ALLUVIONE (in Emilia Romagna): sempre le stesse tragiche cose – per la SICUREZZA IDRICA: i LIMITI di casse di espansione, argini, dighe… rimedi che non bastano alla salvaguardia del territorio: sono necessarie non solo opere idrauliche ma lasciare libero l’alveo dei fiumi, coltivazioni biologiche, ricarica della falda, aree urbane permeabili… (basta cemento)

(alluvione in Emilia Romagna, foto ripresa da https://www.leggo.it/) – “(…) Le catastrofi naturali riguardano, ormai da vent’anni, tutta Italia. Dal 2010 al 31 ottobre 2022 si sono verificati ben 1.503 eventi estremi nel nostro Paese. Solo l’Emilia Romagna ne ha contati ben 111. Le vittime accertate dal 2010 a novembre 2022 erano 279. E le emergenze ci costano circa 3 miliardi di euro l’anno.   Il punto è la fragilità del nostro territorio. Secondo l’ISPRA (l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, ente di ricerca pubblico legato al ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica) il 18,4% dell’Italia ricade nelle aree di maggiore pericolosità per frane e alluvioni. Sono 6,8 milioni gli italiani che vivono in territori a rischio alluvioni, circa un milione e mezzo quelli che vivono in territori a rischio frane. E il punto è che spendiamo almeno quattro volte in più per riparare i danni che per prevenirli. Se infatti dal 1999 circa 500 milioni di euro sono stati spesi per prevenire i danni degli eventi metereologici estremi, dal 2013 in poi spendiamo un miliardo e mezzo ogni anno per sanarli. Una cifra che, in assenza di un indirizzo preciso, è destinata probabilmente a risalire. (…)” (Daniele Tempera, 18/5/2023, dahttps://www.today.it/)

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(la MAPPA-LINEA dell’ALLUVIONE ripresa da https://www.meteoweb.eu/) — “(…) Ci sono degli interventi più strutturali che, come ricorda Legambiente, riguardano non solo l’Emilia Romagna come: -vietare qualsiasi edificazione nelle aree classificate come a rischio idrogeologico; -delocalizzare gli abitanti nelle aree a rischio con appositi finanziamenti; -salvaguardare la permeabilità delle aree urbane; -vietare l’utilizzo dei piani interrati; -vietare gli intubamenti dei corsi d’acqua. Un’opera che può essere fatta solo di concerto quindi, sul quale i vari governi latitano da anni. (…)” (Daniele Tempera, 18/5/2023, dahttps://www.today.it/)

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LA NATURA CI PRESENTA LA LISTA DI QUEL CHE SERVE PER SALVARE L’ITALIA

di Giulio Boccaletti, da “il FOGLIO” del 18/5/2023

   Gli eventi che hanno colpito l’Emilia-Romagna sono tragici. Alle perdite, drammatiche nel caso delle vittime, sostenute da comunità travolte dalla forza dell’acqua, va aggiunto un impatto economico misurabile.   Vari studi econometrici hanno dimostrato che eventi simili a questi impongono un costo sul capitale produttivo delle zone colpite che durerà ben oltre la pioggia. Un freno economico, insomma, di cui si farebbe volentieri a meno. Ma questi eventi potrebbero essere doppiamente tragici se finissero per alimentare polemiche sterili.

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(MALTEMPO IN EMILIA ROMAGNA – la MAPPA degli allagamenti, da https://www.ilmessaggero.it/)

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Giulio Boccaletti, da “il FOGLIO” del 18/5/2023:

   Alcuni già si avventurano in affermazioni come: “Non c’è alcun cambiamento climatico, la siccità è stata sconfitta!”. È una sciocchezza, figlia di analfabetismo scientifico. Questa pioggia non elimina i rischi legati alla siccità, perché l’acqua deve esserci dove e quando serve. L’acqua a Faenza non aiuta Vercelli. L’acqua ora, se non accumulata in falde o ghiacciai accessibili, non aiuterà gli irrigatori a fine giugno.

   Quello che gli eventi di questi giorni dimostrano, invece, è che ciò che da decenni si temeva sarebbe successo, si sta puntualmente verificando. Il cambiamento climatico si esprime nella statistica delle variabili meteorologiche. La statistica: vale a dire che in media ci aspettiamo periodi più lunghi di siccità e precipitazioni più erratiche e intense. In media. Il destino di quest’anno si chiarirà nelle prossime settimane, ma anche se fossimo fortunati, pur affrontando costi enormi, ci ritroveremo a giocare la stessa mano ogni anno futuro.

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(ALLUVIONE IN ROMAGNA, foto ripresa da https://quifinanza.it/) – “(…) Quello che colpisce è la mancanza di un piano. L’Italia deve infatti ancora aggiornare e approvare il suo “Piano di Adattamento ai cambiamenti climatici“: la bozza è pronta dal 2018. Nel mezzo abbiamo avuto la pandemia ed eventi climatici sempre più estremi. Si tratta di uno strumento che hanno tutte le nazioni avanzate ad eccezione Slovenia, Polonia e Turchia. E che servirebbe a definire con maggiore precisione le aree a rischio idrogeologico e orientare efficacemente le politiche. (…)” (Daniele Tempera, 18/5/2023, dahttps://www.today.it/)

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Giulio Boccaletti, da “il FOGLIO” del 18/5/2023:

   Quindi che fare? Nell’elaborare una risposta, non ci aiuta l’abitudine moralista che vede nella colpa di qualcuno l’unica spiegazione possibile. Può darsi che ci siano state negligenze, ma questo è un problema strutturale. L’Emilia-Romagna, per esempio, è in gran parte piatta e si trova a valle di una moltitudine di torrenti appenninici. Molte delle zone di pianura che sono oggi allagate erano storicamente paludi.

   Il triangolo tra Bologna, Ravenna e Comacchio, per esempio, era così pieno d’acqua che nel XIII secolo Bologna era uno dei porti fluviali più attivi d’Europa, con una flotta in grado di sostenere un conflitto con Venezia. Poi vennero le opere di bonifica. Si cominciò nel medioevo, accelerando a partire dal XV secolo con gli interventi idraulici degli Estense di Ferrara e dello Stato pontificio. La legge Baccarini della fine dell’Ottocento diede un’ulteriore spinta alle bonifiche, che continuarono fino agli anni Cinquanta del secolo scorso. Gli impianti idrovori del sistema di consorzi di bonifica della regione, che in queste ore stanno cercando di prosciugare le zone allagate facendo defluire l’acqua, sono l’eredità di questa trasformazione secolare. La lezione è chiara.

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(Maltempo_Emilia Romagna, fonte ISPRA, ripresa da https://tg24.sky.it/) – L’ultimo rapporto dell’ISPRA sul tema è del 2021 e dice che il 93,9 per cento dei comuni italiani (cioè 7.423) «è a rischio per frane, alluvioni e/o erosione costiera». L’ISPRA analizza dove è maggiore la pericolosità per frane e alluvioni, dove le coste subiscono più erosione e quali e quanti sono i rischi per la popolazione, gli edifici, le imprese e i beni culturali in tutto il paese. Dice che le regioni con più abitanti a rischio per frane e alluvioni sono, in ordine, Emilia-Romagna, Toscana, Campania, Veneto, Lombardia e Liguria. (da https://www.ilpost.it/, 19/5/2023)

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Giulio Boccaletti, da “il FOGLIO” del 18/5/2023:

   Il fatto che, fino a poco tempo fa, molti paesaggi italiani non fossero soggetti a siccità e alluvioni frequenti come lo sono oggi non era dovuto solo alla fortuna climatica, ma a secoli di opere idrauliche e di gestione del territorio, che ne hanno profondamente modificato l’idrologia, creando ecosistemi artificiali altamente controllati. Il problema è che tutte quelle trasformazioni secolari hanno una cosa in comune: la statistica meteorologica si era mantenuta entro una banda più o meno stazionaria. Fino a oggi. Eventi, che erano talmente rari da non essere contemplati nella progettazione operativa dei sistemi idraulici (anche a causa dei costi che avrebbero imposto) sono ora sempre più frequenti.

   A fronte di questo servono un coordinamento istituzionale e investimenti strategici in tutto il sistema di sicurezza idrica del paese: non solo opere idrauliche, da argini a dighe che pure servono, ma anche uso dei territori, gestione della domanda, strumenti di assicurazione finanziaria, risorse per il monitoraggio e la modellistica e tanto altro. Gli ingredienti non sono un mistero. Paesi comparabili al nostro con un’idrologia complessa, dall’Australia all’Olanda, hanno investito risorse commensurate ai problemi che affrontano.

   Serve una lista di priorità con i corrispondenti valori economici e costi, e un piano di implementazione che converta le competenze che il paese ha in istituzioni capaci di gestire una situazione dinamica e in grado di navigare le complessità prodotte dalla riforma delle competenze ambientali definite dal Titolo V della Costituzione. Non sarà facile.

   L’Italia ha impiegato oltre cinque secoli a raggiungere la sicurezza idrica alla quale ci siamo abituati. Adesso dobbiamo ricalibrarla in pochi decenni se vogliamo evitare che una successione di eventi catastrofici, sia siccità sia alluvioni, azzoppi le parti più produttive del paese. Sembra che la Natura, avendo ascoltato le discussioni surreali degli ultimi mesi su come spendere i soldi del Pnrr, abbia deciso di presentare al governo e al paese intero una lista chilometrica di interventi necessari. I soldi ci sono. La cabina di regia pure. Attendiamo il piano finanziario prioritizzato e le istituzioni di attuazione. Ne dipende la sicurezza del paese.  (Giulio Boccaletti)

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(17/5/2023: I FIUMI ESONDATI IN EMILIA ROMAGNA nella seconda piena a 15 giorni dalla prima, MAPPA ripresa da https://www.corriere.it/)

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(19 maggio 2023 ore 13.30: L’ALLUVIONE VISTA DAL SATELLITE, immagine ripresa da https://www.corriere.it/)

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IN ROMAGNA SONO ESONDATI ANCHE I BACINI COSTRUITI PER EVITARE GLI ALLAGAMENTI

da IL POST.IT del 19/5/2023, https://www.ilpost.it/

   L’acqua è stata talmente abbondante da rendere inefficaci le opere costruite per gestire le piene dei fiumi

In seguito alla grave alluvione in Emilia-Romagna è nato un dibattito che si sta concentrando più che altro sulle cause delle intense piogge e sulle gravi conseguenze che hanno avuto.

   In particolare esperti, politici e abitanti delle zone colpite si sono interrogati sugli interventi e sulle opere idrauliche che avrebbero potuto evitare l’allagamento di decine di migliaia di case e soprattutto la morte di 14 persone. È una reazione piuttosto naturale e giustificata, non nuova in un paese come l’Italia particolarmente soggetto a frane e alluvioni: anche stavolta si è parlato molto della mancata prevenzione, cioè di cosa non è stato fatto negli ultimi anni per mettere in sicurezza i fiumi, e poco su ciò che si può fare adesso.

   Tra le opere più citate come decisive in caso di alluvioni ci sono le “casse di espansione” dei fiumi, note anche come bacini di espansione. Secondo diversi esperti intervistati dai giornali, in tutta la regione e soprattutto in Romagna non ne sono state costruite a sufficienza: in realtà in alcune zone c’erano, ma le precipitazioni sono state così intense da renderle inefficaci.

   Le casse di espansione sono invasi costruiti per raccogliere l’acqua che tracima dai fiumi durante le piene. Di solito vengono realizzate in pianura e sono di due tipi, contigue ai corsi d’acqua – chiamate anche “in linea” – oppure separate, chiamate “laterali”. Le casse di espansione realizzate in linea deviano l’acqua in eccesso in un’ampia zona libera con argini più alti: in questo modo il livello della piena si abbassa, così come la pressione dell’acqua. Vengono chiamate casse di espansione perché di fatto sono un’espansione dei fiumi: quando il livello dell’acqua è sotto controllo, le casse di espansione rimangono vuote.

   I bacini separati invece raccolgono l’acqua che esonda in caso di piena: riempiendosi, evitano che l’acqua allaghi campi e strade. La capacità delle casse di espansione viene stabilita sulla base di dati come la portata del fiume e il livello raggiunto durante le piene del passato.

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   In Emilia-Romagna le prime casse di espansione furono progettate negli anni Settanta, in seguito all’alluvione del 1973 a Reggio Emilia, in cui morirono due persone. Nel 1985 venne completata la cassa di espansione sul fiume Panaro, nel 1991 quella sul Crostolo. Nel 2004 e nel 2006 vennero collaudate le casse di espansione dell’Enza e del Parma. Fino alla fine degli anni Novanta le casse di espansione furono costruite prevalentemente nella pianura emiliana, una zona più a rischio di alluvioni. Di recente alcuni esperti avevano detto che in Romagna non ci sono casse di espansione, in realtà negli ultimi anni ne sono state costruite diverse.

   Secondo un report della Regione che cita i dati dell’ANBI, l’associazione nazionale delle bonifiche e delle irrigazioni, in Emilia-Romagna ci sono 53 casse di espansione che possono raccogliere fino a 66 milioni di metri cubi di acqua.

   Dall’inizio della legislatura di Stefano Bonaccini sono stati stanziati 190 milioni di euro per costruire 23 nuove opere idrauliche tra casse di espansione e bacini artificiali. Dopo la prima alluvione di inizio maggio, il senatore di Fratelli d’Italia Marco Lisei ha detto che al momento funzionano soltanto 12 sulle 23 nuove previste. Le altre sono in fase di progettazione o di realizzazione.

   Uno dei problemi è relativo ai costi, che per questo tipo di opere sono alti anche per via degli espropri. «Le opere idrauliche sono finanziate o dalla Protezione civile o dal ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica», ha detto la vicepresidente della Regione, Irene Priolo. «Quest’anno avremo dal ministero dell’Ambiente 13 milioni di euro contro i 22 ricevuti l’anno scorso. Finanziamenti irrisori, a fronte di una grande complessità anche per quanto riguarda il lungo iter autorizzativo».

