creazione di una MACROREGIONE DEL SUD, collegata in modo naturale con le economie emergenti del Mediterraneo (dei paesi arabi della Costa nord africana, -Maghreb e Mashrek-, dei Balcani, verso il Medio-oriente…) potrebbe essere l’elemento virtuoso per un autonomo avvio di scambi culturali, economici, di sviluppo… nuovi (sull’energia, l’agroindustria, il turismo, gli scambi commerciali al centro di quello che resta nonostante tutto uno dei mari più importanti del pianeta, il Mediterraneo…). Così da poter finalmente far decollare una possibile MACROREGIONE DEL SUD verso nuovi mercati e opportunità di benessere.

   Perché la nuova visione territoriale che si verrebbe ad avere con lo scioglimento delle attuali regioni ha pure il compito di fare delle nuove macro-aree che verrebbero a creare soggetti di motore dello sviluppo economico (incentivando e sviluppando i fattori economici esistenti, la manifattura competitiva globale, l’agricoltura pulita e dei prodotti tipici da esportare ma anche per il commercio a Km0, i trasporti efficienti e sostenibili, la minor spesa e più qualità in tutti i servizi…).

   La difficile strada delle riforme concrete degli assetti territoriali geografici da sostituire (Macroregioni al posto delle Regioni; l’eliminazione totale delle Province; la creazione di Città Metropolitane in ogni luogo; il mettersi assieme di più comuni medio-piccoli per creare al loro posto CITTA’ di almeno 60.000 abitanti), tutto questo nuovo assetto territoriale trova difficoltà ad esprimersi concretamente. Ma, nei fatti dell’economia e della vita urbana delle persone, sta già avvenendo da tempo (e urge una risposta politica ed istituzionale che lo riconosca e lo aiuti a funzionare). (s.m.)

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3 MACROREGIONI – Al deputato forzista Massimo Palmizio basterebbero TRE MACROREGIONI: 1) quella del Nord metterebbe insieme Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria, Lombardia, Veneto, Trentino-Alto Adige e Friuli–Venezia Giulia (per una popolazione complessiva di 23.376.208 ABITANTI E UNA SUPERFICIE DI 97.796 CHILOMETRI QUADRATI); 2) QUELLA DEL CENTRO accorperebbe Emilia-Romagna, Toscana, Umbria, Lazio, Marche e Sardegna (per una popolazione di 18.069.625 ABITANTI E UNA SUPERFICIE DI 104.993 CHILOMETRI QUADRATI); 3) QUELLA DEL SUD dovrebbe fondere Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia (19.236.297 ABITANTI E UNA SUPERFICIE DI 98.929 METRI QUADRATI)

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CON LA MACROREGIONE, PER IL SUD SAREBBE TUTTA UN’ALTRA STORIA

di Michele Rutigliano, da https://www.politicainsieme.com/, 1/3/2024

   Per chi vive al Sud, ma anche per chi lo osserva da remoto, è un dato di fatto che la sua realtà sta diventando sempre più difficile. E non c’è bisogno del Rapporto Svimez, né di quello del Censis, né tantomeno delle inchieste del Sole 24 ore, per capire che se non si cambia registro, le nuove generazioni difficilmente pianteranno le tende nei paesi o nelle città che furono dei loro genitori o dei loro nonni.

   E tutto questo perché il Sud “non tira più” nelle corde professionali o sentimentali dei giovani. Viene vissuto e molto spesso percepito come un territorio fortemente limitato, nel suo sviluppo, da tanti problemi. Che non sono soltanto economici e sociali, ma che investono ormai anche il suo profilo istituzionale.

   Secondo i più pessimisti, anziché andare avanti stiamo addirittura tornando indietro. E questo perché la disoccupazione cresce, la povertà aumenta, mentre si amplia sempre più il divario tra il Sud e il Nord del Paese. Per non parlare poi della criminalità organizzata, della corruzione, della scarsa qualità dei servizi pubblici e della bassa, bassissima partecipazione civica.

   Senza nulla togliere al peso specifico delle questioni economiche e sociali, Continua a leggere

AGRICOLTORI EUROPEI IN SOFFERENZA – Ma è una protesta condivisibile? …visti gli aiuti UE, e la assai scarsa propensione alla riconversione ecologica? (agricoltura pulita e bio; e allevamenti dignitosi per gli animali)? – Poi gli aumenti dei costi agricoli, la grande distribuzione dominante sui ricavi dei prodotti, la fatica dei campi (con il cambiamento climatico), dà loro ragione

(protesta dei trattori, foto da https://www.legambiente.it/) –
L’UE RITIRA LA PROPOSTA SULLA RIDUZIONE DELL’USO PESTICIDI DOPO LE PROTESTE DEGLI AGRICOLTORI
6/2/2024 – Marcia indietro di Ursula von der Leyen nel pieno delle proteste degli agricoltori in mezza Europa: “La Commissione ha proposto il ritiro del regolamento sui pesticidi”.
La Commissione europea proporrà il ritiro della proposta di legge sulla riduzione dell’uso di pesticidi nell’Ue dopo le proteste degli agricoltori europei. L’annuncio è stato fatto dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen.
(https://www.fanpage.it/, di Annalisa Cangemi)

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Perché protestano gli agricoltori europei (tabella da ISPI https://www.ispionline.it/)

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EUROPA: LA PROTESTA DEGLI AGRICOLTORI

La protesta degli agricoltori europei arriva a Bruxelles e costringe l’Europa a ripensare alle sue politiche per la transizione ecologica

da https://www.ispionline.it/, 2/2/2024

    La protesta degli agricoltori arriva a Bruxelles e si impone al vertice straordinario dei capi di stato e di governo europei, riuniti per discutere del nuovo pacchetto di aiuti all’Ucraina. Giovedì 1° febbraio oltre 1300 trattori hanno bloccato Place de Luxembourg, mentre i manifestanti lanciavano bottiglie e uova contro la sede del Parlamento europeo, appiccando roghi e abbattendo una statua. Anche se l’agricoltura non era all’ordine del giorno, i leader europei – che nel vertice del 1° febbraio hanno finalmente superato l’impasse sul nuovo pacchetto di aiuti da Kiev – si sono ritrovati a parlare di agevolazioni fiscali sui carburanti agricoli, limitazioni ai prodotti alimentari di importazione e sostenibilità ambientale nelle colture e negli allevamenti.

   I blocchi stradali, che hanno paralizzato la capitale belga, sono stati rimossi solo dopo che i 27 avevano promesso di rivedere le norme ambientali, ridurre la burocrazia e ripensare la parte del Green Deal relativa al comparto, chiedendo ai ministri dell’Agricoltura di presentare un piano per il 26 febbraio. In Francia, dove negli ultimi giorni gli agricoltori avevano bloccato le autostrade intorno a Parigi e in tutto il paese, il primo ministro Gabriel Attal ha annunciato una serie di misure, tra cui l’impegno a riconsiderare le limitazioni sui pesticidi e un possibile divieto di importazione per frutta e verdura trattate con insetticidi vietati dalla normativa nazionale. La Francia è il principale produttore agricolo dell’Ue e il maggior beneficiario di sussidi provenienti dalla Politica Agricola Comune (Pac), pari a quasi 60 miliardi di euro annuali.  

COSA LAMENTANO GLI AGRICOLTORI?

Nel mirino degli agricoltori, ci sono le normative nazionali e quelle dell’Unione Europeain particolare la cosiddetta ‘Farm to fork’ – parte del Green Deal che mira a rendere il blocco dei 27 climaticamente neutro entro il 2050 – e che prevede, tra le altre cose, di dimezzare i pesticidi, ridurre di un quinto l’uso di fertilizzanti, aumentare i terreni ad uso non agricolo – ad esempio lasciandolo a riposo o piantando alberi non produttivi – e raddoppiare la produzione biologica portandola al 25% di tutti i terreni agricoli dell’Ue.

   La guerra in Ucraina ha peggiorato le cose. Ad una prima fiammata dei prezzi per alcuni prodotti come il grano è seguito uno sconvolgimento dei flussi commerciali che ha provocato un eccesso di offerta e una corsa a misure protezionistiche da parte di alcuni paesi dell’Europa Orientale.

   E se le preoccupazioni variano da paese a paese – dalle proteste tedesche contro i tagli ai sussidi per il gasolio a quelle francesi contro gli accordi di libero scambio – ci sono anche lamentele comuni: una di queste riguarda l’aumento dei prezzi dell’energia e dei fattori di produzione, combinato con il crescente divario tra i margini di profitto dei produttori e quelli dei grandi colossi dell’agro-industria e delle catene di supermercati.  Non a caso, fra i bersagli delle proteste degli ultimi giorni figurano le sedi di diversi colossi agroalimentari, davanti ai quali i camionisti in sciopero hanno rovesciato grossi carichi di letame

PIÙ CIBO E PIÙ GREEN

Non sarebbe corretto, però, ridurre la battaglia degli agricoltori europei a una lotta di resistenza contro il Green Deal e le misure volte a favorire la transizione ecologica del continente. Il settore agricolo, che causa appena l’11% delle emissioni di gas serra dell’Ue, è il primo a pagare il prezzo degli eventi meteorologici estremi dovuti ai cambiamenti climatici, che negli ultimi anni hanno influenzato sempre più la produzione.

   Tanti agricoltori sono costretti a cambiare le colture a causa di periodi prolungati di siccità, mentre altri, che vorrebbero preservare quelle tradizionali, reclamano nuovi bacini e infrastrutture di raccolta dell’acqua a cui i governi non sempre danno la giusta priorità. Dal 2005 ad oggi oltre un terzo delle aziende agricole ha chiuso i battenti, in un panorama che vede sorgere sempre più colossi e in cui le realtà più piccole sono sempre meno competitive. Più in generale, oltre a sentirsi perseguitati da una burocrazia che sa poco della loro attività, molti agricoltori lamentano di sentirsi intrappolati tra due fuochi: la richiesta di produrre più di cibo a basso costo, ma rispettando al contempo il clima e l’ambiente. Sostengono che le politiche verdi per come sono concepite attualmente sono ingiuste, economicamente insostenibili e che alla fine si riveleranno autodistruttive. 

LA DESTRA CERCA DI CAVALCARE LA PROTESTA? 

Di fronte a una protesta così diffusa e massiccia, i governi nazionali corrono ai ripari: Berlino ha cancellato il taglio ai sussidi per i carburanti agricoli e Parigi ha annullato l’aumento della tassa sul diesel, e soprattutto ha promesso di fare pressione sulla Commissione per frenare l’accordo di libero scambio con il Mercosur (Mercado Común del Sur, organizzazione internazionale istituita da Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay con il Trattato di Asunción del marzo 1991, integrato dal Protocollo di Ouro Preto del dicembre 1994, in pratica allargato a quasi tutti i paesi dell’America Latina, NDR), che gli allevatori denunciano come un atto di ‘concorrenza sleale’ poiché consentirebbe un aumento delle importazioni di carne bovina, semi di soia e altri prodotti che non sono soggetti alle stringenti normative europee.

   I critici delle proteste, tuttavia, sottolineano che nonostante l’alto livello di sussidi – pari a un terzo del bilancio dell’Ue – il settore agricolo opponga una forte resistenza ad ogni forma di cambiamento strutturale. Inoltre, c’è chi lamenta l’influenza che la lobby agricola già esercita sul processo decisionale a Bruxelles e nelle capitali europee in vista delle prossime elezioni, dato che gli agricoltori ricevono sempre più sostegno dai partiti di estrema destra. Il cambiamento è significativo: mentre un tempo l’indignazione degli agricoltori trovava la sua voce nella sinistra – che prendeva di mira gli accordi di libero scambio e le multinazionali – questa volta a cercare di cavalcarla sono i partiti di destra, intenzionati a far crollare l’attuale maggioranza a Bruxelles e il suo Green Deal. 

(da https://www.ispionline.it/, 2/2/2024)

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(Agricoltori in rivolta, foto da https://www.adnkronos.com/)

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LEGAMBIENTE SULLE PROTESTE DEI TRATTORI

5 Febbraio 2024, https://www.legambiente.it/

Il Green deal non è il nemico, ma un alleato strategico del mondo agricolo e una bussola importante per il futuro dell’agricoltura nella lotta alla crisi climatica. Il vero problema è il basso reddito della maggioranza delle aziende agricole, sopraffatte da crisi economica, cambiamenti climatici e speculazioni finanziare. Serve una forte alleanza tra mondo agricolo e mondo ambientalista.

   Al Governo Meloni chiediamo subito interventi per supportare la transizione ecologica del settore ma al tempo stesso garantire il reddito: si snellisca la burocrazia, si garantisca assistenza tecnica e politiche che premiano economicamente chi punta su agroecologia e servizi ecosistemici, si incentivi lo sviluppo delle rinnovabili in ambito agricolo per ridurre i costi energetici”.

   In questi giorni caldi di protesta del mondo agricolo, Legambiente risponde ai tanti agricoltori scesi per le strade d’Italia e al Governo Meloni difendendo il Green Deal europeo e indicando gli interventi chiave da mettere in campo per aiutare gli operatori agricoli in grave difficoltà dal punto di vista economico e accelerare la transizione ecologia di questo settore. L’auspicio è che si imbocchi la strada del dialogo, avendo ben chiaro che per un’agricoltura sostenibile e innovativa la bussola è rappresentata proprio dal Green Deal europeo e dal suo percorso di decarbonizzazione, senza il quale si rischia un contraccolpo economico per il settore davvero rilevante. Stando, infatti, a quanto previsto dal Piano Nazionale di Adattamento Climatico, varato a fine 2023 dal Governo Meloni, in Italia si stima una riduzione del valore della produzione agricola pari a 12,5 miliardi di euro nel 2050 in uno scenario climatico con emissioni climalteranti dimezzate al 2050 e pari a zero al 2080.