   In questa fase è difficile capire se le casse di espansione non ancora costruite avrebbero evitato l’esondazione dei fiumi e l’allagamento delle città. Gli oltre 200 millimetri di pioggia caduti negli ultimi giorni (in alcune zone dell’Emilia-Romagna si è arrivati a quasi 300 millimetri) sono stati troppi anche per molte opere finora realizzate. Le fotografie e i video diffusi mostrano allagamenti molto estesi, spesso dovuti alla rottura degli argini dei fiumi, anche quelli teoricamente protetti dalle casse di espansione.

   A Forlì, in Romagna, le due casse di espansione costruite lungo il corso del fiume Montone si sono completamente allagate e non sono state sufficienti a contenere la piena che ha causato l’allagamento del quartiere Romiti. A Castel Bolognese e Solarolo ci sono stati ingenti danni nonostante la cassa di espansione nel canale dei Molini. I lavori del bacino non sono ancora conclusi, ma già in occasione dell’alluvione di inizio maggio la cassa di espansione aveva raggiunto la capienza massima di 150mila metri cubi di acqua.

   Anche a Bagnacavallo, in provincia di Ravenna, la cassa di espansione realizzata da poco nel canale Redino si è riempita. A Lugo, uno dei comuni allagati giovedì, l’acqua è tracimata dal bacino di espansione che si trova nel parco Golfera nella zona occidentale della città. A Cesena il torrente Pisciatello è esondato, nonostante la cassa di espansione e la messa in sicurezza degli argini, in località Calisese, una frazione della città.

   In altre zone invece le opere di prevenzione hanno funzionato. La cassa di espansione del Samoggia, in provincia di Bologna, all’inizio di maggio aveva raccolto 2,7 milioni di metri cubi di acqua e anche nelle ultime ore ha retto. «Le vasche di contenimento del torrente hanno tenuto sia nell’alluvione dei primi di maggio, sia in quello delle scorse ore», ha detto al Corriere della Sera il sindaco di San Giovanni in Persiceto, Lorenzo Pellegatti. «Se dovesse venire un’altra piena prima che l’acqua defluisca sarebbe un disastro, ma per ora il sistema ha tenuto».

   Nel caso dell’Emilia-Romagna è anche complicato fare paragoni con gli interventi realizzati in altre regioni sulla tenuta dei fiumi: ogni territorio ha infatti caratteristiche diverse, con diversi livelli di rischio alluvione.  Secondo le valutazioni dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA), l’Emilia-Romagna è una delle regioni più a rischio di alluvioni. I dati dell’ultima rilevazione dicono che 428mila persone vivono in aree a pericolosità elevata, 2,3 milioni di persone in aree a pericolosità media e meno di 300mila in aree almeno a pericolosità bassa. Come si può notare da questa mappa pubblicata dal sito dell’ISPRA, l’Emilia-Romagna è la regione del Nord Italia più a rischio di alluvioni. (da IL POST.IT del 19/5/2023, https://www.ilpost.it/)

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(foto Ansa da https://www.wwf.it/) — LE ACCIDENTATE INIZIATIVE NAZIONALI PER PREVENIRE I RISCHI DA ALLUVIONI – “ItaliaSicura” nel 2019 fu sostituita da “ProteggItalia”, ma entrambe sono state poco efficaci per scarsa continuità e lentezze burocratiche – Ogni volta che in una zona d’Italia avviene un’alluvione o una frana scienziati ed esperti ripetono che non bisognerebbe solo intervenire in caso di emergenza, per soccorrere e limitare i danni, ma anche in maniera preventiva, per evitare problemi in caso di fenomeni meteorologici estremi. L’alluvione in Emilia-Romagna ha rianimato questo dibattito, che stavolta si è sviluppato anche attorno a questioni politiche relative a ItaliaSicura, una struttura amministrativa creata dal governo di Matteo Renzi nel 2014 per finanziare e realizzare opere di prevenzione, sostituita poi nel 2019 dal piano ProteggItalia del primo governo di Giuseppe Conte. (da https://www.ilpost.it/, 19/5/2023)

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ALLUVIONI, WWF: ITALIA IMPREPARATA AGLI EVENTI METEO ESTREMI

da https://www.wwf.it/, 17/5/2023

– Siccità e alluvioni si alternano, con l’effetto di elevare esponenzialmente il rischio, amplificato da un territorio dove si continua a consumare suolo –

EVENTI ESTREMI SEMPRE PIÙ INTENSI E FREQUENTI

Negare la crisi climatica o far finta che non ci riguardi non salverà il nostro Paese dalle conseguenze di una crisi globale che sta mettendo a durissima prova il nostro territorio e i cittadini. Quello che sta accadendo in questi giorni in Emilia Romagna dimostra ancora una volta che siamo in presenza di eventi meteorologici sempre più intensi e frequenti che ormai si alternano a ritmi drammatici. Fenomeni una volta unici e rari si moltiplicano, addirittura a pochi giorni di distanza, e non solo in Italia.

   Siccità e alluvioni si alternano, con l’effetto di elevare esponenzialmente il rischio. Non agire subito per affrontare la realtà climatica, purtroppo, amplificherà le conseguenze sulla sicurezza e il benessere delle comunità.

   L’area del Mediterraneo è particolarmente soggetta al rischio climatico: aumento della temperatura media, ondate di calore, scarse precipitazioni, fusione dei ghiacciai stanno erodendo le nostre riserve d’acqua, le alluvioni improvvise o le precipitazioni copiose come quelle di questi giorni moltiplicano l’effetto sul territorio già a rischio.

URGENTE DEFINIRE POLITICHE DI ADATTAMENTO AL CLIMA CHE CAMBIA

Per il nostro Paese, è indispensabile definire il Piano di Adattamento al Cambiamento Climatico, dopo la consultazione chiusasi alcune settimane fa, e renderlo uno strumento efficace per operare le scelte necessarie. La Commissione VAS deve trasmettere gli esiti della consultazione quanto prima, il ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica deve chiarire le scelte da compiere e stanziare i fondi necessari.

ABBATTERE LE EMISSIONI DI CO2

È soprattutto indifferibile l’abbattimento delle emissioni di CO2, metano e degli altri gas climalteranti, per evitare scenari e impatti ingestibili: abbiamo poco tempo e l’Italia dovrebbe essere alla testa degli Stati che vogliono le emissioni zero, non in retroguardia come è attualmente.
   Tra le politiche di adattamento che non possono più subire ritardi, quelle di gestione dell’acqua, recuperando una regia unica, superando la frammentarietà della sua gestione a partire dai bacini fluviali. È indispensabile l’azione per ripristinare la naturalità dei fiumi, poiché sono quasi sempre i tentativi umani di irreggimentare i corsi d’acqua a moltiplicare i danni e la perdita di vite umane. Bisogna assicurare un effettivo ed efficace governo del territorio.

RIDARE SPAZIO ALLA NATURA

Ridare spazio alla natura è la migliore cura per la fragilità del nostro territorio. A cominciare dai fiumi. I fiumi hanno bisogno di spazio: gli eventi calamitosi in Emilia-Romagna, causati dagli effetti del cambiamento climatico che determinano precipitazioni violente e concentrate in poche ore provocando vere e proprie bombe d’acqua, hanno messo ancora più a nudo una gestione fallimentare dei nostri corsi d’acqua. Gli alvei sono stati canalizzati, le aree di esondazione naturale occupate, distrutti i boschi ripariali e le zone umide perifluviali che fungevano da vere e proprie spugne in grado di attenuare gli eventi calamitosi e purtroppo la Regione Emilia-Romagna, che peraltro dispone anche di importanti casse di espansione, si è distinta in questa opera di distruzione degli ambienti fluviali come il WWF ha più volte denunciato.

RINATURAZIONE SUL TERRITORIO

Bisogna ridare spazio ai fiumi, recuperare aree di esondazione naturale, ripristinare, ove possibile i vecchi tracciati, avviare interventi di rinaturazione diffusi sul territorio. È sempre più urgente una politica di adattamento ai cambiamenti climatici che vada oltre la logica di emergenza e ne consideri gli effetti nella pianificazione ordinaria. Purtroppo la situazione è in continuo peggioramento come dimostrano i dati sul consumo di suolo che ha ripreso a correre con maggiore forza del passato, superando la soglia dei 2 metri quadrati al secondo e sfiorando i 70 chilometri quadrati di nuove coperture artificiali in un anno, un ritmo non sostenibile che dipende anche dall’assenza di interventi normativi efficaci in buona parte del Paese o dell’attesa della loro attuazione e della definizione di un quadro di indirizzo omogeneo a livello nazionale. (da https://www.wwf.it/, 17/5/2023)

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(I rischi del territorio, rapporto Ispra) – LE AREE A RISCHIO ALLUVIONE IN ITALIA – Il 5,4 per cento del territorio è in aree a pericolosità elevata, e i comuni dell’Emilia-Romagna sono quelli più a rischio – 
Ogni anno l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA), un ente di ricerca pubblico legato al ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, diffonde dati aggiornati che mostrano quanto l’intero territorio italiano sia esposto al rischio idrogeologico, cioè legato a frane e alluvioni. Le indagini e i report servono soprattutto per dare informazioni puntuali a chi gestisce il territorio, tecnici e politici, e in questo modo incentivare interventi per ridurre i rischi. La grave alluvione che negli ultimi giorni ha colpito l’Emilia-Romagna è la conferma di un dato noto da tempo: quasi tutti i comuni della regione si trovano in aree a pericolosità idrica media o elevata.
In generale l’Italia rispetto a molti altri paesi europei è esposta naturalmente al rischio di alluvioni perché lo spazio per contenere l’acqua delle esondazioni è limitato. Negli ultimi decenni questa condizione si è aggravata con l’espansione dei centri abitati e delle aree industriali che hanno coperto una parte consistente di suolo. La cementificazione diminuisce la capacità del suolo di assorbire la pioggia e quindi favorisce lo scorrere di grandi quantità d’acqua. Iniziative che possono contrastare gli effetti del consumo di suolo sono la cosiddetta rinaturalizzazione delle aree più vicine ai fiumi, cioè far sì che tornino boscose. Ma anche la realizzazione di fossati e piccoli laghetti nelle campagne, che contribuiscano a raccogliere l’acqua (e che siano d’aiuto nei periodi siccitosi), e di siepi che evitino il trasporto di detriti.
L’ISPRA ha identificato tre possibili scenari legati al rischio di alluvioni: le aree a rischio basso possono essere colpite da alluvioni con una frequenza di ritorno superiore ai 200 anni (in idrologia si usa il tempo di ritorno, il tempo medio intercorrente tra il verificarsi di due eventi successivi di entità uguale o superiore, per esprimere una probabilità), le aree a rischio medio tra i 100 e i 200 anni e quelle a rischio alto tra i 20 e i 50 anni. In tutta Italia il 14% del territorio è in aree a pericolosità bassa, il 10% è in aree a pericolosità media, il 5,4% in aree a rischio elevato; la rimanente parte di territorio – quindi la grande maggioranza – non è considerata a rischio.
Il rischio è più alto in Emilia-Romagna. (…..) Ferrara è la provincia con la più alta percentuale di popolazione esposta almeno al rischio medio: il 100%. Sono sette le province in cui la percentuale supera il 50%: oltre a Ferrara, anche Rovigo, Ravenna, Venezia, Mantova, Reggio Emilia e Bologna. La Sicilia è la regione con meno aree a rischio alluvione. (…) (Fonte dati: ISPRA) (da https://www.ilpost.it/ 21/5/2023)

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CASSE DI ESPANSIONE. SERVONO DAVVERO?

Insufficienti per mettere in sicurezza i territori

(Ing. Roberto Colla, Coordinatore rischi idrogeologici Amo – Colorno)

(da https://www.parmatoday.it/ del 9/4/2019: Nota- Questo comunicato è stato pubblicato integralmente come contributo esterno. Questo contenuto non è pertanto un articolo prodotto dalla redazione di ParmaToday)

   Premesso che sulle casse di espansione fluviali è sempre molto difficile leggere note positive, le più accreditate teorie idrauliche di oggi tendono ad eliminarle. E’ ormai pensiero comune che siano devastanti e troppo impattanti date le loro dimensioni, costose sia nella costruzione che nel successivo e complicato mantenimento, insufficienti in quanto calcolate per piogge storiche oggi superate dai mutamenti climatici in atto, con arginature altissime a tenuta di immensi laghi per cui pericolose visti i numerosi mammiferi bucaioli che le abitano, depauperatrici di falde acquifere scaricando le piene senza permetterne la percolazione, senza possibilità di invasare le acque per altri usi dovendo sempre essere vuote, con effetti limitati a pochi chilometri di asta per cui, ad esempio, una cassa a Casale, se pur discutibile per la difesa della città, mai potrà avere benefici certi su Colorno. 

   Di tutt’altra valenza idraulica sono invece i bacini plurimi, come quello progettato ed auspicabile ad Armorano, ma solo per energia elettrica e approvvigionamento civile ed agricolo. Nulla potendo, vista la distanza, riguardo la laminazione delle piene per la difesa di Parma e Colorno.  A valle di Armorano occorre riportare l’asta fluviale ad un assetto molto simile a come natura la fece ma nel rispetto di tutte le costruzioni realizzate nei secoli dall’uomo ed oggi utilizzate. Tramite canali scolmatori, ottenuti con semplici movimenti di sterro e riporto in loco, funzionanti solo in presenza di superamento della portata minima vitale e senza alcuna opera elettromeccanica, verrà captata parte dell’onda di piena lasciando transitare solo la portata massima ammissibile per il tratto di valle. Tali opere sono in definitiva sfioratori laterali molto facilmente realizzabili per ogni tipologia di alveo, sia pensile che inciso. 

   Le acque poi saranno dirottate verso laghi artificiali, più o meno distanti dal punto di presa in funzione della morfologia dei terreni attraversati, da cui l’eventuale eccesso liquido possa tracimare sopra le arginature verso campagne non antropizzate, portando con sé acque limacciose fertili. Tali laghi, che non devono mai intaccare e scoprire le falde, serviranno, nella fase di tracimazione, sia per il rimpinguamento delle falde stesse che per usi plurimi. Potranno essere impermeabilizzati con Continua a leggere

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LA NUOVA DIGA nel Porto di Genova all’inizio della costruzione: MAGAOPERA mai realizzata con espresse perplessità di tenuta (su un progetto dichiarato impeccabile) – Ma ne usufruirà Genova per aumentare i traffici delle navi portacontainer rispetto ai porti del nord Europa? Reggerà una competizione nazionalista e poco collaborativa?

Nella foto: IL PORTO DI GENOVA (autorità portuale del Mar Ligure Occidentale) da www.ilpost.it/ – 10/5/2023 – NUOVA DIGA DI GENOVA: il Tar annulla l’aggiudicazione a Webuild dell’appalto da un miliardo, ma l’opera va avanti – Accolto il ricorso del consorzio Eteria. Bocciata la procedura di Autorità Portuale ma i lavori resteranno a Salini perché finanziati dal Pnrr. Si apre la partita per un maxi risarcimento all’impresa illegittimamente esclusa

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(IL PROGETTO DELLA NUOVA DIGA DI GENOVA, immagine dai costruttori WEBUILD, ripresa da www.ilpost.it/) – La FASE A di costruzione delle diga foranea nel porto di Genova, quella appena iniziata, e che dovrà concludersi entro novembre 2026 (lo impone il Pnrr), servirà a creare oltre 4 chilometri di barriera che, già così, consentirà l’ingresso delle grandi navi portacontainer di ultima generazione — “DIGA FORANEA”: significa che è la prima protezione dal mare per le navi che entrano nel porto – “(…) Complessivamente sarà lunga circa 6,2 chilometri. Sarà costruita per far entrare in porto enormi navi portacontainer, le più grandi mai costruite, lunghe oltre 400 metri, larghe 62 e con un carico di oltre 24mila TEU, acronimo di twenty-foot equivalent unit, lo standard minimo di un container (teu: unità di misura pari a un container da 20 piedi, NDR). La diga attuale dista 550 metri dalla costa, mentre quella nuova sarà costruita a una distanza di 800 metri per permettere anche alle navi più grandi di ruotare su loro stesse in caso di manovra. (…)” (da “IL POST.IT”, 4/5/2023, https://www.ilpost.it/)

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PARTITI I LAVORI DELLA NUOVA DIGA DI GENOVA, OPERA PNRR DA UN MILIARDO

– Via alla prima gettata di ghiaia. È il progetto più complesso e imponente tra quelli finanziati col Fondo complementare –

di Raoul de Forcade, da “Il Sole 24ore” del 4/5/2023 – https://www.ilsole24ore.com/

   La posa della “prima pietra” della nuova diga foranea di Genova, che in questo caso si è concretizzata con una gettata di ghiaia sul fondo marino, dalla nave Maria Vittoria Z, ormeggiata 500 metri al largo del porto di Genova-Sampierdarena, è avvenuta alle 12,50 precise di giovedì 4 maggio 2023.

   Un evento cui hanno dato avvio, premendo un pulsante rosso da palazzo San Giorgio, sede dell’Autorità di sistema portuale (Adsp) di Genova e Savona, il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini, insieme al viceministro Edoardo Rixi, ai vertici delle istituzioni genovesi e liguri, al commissario per l’opera, Paolo Emilio Signorini (presidente anche dell’Adsp) e a Pietro Salini, ad di Webuild, società che, in consorzio con Fincantieri Infrastructure, Fincosit e Sidra, ha vinto l’appalto (del valore di 850 milioni).

   Con questa cerimonia si aprono i lavori dell’opera più complessa e mastodontica tra quelle finanziate (in parte) grazie al Piano nazionale di ripresa e resilienza. Dei 950 milioni complessivi necessari a costruire il primo e più importante tratto della diga (Fase A), infatti, 500 arrivano dal Fondo complementare al Pnrr; circa 100 milioni dal ministero delle Infrastrutture; 300 milioni dall’Adsp, di cui 280 circa con un prestito Bei (Banca Europea Investimenti, NDR); 57 milioni dalla Regione Liguria. (Raoul de Forcade, da “Il Sole 24ore” del 4/5/2023 – https://www.ilsole24ore.com/)

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(nella foto: la MSC GÜLSÜN, una delle più grandi navi portacontainer del mondo, con una capacità di 23.000 TEU – foto da www.lastampa.it/) – Il trasporto marittimo continua a rappresentare il principale “veicolo” dello sviluppo del commercio internazionale: il 90% delle merci, infatti, viaggia via mare. I trasporti marittimi e la logistica valgono circa il 12% del PIL globale

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Raoul de Forcade, da “Il Sole 24ore” del 4/5/2023 – https://www.ilsole24ore.com/:

Salvini: «Opera per lo sviluppo del Paese»

«Quest’opera – ha detto Salvini – contribuirà allo sviluppo del Paese. I critici dicono che mai è stata fatta prima una diga cosi ma l’Italia è il Paese dove si osa, dove si crea con gli ingegneri migliori al mondo. Ingegneri che portano sapienza italiana nel mondo ma troppo spesso non qui in Italia. Invece oggi costruiamo anche qui».

   La diga è il più grande intervento mai realizzato per il potenziamento della portualità italiana, e fa parte del sistema integrato di interventi che stanno ridisegnando l’accessibilità marittima, stradale e ferroviaria del porto di Genova e della Liguria: TERZO VALICO e PARCHI FERROVIARI, COLLEGAMENTI DIRETTI con l’AUTOSTRADA, POTENZIAMENTO delle BANCHINE, SVILUPPO delle RIPARAZIONI NAVALI, e COLD IRONING (ndr: il “cold ironing” è il sistema che consente il collegamento elettrico delle navi alla banchina permettendo di spegnere i generatori ausiliari a combustibile fossile al fine di alimentare i propri servizi di bordo: tale processo permette così di azzerare l’inquinamento acustico nelle aree urbane circostanti e ridurre le emissioni di CO2, NOe polveri sottili, sfruttando l’energia elettrica immessa in rete tramite gli impianti di produzione da fonti rinnovabili installati su tutto il territorio; NDR).

   La nuova diga foranea sarà realizzata in DUE FASI è costerà complessivamente circa 1,35 miliardi di euro. La FASE A, quella appena iniziata, e che dovrà concludersi entro novembre 2026 (lo impone il Pnrr), servirà a creare oltre 4 chilometri di barriera che, già così, consentirà l’ingresso delle grandi navi portacontainer di ultima generazione, superiori a 18mila teu (unità di misura pari a un container da 20 piedi) di carico; mentre la FASE B, che deve ancora essere appaltata, prevede la costruzione di un’altra tranche di murata che porterà la lunghezza della diga a 6,2 chilometri. (Raoul de Forcade, da “Il Sole 24ore” del 4/5/2023 – https://www.ilsole24ore.com/)

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(Il progetto della nuova diga foranea di Genova, immagine da https://www.dailynautica.com/) – mai è stata fatta prima una diga così – “(…) Nonostante le rassicurazioni, negli ultimi mesi sono emersi dubbi sull’opportunità di costruire una diga così grande, con proteste per l’impatto ambientale e per l’organizzazione del cantiere.   Piero Silva, professore universitario di pianificazione portuale all’università di Grenoble, consulente esterno delle prime fasi progettuali, ha scritto una lettera alla città di Genova in cui esprime dubbi sulle previsioni ottimistiche dell’autorità portuale. Lo scorso anno si dimise da consulente dopo che i suoi rilievi non vennero presi in considerazione. (da “IL POST.IT”, 4/5/2023, https://www.ilpost.it/)

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Raoul de Forcade, da “Il Sole 24ore” del 4/5/2023 – https://www.ilsole24ore.com/:

Si costruirà su fondali fino a 50 metri

Per realizzare il basamento di quest’opera – unica nel suo genere dal punto di vista ingegneristico – che poggerà su fondali fino a una profondità di 50 metri, saranno impiegati 7 milioni di tonnellate di materiale roccioso, su cui verranno posizionati 97 cassoni prefabbricati in cemento armato, larghi 35 metri, lunghi 67 metri e alti fino a 33 metri (come un palazzo di 10 piani).

   Questa infrastruttura marittima, spiegano i tecnici dell’Adsp (Autorità di sistema portuale), è studiata anche per proteggere i bacini e le strutture portuali dai cambiamenti climatici: un vero argine al mare. E il materiale proveniente dalla demolizione della vecchia diga sarà quasi tutto riutilizzato, in un’ottica di economia circolare, riducendo gli impatti ambientali della costruzione.

   La costruzione della nuova diga, come si è accennato, consentirà l’accesso al porto in sicurezza anche alle moderne navi definite ultra large, che oggi subiscono limitazioni per il ridotto spazio di manovra nel bacino storico realizzato a fine anni ’30. Una volta ultimata, il porto avrà un bacino di evoluzione di 800 metri e sarà possibile differenziare il traffico merci da quello passeggeri e crocieristico.

Crescita dei traffici tra il 22 e il 30%

Questo, ha sottolineato Signorini, consentirà al porto di Genova di essere competitivo con i maggiori hub europei e attestarsi sempre più in alto fra quelli del Mediterraneo. Il commissario e presidente dell’Adsp stima che la nuova diga assicurerà una crescita progressiva annua dei traffici commerciali «tra il 22% e il 30% dal 2027 al 2030, anno in cui sarà ultimata anche la Fase B». L’Adsp calcola il beneficio economico in 4,2 miliardi, in termini di maggiori introiti da traffico container, di diritti e tasse portuali.

   Mentre, sempre secondo Signorini, ammontano a un miliardo gli investimenti che potranno partire sulle banchine, da parte dei privati, grazie al traino dell’opera. Msc, ad esempio, ha confermato il patron dell’azienda, Gianluigi Aponte, investirà 280 milioni per il potenziamento di calata Bettolo e anche le banchine occupate dal Hapag Lloyd e dal gruppo Spinelli dovranno essere adeguate alla nuova diga. La costruzione dell’opera, infine, impiegherà, circa mille persone e numerose imprese del territorio.

Con la diga, logistica Nord Ovest più competitiva

Sul fronte delle istituzioni locali, il governatore ligure, Giovanni Toti, ha detto che «questa diga fa sì che la logistica del Nord Ovest diventi davvero competitiva in Europa e lasciatemi dire che, insieme ai cassoni, oggi affondiamo una politica che troppo spesso distrugge e non costruisce».

   Mentre il sindaco di Genova, Marco Bucci, ha chiosato: «Avere la diga vuol dire avere più acqua, quindi anche più terra su cui dare ricaduta economica e occupazionale sulla città. Come nei secoli passati, quando Genova si allarga sul mare, genera una ricaduta sulla città stessa. Questo è il concetto chiave della giornata di oggi».

   Salini, parlando a nome dei costruttori, e rispondendo a chi ha chiesto se il consorzio riuscirà davvero a finire in tre anni i lavori, ha affermato: «Certo che ce la faremo. Ce la metteremo tutta. Ci mettiamo tutta la nostra buona volontà per realizzare la diga. Questo sforzo lo facciamo per il Paese. Il ponte di Genova lo abbiamo fatto noi: pensavate che sarebbe stato pronto? Forse no; e invece lo è stato. Noi quando ci proviamo, ci proviamo».

   Impegnato sull’opera è anche il gruppo Rina. «Il ruolo che l’azienda ha nella realizzazione della diga – spiega l’ad del Rina, Ugo Salerno – è lo stesso che l’azienda ha avuto anche nella ricostruzione del ponte di Genova, cioè quello di project manager e direzione lavori nonché la parte legata alla regia dell’esecuzione dell’operazione. Un ruolo che sappiamo svolgere e a cui guardiamo con grandissimo senso di responsabilità, come per tutte le infrastrutture. Questa però è speciale, perché è molto importante per la città e molto complessa da eseguire. La seguiremo con straordinaria attenzione». (Raoul de Forcade, da “Il Sole 24ore” del 4/5/2023 – https://www.ilsole24ore.com/)

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Vedi il video che spiega bene (di Geopop.it):

Nuova diga foranea di Genova, la più profonda d’Europa: a cosa serve e come sarà costruita (geopop.it)

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(tracciato terzo valico ferroviario, lungo 53 km di cui il 70 per cento in galleria, la nuova linea interessa 14 Comuni nelle province di Genova e Alessandria) – Da https://www.fsitaliane.it/:  La nuova linea ferroviaria Terzo Valico è in primo luogo finalizzata a migliorare i collegamenti del sistema portuale ligure con le principali linee ferroviarie del Nord Italia e con il resto d’Europa, in coerenza con le strategie annunciate nel Libro Bianco dei Trasporti dell’UE: trasferire entro il 2030 il 30% del traffico merci, oltre i 300 km, dalla strada al ferro, e il 50% entro il 2050, con vantaggi per l’ambiente, la sicurezza e l’economia.

Parte fondamentale del Core Corridor TEN-T Reno-Alpi – il più importante asse europeo di collegamento nord a sud su cui si muove il maggior volume di merci trasportate in Europa, attraversando i Paesi a maggior vocazione industriale (Paesi Bassi, Belgio, Germania, Svizzera e Italia), il Mediterraneo con il Mare del Nord, i porti dell’Alto Tirreno con quelli del Nord Europa – il Terzo Valico consentirà di superare gli attuali ostacoli allo sviluppo del trasporto ferroviario tra Genova, Milano e Torino.