   “Il Green deal non è il nemico, ma un alleato strategico del mondo agricolo. Gli agricoltori – dichiara Stefano Ciafani presidente nazionale di Legambiente – devono essere consapevoli che dal Green deal passa il loro futuro e non la loro fine. I veri nemici sono l’emergenza climatica, chi difende le fossili e rallenta la transizione ecologica, strumentalizzando le legittime e indiscutibili ragioni di chi opera nel settore. Detto ciò, è evidente che le manifestazioni di questi giorni fanno il gioco della lobby delle fossili e dei partiti contrari alla decarbonizzazione, in vista delle elezioni europee del prossimo giugno, ma mettere in discussione le strategie Ue come la From farm to fork e la Biodiversity 2030 significa stravolgerne completamente i presupposti. Così come è una fake news dire che il Green Deal possa provocare danni economici a livello europeo e all’attività agricola italiana. Ciò che chiede l’Europa è esattamente ciò di cui l’agricoltura ha bisogno per poter sopravvivere. Occorre creare le basi per una forte alleanza tra il mondo agricolo e mondo ambientalista proprio perché gli agricoltori sono i protagonisti principali di un cambiamento in chiave ecologica dell’intero settore, ma per fare ciò occorre garantire reddito alle tante piccole e medie aziende che oggi sono sopraffatte dalla crisi economica, dagli effetti dei cambiamenti climatici e dalle speculazioni sul prezzo dei prodotti agricoli”.

   Al Governo Meloni Legambiente ricorda che quello che è mancato sino ad oggi è un chiaro supporto agli agricoltori e alla transizione ecologica di questo settore, che è sia vittima sia carnefice della crisi climatica. Per questo l’associazione chiede all’Esecutivo che si introducano interventi concreti per aiutare davvero gli agricoltori partendo dallo snellimento della burocrazia, garantendo assistenza tecnica e politiche a sostegno del reddito, incentivando l’agroecologia, premiando chi punta sui servizi ecosistemici, lo sviluppo delle rinnovabili per produrre energia utilizzando ad esempio il modello agrivoltaico o la produzione di biogas o biometano.

   “Le differenze fra quanto vengono pagati i prodotti agricoli all’origine e il prezzo finale sono fin troppo evidenti, così come la forte precarietà che sta vivendo oggi il mondo agricolo sempre più in difficoltà, ma non ha senso prendersela con le politiche ambientali europee. La transizione – dichiara Angelo Gentili, responsabile agricoltura Legambiente – non può permettersi battute di arresto. Anche solo pensare di stare alla larga da misure ambientalmente sostenibili in agricoltura significherebbe infatti sancire la fine di ogni qualsivoglia attività agricola nei prossimi decenni. La crisi climatica corre velocissima e nessun trattore per strada riuscirà a fermarla. Senza dimenticare che oggi la grande sfida è quella di realizzare un modello di agricoltura in grado di rispondere alle esigenze dei consumatori che chiedono cibo più sano e di filiera corta, capace di mettere in pratica la transizione ecologica e pensato per sostenere fortemente il reddito degli agricoltori: questa è l’unica via che ci permetterà di  dare maggiore dignità ad un comparto oggi in difficoltà con una visone che punta ad un cambiamento in chiave sostenibile dell’intero modello agroalimentare”.

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(VI NUTRIAMO MA MORIAMO: La protesta a Bruxelles degli agricoltori; foto da https://www.ispionline-it/)

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I PRIVILEGI NON SONO ETERNI

di Andrea Bonanni, da “la Repubblca” del 2/2/2024

   Gli agricoltori che hanno occupato e devastato Bruxelles, e che da giorni assediano le città d’Europa, sono spinti da difficoltà reali della loro categoria. Essi incolpano di queste difficoltà l’Europa fingendo di dimenticare che, se non esistesse l’Europa che da oltre mezzo secolo li sostiene e li finanzia con i soldi dei contribuenti, probabilmente non esisterebbero neppure loro.

   Ma il problema posto dalle ricorrenti proteste del popolo dei trattori va ben oltre la lista dei torti e delle ragioni della categoria. È ormai divenuto un enorme problema politico e, allo stesso tempo, culturale.  Vediamo innanzitutto qualche cifra per inquadrare il problema. La politica agricola europea (Pac) assorbiva fino a qualche tempo fa il cinquanta per cento del bilancio comunitario. Oggi questa percentuale è scesa al 25 per cento ma, in cifra assoluta, gli stanziamenti a favore dell’agricoltura non sono calati di molto e si collocano attorno ai 55 miliardi di euro all’anno.

   Il dato, però, è ingannevole. Infatti la tutela che l’Europa offre agli agricoltori si manifesta soprattutto nei forti dazi doganali con cui Bruxelles penalizza le importazioni provenienti dai Paesi terzi, molto più competitive, creando così un mercato artificiale che tiene in vita l’Europa verde. Una simile politica commerciale non è, evidentemente, a costo zero sia per i consumatori, che pagano più cari i prodotti, sia per le ambizioni politiche della Ue.

   Gli accordi di libero scambio con l’America latina, per esempio, che aprirebbero all’industria europea un mercato enorme, sono bloccati dall’impossibilità di dare libero accesso alle carni e ai cereali prodotti in Brasile e Argentina per non mettere fuori gioco la nostra agricoltura. La questione agricola è stata di inciampo anche nel fallito negoziato commerciale con gli Stati Uniti. E quando la Ue, per solidarietà, ha abolito i dazi sul grano ucraino a buon mercato, i contadini di Polonia, Ungheria e Romania sono insorti bloccando coi trattori le frontiere e costringendo Bruxelles a una parziale marcia indietro.

   A fronte di sovvenzioni che assorbono il 25 per cento del bilancio comunitario, il settore agricolo rappresenta l’1,4 per cento del Pil europeo. E produce il 10,5 per cento del gas a effetto serra emesso in tutta la Ue. Nel 2022 il Pil dell’Europa verde è stato di 220 miliardi, di cui circa un quarto sono fondi comunitari. Secondo le cifre della Commissione europea, il reddito pro capite degli addetti all’agricoltura in Europa è cresciuto nel 2022 dell’11 per cento. Rispetto al 2015, l’aumento è stato del 44 per cento.

   Ovviamente ci sono molte buone ragioni che hanno fatto degli agricoltori europei una categoria altamente protetta. La prima è la manutenzione del territorio, anche se le organizzazioni di categoria contestano la norma Ue che impone di lasciare a maggese il 4 per cento dei terreni per favorire la biodiversità. Un’altra ottima ragione è quella di evitare il totale spopolamento delle campagne e un eccessivo inurbamento della popolazione. Infine, soprattutto dopo la drammatica esperienza della guerra, c’era e in parte c’è ancora la preoccupazione di mantenere una «sovranità alimentare», cioè di riuscire a produrre abbastanza cibo per sfamare la popolazione senza dover dipendere da fonti esterne.

   Un altro aspetto positivo della sovranità alimentare è la possibilità di accedere a prodotti che rispettino norme qualitative, igieniche e sanitarie che gli europei si sono liberamente e sovranamente dati: niente carne agli ormoni, niente polli lavati in candeggina, limiti all’uso di pesticidi e diserbanti e anche alla produzione di cibo geneticamente modificato.

   Ma storicamente un altro e determinante motivo per cui, fin dalla sua nascita, l’Europa ha strenuamente deciso di sovvenzionare i propri agricoltori è essenzialmente politico. Questi, infatti, per oltre sessant’anni, hanno costituito il principale serbatoio elettorale del voto moderato, tradizionalmente monopolizzato dai partiti popolari e democristiani. Le campagne hanno fatto da contrappeso al voto socialmente più progressista degli agglomerati urbani. Il risultato è stato la lunga, antagonistica ma fruttuosa cooperazione tra Popolari e Socialisti che ha governato l’Europa, e la maggior parte dei suoi Stati nazionali, nell’ultimo mezzo secolo.

   Oggi, però, questo dato politico sta rapidamente cambiando. Il popolo dei trattori contesta l’Europa che lo ha nutrito e tenuto in vita per tanti anni perché si rende conto che una realtà globale e globalizzata come la Ue non potrà difendere per sempre tutti i privilegi che finora ha garantito. Si genera così l’idea, totalmente illusoria, che solo gli stati nazione possano offrire le tutele corporative che gli agricoltori reclamano in contrapposizione alle «imposizioni europee».

   Nasce da questo corto-circuito ideologico l’alleanza, oggi sempre più stretta, tra il mondo rurale e le forze della destra populista e sovranista. In Polonia, in Francia, in Italia, in Spagna, in Olanda, in Germania, il voto delle campagne alimenta l’estrema destra e la sua retorica anti-sistema che ne cavalca il malcontento.

   Ciò pone i partiti tradizionali di fronte ad un dilemma. Possono cercare di recuperare il consenso di quella frangia, minoritaria ma importante, della popolazione pagando un prezzo economico e politico sempre più alto. Oppure possono voltarle le spalle contando che il progresso selezionerà i pochi in grado di continuare a produrre con profitto grazie ad un salto qualitativo e abbandonando gli altri nella discarica della politica e della storia. Non sarà comunque una scelta facile, né indolore.

(Andrea Bonanni, da “la Repubblca” del 2/2/2024)

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(Farm to Fork, il Green Deal europeo per un’economia sostenibile, ripreso da https://www.federconsumatorier.it/)

A maggio 2020 la Commissione europea ha pubblicato la strategia “Farm to Fork” (dalla fattoria alla tavola, ndr), come parte importante dell’European Green Deal, l’ambiziosa proposta legislativa in tema di ambiente a cui ha lavorato la nuova Commissione.

CHE COS’È LA STRATEGIA “FARM TO FORK” E CHI DOVRÀ ADOTTARLA?

L’uso dei pesticidi in agricoltura contribuisce a inquinare il suolo, le acque e l’aria.
La Commissione Europea adotterà misure per:

– ridurre del 50% l’uso di pesticidi chimici e il rischio che rappresentano entro il 2030;

– ridurre del 50% l’uso dei pesticidi più pericolosi entro il 2030.

   L’eccesso di nutrienti nell’ambiente è una delle principali cause di inquinamento dell’aria, del suolo e dell’acqua e ha un impatto negativo sulla biodiversità e sul clima. La Commissione agirà per:

– ridurre almeno del 50% le perdite di nutrienti, senza che ciò comporti un deterioramento della fertilità del suolo;

– ridurre almeno del 20% l’uso di fertilizzanti entro il 2030.

 Si calcola che la resistenza antimicrobica collegata all’uso di antimicrobici nella salute umana e animale causi 33 000 vittime nell’UE ogni anno. La Commissione 

– ridurrà del 50% le vendite di sostanze antimicrobiche per gli animali di allevamento e l’acquacoltura entro il 2030.

   L’agricoltura biologica è una pratica ecologica che deve essere ulteriormente sviluppata.

Verrà rilanciato lo sviluppo delle aree dell’UE dedicate all’agricoltura biologica affinché il 25% del totale dei terreni agricoli sia dedicato all’agricoltura biologica entro il 2030.

QUALI SONO GLI OBIETTIVI PRINCIPALI DELLA STRATEGIA?

Realizzare la transizione. Scelte informate e più efficienza:

– Etichettare i prodotti alimentari per consentire ai consumatori di scegliere un’alimentazione sana e sostenibile;

– Intensificare la lotta contro gli sprechi alimentari

– Ricerca e innovazione;

– Promuovere la transizione globale.

​(tratto da priorities-2019-2024/european-green-deal/actions-being-taken-eu/farm-fork)

(ripreso da https://www.federconsumatorier.it/ )

(Farm to Fork, immagine da Unione Europea)

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QUANTO VALGONO I SUSSIDI EUROPEI ALL’AGRICOLTURA

da IL POST.IT https://www.ilpost.it/, 3/2/2024

– Tra il 2021 e il 2027 sono stati stanziati quasi 390 miliardi di euro, circa il 20 per cento di tutto il bilancio comunitario –

   Da qualche settimana sono in corso in vari paesi europei, tra cui FranciaGermania e anche Italia, estese proteste organizzate dagli agricoltori, che si sono fatti notare soprattutto perché in molte occasioni hanno bloccato strade e autostrade con trattori e altri mezzi agricoli. Giovedì c’è stata anche una grossa manifestazione vicino ai palazzi delle istituzioni europee a Bruxelles, dove intanto era in corso una seduta straordinaria del Consiglio Europeo.

   Gli agricoltori protestano per diversi motivi, che spesso hanno a che fare con la situazione politica e normativa dei vari paesi in cui vivono e lavorano. Le loro richieste sono accumunate da una critica generale nei confronti della Politica agricola comune (PAC), l’insieme di norme che regolano l’erogazione dei fondi europei per l’agricoltura, considerata eccessivamente ambientalista e poco attenta alle necessità dei lavoratori. Storicamente però il settore dell’agricoltura è sempre stato uno dei più sussidiati, e oggi buona parte delle fattorie e delle aziende agricole europee riesce a sostenersi proprio grazie ai fondi europei per l’agricoltura.

   La PAC viene aggiornata ogni cinque anni: l’ultima è entrata in vigore nel 2023, e sarà valida fino al 2027. È un pacchetto di norme molto corposo, che viene concordato durante lunghe negoziazioni tra tutti gli stati membri dell’Unione. Si basa su alcuni obiettivi fondamentali: tra gli altri garantire un reddito equo agli agricoltori, proteggere la qualità dell’alimentazione e della salute, tutelare l’ambiente e contrastare i cambiamenti climatici.