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(supply chain, immagine ripresa da https://www.insidemarketing.it/) – per SUPPLY CHAIN s’intende un sistema di organizzazioni, persone, attività, informazioni e risorse coinvolte nel processo atto a trasferire o fornire un prodotto o un servizio dal fornitore al cliente

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DALLA PANDEMIA ALLA GUERRA IN UCRAINA: DUE ANNI DI STRAVOLGIMENTI DELLE CATENE DEL VALORE

da https://www.ispionline.it/ ottobre 2022

   Gli ultimi tre anni hanno messo a dura prova l’economia mondiale: la pandemia prima, e la guerra in Ucraina poi, hanno messo sotto pressione le supply chains di tutto il mondo (e in particolare quelle collegate con Cina e Asia) (ndr: per supply chain s’intende un sistema di organizzazioni, persone, attività, informazioni e risorse coinvolte nel processo atto a trasferire o fornire un prodotto o un servizio dal fornitore al cliente, NDR), mettendo a nudo gli elementi di vulnerabilità della globalizzazione: un sistema giunto ad un tale livello di interdipendenza da poter essere messo in difficoltà da problemi di carattere regionale o locale. Il settore della logistica e dei trasporti, vera “spina dorsale” di questo sistema basato sul criterio della massima efficienza (che si concretizzava nel just in time e nella minimizzazione delle scorte), ha subito un forte stress la cui cartina di tornasole è stato l’aumento significativo dei costi dei noli dei containers trasportati via mare, così come dei tempi di consegna delle merci. Fattori che si sono tradotti nell’aumento, da marzo 2020, dei costi di spedizione di un container sulle rotte transoceaniche globali con gravi conseguenze anche con riferimento al fenomeno inflazionistico.

(vedi tutto lo STUDIO su: studio_conftrasporto.pdf (ispionline.it) )

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(La rete portuale del Mediterraneo, da LIMES, Carta di Laura Canali del 2020, https://www.limesonline.com/)

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L’OPERA PIÙ COSTOSA DEL PNRR

LA NUOVA “DIGA FORANEA” DI GENOVA COSTA 1,3 MILIARDI DI EURO E IL SUO CANTIERE È ENORME, COSÌ COME IL SUO IMPATTO SULLA CITTÀ

da “IL POST.IT”, 4/5/2023, https://www.ilpost.it/

   Giovedì 5 maggio 2023 è stato versato il primo carico di ghiaia della nuova diga del porto di Genova, l’opera più imponente e costosa del PNRR, il piano nazionale di ripresa e resilienza con cui il governo italiano intende spendere i finanziamenti europei del Recovery Fund. In questo caso sarà finanziata con una parte del cosiddetto fondo complementare, cioè una quota di soldi garantiti dall’Italia per completare i finanziamenti europei.

   Come spesso accade in queste occasioni, è stata più che altro una cerimonia simbolica: l’operazione ha mosso a distanza la gru di una nave che ha versato un carico di ghiaia in mare. Considerata la grandezza dell’opera e i costi, finora la preparazione del progetto è stata veloce e tra le istituzioni c’è un certo ottimismo sulla possibilità di finire i lavori entro il 2026.

   La diga viene spesso chiamata “diga foranea”: significa che è la prima protezione dal mare per le navi che entrano nel porto. Se ne discute da quasi un decennio, anche se il primo atto formale risale al 2018, quando il progetto rientrò nel cosiddetto decreto Genova approvato dal governo in seguito al crollo del ponte Morandi.

   Complessivamente sarà lunga circa 6,2 chilometri. Sarà costruita per far entrare in porto enormi navi portacontainer, le più grandi mai costruite, lunghe oltre 400 metri, larghe 62 e con un carico di oltre 24mila TEU, acronimo di twenty-foot equivalent unit, lo standard minimo di un container. La diga attuale dista 550 metri dalla costa, mentre quella nuova sarà costruita a una distanza di 800 metri per permettere anche alle navi più grandi di ruotare su loro stesse in caso di manovra. Due ingressi dedicati e separati consentiranno di tenere distinte le rotte del traffico merci da quelle di traghetti e navi da crociera.

   Secondo le stime dell’autorità portuale la diga è un’opera necessaria per lo sviluppo e la competitività del porto, che altrimenti andrebbe incontro a un calo annuo del 6,8 per cento del traffico container. Dal porto di Genova passano ogni anno 66 milioni di tonnellate di merci, circa il 33 per cento del traffico container nazionale. Tutti i più grandi operatori mondiali come MSC, Maersk, Cosco, CMA CGM, Evergreen, Hyundai Merchant Marine, Hapag-Lloyd offrono servizi nel porto di Genova, così come i maggiori operatori di terminal portuali come Spinelli, Messina, Gavio, Grimaldi e alcune compagnie petrolifere come Eni ed Esso.

   Quando l’opera sarà conclusa, l’autorità prevede di arrivare a gestire tra i 5 e i 6 milioni di TEU all’anno, con un beneficio economico sul lungo periodo pari a 4,2 miliardi di euro in maggiori introiti da traffico di container, diritti e tasse portuali. Secondo le previsioni Genova avrebbe un vantaggio competitivo anche nei confronti del porto di Rotterdam, nei Paesi Bassi, il primo scalo mercantile europeo, soprattutto per gli scambi con i porti del Sud Est asiatico come Singapore e Shanghai in Cina e Yokohama in Giappone.

   Anche l’investimento pubblico è notevole. In totale la diga costerà 1,3 miliardi di euro, se le stime saranno rispettate. La prima fase del cantiere da finire entro il 2026 costerà 950 milioni di euro, di cui 500 milioni stanziati dal fondo complementare del PNRR finanziato con risorse nazionali, 100 milioni di euro dal fondo per le infrastrutture portuali, 264 milioni dalla banca europea degli investimenti (BEI) e i rimanenti 86 milioni di euro dall’autorità portuale e dalle amministrazioni locali. «La diga porterà tantissimi investimenti pubblici e privati», ha detto il sindaco di Genova Marco Bucci.

   I lavori saranno complessi perché verranno fatti senza interrompere il traffico portuale: si dovrà costruire un basamento fatto di roccia a 50 metri di profondità, utilizzando in totale 7 milioni di tonnellate di materiale. Sul basamento verranno poi posizionati cassoni in cemento armato alti 33 metri, larghi 35 e lunghi 67. I cassoni saranno poi riempiti con materiale di risulta ricavato in parte dalla demolizione della vecchia diga e in parte dallo scavo del fondale.

   L’appalto per la costruzione è stato vinto da un consorzio di imprese guidato da Webuild e a cui partecipano anche Fincantieri Infrastructure Opere Marittime, Fincosit e Sidra. Webuild ha costruito anche il nuovo ponte San Giorgio. Saranno circa mille le persone impegnate nei cantieri, tra assunzioni dirette e indirette. Andrea Tafaria, segretario del sindacato Filca Cisl della Liguria, ha detto che la diga è «un’occasione preziosissima: garantirà al settore edile una massa salari di 180 milioni di euro, oltre 6 milioni e mezzo di ore lavorate, ricadute occupazionali e ci permetterà di avviare percorsi formativi in tutti gli ambiti».

   Webuild assicura che saranno rispettati «i più stringenti criteri di sostenibilità». La costruzione, infatti, si basa sul riuso dei vecchi materiali, in particolare l’utilizzo di quasi tutto il materiale proveniente dalla demolizione della vecchia diga per ridurre l’impatto ambientale nella fase di costruzione, le operazioni di trasporto e il consumo di carburante.

   Nonostante le rassicurazioni, comunque, negli ultimi mesi sono emersi dubbi sull’opportunità di costruire una diga così grande, con proteste per l’impatto ambientale e per l’organizzazione del cantiere.

   Piero Silva, professore universitario di pianificazione portuale all’università di Grenoble, consulente esterno delle prime fasi progettuali, ha scritto una lettera alla città di Genova in cui esprime dubbi sulle previsioni ottimistiche dell’autorità portuale. Lo scorso anno si dimise da consulente dopo che i suoi rilievi non vennero presi in considerazione.

   Nella lettera pubblicata due giorni fa, Silva ribadisce le sue critiche. La diga, dice, è un progetto assolutamente sovradimensionato se paragonato ai modesti obiettivi in termini di traffico container. Inoltre avrà costi e tempi spropositati, ben superiori alle promesse fatte. Silva sostiene inoltre che il progetto abbia «un rischio tecnico altissimo, prevedendo la diga su uno spesso strato limoargilloso inconsistente, a profondità dove la consolidazione di tale strato indispensabile è considerata dagli esperti impossibile». Per Silva il disegno della diga causerà problemi legati alla sicurezza della navigazione perché la rotta di ingresso e uscita delle navi dal porto non è parallela, un difetto che in caso di brutto tempo potrebbe causare un impatto tra le navi e la diga stessa.

   Negli ultimi mesi diverse associazioni ambientaliste hanno protestato per la mancanza di indagini geologiche preliminari in vista del cantiere e soprattutto per l’impatto ambientale dei lavori in mare. Secondo dati diffusi dal ministero dell’Ambiente, il cantiere causerà un’emissione di gas serra pari a circa 401mila tonnellate di CO2. «L’equivalente dell’attività di un anno della ex centrale a carbone in porto», ha detto Selena Candia, consigliera regionale della lista Sansa, all’opposizione. «E in questi numeri non vengono contabilizzati l’esercizio e il traffico ulteriore».

   Alcuni comitati locali si sono opposti alla concentrazione dei lavori di preparazione dei cassoni della diga in un cantiere portuale nel quartiere di Prà. Secondo questi comitati i lavori avrebbero un impatto notevole sul traffico della zona, sull’inquinamento e sul paesaggio, perché i cassoni sono alti 33 metri. Nelle ultime settimane si sono riuniti più volte per chiedere alle istituzioni di trovare soluzioni alternative. Una decisione non è ancora stata presa, ma il vice ministro delle Infrastrutture Edoardo Rixi ha detto che è impensabile concentrare tutta l’attività di preparazione nella zona portuale di Prà. Tra le ipotesi c’è lo spostamento di una parte del cantiere a Vado Ligure. (da “IL POST.IT”, 4/5/2023, https://www.ilpost.it/)

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LA SIGNORA DELLE MERCI – Breve storia della logistica,di CESARE ALEMANNI (LUISS University Press, maggio 2023, euro 16,00, pagine 200)

LA SIGNORA DELLE MERCI

Breve storia della logistica

da https://www.iltascabile.com/

Cesare Alemanni è giornalista, scrittore e curatore di contenuti. Si interessa di sistemi globali e dell’interazione tra tecnologia, economia e geopolitica. Nel 2023 ha pubblicato La signora delle merci (LUISS University Press), un libro sulla storia della logistica e il suo ruolo nei meccanismi della globalizzazione.

– Dopo la fine della Guerra Fredda (…), dal punto di vista dei paesi occidentali più avanzati (…), vi è un’apertura di un ampio spazio di azione, ed esportazione di capitali e produzioni (…). Programma che, quantomeno dal punto di vista industriale e produttivo, difficilmente sarebbe stato possibile senza l’intervento della logistica. La cui capacità di imporre forme di “command & control”, di natura operativa, concettuale e “socio-territoriale”, a questo nuovo spazio e di organizzarne, coordinarne e fluidificarne i flussi di materiali è una componente decisiva nel passaggio dalla carta alla pratica, del modello economico del neoliberismo. Gli elementi decisivi in tal senso sono soprattutto due: l’incremento della capacità di calcolo, previsione, progettazione e gestione di sistemi complessi ed entropici, che è figlio dell’avanzare delle tecnologie informatiche (oltre che dell’esperienza logistica bellica), e lo sviluppo di un sistema di trasporto estremamente fluido e del tutto anfibio: la containerizzazione, ovvero il linguaggio materiale, il medium-messaggio in cui “parla” l’epoca della globalizzazione –

Sebbene aspiri alla semplificazione e alla sintesi, la logistica dimora nella complessità e nella molteplicità.” –

– “Le filiere sono la vera ragione, invisibile agli occhi, della stupefacente rapidità e del ridotto costo del progresso tecnologico e informatico di questo nostro primo scorcio di XXI secolo.” –

Filiere che, di recente, sono diventate la faglia di frattura e conflittualità “sospesa” più calda del pianeta (chiedere a Taiwan). A dimostrazione dell’ingenuità di coloro che, negli anni Novanta, in proposito dei processi d’integrazione industriale e finanziaria, parlavano dell’avvento utopico di un “mondo piatto” e post-politico, le filiere e la logistica hanno in realtà creato una mappa globale fatti di inediti punti di accumulo tensivo, in cui gli snodi e la rarefatta geoeconomia delle supply chain contano più delle specificità geografiche o delle contrapposizioni ideologiche. –

– …Ricapitolando lo sviluppo della FEITORIA (stazione commerciale, magazzino europeo in territorio straniero, NDR) di MACAO, un mandarino cinese del Seicento ce ne restituisce i sedimenti di uso (“all’inizio hanno messo un porto, col tempo hanno costruito magazzini e infine hanno eretto torri militari e bastioni per difendersi al loro interno”) e ci ricorda come nello sviluppo di qualunque ecosistema logistico, la “ragion pura” del trasporto conviva con “la ragion pratica” dell’amministrazione e della difesa.  

   Fino a marzo 2020 termini come “supply chain”, “filiere”, “catene del valore” circolavano solo tra specialisti. Negli ultimi tempi le cose sono cambiate. Il covid, la guerra in Ucraina e le tensioni sino-americane hanno messo alla prova i sistemi di produzione-distribuzione da cui dipende l’economia contemporanea. Gli effetti sono noti: l’inflazione che sta erodendo il nostro potere di acquisto ha origine dallo sfibrarsi delle catene di approvvigionamento, ancor prima che dalla crisi energetica. 

   Per questo motivo, ve ne sarete accorti, di recente si parla di supply chain anche al bar. Il dibattito, tuttavia, si è mantenuto sulla superficie delle cose. Non ci si è per esempio chiesti cosa, col tempo, abbia reso le filiere tanto fragili e conduttive per gli shock operativi ed economici. Quali siano i loro presupposti.  Quali strumenti, in condizioni normali, ne garantiscano il funzionamento. L’interesse per i problemi delle “supply chain” non si è tradotto in pari curiosità per i temi della logistica. È curioso. La logistica non è solo responsabile del funzionamento delle filiere, è la ragione della loro stessa esistenza. Essa è molto più di un collante materiale delle supply chain e del loro Continua a leggere

BASTA PESTICIDI IN AGRICOLTURA – IL TENTATIVO da parte della Regione Veneto di reintrodurre un pesticida letale vietato dalla Ue per una malattia infettiva epidemica della vite, è contestato dai consumatori ma pure da molti produttori – LA NECESSITÀ di metodi di cura biologica, e di porre fine alle monocolture agricole

MARCIA CONTRO I PESTICIDI A FOLLINA (a nord della Marca Trevigiana, nel cuore dell’area del Prosecco) il primo maggio scorso (2023) (foto da La Tribuna di Treviso, https://tribunatreviso.gelocal.it/)

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PESTICIDI, immagine da https://www.cambialaterra.it/

da https://italy.representation.ec.europa.eu/ (5/4/2023):

– La proposta di regolamento sull’uso sostenibile dei pesticidiIT••• delinea un percorso ambizioso per ridurre il rischio e l’uso dei pesticidi chimici nell’UE, anche in agricoltura. La Commissione ha proposto di ridurre del 50% entro il 2030 il rischio e l’uso dei pesticidi chimici nell’agricoltura dell’UE. Entro parametri definiti per assicurare tale riduzione complessiva a livello unionale, gli Stati membri fisseranno obiettivi nazionali di riduzione. …

– La proposta di normativa sul ripristino della naturaIT••• contribuisce a invertire il declino delle popolazioni di impollinatori entro il 2030 e a riportare la natura nei terreni agricoli, anche attraverso obiettivi specifici per il ripristino degli ecosistemi agricoli. La proposta di normativa sul ripristino della natura combina che combina un obiettivo generale di ripristino per consentire il recupero a lungo termine della natura in tutte le zone terrestri e marine dell’UE con obiettivi di ripristino vincolanti per habitat e specie specifici. Le misure di ripristino dovrebbero coprire entro il 2030 almeno il 20 % delle zone terrestri e marine dell’UE ed entro il 2050 tutti gli ecosistemi che necessitano di ripristino.

Insieme, queste proposte possono rappresentare un fattore di svolta per la conservazione degli impollinatori a livello UE.

COMUNICAZIONE DELLA COMMISSIONE AL PARLAMENTO EUROPEO, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni: REVISIONE DELL’INIZIATIVA DELL’UE A FAVORE DEGLI IMPOLLINATORI. Un nuovo patto per gli impollinatori:

https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52023DC0035&from=EN

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IL NO DEL PARTITO POPOLARE EUROPEO (5/5/2023)

Il Ppe respinge le riforme Ue sui pesticidi e la biodiversità

Il Partito popolare europeo ha approvato la mozione con cui respinge il regolamento sull’uso sostenibile dei pesticidi e la proposta di legge sul recupero degli ecosistemi. Per il primo, si legge nel documento, “gli obiettivi di riduzione” previsti per le sostanze chimiche “sono semplicemente irrealizzabili”. La seconda è definita un “incubo burocratico”. A quanto apprende ANSA, la decisione è stata approvata da tutte le delegazioni, con l’astensione dei soli popolari svedesi.
Mercoledì mattina (10/5/2023, ndr), la plenaria del Parlamento europeo terrà un dibattito su questi temi. “Gli agricoltori sono i promotori della transizione verde e della sicurezza alimentare in Europa – dichiara in una nota il coordinatore agricoltura del Gruppo Ppe Herbert Dorfmann – invitiamo la Commissione europea ad ascoltare e rispettare gli agricoltori durante l’elaborazione delle politiche dell’Ue”. (da https://www.altoadige.it/)

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Follina, la manifestazione anti pesticidi del 1° maggio scorso (2023) – foto da https://www.trevisotoday.it/)

STOP PESTICIDI, IN CENTINAIA ALLA MARCIA SULLE COLLINE DEL PROSECCO

da https://www.trevisotoday.it/, 1/5/2023

– Primo maggio ecologista a Follina con la mobilitazione sostenuta da Legambiente per interrompere l’uso di pesticidi in agricoltura. Gli organizzatori: «Le prime vittime sono gli agricoltori» –

   «Non ci può essere salute né giustizia sociale in un ambiente malato». Con questo slogan, lunedì 1º Maggio, Festa dei Lavoratori, centinaia di manifestanti si sono dati appuntamento a Follina per la marcia contro l’uso di pesticidi in agricoltura.

   Lo scopo dell’iniziativa era chiedere ai politici europei, nazionali e regionali di adottare tutti i provvedimenti necessari per garantire una rapida e drastica riduzione dell’uso dei pesticidi, in particolare nei territori di agricoltura intensiva come le colline del Prosecco; ma l’iniziativa si è svolta anche in molti altri comuni di tutta Italia. La partenza del corteo è avvenuta alle ore 10.30 dalla rotonda di Cison di Valmarino. Dopo un’ora l’arrivo davanti alla storica abbazia di Follina con interventi e chiusura della manifestazione nel campo dietro l’abbazia.

   Scegliendo il Primo Maggio gli organizzatori hanno voluto sottolineare che tra le prime vittime dei pesticidi sono da elencare i lavoratori dell’agricoltura, esposti direttamente a gravi rischi a carico della salute dovendo effettuare decine di trattamenti per ogni stagione produttiva. Basti pensare al fatto che l’impiego di pesticidi in agricoltura a livello globale dal 1990 a oggi è quasi raddoppiato. Alla luce di ciò, appare evidente che tutti i cittadini residenti nei territori in cui dominano le monocolture intensive ad alta intensità di utilizzo di sostanze chimiche di sintesi sono potenzialmente a rischio, in particolare i soggetti più vulnerabili come i bambini e le donne in gravidanza. È ormai scientificamente provato che, anche a dosi minime, i pesticidi possono risultare estremamente nocivi per la salute umana e rappresentare quindi un problema di salute pubblica.

Il commento

   «Partecipando alla mobilitazione – ha dichiarato Angelo Gentili, responsabile agricoltura di Legambiente – ci uniamo al coro di coloro che chiedono di porre fine all’utilizzo sconsiderato e pericolosissimo di molecole di sintesi. Dai dati emersi in fase di elaborazione del nostro dossier annuale “Stop pesticidi nel piatto”, su 4181 campioni analizzati dai laboratori pubblici italiani solo nel 54,68% non sono stati riscontrati fitofarmaci.  Nel 44,34%, invece, sono stati rinvenuti uno o più residui. La percentuale di irregolarità è del 1,03%. In Spagna, su 800 campioni il dato è dell’1,38%. A doverci allarmare – ha proseguito Gentili – sono anche i dati relativi ai residui nelle acque sotterranee dell’erbicida atrazina e dei suoi metaboliti che hanno causato il maggior numero di superamenti di LMR (limite massimo di residuo), nonostante la sostanza sia vietata dal 2007. Le cose non vanno meglio per il vino: su 267 campioni analizzati solo il 38,20% è risultato privo di residui. I campioni con uno o più residui sono risultati invece il 61,80%.  Le sostanze attive più frequentemente riscontrate sono state: Metalaxyl (12,24%), Dimetomorf (11,02%), e Fenhexamid (8,98%). Peraltro, il nel 70% della frutta e nel 30% della verdura risultano uno o più residui e continua a essere del tutto irrisolta la faccenda del multiresiduo i cui effetti sono incalcolabili. Alla luce di ciò, serve che le istituzioni a ogni livello prendano immediatamente provvedimenti, smettendo peraltro di accordare inutili e pericolosissime deroghe». (da https://www.trevisotoday.it/, 1/5/2023)

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Una VITE COLPITA dalla FLAVESCENZA DORATA (foto da https://corrieredelveneto.corriere.it/)

(da https://www.coltivazionebiologica.it/) – La flavescenza dorata è una malattia infettiva ed epidemica della vite, causata dall’agente eziologico Candidatus Phytoplasma vitis, un fitoplasma annoverato tra i giallumi della vite (grapevine yellow). La flavescenza dorata della vite ha origine negli Usa e venne segnalata per la prima volta in Europa negli anni ’50 del secolo scorso, precisamente in Francia. In Italia la malattia è presente dalla fine degli anni ’60, osservata per la prima volta nell’Oltrepò Pavese, ed è oggi in espansione in diverse aree viticole, in modo particolare nelle regioni del Centro-Nord. Questa malattia si diffonde nei vigneti, oltre che con l’utilizzo di materiale vegetativo infetto, anche per mezzo di un vettore, ovvero la cicalina della vite (Scaphoideus titanus), insetto monofago che colpisce le piante di vite (Vitis spp).

È dunque importante riconoscerne i sintomi e intervenire tempestivamente per salvare il vigneto dalla malattia. (“intervenire”: vedi come nell’articolo in questo post ripreso dal sito https://www.coltivazionebiologica.it/)

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SALVIAMO IL PROSECCO DAL CLORPIRIFOS

da https://www.cambialaterra.it/, 17/4/2023)

– La Regione Veneto chiede di usare il pesticida vietato dalla Ue, ma i consumatori vogliono un prosecco green –

   “Su tre bottiglie di bollicine nel mondo, una è rappresentata dal Prosecco”, ricorda Luca Zaia, presidente della Regione Veneto, all’ultima edizione, da record, del Vinitaly. E in effetti i numeri confermano una leadership indiscussa delle bollicine venete che nel 2022 hanno venduto 638,5 milioni di bottiglie per un valore totale di 3,35 miliardi di euro.

   Un volume d’affari importante che rende i vigneti veneti un fiore all’occhiello del made in Italy enogastronomico nel mondo e che alimenta un sistema economico fondamentale per il territorio. Ma che rischia di essere compromesso dalla flavescenza dorata, una malattia che sta colpendo in modo devastante ettari e ettari di vigneti del Nord-est. A rischio quindi le produzioni di vino e la rendita delle aziende agricole che hanno bisogno di soluzioni immediate per non arrivare a situazioni irreversibili.

   La Regione Veneto, ha quindi chiesto al dipartimento Fitosanitario nazionale l’autorizzazione all’uso del clorpirifos, pesticida utilizzato un tempo ma che, dal 2020, è stato bandito dall’Unione Europea per i suoi danni permanenti sulla salute pubblica.
   Richiesta contestata duramente da Andrea Zanoni, consigliere regionale del PD, visto i risultati di recenti studi medici che dimostrerebbero il legame del pesticida con problemi nello sviluppo mentale dei bambini.

   Disaccordo all’utilizzo del clorpirifos arriva anche dal Consorzio del Prosecco  Docg di Conegliano e Valdobbiadene che sottolineano come l’utilizzo dei principi attivi esistenti e autorizzati siano la strategia da utilizzare, nonché la necessità di segnalare chi non procede secondo le giuste linee guida, rischiando di creare nuovi focolai.

   Una vicenda delicata che deve trovare una soluzione a difesa di un settore acclamato in tutto il mondo che rappresenta un’importante fetta del Pil veneto, ma che allo stesso tempo non deve mettere a rischio la salute di chi quelle terre le abita. A decidere sarà l’autorità sanitaria di competenza.

   Sicuramente l’utilizzo di pesticidi dovrebbe rappresentare una pratica in fase di esaurimento. Sia per gli obiettivi imposti dall’Unione europea con la Farm to Fork, che impone la riduzione complessiva del 50% dei pesticidi chimici entro il 2030, sia per le richieste che arrivano dal mercato. In Italia, infatti, secondo i dati diffusi da Wine Monitor Nomisma, il 28% dei consumatori sceglie il Prosecco proprio sulla base della presenza di attributi “green” come il bio e la sostenibilità ambientale e sociale. All’estero l’interesse è ancora più consistente: si va dal 32% dei consumatori tedeschi per arrivare al 36% di quelli svedesi e al 40% di quelli statunitensi. (da https://www.cambialaterra.it/ , 17/4/2023)

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Il PRIORE dell’ABBAZIA di FOLLINA padre FRANCESCO RIGOBELLO (foto da La Tribuna di Treviso, https://tribunatreviso.gelocal.it/)

MARCIA CONTRO I PESTICIDI A FOLLINA: «TROPPI VELENI, RISPETTIAMO LA VITA»

Oltre 600 hanno partecipato alla manifestazione. Zanoni attacca: «In Veneto 16 milioni di chili di fitofarmaci»

di Francesco Dal Mas, da https://tribunatreviso.gelocal.it/, 3 Maggio 2023

   In più di 600 alla “Marcia stop pesticidi”, che quest’anno si è trasformata nel “Primo Maggio ecologico”.  Lunedì il corteo da Cison a Follina e, davanti all’abbazia, l’appello anche del priore, a rispettare la vita, ogni vita. Bambini e anziani, famiglie al completo, magari accompagnando la carrozzina col figlio, pensionati della Cgil, ambientalisti, produttori biologici, mamme in lotta per far crescere i figli in salute.

   Quando il corteo giunge davanti all’abbazia di Follina, le campane suonano a festa per accogliere «Il vero popolo della vita», come dice padre Francesco Rigobello, il priore. Il palco è il sagrato della pieve. «Non ci può essere giustizia sociale né salute, in un ambiente malato. Questi pesticidi – afferma il priore – vengono acquistati anche oltre confini. A persone, insetti o api faranno pur male. Oppure no? Ormai arriveremo a dire: ma sai, le bombe mica uccidono, fanno solo fumo e spettacolo».

   Scatta l’applauso. E poi arriva un monito: «Non lasciamo trovare una soluzione a riparare i nostri privati calcoli e vantaggi e veleni assassini di creature indispensabili al ritmo della vita, non affidiamo la soluzione neppure a un dio qualsiasi, anche al Dio che conosciamo e qualche volta preghiamo. Lui non fa nulla al nostro posto. Proviamo vergogna per le tante piccole creature che sterminiamo».