   L’ultima PAC è stata finanziata con 386,6 miliardi di euro, ossia il 31 per cento di tutto il bilancio europeo per il periodo 2021-2027, che vale più di 1.200 miliardi euro. La percentuale scende al 23,5 per cento se comprendiamo nel totale del bilancio anche i circa 800 miliardi di euro forniti dal Next Generation EU, il piano di aiuti economici per i paesi colpiti dalla pandemia, spesso chiamato Recovery Fund. Le cifre utilizzate per questi calcoli rispecchiano i prezzi vigenti ad aprile del 2023: possono variare in base all’inflazione, ma l’ordine di grandezza generale rimane questo.

   I fondi della PAC sono divisi in due pilastri fondamentali: il Fondo europeo agricolo di garanzia (FEAGA) e il Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (FEASR). Il primo ha una dotazione complessiva da 291 miliardi di euro, e il secondo di 95,5 miliardi, di cui 8 miliardi forniti dal Next Generation EU.

   Complessivamente tra il 2023 e il 2027 la maggior parte dei fondi europei per l’agricoltura sarà usata per dare dei sussidi diretti agli agricoltori: riceveranno quasi 190 miliardi di euro, il 72 per cento del totale. La parte restante sarà divisa in progetti per lo sviluppo rurale (25 per cento) e interventi in specifici settori, tra cui quelli del vino, dell’olio d’oliva e dell’apicoltura (3 per cento dei fondi).

   L’agricoltura riceverà quindi quasi un quarto dei fondi previsti dal bilancio europeo. È senza dubbio una componente molto rilevante, che però in passato era ancora più alta: all’inizio degli anni Ottanta la quota di fondi dedicata all’agricoltura era del 66 per cento, ed è poi scesa gradualmente fino a raggiungere il 38 per cento nel periodo 2014-2020 e infine al 31 per cento dell’ultimo bilancio approvato. A partire dal 1992 la quota dedicata ai contributi diretti per gli agricoltori ha cominciato ad aumentare moltissimo, a scapito degli altri settori finanziati, come i sussidi alle esportazioni o alle attività educative e promozionali, i cui finanziamenti sono stati ridotti.

   I fondi europei vanno divisi tra tutti i 27 paesi membri dell’Unione (ed erano 28 fino al gennaio del 2020, quando c’era ancora il Regno Unito). Secondo gli ultimi dati disponibili, nel 2019 la Francia ricevette la quota più alta dei fondi del FEAGA, pari al 17,3 per cento del totale, seguita da Spagna, Germania e Italia, con il 10,4 per cento. Anche dell’altro fondo, il FEASR, beneficiarono soprattutto la Francia e l’Italia, che ricevettero rispettivamente il 15 e il 10,4 per cento dei fondi.

   La maggior parte degli agricoltori che nel 2019 beneficiò dei contributi diretti ricevette meno di 5mila euro, mentre una parte – circa il 2 per cento del totale – incassò più di 50mila euro. Con la nuova PAC sono stati modificati i criteri di distribuzione dei contributi e le modalità per accedervi, inserendo nuovi vincoli per la tutela dell’ambiente: agli agricoltori che non li rispettano possono essere ridotti o anche sospesi i pagamenti.

Secondo l’Unione Europea, i sussidi sono necessari perché nella maggior parte dei casi le aziende agricole hanno redditi inferiori a quelli degli altri settori produttivi: secondo i dati della Commissione Europea, nel 2022 gli agricoltori hanno guadagnato poco più del 60 per cento del reddito medio dei dipendenti nell’Unione. È una situazione che sta migliorando, considerando per esempio che nel 2005 il reddito medio degli agricoltori era pari al 30 per cento di quello degli altri dipendenti.

   Inoltre il settore deve fare i conti con molte incertezze: i prezzi sono volatili e le normative continuano a cambiare, così come le condizioni climatiche e i vincoli per ottenere i sostegni pubblici, fattori che nel complesso rendono molto difficile fare programmi a lungo termine. Anche per questo il settore agricolo è così sussidiato.

   Allo stesso tempo, però, gli agricoltori si oppongono a molti cambiamenti che l’Unione Europea sta cercando di introdurre per salvaguardare l’ambiente, e in alcuni casi avanzano richieste poco concrete o comunque molto difficili da realizzare. Tra le altre cose, in Italia chi sta partecipando alle proteste chiede il blocco delle importazioni dei prodotti agricoli da paesi con standard produttivi e sanitari meno rigidi rispetto a quelli europei, che farebbero concorrenza sleale; il divieto di vendita e produzione per i cosiddetti “cibi sintetici”; una riqualificazione della figura pubblica dell’agricoltore, che dal loro punto di vista sarebbe troppo spesso additata «come responsabile dell’inquinamento ambientale».

(IL POST.IT https://www.ilpost.it/, 3/2/2024)

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Frans Timmermans vice presidente della Commissione Europea e grande sostenitore del GREEN DEAL europeo (foto la press ripresa da https://europa.today.it/)­ – “(…) Con il piano industriale del Green Deal, presentato a febbraio 2023, l’UE si pone l’obiettivo di “zero emissions” per il 2050 e questo comporta numerosi altri impegni per gli agricoltori, come lo stop a numerosi pesticidi -e quindi la sostituzione di una serie di colture, in particolare ortofrutticole, per le quali determinati pesticidi erano di uso corrente- e l’aumento della rotazione delle colture, cioè una messa a riposo, in maniera alternata di superfici importanti dell’impresa agricola. (…)” (Elena Fattori, da https://www.huffingtonpost.it/ 29/1/2024)

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(da ISPI, sintesi della protesta a Bruxelles)

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L’AGRICOLTURA EUROPEA NON È PIÙ UN’ATTIVITÀ ECONOMICAMENTE SOSTENIBILE

di Elena Fattori, da https://www.huffingtonpost.it/ 29/1/2024

– Siamo a un bivio, l’abbinamento di tutele ambientali, sanitarie, e sociali con il libero mercato si è dimostrato inefficace –

   Gli agricoltori stanno protestando nelle piazze di tutta Europa e il motivo è molto semplice: l’agricoltura europea non è più una attività economicamente sostenibile; i costi di produzione di un prodotto agricolo non sono più coperti dal ricavo della sua vendita.

   Le decisioni di politica agricola sono competenza dell’unione europea sin dalle sue origini. Nel dopoguerra, i sei paesi fondatori dell’allora Comunità europea (Belgio, Francia, Italia, Germania, Paesi Bassi, Lussemburgo) avviarono i primi colloqui per un approccio comune all’agricoltura. L’Europa usciva dalla guerra annientata e affamata, la produzione agricola era scarsa e il reddito degli agricoltori basso rispetto ad altri settori. Era necessario riavviare la produzione alimentare in maniera sostenuta e alimentare la popolazione europea stremata dalla guerra.

   Una politica agricola comunitaria strutturata nasce nel 1962 con la PAC (politica agricola comunitaria) e ingenti stanziamenti. Viene istituito un meccanismo di controllo e sostegno dei prezzi di mercato, che fornisce agli agricoltori un prezzo garantito per i loro prodotti, introduce dazi per prodotti esteri e assicura l’intervento dello Stato in caso di calo dei prezzi di mercato.

   Gli agricoltori ricevono aiuti economici proporzionali alla quantità di prodotto. Il sistema raggiunge gli obiettivi prefissati e, in breve tempo, l’Europa diviene autosufficiente dal punto di vista della produzione alimentare. Nel corso degli anni 70 e 80 la produzione supera la domanda determinando le cosiddette eccedenze. Montagne di prodotti agricoli vengono distrutte o vendute a paesi terzi a prezzi molto bassi con ingenti spese per l’UE che deve garantire il prezzo dei prodotti agli agricoltori. Si introduce perciò il sistema delle quote: Continua a leggere

PFAS IN VENETO (e anche in Lombardia, e in tanti Paesi…) – Si risolverà mai il problema dell’inquinamento delle acque dato dalle sostanze perfluoroalchiliche (PFAS)? …causa di malattie gravi…. (e la Regione Veneto ha rinunciato a una indagine epidemiologica per capire gli effetti sulla salute di più di 100mila suoi cittadini esposti)

(PERICOLO PFAS, manifestazione in Regione Veneto di GREENPEACE) – I PFAS sono sostanze chimiche persistenti e difficilmente degradabili, che tendono ad accumularsi nell’ambiente e nei tessuti degli organismi. Per sette anni la Regione Veneto ha lasciato in sospeso, “per ragioni di approfondimenti di natura economica-finanziaria”, l’effettuazione dell’indagine epidemiologica per valutare gli effetti sulla popolazione delle province di VicenzaPadova e Verona, interessate all’inquinamento da sostanze perfluoroalchiliche (appunto i PFAS).
Sin dalla loro introduzione sul mercato globale a partire dalla metà del secolo scorso, i PFAS hanno trovato un massiccio impiego perché conferiscono proprietà idro- e oleo-repellenti. Queste sostanze sono utilizzate per la loro capacità di respingere sia i grassi che l’acqua, per le loro proprietà ignifughe, per la loro elevata stabilità e resistenza alle alte temperature, grazie al loro legame carbonio-fluoro.
Oggi però, nella maggior parte dei trattamenti in cui i PFAS vengono impiegati esistono alternative più sicure.
I PFAS trovano un massiccio impiego in una vasta gamma di applicazioni industriali e prodotti di largo consumo, tra cui:
– imballaggi alimentari, padelle antiaderenti, filo interdentale, carta forno, farmaci, dispositivi medici, cosmetici;
– capi di abbigliamento, prodotti tessili e di arredamento, capi in pelle;
– nell’industria galvanica (in particolare cromatura), scioline, cosmetici, gas refrigeranti, nell’industria elettronica e dei semiconduttori, nell’attività estrattiva dei combustibili fossili, in alcune applicazioni dell’industria della gomma e della plastica, nelle cartiere, nei lubrificanti, nei trattamenti anticorrosione, nelle vernici, in prodotti per l’igiene e la pulizia e nelle schiume antincendio.

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COSA SONO I PFAS? – da http://scienzamateria.blog.tiscali.it/?doing_wp_cron – Una famiglia di COMPOSTI CHIMICI POLI E PERFLUORATI UTILIZZATI IN MOLTI SETTORI INDUSTRIALI, soprattutto per la produzione di materiali resistenti ai grassi e all’acqua. Sono molecole caratterizzate da un forte legame tra fluoro e carbonio che le rende difficilmente degradabili, perciò SI ACCUMULANO NELL’AMBIENTE E POSSONO FACILMENTE PASSARE NEI VIVENTI interferendo anche in modo grave con il loro metabolismo

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(Poscola a Trissino in Via Pianeta, foto da Wikipedia) – Il torrente Poscola è un corso d’acqua della provincia di Vicenza. Nasce a Priabona di Monte di Malo, da una piccola grotta. Scorre inoltre a Castelgomberto, Trissino sfociando a Montecchio Maggiore nel fiume Guà. (da Wikipedia)

POSCOLE, PASSATO E PRESENTE. TESTIMONIANZE DI UNA VIOLENZA AMBIENTALE SENZA PRECEDENTI. TRA SPECULAZIONE E PFBA. I NUOVI DATI ARPAV

di SERGIO FORTUNA, 18/10/2023, da https://pfas.land/

La questione delle Poscole ci è sempre stata a cuore perché era un luogo bellissimo. La Poscola nasce in una grotta di acqua freschissima e chiarissima al Passo di Priabona e poi scende dalle creste del Pulgo e dei Campi Piani del Faedo per risorgere sulla Praderia. Tanto era bello, importante, unico, questo luogo baciato da Dio e da Pan, da mito e da storia (qui addirittura prende nome il Priaboniano), che si era pensato prima di proteggerlo e poi di farlo diventare perfino area di interesse comunitario. Poi sono arrivati i barbari (i Veneti contemporanei, con la lettera maiuscola identitaria), la speculazione iniziata con i Marzotto, la Superstrada Pedemontana Veneta voluta senza né scienza né sentimento da Luca Zaia e dai suoi satelliti politici ed economici, in joint “project financing” venture. Risultato. La distruzione di una zona bellissima, ricca di acqua e di storia, di flora e di fauna, e di umanità.

La Poscola oggi, dopo essere stata violentata ed inquinata dai PFBA (vedi nota su nuovi dati ARPAV in calce, con la presenza degli inquinanti a Sarego), dopo essere stata deviata per ben 3 volte dal suo alveo naturale e imbrigliata dentro al cemento, dopo essere stata lo scarico mefitico per decenni della Miteni di Trissino, rappresenta il torrente più violentato e inquinato d’Italia e forse d’Occidente. Un vero e proprio crimine ambientale permesso dalla politica distruttrice dei valori fondamentali di una civiltà. Da coloro che piangono il Vajont e in Dolomiti per le Olimpiadi e qui per la speculazione hanno fatto e stanno facendo lo stesso. La Poscola è la vergogna del Veneto a cielo aperto. La vergogna “naturalistica”.

A raccontarci tutto ciò un nativo del luogo e una grande sensibile artista. Nel mentre in alto passa la nuova Alta Via dei Montecchiani ribelli. Quelli che attraversando i territori in punta di piedi, su sentieri remoti e non allineati, si rivoltano contro il malaffare di chi li sta distruggendo quotidianamente.
Comitato di Redazione PFAS.land

POSCOLA, PASSATO E PRESENTE

di Sergio Fortuna

   Il passato di quei luoghi, data l’età, lo posso ricordare. Il fondovalle della Poscola a nord di Castelgomberto, dopo le Casarette, era fatto solo di campi, alberate, siepi e fossi. Alcune case c’erano, sui due versanti, ma ai piedi delle colline, costruite sul “sengio”, saldo e fuori dall’acqua.