   I pensionati della Cgil sventolano la loro bandiera. Il Comitato contro le casse di espansione di Ciano alza il tiro della protesta. C’è il Gruppo di Acquisto Solidale, la Lipu e Legambiente. “No ad un’agricoltura di morte” ammonisce un grande lenzuolo giallo. Il “Gruppo Mamme di Revine Lago” è presente ancora una volta. I bambini reggono uno dei primi striscioni “Basta vigneti”. L’ironia campeggia da un altro striscione: “Fame un spirs fameo bon. Aperol, clorpirifos, Metalxil, Cyprodinil, Boscalid, Pyrimethanil più una scorza de limon”. Un maxi disegno di un campo di papaveri viene dedicato da due mamme “ai nostri bambini”.

   «Veramente in tanti, per difendere la nostra terra e la nostra salute da una monocoltura che sta richiedendo sempre più pesticidi che attaccano la nostra salute, contaminano le nostre acque e uccidono gli animali selvatici come le api», fa notare Andrea Zanoni, consigliere regionale del Partito Democratico. «Nel chiuso del palazzo e all’insaputa di tutti la Regione Veneto – sostiene Zanoni – addirittura ha chiesto al Ministero della salute di usare due pesticidi vietati, il Chlorpirofos metile, un veleno neurotossico che abbassa il quoziente di intelligenza dei giovani e il Thiametoxan un neonicotinoide che uccide le api». Zanoni non ha dubbi: «Questi veleni servono per contrastare la cicalina, un insetto portatore del virus della flavescenza dorata, un insetto che grazie alla monocoltura del prosecco ora trova un’autostrada di vigneti. Sono quasi 16 i milioni di chili di pesticidi usati lo scorso anno in Veneto, pari a una media di 3,2 chili per ogni cittadino veneto, un numero impressionante».

   Angelo Gentili, responsabile agricoltura di Legambiente, spiega: «Dai dati emersi in fase di elaborazione del nostro dossier annuale “Stop pesticidi nel piatto”, su 4181 campioni analizzati dai laboratori pubblici italiani solo nel 54,68% non sono stati riscontrati fitofarmaci. Nel 44,34%, invece, sono stati rinvenuti uno o più residui. La percentuale di irregolarità è del 1,03%. In Spagna, su 800 campioni il dato è dell’1,38%”». (Francesco Dal Mas, da https://tribunatreviso.gelocal.it/, 3 Maggio 2023)

Follina, marcia stop pesticidi 2023 (foto da https://www.trevisotoday.it/)

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MAPPA dell’area geografica di produzione del PROSECCO (da https://www.italianowine.com/)

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NUOVI VIGNETI SOTTO LE ALI PROTETTRICI DELL’UNESCO?

di Dante Schiavon, 23/3/2023, da https://www.ildiarioonline.it/

   Percorrendo lo sterrato che fiancheggia il Lierza, nella zona del Molinetto della Croda, rimanevo sempre compiaciuto nel vedere un bel prato che arricchiva, almeno in quel tratto, la varietà del paesaggio: bosco, viti, prati.

   Percorrendo oggi lo stesso tratto scopro come quel prato sia stato trasformato nell’ennesimo vigneto. Non solo. Il cartello del cantiere indica, accanto all’occupazione del prato da parte di un nuovo vigneto, anche un lavoro di “riordino forestale” sull’altro lato dello sterrato. Non poteva mancare, in abbinata con l’occupazione vitivinicola di un prato, un “taglio boschivo” che, però, guarda caso, dopo un “diradamento forestale” prospiciente lo sterrato fa intravvedere, seminascosto, un taglio a raso, funzionale all’impianto di futuri vigneti. 

   Oggi, siamo nel 2023, davanti a simili “interventi agricolo-forestali” cosa c’è di diverso rispetto al passato recente che ha visto, incentivata dalla Regione con 83.400.000 euro dal 2011 al 2017 (Fonte Avepa), l’espansione di una monocoltura intensiva? C’è di diverso che nel luglio 2019 l’area è stata dichiarata Patrimonio dell’Umanità e che l’Icomos (Consiglio Internazionale dei Monumenti e dei Siti), organo consultivo dell’Unesco, aveva “raccomandato” alle istituzioni, per potersi fregiare del titolo di Patrimonio dell’Umanità, il rispetto di 14 impegni gestionali (prescrizioni), uno dei quali era il seguente: “chiarire l’estensione dell’area di impegno (in ettari).

   Il “Disciplinare di produzione dei vini a Denominazione di Origine Controllata e Garantita” della Regione Veneto indica in 13,5 tonnellate di prodotto per ettaro la  massima produzione consentita di Prosecco Docg: resta da verificare se tale soglia nella produzione di prosecco sia stata raggiunta dalle 102 milioni di   bottiglie (Consorzio di Tutela del Conegliano Valdobbiadene Prosecco Docg, dati 2022) in un’area che occupa 8674 ettari (Consorzio di Tutela del Conegliano Valdobbiadene Docg, dati 2022) e superi  la soglia indicata dal “Disciplinare di produzione dei vini Docg” della Regione Veneto.

   Tra l’altro, quel vigneto, piantato in una “zona umida” non vocata per “micro-clima” e “composizione del terreno”, è maggiormente esposto all’attacco di parassiti e di conseguenza richiederà un maggior uso di pesticidi. Fa specie leggere a pag. 46 del volumetto a colori in carta lucida spedito a reti unificate a tutti i cittadini veneti per celebrare la proclamazione delle colline del Prosecco a Patrimonio dell’Umanità: “facendo salvi il paesaggio e la biodiversità che sono state conservate nei secoli, impostando un impianto agrario fatto di piccole particelle di terra dedite a coltivazione, inserite in una rete ecologica di boschi, siepi e prati, unica al mondo”. Come fa specie leggere a pag. 28 di tale costoso volumetto pubblicitario: “la capacità dell’uomo di adattarsi e permettere al territorio di evolversi senza alterare le componenti geomorfologiche delle dorsali e la biodiversità”.

   La verità è un’altra: basta posare uno “sguardo ribelle” su una narrazione artefatta dal “marketing territoriale”. La “monocoltura intensiva” del Prosecco ha spazzato via le altre colture e con esse le tradizioni di “vita contadina” radicate nel tempo. Basta entrare in una di quelle “casere”, che si vogliono trasformare in dipendenze di albergo diffuso, per notare la mangiatoia per le mucche, il fienile e altri segni di una “piccola agricoltura contadina”, dove prati per la fienagione, colture come il mais, il grano, davano vita ad una “economia di sussistenza” e costituivano un’anticipazione di quella “sovranità alimentare” che oggi si invoca, ma solo a parole.

   Per non parlare dei “mulini da grano tenero e da granoturco” un tempo presenti in alcuni borghi e comuni della “core zone” e funzionanti fino agli anni 60. I promotori della candidatura Unesco hanno estromesso questo passato dalla loro narrazione, troppo impegnati a costruire l’immagine pubblicitaria di una “viticoltura bucolica”, usando a sproposito il termine “eroico” per una viticoltura oggi più che mai industrializzata, meccanizzata, che si avvale di braccianti extracomunitari, di imprese di movimento terra che con ruspe e bobcat sono in grado di impiantare, favorendo l’erosione del suolo, un “vigneto chiavi in mano”. 

   Ma il passato agricolo delle colline, dove la viticoltura era su piccola scala, a uso famigliare, non è sfuggito a Icomos se nel 2018 aveva bocciato la richiesta di inserire le colline del Prosecco nella lista dei siti Unesco, sostenendo che   non presentavano le caratteristiche di “unicità” necessarie a renderle Patrimonio dell’Umanità e come proprio l’eccessiva coltivazione di vigneti aveva compromesso il paesaggio originario.

   L’espansione imperialistica della “glera” e l’uso intensivo della “chimica di sintesi” in un modello di “agricoltura industriale” avevano quindi portato Icomos nel 2018 alla bocciatura della candidatura. Il dissenso di Icomos è stato superato dall’Unesco in “sede politica” attraverso la trasformazione del dissenso di Icomos in “14 prescrizioni stringenti”, mentre una “quindicesima raccomandazione”, che stabiliva l’obbligo di informare il World Heritage dei principali progetti che potrebbero avere un impatto sull’area, è stata “omessa” nel Rapporto del World Heritage Centre di Parigi. Qui si tratta di stabilire se un territorio, per la sua unicità ambientale, etnografica, antropologica, paesaggistica, storica, merita tale “prestigiosa proclamazione” di notevole risonanza internazionale. Nel caso delle colline del Prosecco tale “etichetta internazionale” dovrebbe essere almeno subordinata, alla luce della documentazione ufficiale di Unesco, al rispetto delle “14 prescrizioni”, pena la revoca dell’egida di Unesco. Un po’ come per la patente che può essere revocata in caso di gravi inadempienze del Codice della Strada.

   Ormai, a tre anni dalla proclamazione delle colline del Prosecco a Patrimonio dell’Umanità   a preoccupare è anche il rischio che i fattori produttivi ed economici legati all’aumento del flusso turistico (i 400 mila visitatori attuali potrebbero raddoppiare nel giro di 5 anni) possano generare drastici cambiamenti nell’ambiente, inteso come “area vasta” e compromettano la “stabilità ecosistemica dell’area”.  È un po’ quello che sta accadendo, con modalità diverse, ad altri siti Unesco come le Dolomiti (con progetti di nuovi impianti, di nuove infrastrutture e l’organizzazione delle Olimpiadi invernali) e Venezia, dove i veneziani sono costretti a fuggire dall’assedio turistico e dalla proliferazione di bancarelle e locazioni turistiche.

   L’appiattimento dialettico e culturale (solo il Pesticide Action Network Italia e i gruppi locali che si battono da anni contro l’uso eccessivo di pesticidi hanno preso una posizione contraria estremamente fondata e motivata)  nel dibattito  sull’esistenza  o meno dei requisiti ambientali, antropologici e storici utili al riconoscimento delle colline del Prosecco come sito Unesco  e il poderoso finanziamento con soldi pubblici, che ha accompagnato il pluriennale processo di candidatura (iniziato nel 2009), rischiano di affossare anche elementari principi di partecipazione e di democrazia e per questo va coinvolto Unesco nella denuncia e monitoraggio di quello che sta accadendo sui territori della “core zone” e sul rispetto delle “14 prescrizioni”.  Diversamente, la proclamazione a Patrimonio dell’Umanità dell’area collinare diventa solo un’operazione di “marketing territoriale” per lo “sfruttamento commerciale” di un’etichetta, priva di quel “valore umanitario” tanto strombazzato. (Dante Schiavon, 23/3/2023, da https://www.ildiarioonline.it/)

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Immagine e proposta da https://www.corvezzo.it/: Com’è e come deve essere fatta una retroetichetta di vino biologico, “un prosecco biologico che si rispetti

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FLAVESCENZA DORATA DELLA VITE. SINTOMI SULLA PIANTA E CONTROLLO BIOLOGICO

da https://www.coltivazionebiologica.it/

   La flavescenza dorata è una malattia infettiva ed epidemica della vite, causata dall’agente eziologico Candidatus Phytoplasma vitis, un fitoplasma annoverato tra i giallumi della vite (grapevine yellow). La flavescenza dorata della vite ha origine negli Usa e venne segnalata per la prima volta in Europa negli anni ’50 del secolo scorso, precisamente in Francia. In Italia la malattia è presente dalla fine degli anni ’60, osservata per la prima volta nell’Oltrepò Pavese, ed è oggi in espansione in diverse aree viticole, in modo particolare nelle regioni del Centro-Nord. Questa malattia si diffonde nei vigneti, oltre che con l’utilizzo di materiale vegetativo infetto, anche per mezzo di un vettore, ovvero la cicalina della vite (Scaphoideus titanus), insetto monofago che colpisce le piante di vite (Vitis spp).

È dunque importante riconoscerne i sintomi e intervenire tempestivamente per Continua a leggere

GLI ORSI IN TRENTINO (e nei possibili altri luoghi a scarsa presenza umana) e la convivenza difficile – Come imparare a rapportarsi al mondo animale selvatico (che ha gli stessi diritti di abitazione nostri nel mondo) – IN DIFESA dell’orsa inconsapevolmente assassina (trovarle un luogo perché continui a vivere)

(L’ORSA CATTURATA, foto da “la Repubblica”) – CATTURATA (LA NOTTE TRA IL 17 E 18 APRILE) L’ORSA JJ4. L’ESEMPLARE ERA CON TRE CUCCIOLI, LASCIATI LIBERI (da https://www.ansa.it/ del 18/4/2023) – L’orsa era ricercata per l’uccisione del giovane runner di 26 anni, Andrea Papi, nei boschi del monte Peller, sopra l’abitato di Caldes.   Identificata grazie alle analisi genetiche disposte dalla Procura di Trento, l’esemplare aveva già aggredito due escursionisti nel giugno del 2020, sempre sul monte Peller.   Il Tar di Trento ha rigettato l’istanza presentata dalla Provincia per anticipare al 20 aprile l’udienza relativa alla sospensione dell’ordinanza di abbattimento dell’orsa Jj4, confermando la camera di consiglio fissata per il prossimo 11 maggio. Il provvedimento – si legge nel dispositivo – è stato preso dopo la notizia della cattura dell’esemplare.   Il Tar ha inoltre chiesto a Ispra di depositare la relazione e il parere richiesto sull’abbattimento o il possibile trasferimento dell’orsa “in altro sito senza spese per la Provincia di Trento”.   Esemplare con tre cuccioli, lasciati liberi – L’orsa Jj4 è stata catturata in un’area in prossimità della Val Meledrio, sulla destra orografica del torrente Noce, in val di Sole, con una trappola a tubo. Era accompagnata da tre cuccioli in fase di svezzamento, al secondo anno vita.

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«GLI ORSI? A RIDURRE I LORO SPAZI VITALI SIAMO STATI NOI UOMINI. E ORA CERCHIAMO VENDETTA»

di Dacia Maraini, da https://www.corriere.it/ del 16/4/2023

– La scrittrice DACIA MARAINI dopo la morte di Andrea Papi, ucciso da un orso in Trentino: «Un animale aggressivo si può isolare. È stato un atto predatorio, ma forse la reazione a un incontro sfortunato» –

   Premetto che sono addolorata per quello che è successo al corridore aggredito dall’orso nel Trentino. Mi dispiace molto che un giovane che amava i boschi e la corsa sia morto. Purtroppo dobbiamo dire che non sappiamo cosa è avvenuto fra i due: un incontro improvviso che ha messo paura all’animale? Una corsa che è stata intesa come una intenzione maligna? Comunque l’orso non ha mangiato pezzi di uomo come farebbe un animale affamato. L’ha unghiato a morte. E questo ci dice che non è stato un atto predatorio, ma probabilmente la reazione a un incontro sfortunato e inatteso.

   Eppure, se anche fosse stato un atto di follia omicida, ricordiamo come fra gli umani ci sono alcuni esseri aggressivi e violenti, ma non per questo condanniamo tutti gli uomini della terra. Un orso aggressivo si può isolare, chiudere in un recinto, ma ucciderlo fa pensare tanto a una vendetta e le vendette sono sempre velenose, sia per chi le compie che per chi le subisce.

   Rimane il fatto che noi umani abbiamo sconvolto l’equilibrio ecologico, abbiamo portato via tutte le risorse degli animali selvatici e questo ha procurato una invasione di molti in zone prima evitate. L’orso fra l’altro è un potente simbolo affettivo della nostra immaginazione. Non a caso i bambini lo tengono abbracciato, che sia di pezza o di peluche, e rappresenta una compagnia tenera. Non a caso è il re dei fumetti e ci rallegra con le sue storie buffe e goffe.

   L’Orso è nato due milioni di anni prima dell’uomo, e la sua curiosità, la sua intelligenza, l’hanno sempre reso un animale disponibile alla convivenza. Ma a noi non va bene, perché non è produttivo: non si mangia e non fa la guardia. E allora che ci sta a fare? Per fortuna, la maggiore consapevolezza scientifica e il turismo, anche se in maniera convenzionale, l’hanno salvato. Altrimenti non sarebbe sopravvissuto.

   Ma chi ha ridotto in maniera drastica i suoi spazi vitali, chi ha tagliato, bruciato crudelmente le foreste? Chi ha sparso tanto di quel cemento e di quell’asfalto da ridurre il territorio a una estensione sempre più ampia delle periferie cittadine? Non certo l’orso ma i sapiens, che a volte veramente hanno poco del sapiente, ma molto del predatore e del brutale strumentalizzatore. 

   L’arroganza umana non ha limiti. Gli animali? Se servono, bene, se non sono utili, che spariscano! Senza capire che il mondo vive di un equilibrio a cui partecipano anche gli animali. Le api, per esempio, di cui si paventa l’estinzione per via dei pesticidi, sono fondamentali per l’impollinazione delle piante. E così tanti animali selvatici che sono essenziali per l’equilibrio dell’ecosistema.

   Se, come dicono gli esperti, sono 150 anni che non si hanno notizie di un orso che assale e uccide un uomo, vorrà dire qualcosa. Fra l’altro, dove io mi ritiro per scrivere, nella piccola cittadina montana di Pescasseroli al centro del Parco nazionale dell’Abruzzo, vivono parecchi orsi, ma sebbene in momenti di siccità o di neve scendano qualche volta nei dintorni dei paesi per trovare qualcosa da mangiare, non hanno mai fatto danni, salvo rubare qualche frutto. I turisti aspettano ore solo per poterli guardare. E i boschi fitti di queste zone montane protette hanno permesso a questi animali di figliare. Si vedono spesso le madri con i cuccioli che corrono sui prati. Ed è una gioia per gli occhi e per la mente che viaggia nel tempo e a cui sembra di acchiappare un brandello di passato lontanissimo e mitologicamente sopravvissuto.

   Se non impariamo a rispettare gli animali e l’ambiente, smettendo di rincorrere il mito di una tecnologia che risolve tutti i problemi, finiremo tristi e malati, forniti di centomila strumenti di intelligenza artificiale che continuamente si trasformano in vuoti a perdere, soli e disperati dentro un mare di immondizia. (Dacia Maraini, da https://www.corriere.it/ del 16/4/2023)

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L’ORSO BRUNO MARSICANO

(Ursus Arctos)

di Anna Cenerini (www.lifeantidoto.it) (da http://www.gransassolagapark.it/ )

   L’orso bruno viene catalogato nella Lista Rossa dell’IUCN – Unione Mondiale per la Conservazione della Natura (2008) – tra le specie vulnerabili. Nell’area mediterranea la sua popolazione è piccola (sono stimati meno di 10.000 individui adulti) e frammentata e sta diminuendo. In particolare, sono considerate minacciate le residue popolazioni occidentali.

In Italia

In Italia l’orso bruno sopravvive in tre distinte aree geografiche: sulle Alpi del Trentino occidentale, nelle aree di confine tra Friuli Venezia Giulia e Slovenia, e nell’Appennino centrale.
   Le popolazioni alpine, appartenenti alla sottospecie Ursus arctos arctos, quasi completamente estinte negli anni ’90 del secolo scorso, hanno subito un incremento sia per l’espansione di esemplari dalla vicina Slovenia che, in Trentino, a seguito della reintroduzione effettuata con esemplari originari della Slovenia nell’ambito del progetto LIFE URSUS realizzato dal Parco Naturale Adamello Brenta, dalla Provincia Autonoma di Trento e dall’Istituto Nazionale della Fauna Selvatica.

   Purtroppo invece la popolazione appenninica di orso bruno, peraltro riconosciuta come una sottospecie (Ursus arctos marsicanus), è sempre più a rischio di estinzione nonostante le numerose iniziative protezionistiche messe in atto e la vasta rete di aree protette che insistono nel suo areale. Basti pensare che tra il 1980 ed il 2007 sono stati oltre sessanta gli orsi bruni marsicani rinvenuti morti per cause varie.
   La popolazione appenninica, stimata attorno alle 60 unità, si concentra attualmente soprattutto nelle zone a cavallo tra Abruzzo, Molise ed alto Lazio, con il nucleo più significativo nel Parco Nazionale d’Abruzzo.
   Il Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga è un’area di transito e di alimentazione, in cui vengono registrate frequentemente osservazioni di esemplari di orso bruno marsicano.

Progetto PATOM per la tutela dell’Orso marsicano

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(Il Parco Naturale Adamello Brenta, mappa da https://www.corriere.it/) – Le popolazioni alpine, appartenenti alla sottospecie URSUS ARCTOS ARCTOS, quasi completamente estinte negli anni ’90 del secolo scorso, hanno subito un incremento sia per l’espansione di esemplari dalla vicina Slovenia che, in Trentino, a seguito della reintroduzione effettuata con esemplari originari della Slovenia nell’ambito del progetto LIFE URSUS realizzato a partire dal 1999 dal Parco Naturale Adamello Brenta, dalla Provincia Autonoma di Trento e dall’Istituto Nazionale della Fauna Selvatica. (Anna Cenerini, www.lifeantidoto.it)

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ERA ALMENO DA 150 ANNI CHE IN ITALIA NON SI VERIFICAVA L’ATTACCO MORTALE DI UN ORSO

di Tiziano Grottolo, da Il DOLOMITI https://www.ildolomiti.it/, (8/4/2023)

– In Trentino la metà delle aggressioni è avvenuta durante la “gestione” leghista – Il Paese europeo dove avvengono più attacchi collegati agli orsi bruni è la Romania, in Trentino però la metà delle aggressioni si è concentrata negli ultimi tre anni. Fra il 2000 e il 2015 in Europa sono state 19 le morti causate dai plantigradi: molto spesso le persone sono state attaccate durante attività ricreative, come escursionismo, campeggio o passeggiate con i cani –

TRENTO. “Troppe volte determinati organi chiamati a dare risposta alle sollecitazioni dell’Amministrazione provinciale si sono preoccupati del solo benessere dei plantigradi, dimenticandosi di chi vive nei nostri territori. Ora questo percorso deve essere invertito”, così il presidente della provincia di Trento, Maurizio Fugatti, ha preso posizione dopo la drammatica morte di Andrea Papi, il runner 26enne trovato senza vita nei boschi sopra Caldes.

(ORSI, foto da https://www.nature.com/) – In Trentino, per quanto riguarda gli orsi si stima che ce ne siano circa 120 esemplari, compresi i cuccioli, mentre il numero certo (di quelli presenti nel 2021) si ferma a 69. I nuovi nati dello scorso anno sono stati tra 12 e 14

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da Tiziano Grottolo, Il DOLOMITI https://www.ildolomiti.it/, (8/4/2023):

   Come confermato dall’autopsia quello che suo malgrado ha coinvolto il giovane trentino è il primo attacco mortale da parte di un orso registrato (e documentato) in Italia negli ultimi 150 anni. Come riportato sul portale dedicato ai grandi carnivori del Trentino, dopo la reintroduzione avvenuta nel 1999 con il progetto Life Ursus, le prime due aggressioni (senza vittime) risalgono al 2014 e al 2015. In entrambi i casi ad attaccare furono delle femmine accompagnate dai cuccioli. Da quel momento sono stati confermati altri 5 attacchi non letali: l’ultimo avvenuto in val di Rabbi ad opera del maschio Mj5, a pochi chilometri di distanza dal versante del monte Peller dove è stato ucciso Papi. Di fatto la metà delle aggressioni (compreso l’ultimo evento mortale) si è concentrata negli ultimi 3 anni quando al governo della Provincia c’era la Lega di Fugatti.

   In Europa l’ultima aggressione mortale di cui si era a conoscenza risaliva al 2021, ed è avvenuta in Slovacchia. In Svezia sono noti due episodi: nel 2004 la vittima fu un cacciatore di alci mentre per risalire a un’altra aggressione mortale bisogna tornare indietro a un centinaio di anni prima, quando un cacciatore svedese di orsi venne ucciso da un esemplare ferito. In Norvegia invece l’ultima vittima risale al 1906, un giovane pastore che sfortunatamente sorprese un orso intento ad alimentarsi su una carcassa, mentre nel 1998 in Finlandia un uomo venne aggredito e ucciso mentre faceva footing.

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(area presenza dell’orso, come comportarsi; foto da https://www.adnkronos.com/) – All’interno del Parco Naturale Adamello Brenta non ci sono limiti di accesso ma le attività umane sono regolamentate e molta attenzione è rivolta alle attività di sensibilizzazione sul corretto comportamento da tenere all’interno dell’area protetta. Una cartellonistica posta all’ingresso dei sentieri avvisa se si è all’interno di un’area dove ci potrebbero essere plantigradi e la raccomandazione è quella di non lasciare in giro rifiuti che potrebbero attirare la loro attenzione. Dopo diversi episodi di frequentazione dei centri abitati da parte di orsi attratti dalla disponibilità di rifiuti, nei comuni di Cavedago, Fai della Paganella, Andalo e Molveno sono state collocate speciali campane metalliche “anti-orso” per la raccolta della frazione organica del rifiuto solido urbano (da www.corriere.it)

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da Tiziano Grottolo, Il DOLOMITI https://www.ildolomiti.it/, (8/4/2023):

   In Romania il dato degli attacchi mortali è in controtendenza, si registrano infatti diversi casi di aggressione e persino alcuni decessi. La Provincia però evidenziava: “In questo Paese l’orso è specie cacciabile e quindi viene tenuto artificialmente a densità altissime, viene cacciato e molti degli incidenti sono riconducibili all’attività venatoria”. Come se non bastasse molti plantigradi sarebbero stati allevati in cattività (senza quindi nessun timore per l’uomo) e successivamente immessi in natura. “Inoltre – spiegavano sempre gli esperti trentini – va registrato che spesso gli orsi vengono alimentati artificialmente anche nelle periferie di alcune grandi città (per esempio Brasov) al fine di essere osservati, fotografati e filmati, e pure questo è fonte di pericolo per l’uomo”.

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(DISTRIBUZIONE DEGLI ORSI NEL MONDO, immagine da https://www.parcoabruzzo.it/) – A oggi si stima vi siano al mondo circa 200 000 orsi bruni. Le popolazioni più numerose si trovano in Russia, con 120 000 esemplari, negli Stati Uniti con 32 500 e in Canada con 21 750. Nell’Unione europea vi sono popolazioni frammentate

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da Tiziano Grottolo, Il DOLOMITI https://www.ildolomiti.it/, (8/4/2023):

   Secondo uno studio pubblicato dalla rivista Nature, tra il 2000 e il 2015, in tutto il mondo si sono verificati 664 attacchi (291 in Europa) con protagonisti gli orsi bruni. I ricercatori hanno stimato un tasso di 39,6 attacchi/anno a livello globale: 11,4 attacchi/anno in Nord America e 18,2 attacchi/anno in Europa (10 attacchi/anno, escludendo la Romania).

   Nell’indagine si evidenzia come l’85,7% delle persone coinvolte negli attacchi abbia riportato delle lesioni, mentre il 14,3% delle aggressioni si è concluso con il decesso delle vittime. In particolare, sono 19 le morti che si sono verificate in Europa (cioè il 6,6% di tutti gli episodi registrati sul continente) nell’arco di 15 anni.

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(Gli SPOSTAMENTI di JJ4, mappa da https://www.ilmessaggero.it/) —
In Italia l’orso è presente in 3 distinti nuclei (in tutto forse 200 esemplari, supposizione pare sovrastimata)
– Sull’Appennino centrale, compresa quasi interamente nel Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise da dove si sta lentamente espandendo nelle aree circostanti. Secondo recenti studi effettuati nel territorio del Parco, una stima realistica attuale può essere di circa 60 esemplari.
– Il secondo nucleo si trova nel Trentino occidentale (più precisamente nella zona nord-orientale del Brenta), reintrodotti dalla Slovenia negli ultimi dieci anni (forse ora poco più di un centinaio di esemplari)
– Il terzo nucleo, anche se ancora instabile, si sta ricostituendo sulle Alpi orientali (Tarvisiano, Alpi Carniche e Dolomiti Bellunesi) grazie alla colonizzazione spontanea da parte di esemplari provenienti dalla Slovenia (15 esemplari?)