   Perché il posto si trova allo sbocco della valle della Poscola sulla più ampia valle dell’Agno e i sedimenti portati dal torrente principale avevano  sbarrato la valle secondaria, creando una zona paludosa. Questa era stata bonificata nel Medio Evo mediante le “fosse” (toponimo attestato fin dal 1269), canali che drenavano l’acqua dai campi, ma essendo in buona  parte al livello della Poscola erano (e sono ancora oggi) piene d’acqua tutto l’anno. 

   Fino agli anni Settanta la zona era rimasta in questo stato. Nelle Fosse si pescavano le tinche, mentre nella Poscola, che scorreva lenta e senza arginature, contornata da pioppi, si potevano trovare le “salgarele” e i “marsoni”, spesso pescati abusivamente mediante le “moscarole”. Il posto migliore era il Fosson, ufficialmente Poscoletta, che scendeva dai declivi di Cereda e portava acqua in ogni stagione, mentre a monte della confluenza spesso d’estate la Poscola era secca.

   Siepi e alberate poi fornivano il terreno ideale ai cacciatori locali. Dal paese ci si arrivava attraverso una strada bianca che correva tra il ripido pendio del monte di Santo Stefano e la Poscola, che alle Cengelle veniva attraversata da un vecchio ponte in pietra a due arcate, con balaustra in ferro. La strada proseguiva verso il Tezzon, dall’altra parte della valle, verso Cereda, e incrociava con un angolo retto la roggia che da lì scendeva, con paracarri in pietra uniti da traversi in ferro: lì, si diceva, erano stati uccisi quattro soldati tedeschi, alla fine della guerra; ora c’è una rotatoria. 

   Ricordi personali, perché abitavo alla Villa, il vecchio centro del paese, e bastava poco per uscire verso quei luoghi favolosi. Dopo il ponte c’erano “cavezzagne” che si inoltravano nei campi, spesso coltivati a mais: bastava inoltrarsi per qualche decina di metri per sentirsi fuori dal mondo. Alcuni di questi campi venivano coltivati da una famiglia vicina a casa mia, i cui ragazzi dopo che i prati erano stati “segati” avevano il permesso di giocare a calcio in questi con gli amici. Così decine di bambini raggiungevano in bicicletta i prati, circondati dalle alte canne del mais, e potevano sfogarsi per un pomeriggio dietro a un pallone senza disturbare nessuno. Per la sete, c’era la limpida acqua della Poscola: sì, abbiamo fatto quello che oggi sarebbe un tentativo di suicidio, e senza danni. 

   Poi negli anni Sessanta la strada delle Cengelle venne allargata e asfaltata, e anche il ponte, con una gettata di cemento. Cominciò il traffico, perché dal paese attraverso questa strada si poteva raggiungere la provinciale di Priabona, e data la tortuosità del percorso, anche incidenti, diversi dei quali mortali. Più a sud, lungo la strada delle Casarette, venne costruito uno stabilimento dove si lavorava la plastica, primo insediamento che veniva a rompere l’integrità della Praderia, come era chiamato quel largo fondovalle allora fatto solo di campi coltivati e ora in parte occupato dalla zona industriale di Castelgomberto e Cornedo. Per la parte più a nord, che per la presenza di numerosi corsi d’acqua veniva detta “le Poscole”, al plurale, si cominciava a parlare di zona protetta.

(continua il racconto su: 18 ottobre 2023 | POSCOLE, PASSATO E PRESENTE. TESTIMONIANZE DI UNA VIOLENZA AMBIENTALE SENZA PRECEDENTI. TRA SPECULAZIONE E PFBA. I NUOVI DATI ARPAV – forever chemicals – informazione e azione contro i crimini ambientali (pfas.land) 

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(Mamme NO PFAS, foto da Il Corriere del Veneto) – Ad essere più a rischio dalla CONTAMINAZIONE DA PFAS, come spesso avviene in casi del genere, è innanzitutto la salute dei BAMBINI: per questo ne è sorto un MOVIMENTO di cosiddette MAMME NO PFAS, che si sono prese direttamente il compito di testare e conoscere quel che è accaduto e quel che accade, manifestando contro le sottovalutazioni (delle autorità, ma anche dell’opinione pubblica) di quanto sta accadendo…

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VENETO PFAS – Area ROSSA: area di massima esposizione sanitaria – Area ARANCIO: area captazioni autonome – Area GIALLO CHIARO: area di attenzione – Area VERDE: area di approfondimento – Area OMBREGGIATA: Plume di contaminazione

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PFAS, ELIMINATO L’ULTIMO DUBBIO: “SONO CANCEROGENI CERTI”

di Stefano Baudino, da L’indipendente,  https://www.lindipendente.online/, 4/12/2023

   Trenta scienziati dell’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC) hanno fatto chiarezza sul legame tra esposizione a sostanze perfluoroalchiliche (PFAS) e insorgenza di tumori. In un lavoro che verrà presto pubblicato sulla rivista scientifica The Lancet Oncology, i ricercatori hanno infatti concluso che una delle tipologie di PFAS più diffuse è certamente cancerogena e che pertanto va inserita nel gruppo 1 delle sostanze che possono causare neoplasie. L’aggiornamento della lista avrà una forte rilevanza in tutti quei processi in cui le vittime di queste pericolose sostanze industriali chiedono giustizia, come nel caso dei cittadini veneti che da anni si battono contro le istituzioni e l’azienda che ha sversato PFAS nella falda idrica sotto le province di Vicenza, Padova e Verona.

   In particolare, i Pfoa, composto chimico della famiglia dei Pfas, sono stati considerati cancerogeni per gli esseri umani “sulla base di prove sufficienti di cancro negli esperimenti sugli animali – scrivono i ricercatori – e di prove meccanicistiche forti nell’uomo esposto”. Si parla, nello specifico, di un rapporto causa-effetto tra la presenza di Pfoa nel sangue, nei tessuti e negli organi dei soggetti contaminati e le patologie da essi sviluppate. I Pfos, altro appartenente al gruppo dei Pfas, sono stati invece fatti rientrare nel gruppo 2B (a cui in precedenza appartenevano i Pfoa) poiché “possibilmente” cancerogeni. La ricerca, che presto vedrà la luce, illustrerà gli utilizzi industriali dei Pfas e prenderà in esame le correlazioni con determinate tipologie di tumore, in particolare quelli del rene e dei testicoli. Il rapporto, inoltre, conferma la trasmissibilità da mamme a neonati, nonché il fatto che i Pfas determinano una minore reazione dei vaccini e una maggiore vulnerabilità alle infezioni.

   I contenuti del nuovo studio costituiscono l’ennesimo tassello tecnico-scientifico che ha evidenziato la grande pericolosità dei Pfas, dando ragione a quell’universo di movimenti e associazioni – primo tra tutti quello delle “Mamme No Pfas” – che da sempre, in piazza come nelle aule giudiziarie, denunciano la questione. Attualmente è in corso davanti alla Corte d’Assise di Vicenza un processo che vede alla sbarra i dirigenti della Miteni di Trissino – azienda chimica specializzata in produzione di intermedi fluorurati per agrochimica, farmaceutica e chimica, dichiarata fallita nel 2018 – per le responsabilità sottese al grave inquinamento da sostanze perfluoroalchiliche di una vasta falda acquifera in Veneto, che avrebbe coinvolto 350mila cittadini nelle aree di Vicenza, Padova e Verona.

   In aula Pietro Comba, ex dirigente in pensione di Iss, lo scorso giugno ha riferito che nel 2017 svolse con i tecnici della Regione un lavoro atto a porre le basi dello studio epidemiologico per accertare le possibili correlazioni tra la presenza di Pfas nel sangue e l’insorgenza di tumori. Un progetto che si sarebbe arenato, a detta di Comba, per motivazioni politiche.

   Recentemente, in seguito alle pressioni ricevute dalle associazioni ambientaliste e dalle forze di opposizione, l’assessora regionale leghista alla Sanità Manuela Lanzarin ha ammesso che a bloccarlo furono «ragioni di approfondimenti di natura economica-finanziaria».

   Un mese fa, peraltro, è stata archiviata l’indagine a carico degli stessi manager della Miteni per omicidio colposo ai danni di tre lavoratori e per lesioni colpose rispetto alle patologie che hanno colpito 18 loro colleghi. Il gip, su proposta dei pm, aveva deciso di archiviare anche per la difficoltà di delineare una connessione certa tra Pfas e patologie riscontrate. Ma ora i risultati della ricerca dello IARC sembrano dire esattamente l’opposto.

   Un importantissimo ruolo, nella cornice di questa battaglia per la verità e la giustizia, è stato giocato da vari movimenti ambientalisti che, tra il 2015 e il 2016, riuscirono a inaugurare una rilevazione a campione che mise in luce valori elevati di Pfas nel sangue dei residenti dei comuni coinvolti dal disastro ambientale.

   La questione fu così grave da indurre, nel 2018, il governo a dichiarare lo stato di emergenza, istituendo una zona rossa in ben 30 comuni, e, tra il novembre e il dicembre 2021, l’Alto Commissariato dell’Onu a inviare in missione in Veneto una delegazione per comprendere se la gestione dell’emergenza abbia violato i diritti umani. Ne conseguì un rapporto in cui si evidenziò come “in troppi casi, l’Italia non è riuscita a proteggere le persone dall’esposizione a sostanze tossiche”.

   Successivamente, l’allarme Pfas è risuonato anche in Lombardia. Uno scenario inquietante è infatti emerso dal rapporto “Pfas e acque potabili in Lombardia, i campionamenti di Greenpeace Italia”, pubblicato due mesi fa dall’associazione ambientalista, in cui è stato attestato che ben 11 dei 31 campioni raccolti nelle acque potabili di una serie di Comuni di tutte le province Lombarde risultano contaminati da Pfas.

   In 4 casi l’organizzazione ha registrato una contaminazione da Pfas superiore al limite indicato nella Direttiva europea 2020/2184, ovvero 100 nanogrammi per litro. Lo scorso maggio, in seguito a numerose richieste di accesso agli atti inoltrate alle Agenzie di tutela della salute e agli enti gestori delle acque lombarde, la stessa associazione aveva pubblicato i risultati delle analisi eseguite dalle autorità competenti sulla concentrazione di Pfas nell’acqua destinata a uso potabile in Lombardia tra il 2018 e il 2022.  Dall’esame era risultato positivo alla presenza di sostanze perfluoroalchiliche circa il 19% dei campioni (ben 738). Il valore più alto di positività ai Pfas (pari all’84% dei campioni) era stato trovato nelle acque della provincia di Lodi, seguita da Bergamo (60,6%) e Como (41,2%), mentre a Milano era risultato contaminato quasi un campione su tre. (STEFANO BAUDINO)

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Vedi su questo BLOG GEOGRAFICAMENTE:

Risultati della ricerca per “pfas” – Geograficamente (wordpress.com)

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RAPPORTO TECNICO GREENPEACE SUI PFAS IN VENETO (novembre 2023):

c00256b4-relazione-analisi-vegetali-e-alimenti-2023-3-novembre-2023.pdf (greenpeace.org)

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Un’indagine dell’ISPRA (Istituto superiore per la protezione e ricerca ambientale) rivela la quantità di prodotti chimici e pesticidi presenti nelle acque italiane: secondo le ultime rilevazioni quasi il 64% delle acque di fiumi e laghi sono contaminate. E l’AREA GEOGRAFICA con i livelli più alti di contaminazione acquifera è quella della pianura padano-veneta. Circa il 70% delle acque superficiali risulta inquinato in Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna. Tante, troppe, le cause di tale situazione di precarietà. Inquinamento da pesticidi e, in Veneto, anche (non solo) inquinamento da PFAS. (mappa da ISPRA, INQUINAMENTO ACQUE ITALIA)

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ANALISI TEMPORALE PFAS VENETO // 2015-2022entra nella mappa >> https://www.datawrapper.de/_/B4Wzo/ [per gentile concessione di FELICE SIMEONE, ricercatore CNR] – da https://pfas.land/

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SCONCERTANTI COSTI SOCIALI DELL’INQUINAMENTO DA PFAS

(nuove mappe interattive dei territori contaminati del Veneto)

di Dario Zampieri, 25/7/2023, da https://pfas.land/

– “Nonostante la cortina di silenzio stesa dalle autorità, la saga dei Pfas che ha investito il territorio del Veneto occidentale si arricchisce continuamente di nuovi elementi. Il mito di un territorio operoso, affluente e felice, portato quotidianamente ad esempio dalla narrazione ufficiale e dalla stampa, si infrange non appena si cerchino informazioni non ufficiali, ma autorevoli in quanto provenienti da fonti indipendenti assolutamente attendibili. Sebbene chiunque ne possa intuire l’esistenza, quello dei veri costi della produzione e dell’uso dei Pfas è un argomento da conoscere nei suoi termini quantitativi, che sono veramente sconcertanti. Tenendo sempre presente che le sofferenze delle persone colpite nella salute non sono in alcun modo monetizzabili.

Dati alla mano, che troverete nell’articolo, risultano ancora insufficienti i nuovi limiti di sommatoria PFAS messi dalla Regione Veneto recentemente, su direttiva Europea, alle acque potabili. Da 390 ng/litro sui PFAS diversificati (vecchi e nuovi) siamo passati a 100 ng/litro (tutti inclusi). Piccoli passi di fronte ai grandi crimini ambientali permessi per decenni nei nostri territori. Talmente grandi che i nuovi limiti, seppur ancora alti, stanno mettendo a rischio la chiusura di molti acquedotti comunali, come accaduto poche settimane fa nel Comune di Montebello. Sta per collassare un intero sistema fondato sul silenzio. A dimostrazione di ciò le recenti mappe create da Felice Simeone, ricercatore CNR, che riportiamo in calce al nostro nuovo articolo, scritto dal prof. Dario Zampieri”.
Comitato di Redazione PFAS.land

COSTI SOCIALI E PROFITTI PRIVATI DEI PFAS

Nel mondo, le aziende responsabili della produzione della maggior parte dei Pfas sono solo una dozzina (3M, AGC, Archroma, Arkema, BASF, Bayer, Chemours, Daikin, Dongyue, Honeywell, Merk, Solvay). A causa di scarsa trasparenza non è facile acquisire le informazioni sui volumi di sostanze chimiche prodotte annualmente. ChemSec (https://chemsec.org/reports/the-top-12-pfas-producers-in-the-world-and-the-staggering-societal-costs-of-pfas-pollution/) è riuscita ad investigare sui principali produttori di Pfas scoprendo che i costi sociali di tale produzione sono enormemente superiori ai profitti delle aziende.

   La ChemSec, Segretariato internazionale di chimica, è un’organizzazione indipendente no-profit con base in Svezia nata nel 2002, che opera per la sostituzione dei prodotti chimici tossici con prodotti alternativi non tossici. È supportata economicamente dal governo svedese, da privati e da organizzazioni no-profit svedesi ed è membro dell’Ufficio Europeo per l’ambiente (EEB).

   Lo sforzo investigativo sui Pfas ha prodotto dei risultati sconcertanti. I volumi di denaro della vendita dei Pfas – 26 miliardi di euro – non sono esorbitanti se confrontati col volume generato da tutti i prodotti chimici – 4,4 migliaia di miliardi di euro. In pratica, si tratta solo dello 0,5%.

   Ma quanti sono i profitti effettivi? La mega corporazione americana 3M dichiara di realizzare con i Pfas un margine di profitto del 16% su volumi di vendita di 1,3 miliardi di dollari, cioè appena 200 milioni all’anno. Assumendo questa percentuale per tutta l’industria dei Pfas, i profitti generati globalmente in un anno sarebbero di circa 4 miliardi di euro, una cifra importante, ma poca cosa rispetto ai profitti ottenuti con tutti i prodotti chimici.

IN EUROPA

Ma qual è il costo reale della produzione e vendita dei Pfas? Un report del 2019 sponsorizzato dal Consiglio Nordico dei Ministri (https://www.norden.org/en) con il titolo Il costo dell’inazione stima che solo in Europa i costi sanitari diretti per esposizione ai Pfas sarebbero tra 52 e 84 miliardi di euro l’anno. A questi bisogna aggiungere i costi per rimuovere i Pfas dall’ambiente. Per i suoli si stimano 2000 miliardi di euro. Per le acque d’Europa (pensiamo ad esempio ai costi di rifacimento degli acquedotti e ai costi annui di filtraggio con carboni attivi in Veneto) si stimano 238 miliardi di euro. Estrapolando a tutto il mondo sarebbero 16 migliaia di miliardi di euro l’anno. A questi costi andrebbero aggiunti i danni agli animali e al deprezzamento di terreni e abitazioni delle zone contaminate. ChemSec conclude che se le aziende produttrici dovessero pagare i danni causati la maggior parte di esse andrebbe in fallimento.

   Va inoltre ricordato che l’EFSA (Agenzia Europea per la Sicurezza Alimentare), modificando il proprio parere del 2018, nel 2020 ha stabilito una nuova soglia di sicurezza raccomandando una dose tollerabile di 4,4 nanogrammi per chilogrammo di peso corporeo alla settimana. Anche la sicurezza alimentare ha costi sanitari, sociali ed economici. Si veda questo documento >> https://doi.org/10.2903/j.efsa.2020.6223

Il prezzo medio dei Pfas è di quasi 19 euro per chilogrammo, ma il vero costo sarebbe di 18.297 euro per chilogrammo, cioè circa 1000 volte superiore.

   In pratica, la produzione dei Pfas è insostenibile anche dal punto di vista economico. È tempo di includere nel prezzo delle merci anche i costi sociali, fra cui una ridotta durata della vita e una diminuzione dei giorni lavorativi; il mondo non dovrebbe essere una discarica e le persone non sono merci usa e getta o strumento per far ulteriore profitto con le cure sanitarie.

   Senza tener conto che le sofferenze prodotte dalle patologie non sono monetizzabili.

NEGLI USA

Negli Usa, tre aziende, Chemours, Dupont e Corteva hanno dichiarato di aver raggiunto l’accordo di sborsare 1,19 miliardi di dollari per contribuire a filtrare i Pfas dal sistema di distribuzione delle acque potabili (https://www.nytimes.com/2023/06/02/business/pfas-pollution-settlement.html). Centinaia di comunità hanno citato in giudizio 3M, Chemours e altre aziende, chiedendo miliardi di dollari di danni per far fronte agli impatti sulla salute e al costo della bonifica e del monitoraggio dei siti inquinati.
   Bloomberg News ha riferito che 3M ha raggiunto un accordo provvisorio del valore di almeno 10 miliardi di dollari con città e paesi statunitensi per risolvere le richieste relative ai Pfas. Tuttavia, la responsabilità di 3M potrebbe essere ancora maggiore. In una presentazione online a marzo, CreditSights, una società di ricerca finanziaria, ha stimato che il contenzioso Pfas potrebbe alla fine costare a 3M più di 140 miliardi di dollari.

   L’avvocato Robert Bilott ha dichiarato che il processo iniziato nel mese di giugno 2023 presso il tribunale federale della Carolina del Sud è un banco di prova per queste cause legali, un passo incredibilmente importante in quelli che sono stati decenni di lavoro per cercare di assicurarsi che i costi di questa massiccia contaminazione da PFAS non siano sostenuti dalle vittime, ma siano sostenuti dalle aziende che hanno causato il problema.

   L’accordo preliminare con Chemours, DuPont e Corteva, che si sono tutti rifiutati di commentare l’annuncio, potrebbe non essere la fine dei costi per quelle società.

   La società 3M ha dichiarato che entro la fine del 2025 prevede di abbandonare tutta la produzione di Pfas e lavorerà per porre fine all’uso di Pfas nei suoi prodotti. Dopo il rapporto Bloomberg, le azioni di 3M sono aumentate notevolmente, così come le azioni di Chemours, DuPont e Corteva. 

   Lo scorso anno l’EPA (Agenzia per la protezione ambientale degli Usa) ha stabilito che anche livelli delle sostanze chimiche molto inferiori a quanto precedentemente stabilito potrebbero causare danni e che quasi nessun livello di esposizione è sicuro. L’EPA ha consigliato che l’acqua potabile non contenga più di 4 ng/L (nanogrammi/litro) di PFOA (acido perfluoroottanoico) e altrettanti di PFOS (acido perfluoroottansolfonico). In precedenza, l’agenzia aveva consigliato che l’acqua potabile non contenesse più di 70 ng/L di queste sostanze chimiche, mentre ora afferma che il governo richiederà per la prima volta livelli vicini allo zero.

   L’EPA ha stimato che questo standard costerebbe ai servizi idrici statunitensi 772 milioni di dollari all’anno. Ma molti servizi pubblici affermano di aspettarsi che i costi siano molto più alti.

NEL VENETO

L’ex azienda locale che conosciamo è, tutto sommato, piccola rispetto alle 12 principali, ma il territorio interessato del Veneto è grande, date le caratteristiche idrogeologiche della zona e la durata almeno trentennale della contaminazione delle acque sotterranee. Infatti, la localizzazione dell’impianto Miteni in un tratto di valle con sottosuolo costituito da sabbie e ghiaie molto permeabili, perdipiù a ridosso del torrente Poscola, ha permesso che lo spandimento di reflui liquidi raggiungesse la falda idrica sottostante, generando un plume che si è lentamente propagato per decine di chilometri a valle. Di fatto, la falda indifferenziata del tratto di valle tra Castelgomberto e Montecchio Maggiore costituisce la ricarica del sistema multifalde (più falde ospitate in materiali sabbiosi separati da strati impermeabili argillosi, che da Montecchio in giù costituiscono il sottosuolo), protette solo sulla verticale, ma non lateralmente da monte.

   Come troppo spesso, se non quasi sempre, la pianificazione territoriale, quand’anche esista, considera gli interessi economici (di alcuni) e non le conoscenze scientifiche del territorio, rendendo di fatto i disastri cosiddetti “ambientali” e quelli “naturali” dei disastri artificiali largamente annunciati.

   L’estrattivismo produce profitti per pochissimi, mentre territori definiti sacrifice zones sono sacrificati nella discarica globale del Wasteocene, l’epoca degli scarti. Quando i cittadini contaminati e ora costretti a pagare per tentare di risolvere i problemi apriranno gli occhi, chiedendo conto alla politica, che sembra sorda?

(DARIO ZAMPIERI, 25/7/2023, da https://pfas.land/)

da https://pfas.land/

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MESSA AL BANDO DEI PFAS: LE ALTERNATIVE ESISTONO? (PFAS: 5 PAESI EUROPEI CHIEDONO LA RESTRIZIONE, di Daniele Di Stefano, da https://www.rigeneriamoterritorio.it/ del 26/9/2023)

I PFAS sono impiegati in una miriade di processi industriali: dalla manifattura che usa gas fluorurati al tessile, dall’edilizia al petrolchimico, all’elettronica. Ma le alternative esistono. L’Appendice E2 del documento pubblicato dall’ECHA le riporta raggruppate per settore di applicazione. (…)   In GERMANIA, nonostante le alternative ai PFAS siano già sul mercato, l’industria generalmente non ha preso bene l’idea del bando. Sebbene la Germania sia uno dei Paesi che hanno avanzato la proposta, le aziende dell’automotive, dell’elettronica e della meccanica hanno avvertito che senza PFAS non ci saranno turbine eoliche, accumulatori di energia, auto elettriche e semiconduttori. Mettendo in subbuglio il governo.

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Leggi anche:
• Pfas Veneto: nel sito della Miteni si aspetta la bonifica da 6 anni
• Pfas Lombardia, Greenpeace lancia l’allarme

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PROCESSO PFAS, A VICENZA PARLANO LE VITTIME

di Laura Fazzini, da https://www.osservatoriodiritti.it/ 2/11/2023

– Al tribunale di Vicenza prosegue il processo per il grave inquinamento da Pfas. Questa volta hanno testimoniato i cittadini, che per decenni hanno bevuto acqua contaminata –

   Nel tribunale di Vicenza, in un’aula piena e silenziosa, il 26 ottobre si sono alternate le diverse parti civili davanti alla giuria popolare che da due anni raccoglie testimonianze nelle tre provincie venete stravolte dalla contaminazione da Pfas nell’acqua di rubinetto.

   Sindacati, associazioni e semplici mamme hanno cercato di spiegare cosa ha voluto dire aver paura dell’acqua, l’ansia di non sapere cosa fosse finito nel loro corpo né di come sarà il loro futuro.

PROCESSO PFAS, LA TESTIMONIANZA DEL SINDACATO

Il primo ad essere sentito è stato il referente Cgil della provincia di VicenzaGianpaolo Zanni. Sin dal 2013, il sindacato ha cercato di raccogliere le paure dei circa 500 operai che per decenni hanno lavorato le sostanze Pfas, considerate “perfette” perchè impossibili da distruggere. Paure legate alle analisi del sangue fatte dentro lo stabilimento dal medico aziendale, Giovanni Costa. Medico che avrebbe sempre tranquillizzato sulla bassa tossicità di questi composti, considerati però dalla comunità scientifica come interferenti endocrini e correlate a diverse patologie come colesterolo alto e ipertensione.

   «Abbiamo chiesto all’azienda e allo Spisal (Servizio sanitario locale destinato al monitoraggio sanitario negli ambienti di lavoro, ndr) come stessero gli operai, cosa fossero queste sostanze. Per anni ci hanno tranquillizzati, ora mi siedo qui come parte civile in un processo per avvelenamento delle acque e disastro ambientale per sostanze considerate tossiche».

   Alle domande degli avvocati difensori sulla mancata azione del sindacato, Zanni ha risposto così: «L’azienda ci ha promesso nuove misure di sicurezza e che le produzioni erano sicure. Gli operai hanno i valori di Pfas più alti al mondo, quale sicurezza hanno fatto prima di essere imputati per disastro ambientale?».

LEGAMBIENTE E ISDE IN LOTTA CONTRO I PFAS

Piergiorgio Boscagin, presidente del circolo PerlaBlu di Legambiente e volto noto nel mondo della lotta no Pfas, è tra i testimoni che sono stati ascoltati. Dopo aver lottato 10 anni per ottenere questo processo, si è preso tempo per guardare in faccia chi giudicherà quello che potrebbe risultare essere il più vasto inquinamento da sostanze pericolose d’Europa.

   «Dal 2007 mi occupo degli scarichi della zona industriale dove insisteva Miteni. Abbiamo fatto denunce, manifestazioni e presidi. All’inizio ci tranquillizzavano sia l’azienda che le istituzioni, poi hanno smesso di venire ai nostri incontri e ora siamo qui», spiega con voce ferma. Legambiente, insieme ai medici per l’ambiente Isde, dalla scoperta dei Pfas nelle acque potabili di tre province nel 2013 ha cercato di avvisare la popolazione.

   «Abbiamo sempre chiesto che chi inquina paghi, che le acque pulite destinate alla nostra agricoltura non vengano perse per diluire i reflui industriali dei privati, di Miteni. Dopo 10 anni di lotte io sono qui, con i miei 135 nanogrammi di Pfoa nel sangue quando la soglia è 8», conclude Boscagin.

LE MAMME NO PFAS CHIEDONO GIUSTIZIA AL TRIBUNALE DI VICENZA

Anche il movimento Mamme No Pfas, un gruppo di madri e padri che da anni chiede giustizia e prevenzione, interviene al processo. «All’inizio non ci credevo, mi pareva impossibile che dai nostri rubinetti uscissero sostanze pericolose. Ma poi ho visto le analisi dei miei figli e ho detto no, non era Scherzi a Parte, era la nostra vita», ha detto una di loro.

   Le analisi Pfas vengono svolte per la popolazione che vive nella zona più inquinata, denominata rossa, dal 2017. «In quel periodo stavo vivendo un altro incubo, un tumore che mi aveva colpito dopo aver travolto mia sorella. Ci siamo chieste come mai fossimo malate, ora che conosco i Pfas come interferenti endocrini si spiega tutto».

   Lei da quel tumore si è ripresa, la paura però rimane per quelle sostanze che studia notte e giorno. «All’inizio con alcune mamme volevamo condannare i gestori dell’acqua per averci dato un prodotto guasto. Ma poi abbiamo capito che non era un prodotto guasto, era una violenza contro il nostro territorio e i nostri figli. E siamo arrivate a sederci qui, per chiedere giustizia per il nostro futuro»

ACQUA INQUINATA, L’AIUTO NEGATO A UNA GIOVANE MADRE

«Nel 2017, quando ho fatto il prelievo per le analisi Pfas, ho detto all’infermiere che stavo allattando il mio primo figlio. Mi ha detto che i Pfas passavano al feto dalla placenta e poi nel latte materno». A dirlo – in un’aula immobile e muta – è stata una giovane Mamma No Pfas.

   «Poche settimane dopo, in un’assemblea pubblica nel teatro del mio comune, dove le istituzioni ci spiegavano cosa fossero i Pfas, mi sono alzata e ho chiesto se dovevo smettere di allattare dopo l’allarme di quell’infermiere. Un rappresentate dell’’istituzione sanitaria locale mi ha risposto che la notizia dell’infermiere non era fondata a livello scientifico e ho continuato ad allattare, tranquillizzata». Ma dal 2019 è dimostrato a livello scientifico che i Pfas, interferenti endocrini, passano attraverso il latte materno e la placenta.

Il marito della donna ha 208 nanogrammi di Pfoa nel sangue, quando la soglia italiana è 8.

PROCESSO PFAS, LE VITTIME RACCONTANO L’ANGOSCIA PER FIGLI E PARENTI

A sedersi al posto dei testimoni c’è stata anche una madre di Lonigo, lì dove l’acqua potabile ha raggiunto mille nanogrammi per litro di Pfoa. Anche lei, come le altre, ci ha chiesto di non essere citata per nome.

«Siamo tutti e quattro parti civili, abitando nell’epicentro della tragedia abbiamo tutti valori alti. Ma vi immaginate cosa voglia dire fare fatica a pagarsi una casa nuova e sapere solo dopo di aver scelto uno dei posti più inquinati d’Europa? Sapete cosa significa vivere nell’incertezza di non sapere cosa succederà ai miei figli, a quel futuro che ho voluto io?» chiede alla giuria.

   Dai primi articoli sulla contaminazione usciti nel 2013 ha smesso di usare l’acqua di rubinetto e spende soldi ogni mese per avere acqua pulita in bottiglia. «Sapete cosa vuol dire riempirsi la casa di bottiglie di vetro e preferire l’insalata in sacchetto per non doverla lavare con acqua inquinata? Non è un incubo, è la nostra vita dal 2013».

   E ancora: «Sapete cosa significa avere un marito giovane che per anni ha perdite ematiche spaventose per una colite ulcerosa tremenda? Questa malattia, cronica, è una delle cinque patologie correlate all’esposizione da Pfas. E lo sappiano noi perchè studiamo giorno e notte per difenderci e per difendere i nostri figli».

(LAURA FAZZINI, da https://www.osservatoriodiritti.it/ 2/11/2023)

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I PFAS E LO STUDIO «DESAPARECIDO»: CRISANTI INFILZA LANZARIN, ANNICHIARICO, TONIOLO E RUSSO

di MARCO MILIONI, da https://www.veronasera.it/ del 12/10/2023 Continua a leggere

COP28 a Dubai: ?un compromesso tra produzione fossile (con impianti per trattenere il carbonio?) e la finalità della Cop, cioè la transizione energetica? …tra pozzi petroliferi e pannelli solari (e rilanci nuclearisti)… – Gli interessi dei paesi del petrolio convivono con le energie rinnovabili? (e in ogni caso niente impegni per uno stile di vita meno energivoro)

(LA COP28 A DUBAI, foto da https://valori.it/) – “(…) La Cop28 si tiene a Dubai, negli Emirati arabi, nel quartiere Expo City. A ospitare negoziatori, membri delle ong e media, sarà una struttura enorme (la cosiddetta Blue zone); ci sarà, inoltre, un’area dedicata  alla società civile (Green zone). Novanta tra ristoranti e caffè serviranno 250mila pasti al giorno, dichiarano gli organizzatori, tutti “allineati all’obiettivo di contenere il riscaldamento entro gli 1,5 gradi” con un conteggio calorico preliminare sui menu.   I grattacieli con hotel a sette stelle, lo sfarzo ostentato e le piste da sci nei centri commerciali non fanno di Dubai una città dalla fama di attenta alla sostenibilità, ma le autorità dichiarano di prendere sul serio la transizione energetica e di essere sulla strada di una riconversione. (…)” (ANTONIO PIEMONTESE, da https://www.wired.it/ 29/9/2023)

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(dove si trova DUBAI, negli Emirati Arabi Uniti; mappa da Istituto Geografico De Agostini) – Gli Emirati Arabi Uniti è un paese situato nel sud-est della penisola arabica, in Asia occidentale; confina con l’Oman a sud-est, con l’Arabia Saudita a sud-ovest ed è bagnato dal Golfo Persico a nord. Lo Stato è composto da sette emirati: Abu Dhabi, ʿAjmān, Dubai, Fujaira, Ra’s al-Khayma, Sharja e Umm al-Qaywayn. Dubai è il più celebre degli emirati, come città di destinazione turistica e importante centro di commerci marittimi e della Finanza (le enormi riserve petrolifere sono in particolare concentrate nell’emirato di Abu Dhabi). Dubai ha una popolazione di circa 3 milioni e mezzo di abitanti. (da Wikipedia)

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7 COSE DA SAPERE SU COP28, LA CONFERENZA SUL CLIMA

di Antonio Piemontese, da https://www.wired.it/ 29/11/2023

– Si svolge a Dubai, è guidata dall’ad dell’azienda petrolifera di Stato e dovrà fare il punto sugli impegni presi dai Paesi nel 2015 a Parigi –

   Cop28, la ventottesima edizione della Conferenza delle parti delle Nazioni unite dedicata al clima, si è aperta il 30 novembre a Dubai: ha richiamato negli Emirati Arabi Uniti settantamila partecipanti, il numero più alto di sempre. Dopo l’accordo sul fondo per perdite e danni raggiunto l’anno scorso alla Cop di Sharm el Sheikh, in Egitto, a Dubai si attendono i dettagli operativi. Ma il piatto principale del menu emiratino è senz’altro il cosiddetto global stocktake, cioè il primo “tagliando” dell’accordo di Parigi siglato nel 2015.

LE 7 COSE DA SAPERE SU COP28

COSA SONO LE COP

La Conferenza delle parti sul clima nasce dalla Conferenza di Rio de Janeiro del 1992 per raccogliere attorno a un tavolo tutti i Paesi del globo allo scopo di tagliare le emissioni di gas serra. Il mondo attuale è molto diverso da quello del 1992: la Cina di oggi ha definitivamente abbandonato la povertà, l’India è ben avviata sulla strada dello sviluppo. Ma, nonostante oggi inquinino moltissimo, la posizione nei trattati è rimasta la stessa, e anche gli oneri, parametrati alle emissioni degli anni Novanta.

   È difficile dare l’idea della complessità di queste conferenze: oltre centottanta paesi, ognuno con decine di negoziatori, un calendario fittissimo. Le posizioni negoziali, in un’assemblea del genere, spesso sono agli antipodi: per questo i lavori vengono preparati con ampio anticipo dai cosiddetti sherpaIl voto finale non avviene per alzata di mano ma con una procedura chiamata consenso: in mancanza di opposizioni evidenti, la mozione passa.

COP28 A DUBAI

   La Cop28 si tiene a Dubai, negli Emirati arabi, nel quartiere Expo City. A ospitare negoziatori, membri delle ong e mediasarà una struttura enorme (la cosiddetta Blue zone); ci sarà, inoltre, un’area dedicata alla società civile (Green zone). Novanta tra ristoranti e caffè serviranno 250mila pasti al giorno, dichiarano gli organizzatori, tutti “allineati all’obiettivo di contenere il riscaldamento entro gli 1,5 gradi” con un conteggio calorico preliminare sui menu.

   I grattacieli con hotel a sette stelle, lo sfarzo ostentato e le piste da sci nei centri commerciali non fanno di Dubai una città dalla fama di attenta alla sostenibilità, ma le autorità dichiarano di prendere sul serio la transizione energetica e di essere sulla strada di una riconversione.

IL NODO DEL PETROLIO

Cop28 avviene in un paese produttore di petrolio e il presidente è Sultan Ahmed Al Jaber, amministratore delegato della Abu Dhabi national oil company (Adnoc), la compagnia petrolifera statale. Scelte contestate dagli attivisti. “Comprendo il ragionamento, ma dal mio punto di vista è necessario dialogare anche con queste realtà – afferma Silvia Francescon, esperta di politica estera per il think tank italiano Ecco -. Si tratta di interlocutori necessari per arrivare a un negoziato realmente rappresentativo”.

   Che conferenza sarà?Da Madrid in poi le Cop sono state esclusivamente politiche – chiosa Jacopo Bencini, policy advisor del gruppo di ricerca Italian Climate Network, che aggrega scienziati e studiosi italiani -. L’accordo di Parigi è chiuso, il Paris Rulebook è entrato in vigore: ora bisogna solo applicarli e implementarli. Dal punto di vista negoziale, insomma, credo che non ci saranno grandi passi in avanti, a parte le decisioni sul global stocktake”. “Sono convinto però che vedremo – prosegue Bencini – una Conferenza della parti a due velocità”. Se nelle sale negoziali potrebbe essere un anno di transizione, dice l’esperto, “a latere mi aspetto un iperattivismo emiratino, con molti annunci su finanza e rinnovabili“. Perché il minuscolo Paese mediorientale è ansioso di sfruttare la visibilità garantita dalla kermesse globale, e forte delle note disponibilità di denaro l’occasione è buona per stringere qualche nuova alleanza e proiettare l’influenza all’estero. Nei mesi scorsi Dubai ha promesso all’Africa 5 miliardi per la cooperazione climatica.

   Quest’anno i lobbisti (da sempre tanti, vengono contati tutti gli anni dalle ong) dovranno indicare sul badge l’organizzazione di appartenenza. Basterà a far luce sui partecipanti a Cop? Sono inoltre rigorosamente vietate le proteste al di fuori dell’area di Cop28, niente slogan politici, equipaggiamento video rigorosamente schedato per tutti i giornalisti che entrano nel Paese. Le limitazioni nelle applicazioni di messagging in vigore nel Paese mediorientale, da Whatsapp a Telegram, non renderanno facili le comunicazioni.

LA SITUAZIONE INTERNAZIONALE

(…..) “Per noi sarà un successo solo se si verificheranno due condizioni – annuncia Chiara Martinelli, direttrice di Climate Action Network Europe, rete che raccoglie 180 organizzazioni ambientaliste continentali -. Primo, un impegno concreto nella dichiarazione finale all’eliminazione di tutte le fonti fossili, il cosiddetto phase out. Secondo, più finanziamenti veri per tutti paesi poveri: fair funded future potrebbe essere lo slogan”. Una buona notizia, al riguardo, è giunta pochi giorni fa: sarebbe stato raggiunto l’obiettivo di cento miliardi in aiuti per la crisi climatica all’anno, secondo dati preliminari dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico. La promessa era stata fatta a Copenaghen nel 2009, e il traguardo arriva tre anni dopo rispetto all’obiettivo fissato per il 2020, ma era inaspettato. La Cop28 avviene in quello che è ormai riconosciuto come l’anno più caldo della storia e non si contano i disastri ambientali.

L’ACCORDO DI PARIGI E IL TAGLIANDO

Con l’accordo di Parigi del 2015 per la prima volta tutti i Paesi si sono impegnati a mantenere la temperatura “ben al di sotto” dei 2 gradi rispetto all’era preindustriale e a proseguire gli sforzi per restare entro gli 1,5 gradi, soglia ritenuta più sicura per combattere i devastanti effetti del cambiamento climatico. Il problema, fanno notare gli scienziati, è che il mondo è già arrivato oltre gli 1,3 gradi e il margine di manovra è estremamente ridotto. L’accordo di Parigi stabilisce che ogni Paese fissi da sé i propri obiettivi climatici (Ndc – National determined contributions).

   Ma il mondo saprà chi bara, con il global stocktake. Si tratta del controllo dei compiti a casa, da tenersi ogni cinque anni a partire dal 2023. Al momento, ognuno fa i conti a modo proprio, rendendo molto difficile il lavoro di comparazione. Gli indicatori dicono che con gli impegni presi fino a oggi l’aumento delle temperature non resterà confinato entro i limiti di Parigi, ma sfiorerà i 3 gradi entro il 2100.

IL NUOVO FONDO PER LOSS AND DAMAGE

Letteralmente “perdite e danni”, la terza gamba della finanza climatica, dopo mitigazione (ridurre, cioè, le emissioni serra), e adattamento (predisporre misure di contenimento per prepararsi agli eventi estremi).  Se la Cop di Sharm, partita sotto tono, si è conclusa con un successo è perché in Egitto si è deciso di istituire un nuovo fondo.

   Un incontro ad Abu Dhabi a inizio novembre ha formalizzato alcune raccomandazioni da portare a Cop28. La più controversa riguarda la possibilità di ospitare il fondo presso la Banca Mondiale, dominata dagli Stati Uniti. Troppo potere all’Occidente, sostiene alcuni paesi, che lo accusano essersi arricchito sfruttando l’energia derivata dalle fonti fossili e chiedono di poter fare lo stesso. Il gruppo negoziale G77 + Cina (composto dagli Stati in via di sviluppo con l’aggiunta di Pechino) spinge in questo senso, ed è dotato del peso per spostare gli equilibri.

   Un altro punto nodale del nascituro fondo sarà l’allargamento della base dei donatori. “I paesi che hanno inquinato di più storicamente devono ovviamente contribuire per primi – dice Chiara Martinelli di Climate Action Network Europe – anche per togliere un alibi agli altri: è a quel punto che giganti come Cina e India saranno costretti a entrare in gioco”. L’obiettivo è rendere il fondo operativo già nel 2024. A dare il buon esempio potrebbe essere l’Unione europea: il nuovo commissario al clima Wopke Hoekstra nei giorni scorsi ha annunciato “un sostanziale contributo finanziario da parte della Ue e dei suoi stati membri”.  “Sembrava tutto bloccato a livello continentale: poi la dichiarazione di Hoesktra e quella congiunzione che include tutti gli Stati membri lasciano ben sperare” chiosa Bencini.

NODO FAKE NEWS

Se dopo il sesto rapporto del Panel intergovernativo sul cambiamento del clima (Ipcc, il gruppo di scienziati che assiste l’Onu sul tema) è assodato che la crisi a cui assistiamo ha una matrice industriale, la disinformazione negli anni è cambiata, raffinando le armi e adattandole al mutato contesto: “Non si parla più di negazionismo – rileva Martinelli – ma l’accento si è spostato sul fatto che le soluzioni proposte a oggi non funzionerebbero e aumenterebbero povertà e disuguaglianze”. Un argomento non privo di mordente tra i cittadini esasperati dall’inflazione, ma che piace molto anche al Sud globale. Il compromesso tra istanze climatiche, economiche e sociali sarà il sacro Graal dei prossimi anni. (Antonio Piemontese, da https://www.wired.it/)

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Tutti i numeri di Cop28 – Lavoce.info

(premi il link qui sopra)

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SULTAN AHMED AL JABER­, amministratore delegato dell’azienda petrolifera degli Emirati Arabi Uniti, la ABU DHABI NATIONAL OIL COMPANY (ADNOC) è presidente della COP28 (foto da Nigrizia)

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(SCHEMA storico che indica i Paesi più avanzati responsabili del cambiamento climatico, tratto da https://www.carbonbrief.org/) – A proposito di “Current GHG emissions”, GHG che significa? Greenhouse Gas Protocol. Lanciato nel 1998, il GHG Protocol è il quadro di riferimento globale per la misurazione e la gestione delle emissioni di gas a effetto serra – (da notare poi il ruolo quasi irrilevante del “resto del mondo” rispetto ai G20 nella responsabilità al cambiamento climatico – paesi poveri che più di tutti subiscono -)

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COP 28, I TRE TEMI CHIAVE DELLA CONFERENZA ONU SUL CLIMA 2023

di Andrea Barbabella, da “Il Sole 24ore” del 27/11/2023

– Al centro del dibattito il sostegno ai Paesi in via di sviluppo nel rispondere agli effetti del riscaldamento globale; la riduzione delle emissioni di gas serra; la necessità di una tabella di marcia per ridurre l’uso di carbone, petrolio e gas –

   Tre sono i temi chiave della 28° Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 2023 (Cop 28) – in programma dal 30 novembre al 12 dicembre all’Expo City di Dubai (video) – su cui si potranno misurarne gli esiti e, alla fine dei lavori, capire se l’evento ospitato dagli Emirati Arabi Uniti, uno dei Paesi con le più alte emissioni pro capite di gas serra al mondo, abbia realmente consentito di fare un passo in avanti significativo nel contrasto alla crisi climatica.

La sfida “Loss and Damage”

Il primo tema riguarda il sostegno ai Paesi in via di sviluppo nel rispondere agli effetti del riscaldamento globale. Siamo entrati oramai in una fase di “anormalità climatica permanente”, il 2022 è stato un anno funestato da eventi meteo estremi, con gli 8 milioni di sfollati per l’inondazione del Pakistan e la peggiore siccità che ha colpito l’Europa negli ultimi cinquecento anni. E il 2023, secondo l’Organizzazione mondiale della meteorologia, si candida a essere l’anno più caldo mai registrato nella storia.

   Tenendo conto che i Paesi più poveri sono quelli che hanno contribuito meno alla crisi climatica e, al tempo stesso, ne subiranno le peggiori conseguenze, con quasi la metà dei morti causati dalla crisi climatica che secondo le stime si concentrerà in Africa, aiutarli ad affrontare questa crisi non può non rappresentare una priorità.

   Secondo un recentissimo report pubblicato dall’Unep, il Programma ambientale dell’Onu, servirebbero tra i 215 e i 387 miliardi all’anno per consentire ai Paesi più poveri di difendersi dal riscaldamento globale, ossia tra 10 e 18 volte in più di quanto fatto fino a oggi. Per tutti questi motivi la sfida della Cop28 sarà quella di rendere pienamente operativo lo strumento Loss and Damage, istituito nella precedente Cop di Sharm El-Sheik per riparare ai danni che Paesi più poveri inevitabilmente subiranno dal cambiamento climatico.

Il nodo dei gas serra

Il secondo tema riguarda la riduzione delle emissioni di gas serra. Come previsto dall’Accordo di Parigi, la Cop28 ospiterà il primo stocktake sul clima, ossia il momento in cui si valuterà l’effetto congiunto di tutti gli impegni nazionali (i c.d. Nationally Determined Contribution – NDC) e, soprattutto, si chiederà un aumento delle ambizioni degli NDC nel caso in cui questo non risulti compatibile con gli obiettivi concordati a Parigi nel 2015. Il 14 novembre è stato reso pubblico il report ufficiale delle Nazioni Unite, nel quale sono stati analizzati gli impatti di 168 NDC, corrispondenti al 95% delle emissioni globali di gas serra. Gli esiti sono, purtroppo, sconfortanti.

   Sommando tutti gli NDC – e immaginando, quindi, che gli obiettivi in essi contenuti siano tutti pienamente raggiunti – rispetto al 2019 le emissioni mondiali di gas serra si ridurrebbero, nella migliore delle ipotesi, di meno del 10%, passando da 53 a 48 miliardi di tonnellate all’anno. Molto lontano da quello che dovrebbe essere, se pensiamo che per limitare l’aumento della temperatura globale tra 1,5 e 2°C, obiettivo dell’Accordo di Parigi, dovremmo tagliarle tra il 30% e il 43%. Riuscirà la conferenza di Dubai a far fare lo scatto in avanti necessario per adeguare i livelli di ambizione dei Governi?

Roadmap per ridurre l’uso del carbone

Il terzo e ultimo tema, strettamente collegato al precedente, riguarda la necessità di definire una roadmap chiara per ridurre drasticamente l’utilizzo di carbone, petrolio e gas. Un altro recentissimo report, sempre promosso dall’Unep, ha svelato una scomoda verità: nonostante in molti casi abbiano presentato obiettivi di azzeramento delle proprie emissioni di gas serra, i 20 più importanti Paesi produttori di combustibili fossili hanno programmi di sviluppo della produzione di carbone, petrolio e gas del tutto incompatibili con l’Accordo di Parigi, che al 2030 porterebbero queste Nazioni a produrre in un anno il doppio dei combustibili fossili che potremmo materialmente consumare. Considerando che tra questi compare anche il Paese ospitante della 28° Conferenza mondiale sul clima, anche su questo punto non c’è, purtroppo, di che essere ottimisti.

Andrea Barbabella, da “Il Sole 24ore” del 27/11/2023

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(Mappa della PENISOLA ARABICA, ripresa da https://www.rivistamissioniconsolata.it/) – “(…) Settimo produttore al mondo di petrolio, gli Emirati Arabi sono decisi a sfruttare ancora questa risorsa, finché sarà disponibile. Stesso discorso per gli altri Paesi del Golfo, intenzionati a potenziare ulteriormente la loro capacità di estrazione ed esportazione. Se Arabia Saudita e Bahrein hanno deciso di posticipare la neutralità climatica al 2060, Kuwait e Qatar non hanno previsto affatto obiettivi climatici. Al tempo stesso però la regione è a corto di acqua e di cibo coltivato in casa, col caldo che ha raggiunto livelli insopportabili nonostante i condizionatori nei grattacieli di città costruite nel deserto. Altro rischio che incombe: l’innalzamento del livello del mare. Anche i colossi del petrolio sono soggetti insomma alla minaccia climatica, ma con quello che stanno guadagnando dai fossili stanno al contempo finanziando la loro transizione energetica. (…) (ALESSIA CAPASSO, da https://europa.today.it/ 24/11/2023)

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MENO GAS PER SALVARE IL CLIMA E I PETROLIERI: COSÌ GLI SCEICCHI GUIDANO LA COP DI DUBAI

di Alessia Capasso, da https://europa.today.it/ 24/11/2023

– Gli Emirati Arabi ospitano la conferenza per il clima più discussa degli ultimi anni. Al centro ci saranno il metano, i fondi per i Paesi in via di sviluppo e le tecnologie per l’abbattimento delle emissioni –

   Scetticismo e sfiducia sono le parole sottese a questa Cop28, il vertice annuale delle Nazioni Unite sul clima iniziato il 30 novembre e proseguirà fino al 12 dicembre. Il primo fattore che suscita questa sensazione è il luogo in cui verrà organizzato: Dubai, capitale degli Emirati Arabi Uniti, uno dei colossi petroliferi del Medio Oriente. Le preoccupazioni derivano poi dal fatto che i leader globali sono alle prese con ben due guerre ad alto profilo: quella in Ucraina scatenata dalla Russia e quella in Medio Oriente, dove Israele è decisa a distruggere Hamas. Due conflitti che stanno risucchiando energie e risorse di mezzo mondo, sottraendole a quelle necessarie per accelerare la transizione energetica.

Anche i Signori del petrolio soffrono il clima

Settimo produttore al mondo di petrolio, gli Emirati Arabi sono decisi a sfruttare ancora questa risorsa, finché sarà disponibile. Stesso discorso per gli altri Paesi del Golfo, intenzionati a potenziare ulteriormente la loro capacità di estrazione ed esportazione. Se Arabia Saudita e Bahrein hanno deciso di posticipare la neutralità climatica al 2060, Kuwait e Qatar non hanno previsto affatto obiettivi climatici. Al tempo stesso però la regione è a corto di acqua e di cibo coltivato in casa, col caldo che ha raggiunto livelli insopportabili nonostante i condizionatori nei grattacieli di città costruite nel deserto. Altro rischio che incombe: l’innalzamento del livello del mare. Anche i colossi del petrolio sono soggetti insomma alla minaccia climatica, ma con quello che stanno guadagnando dai fossili stanno al contempo finanziando la loro transizione energetica.

Le rinnovabili degli sceicchi

Gli Emirati Arabi rappresentano l’esempio più significativo, dato che hanno già investito in modo deciso nella decarbonizzazione. Un progetto per eliminare gas serra, equivalenti alle emissioni annuali di mezzo milione di automobili a benzina, è stato presentato a settembre. Altre operazioni riguardano la riduzione delle emissioni di metano. La Abu Dhabi National Oil Company  (Adnoc) sta spendendo quasi 4 miliardi di dollari per spedire elettricità senza emissioni di carbonio, tramite cavi sottomarini che si collegano alle piattaforme offshore, per sostituire la combustione del gas naturale. C’è poi la Masdar, una società specializzata in energia rinnovabile, che gestisce enormi parchi solari. Questo colosso, in cui anche Adnoc ha delle partecipazioni, si è impegnata a installare 100 gigawatt di capacità di energia rinnovabile entro il 2030, mentre nel 2021 era ferma ad appena 15 gigawatt. Il lavoro sulle rinnovabili è iniziato nel 2006, molto prima che la rivoluzione solare venisse reputata indispensabile.

   Masdar è già approdata anche in Europa con progetti in Germania, Polonia, Serbia e Regno Unito, tra gli altri. Al vertice sia della Adnoc che di Masdar c’è lo stesso uomo, il sultano Ahmed Al Jaber, a cui è stata affidata l’organizzazione di questa Cop28 e la figura più discussa e inseguita dalle polemiche. Ad ottobre Al Jaber ha incontrato il primo ministro Giorgia Meloni in Italia. I due hanno richiesto “un’azione forte e ambiziosa da parte di tutti i Paesi per rafforzare i rispettivi piani al 2030. Contributi determinati a livello nazionale (Ndc’s) in tutte le dimensioni e a un ritmo molto più rapido, al fine di raggiungere gli obiettivi di lungo termine previsti dall’Accordo di Parigi”, si legge in una nota rilasciata dalla Presidenza del Consiglio al termine dell’incontro.

Ridurre le emissioni di gas

In un vertice caratterizzato da migliaia di obiettivi tecnici e complesse procedure, si prevede saranno tre i grandi temi che attrarranno maggiore attenzione. In cima dovrebbe esserci il metano, un gas serra che per troppo tempo non è stato preso a sufficienza in considerazione rispetto all’anidride carbonica. Di recente si possono però segnalare alcuni passi avanti positivi. L’Unione europea ha appena concordato limiti più rigorosi alle emissioni di questo gas, includendo maggiori controlli anche sulle importazioni. La Cina, che risulta il principale emettitore di metano al mondo, ha assicurato che per la prima volta includerà il gas nel suo piano nazionale sul clima. Arginare le fughe di metano potrebbe essere un passo in avanti più rapido per rallentare il riscaldamento globale, ma quello che manca è un impegno sottoscritto dalle principali aziende energetiche del settore. Secondo il Time, il sultano Ahmed Al Jaber avrebbe esercitato forti pressioni sulle grandi società affinché si impegnino nella riduzione delle emissioni di metano.

Salvare l’ambiente dei Paesi vulnerabili

Un punto molto dibattuto è quello che riguarda i finanziamenti per il clima. I Paesi in via di sviluppo rivendicano i fondi concordati di circa cento miliardi di dollari, che dovevano essere versarti entro il 2020. Promessa non mantenuta. Alla Cop27 in Egitto si era parlato di un fondo “perdite e danni”, ma la struttura non risulta ancora finanziata, nonostante l’intercessione della Banca Mondiale. I paesi più vulnerabili, come le isole del Pacifico o alcuni Stati africani, sono spesso quelli che producono minori emissioni. I fondi sono reputati insufficienti, visto anche il susseguirsi di disastri naturali che stanno mettendo in ginocchio tante aree del mondo. Durante la Cop28 Bruxelles potrebbe annunciare alcuni finanziamenti appositi per alleviare questi problemi e sostenere le rinnovabili in alcuni Paesi “poveri” ma ricchi di altre risorse, mentre gli Emirati Arabi in qualità di Paese ospitante vorrebbero lanciare un fondo globale di finanziamento da 25 miliardi di dollari, partendo con soldi ottenuti tramite le ricchezze petrolifere.

   Il terzo punto è quello più problematico e riguarda il ritmo a cui i Paesi intendono procedere nel ridurre o eliminare del tutto le fonti fossili. Uno dei campi di battaglia riguarderà l’ammissibilità o meno di TECNOLOGIE DI “ABBATTIMENTO”, CHE CONSENTONO LA CATTURA E LO STOCCAGGIO DELLE EMISSIONI DI GAS SERRA, i cui effetti positivi ancora non sono stati verificati. Ammetterle, come ha già previsto l’Unione europea facendo ricorso ai pozzi di carbonio rappresentati da agricoltura e foreste, significa continuare a consentire l’utilizzo di combustibili fossili e puntare su forme di “compensazione” poco convincenti rispetto alla rapidità con cui procede la crisi climatica. Pensare che le fonti fossili scompaiano in breve tempo risulta altrettanto impensabile al momento, dato che ancora costituiscono l’80% della fornitura energetica mondiale. Anche nel 2050, quando l’Unione europea prevede di raggiungere l’obiettivo delle emissioni zero, avremo ancora a che fare con queste fonti, seppur in misura di gran lunga più ridotta.

Tagliare i fondi per le fonti fossili

Tutto dipenderà dagli sforzi per investire nelle alternative, ma soprattutto se si inizierà a PRENDERE IN CONSIDERAZIONE O MENO UNO STILE DI VITA MENO ENERGIVORO. Un’opzione che sembra molto distante dalla mentalità di leader ossessionati dalla crescita. L’Agenzia Internazionale dell’Energia (Aie) ha lanciato a novembre un appello a ridurre i fondi destinati ai combustibili fossili. Altrimenti sarà impossibile raggiungere gli obiettivi fissati dall’Accordo di Parigi del 2015. Diventa urgente dimezzare gli attuali 800 miliardi di dollari investiti ogni anno nel settore del petrolio e del gas. Va fatto entro il 2030 se si vuole raggiungere l’obiettivo di limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi Celsius, hanno scritto gli esperti dell’Aie in un rapporto, sottolineando inoltre che il settore dovrà ridurre le emissioni del 60% entro il 2030 per allinearsi a questo obiettivo.

(Alessia Capasso, da https://europa.today.it/ 24/11/2023)

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(Parco fotovoltaico, da https://www.qualenergia.it/) – 20 novembre 2023. Inaugurato negli Emirati Arabi il parco fotovoltaico più grande del mondo. L’impianto da 2 GW si trova a 35 km circa da Abu Dhabi. È stato realizzato dalla società statale Masdar e da partner francesi e cinesi. Il taglio del nastro a meno di due settimane dall’avvio della CoP 28 a Dubai. (da https://www.qualenergia.it/)

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LA COP28 NON CURA LE CAUSE DELLA CRISI

di Mario Tozzi, da “La Stampa” del 1/12/2023

   Il fallimento annunciato della Conferenza delle parti sul clima (COP28) di Dubai sta tutto nei suoi fragili e ambigui presupposti, che si concretizzano nel procrastinare sine die qualsivoglia azione strutturale per agire sulle cause della crisi climatica. Del resto quando non si chiama mai direttamente in causa la responsabilità gravissima e reiterata delle corporation gaspetrocarboniere, e degli Stati che con loro si identificano, e non le si mettono mai sul banco degli imputati chiamandole a un sostanziale risarcimento, non ci si può aspettare, al massimo, che qualche successo di facciata. Ma a Dubai, probabilmente, non registreremo neppure quello, non essendo possibile uscire incontaminati da un confronto con Lucifero in persona nella casa stessa del diavolo.

   Tutte le major dei combustibili fossili sapevano benissimo a cosa si sarebbe andati incontro continuando a estrarli e bruciarli: studi commissionati a ricercatori dalle stesse compagnie, fino dagli anni ’70 del XX secolo, avevano messo impietosamente in luce come si sarebbe arrivati a 420 ppm (parti per milione) di anidride carbonica attorno al 2020, cosa che si è puntualmente verificata. La dimostrazione più lampante che la scienza è unanime sulle cause della crisi climatica, anche quando viene pagata dall’industria che auspicherebbe risultati più addomesticati.

   Naturalmente ci auguriamo di venire smentiti, ma ciò avverrebbe solo se al termine dei lavori si prendessero provvedimenti strutturali, non più negoziabili, obbligatori e tempestivi. Cioè se si mettesse fine allo scandalo dei finanziamenti pubblici al settore oil & gas (calcolati a circa 7 trilioni di dollari/anno secondo FMI), senza andare tanto per il sottile se si tratta di forme dirette o indirette di sostegno; se si impedisse di continuare a trivellare allegramente perfino nei santuari di protezione della natura o ai poli; e se si imponesse un prezzo di riconversione che tenga conto del costo sociale del carbonio, in pratica se si destinasse una percentuale di quei profitti alle energie rinnovabili.

   E se a tutto questo si imponesse un controllo effettuato da un organismo super partes e se queste operazioni partissero immediatamente, perché di tempo ne abbiamo già perso abbastanza. Invece noi non facciamo nulla di tutto ciò e vediamo serenamente fallire la previsione che ci ha finora tenuto appesi alla speranza di un cambio di rotta, cioè che avremmo contenuto le emissioni in modo da non vedere incrementare la temperatura media atmosferica più di 1,5°C nel prossimo futuro, come sbandierato più volte nel corso dei meeting economici internazionali (G20 e G7 compresi). Invece, valutando gli investimenti e i programmi di sviluppo delle compagnie gaspetrocarboniere, quello che emerge è che l’incremento sarà di 2,7°C, un valore temuto da tutti gli specialisti perché foriero di conseguenze irreversibili non solo per gli ecosistemi, ma anche per la biologia dei viventi, sapiens compresi.

   Difendere le foreste residue, piantare miliardi di alberi, tutelare le balene (sì, contribuiscono pesantemente a stoccare la CO2 in eccesso), sono tutte operazioni positive, ma agiscono sugli effetti, non toccano le cause della crisi climatica, perciò rischiano di non essere commisurate a un cambiamento che si preannuncia molto più cospicuo del previsto. Mitigare senza agire sulle cause nello stesso tempo serve a poco, riunirsi in conferenze in cui non pestare i piedi a un’economia distruttiva è più importante dello stato di salute della biosfera che ci sostiene serve ancora a meno. Ci risparmiassero la presa in giro, comunque mascherata. (Mario Tozzi, da “La Stampa”)

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(Inquinamento mondiale: ecco i primi colpevoli, schema da https://www.truenumbers.it/)

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LOSS AND DAMAGE: letteralmente “perdite e danni”, la terza gamba della finanza climatica, dopo mitigazione (ridurre, cioè, le emissioni serra), e adattamento (predisporre misure di contenimento per prepararsi agli eventi estremi).

La sfida “Loss and Damage”

Riguarda il sostegno ai Paesi in via di sviluppo nel rispondere agli effetti del riscaldamento globale. Siamo entrati oramai in una fase di “anormalità climatica permanente”, il 2022 è stato un anno funestato da eventi meteo estremi, con gli 8 milioni di sfollati per l’inondazione del Pakistan e la peggiore siccità che ha colpito l’Europa negli ultimi cinquecento anni. E il 2023, secondo l’Organizzazione mondiale della meteorologia, si candida a essere l’anno più caldo mai registrato nella storia.

   Tenendo conto che i Paesi più poveri sono quelli che hanno contribuito meno alla crisi climatica e, al tempo stesso, ne subiranno le peggiori conseguenze, con quasi la metà dei morti causati dalla crisi climatica che secondo le stime si concentrerà in Africa, aiutarli ad affrontare questa crisi non può non rappresentare una priorità. (Andrea Barbabella, da “Il Sole 24ore” del 27/11/2023)

LOSS AND DAMAGE, APPROVATO ALLA COP28 IL FONDO PER I PAESI VULNERABILI (di Andrea Barolini, da https://valori.it/ 30/11/2023) – Nel primo giorno della Cop28 di Dubai è stato approvato il fondo per il loss and damage. Restano tuttavia alcuni importanti punti interrogativi  (…)

Il primo riguarda la decisione di far gestire il fondo alla Banca Mondiale. Ciò per almeno quattro anni, in via provvisoria. Si tratta di una decisione sofferta, e che a lungo è stata osteggiata con forza dai Paesi in via di sviluppo più vulnerabili di fonte agli impatti del riscaldamento globale. (…) Il fatto di affidare il fondo alla Banca Mondiale significa passare attraverso un istituto che è di fatto, indiscutibilmente, dominato dagli Stati Uniti e dall’Unione europea. Quanta voce in capitolo avranno, insomma, i Paesi vulnerabili ai quali i capitali dovrebbero arrivare? (…)

Poi (secondo punto), sarà fondamentale capire quanti fondi arriveranno. I Paesi sviluppati, Stati Uniti in testa, hanno rifiutato categoricamente che i contributi possano essere obbligatori. E hanno vinto, su questo punto: i fondi per il loss and damage saranno versati su base volontaria. (…) Ma quanto valgono le prime promesse avanzate? Per ora si tratta di gocce in mezzo al mare della crisi climatica. Nonostante gli appelli alla generosità giunti da più parti, gli Stati Uniti hanno promesso un apporto pari a 17,5 milioni di dollari. Gli Emirati Arabi Uniti 100 milioni, il Regno Unito 76. Altri 225 arriveranno dall’Unione europea (100 di questi promessi dalla Germania). Complessivamente, per ora, si è arrivati ad un totale di impegni per qualche centinaio di milioni. Nulla, a confronto di quanto necessario: il costo dei danni irreversibili causati da inondazioni, tempeste, ondate di caldo e di siccità o dalla risalita del livello dei mari potrebbe raggiungere 580 miliardi di dollari all’anno di qui al 2030 per i Paesi esposti. «Ci aspettiamo promesse in miliardi, non in milioni», ha dichiarato Rachel Cleetus, della Union of Concerned Scientists americana. Mentre Madeleine Diouf Sarr, che presiede il gruppo dei Paesi meno avanzati (composto dalle 46 nazioni più povere della Terra) ha parlato di decisione «di enorme rilevanza per la giustizia climatica», ma ha avvertito che «un fondo vuoto non aiuterà i nostri cittadini».

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ACCORDO IN AVVIO PER UNA COP28 INTERLOCUTORIA

di Marzio Galeotti, Alessandro Lanza e Valeria Zanini

da “La Voce.Info”, 1/12/2023, https://lavoce.info/

– L’accordo per rendere operativo il fondo Perdite e Danni arriva in avvio di Cop28. È un successo dopo le tensioni che hanno accompagnato il negoziato e in una Conferenza che si preannuncia comunque interlocutoria. Gli altri temi in discussione –

La Cop28 di Dubai

È iniziata con un accordo la Cop28, che si è aperta il 30 novembre a Dubai: il via libera al fondo “Loss and Damage”. L’agenda, tuttavia, non include l’adozione di obiettivi di riduzione dei gas-serra più ambiziosi e dunque la Cop28 è una Conferenza di passaggio, un’occasione per fare il punto sull’azione climatica in tutte e tre le sue declinazioni: mitigazione, adattamento e finanza. Nonostante molti altri eventi, come i meeting del G7 o del G20, abbiano acquisito una rilevanza maggiore sul tema, le Cop sono ancora il luogo dove vengono valutati i risultati raggiunti e vengono concordate le basi per andare avanti. Sono anche le uniche occasioni in cui ogni paese può fare sentire la sua voce. Di seguito, una breve rassegna dei dossier rilevanti per Cop28.

Global Stocktake

Il più importante punto in agenda è il Global Stocktake, il meccanismo di valutazione quinquennale dei progressi collettivi fatti verso gli obiettivi dell’Accordo di Parigi del 2015 sui tre pilastri dell’azione climatica: mitigazione, adattamento e finanza.

   L’azione è riassunta nelle Ndcs (Nationally Determined Contributions) che hanno visto un primo round di impegni nel 2015-2016 e un secondo Continua a leggere