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da Tiziano Grottolo, Il DOLOMITI https://www.ildolomiti.it/, (8/4/2023):

   In un secondo studio pubblicato quest’anno sulla rivista Plos Biology la ricercatrice del Muse, Giulia Bombieri, insieme a diversi altri esperte ed esperti internazionali, ha raccolto e analizzato 5.440 casi di attacchi alle persone avvenuti tra il 1950 e il 2019. La ricerca si è concentrata sulle specie di grandi carnivori terrestri che hanno fatto segnare il maggior numero di attacchi alle persone (considerando solo gli episodi violenti) in particolare tigri, leoni, orsi e lupi.

   Così si è scoperto che gli attacchi avvenuti nelle aree cosiddette “ad alto reddito”, come Europa e Nord America, hanno interessato con maggior frequenza le persone che stavano svolgendo attività ricreative, come escursionismo, campeggio o passeggiate con i cani. Al contrario quasi il 90% degli attacchi registrati nelle aree geografiche “a basso reddito” si è verificato durante attività di sostentamento come l’agricoltura, la pesca o il pascolo del bestiame. Secondo i ricercatori il numero di attacchi segnalati è aumentato nel tempo, soprattutto nei Paesi a basso reddito. A livello globale la maggior parte delle aggressioni (68%) ha provocato lesioni umane, mentre il 32% è stato fatale.

   “Felidi e canidi – la conclusione dello studio – sono risultati i gruppi di specie maggiormente coinvolti in attacchi predatori, i più letali per le persone, mentre gli attacchi da parte di orsi sono quasi sempre difensivi, per esempio nei casi in cui questi vengono inavvertitamente sorpresi a distanza ravvicinata, oppure in difesa dei cuccioli o di fonti di cibo”. (Tiziano Grottolo, da Il DOLOMITI https://www.ildolomiti.it/, 8/4/2023) 

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(mappa della distribuzione dell’orso in Europa, da https://grandicarnivori.provincia.tn.it/) – Mappa distribuzione in Europa – Originariamente gli orsi bruni erano distribuiti su tutta l’Europa occidentale ma, nel corso degli ultimi secoli, l’uomo ha eliminato gli orsi da vasti territori e, attualmente, in Europa la presenza di questa specie è ridotta per lo più a piccole ed isolate zone di diffusione. (da https://grandicarnivori.provincia.tn.it/)

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(Orso marsicano, foto da https://www.parcomajella.it/) –  Simbolo del parco d’Abruzzo, l’orso bruno marsicano è una sottospecie differenziata geneticamente dagli orsi delle Alpi e dunque rappresenta un endemismo esclusivo dell’Italia centrale. Grazie a recenti ricerche scientifiche si è stimata una popolazione di circa 60 esemplari nel territorio del Parco e zone limitrofe

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SE VAI IN MONTAGNA DEVI ACCETTARE I RISCHI

di Mauro Corona, da “La Stampa”, 7/4/2023

(testo raccolto da Enrico Martinet)

    O stai sul divano, o vai in montagna e accetti i rischi, compresi gli incontri con gli animali. Mi spiace per quel giovane…. In certi periodi l’orso è più pericoloso, soprattutto l’orsa quando ha i cuccioli, poi c’è la storia dei cani che i plantigradi avvertono come nemico. E se c’è certezza che il giovane è stato ucciso dall’orso, sarà ucciso anche l’orso. Così sarà, ma non si può uccidere l’orso che uccide. L’uomo, al solito, vuole decidere lui, vuole piegare la Natura. Nel mare ci sono gli squali e se ci vai rischi di essere aggredito. Che facciamo? Ammazziamo tutti gli squali, oppure cerchiamo di evitarli? Siamo i padroni del modo, dalle profondità oceaniche alla punta delle montagne? Ma dai.

   Ogni mattina, dico ogni mattina, si trova una carcassa di un cervo sbranato dai lupi. In Trentino non c’era l’orso, neanche i lupi. E da noi, qui nelle mie zone del Friuli, trent’anni fa non c’erano i cervi, adesso attraversano le strade in 60-80 esemplari. Hanno portato stambecchi che hanno cacciato più giù i camosci, e hanno popolati valli con marmotte e mufloni. Il lupo è arrivato, l’orso no: trasportato anche lui a suon di milioni di euro. E ora, se l’orso ha ucciso un uomo in quella vallata per un po’ non andrà più nessuno e il turismo ci soffrirà. Ecco il punto, si perdono schei e allora l’orso che uccide deve essere ucciso. Il problema è la cultura del territorio, noi siamo un popolo di improvvisatori. Improvvisiamo soprattutto per ignoranza, dove non vediamo il pericolo. A me non viene in mente di prendere una barca e ficcarmi in mare. Che fine farei? Ma il mare ha orizzonti aperti, lontani e fa paura, in montagna ci sono boschi e sentieri e uno va, anche senza conoscere. Pericolo? Non si pone neanche il problema.

   Sono anni che dico e ripeto la stessa cosa, mi annoio perfino da solo, ma tanti nessuno mi ascolta: la montagna deve essere insegnata nelle scuole. Nelle classi devono entrare il boscaioli, gli uomini di montagna, le guide e chi conosce gli animali selvatici, dai cinghiali agli orsi che possono essere pericolosi. Magari anche i lupi, ma non si hanno riscontri su aggressioni all’uomo. Tuttavia, messo alle strette ogni animale può essere aggressivo. Un amico che gestisce il rifugio Carota d’Alpago un giorno si è trovato circondato da sette lupi, non sapeva che fare. Per fortuna se ne sono andati. Io ho in tasca una scacciacani, ‘na rivolta che fa soltanto rumore, ma basta un suolo inusuale e gli animali più selvatici sono, meno lo gradiscono e se ne scappano.

   Dicevo dei pericoli della montagna, non i ghiacciai o le alte vette, ma quelli sui sentieri dove ci sono i turisti. In Dolomiti i sentieri corrono lungo pareti verticali. Quante volte ho visto genitori camminare con i bimbi in spalla e senza casco. Basta un corvo per far cadere un sasso, per non parlare dei camosci che corrono e saltano e posso provocare piccole frane. Che fare? Non ci si può difendere dai sassi e così per gli orsi, occorre conoscere le loro abitudini, stare attenti.

   Io quando vado a arrampicare so che posso non tornare. (MAURO CORONA, testo raccolto da Enrico Martinet)  

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progetto LIFE URSUS realizzato dal Parco Naturale Adamello Brenta dal 1999 (Il Progetto di reintroduzione Life Ursus – Template PAT (provincia.tn.it) )
 

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(Parco Abruzzo Lazio Molise: zonizzazione per i limiti di accesso, da www.corriere.it/)

Con il regolamento del parco nazionale di Abruzzo, Lazio e Molise (Pnalm) messo a punto nel 2020 dal suo direttore, Luciano Sammarone, dopo un lungo monitoraggio delle specie animali e dei comportamenti umani nell’area protetta, è stata ridotta la libertà di movimento (a piedi, a cavallo, in bici, con il cane) sui suoi sentieri, e così si sono assai ridotte le ipotesi di «incontro» con gli animali selvatici, orso marsicano compreso. «L’esigenza era quella di disciplinare il modo in cui fruire della natura e limitare in qualche modo i “disturbi” esterni — spiega il direttore Sammarone —. Così ho introdotto il divieto di uscire dai sentieri nelle zone di riserva integrale e di riserva generale e regolamentato la modalità di accesso delle quattro aree del Parco. Su alcune si può andare liberamente, anche con il cane, sempre al guinzaglio, o il cavallo e la bici; in altre no».   Nella cosiddetta «zona A» del Parco che ha appena festeggiato nel 2022 un secolo di vita si va ad esempio solo a piedi e solo nei sentieri escursionistici segnati in bianco e rosso. È vietato uscire dal tracciato, portare i cani al seguito, far entrare cavalli, muli e asini e «qualsiasi mezzo meccanico» incluse le mountain bike limitando, di fatto, anche qualsiasi atteggiamento che all’orso potrebbe risultare eccitante e scatenare da parte sua risposte di minaccia. (da https://www.corriere.it/ )

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UOMINI E ORSI, COESISTENZA POSSIBILE? DIPENDE DA NOI

Intervista al Professor LUIGI BOITANI, ordinario di zoologia all’Università La Sapienza.

di Fabio Bartoli, 14/4/2023, da https://www.micromega.net/

– La vicenda dell’uccisione del runner Andrea Papi da parte di un orso ha colpito la popolazione italiana, generando commozione, rabbia e paura. Ma la coesistenza tra l’essere umano e le altre specie, grandi predatori compresi, è inevitabile poiché ognuna di esse svolge il proprio ruolo nel mantenimento dell’equilibrio naturale. Il Prof. LUIGI BOITANI, ordinario di zoologia all’Università La Sapienza, invita a ragionare sulla necessità di assumerci le nostre responsabilità e agire nell’ottica del compromesso per relazionarci meglio all’ambiente che ci circonda. –

Prof. Boitani, l’uccisione in Trentino del runner Andrea Papi è una tragedia dalle forti conseguenze emotive. Ma questioni delicate e complesse vanno affrontate con raziocinio e competenza. Sui mass media invece si fomenta la sensazione del sentirsi sotto attacco e si invoca una caccia al singolo orso, come se questi agisse coscientemente per fare del male. Qual è invece la situazione reale? Il numero di orsi presenti in Italia e la loro dislocazione geografica rappresentano veramente un pericolo diffuso e imminente per l’essere umano?

In Italia esistono due piccole popolazioni orsi: una, composta da circa 60 individui è ristretta all’area del Parco Nazionale di Abruzzo, Lazio e Molise e aree limitrofe; la seconda è composta da circa 100-120 individui nell’area del Trentino, soprattutto occidentale. Gli orsi d’Abruzzo non hanno mai, a memoria d’uomo, attaccato l’essere umano nonostante la frequentazione del parco da parte di milioni di turisti sia capillare e invasiva: probabilmente gli orsi abruzzesi sono stati nei secoli selezionati dall’uccisione, da parte umana, degli individui più aggressivi. In Trentino gli orsi provengono da un ripopolamento fatto con individui sloveni che non hanno subito alcuna selezione particolare. La convivenza uomo-orso non è mai a rischio zero ma può essere contenuta al limite del rischio imprevedibile di incidenti rarissimi attraverso una serie di azioni di gestione dell’habitat, degli orsi e degli umani che vivono nella stessa area.

Vorrei farle una domanda forse banale: perché si parla quasi sempre di orsi in Trentino? Ce ne sono più che altrove in Italia? E devono rimanere lì confinati per una scelta di chi gestisce il loro ripopolamento oppure accade per altre ragioni?

In una popolazione di orsi, le femmine giovani lasciano la madre per posizionare i loro territori nelle prime aree libere da altre femmine e adiacenti al territorio natale. I maschi, invece, quando lasciano la madre vanno alla ricerca di territori e altre femmine anche su grandi distanze: ma se non trovano femmine tornano indietro verso le aree natali. Ecco perché tutti gli orsi in dispersione che sono avvistati in Svizzera, Austria, Veneto sono maschi. L’orso, quindi, non è una specie capace di allargarsi velocemente sul territorio e su grandi distanze. La densità può essere alta localmente e bassissima nelle aree circostanti. Non è pensabile una dispersione forzata dall’uomo, come qualche sprovveduto propone a meno che non si consideri la cattura di un gran numero di orsi per trasportarli altrove. Ma questa è una ipotesi del tutto irrealistica perché non credo si possa trovare un solo comune italiano o una nazione europea pronta ad accogliere un buon numero di orsi italiani.

Attualmente la gestione del ripopolamento degli orsi come viene condotta? C’è un piano ben definito e lo stiamo seguendo a dovere? Tutto procede in maniera adeguata oppure andrebbero posti­ dei correttivi?

Il ripopolamento è stato autorizzato dal Ministero e condotto dalla Provincia di Trento sulla base di un documento di programmazione e gestione approvato da tutte le amministrazioni coinvolte (PACOBACE). Il Piano prevede azioni e risposte per tutte le possibili situazioni gestionali dell’orso: un’applicazione pronta, coerente ed efficace del Piano sarebbe in grado di ridurre rischi di incontri pericolosi tra orsi e uomini. Purtroppo finora l’applicazione del Piano ha visto incertezze, esitazioni e ripensamenti da parte dell’ente gestore che non hanno aiutato a prevenire gli scontri che abbiamo visto recentemente.

Riguardo gli orsi in Italia si usa molto più spesso il concetto di reintroduzione piuttosto che quello di ripopolamento. In seguito al progetto Life Ursus, nuovi esemplari vennero immessi in Italia dalla Slovenia perché ve ne erano rimasti pochi, condannati all’estinzione nel nostro Paese. Come spiegherebbe ai nostri lettori l’importanza della permanenza di un animale come l’orso nel nostro Paese?

Si parla di reintroduzione quando si rilasciano individui di una specie estinta localmente ma presente in tempi recenti. Si parla di ripopolamento quando si rilasciano individui di una specie che è tuttora presente in un’area ma di cui si vuole incrementare di numero (a fini di caccia o restauro ecologico). Nel caso dell’orso in Trentino fu fatto tecnicamente un ripopolamento perché erano ancora presenti alcuni individui ma non erano più riproduttivi e si potrebbe quindi catalogare il progetto come una reintroduzione. Ma i termini usati non sono rilevanti a definire il senso ultimo del progetto che consiste nel recupero ecologico ma anche culturale di un elemento chiave del paesaggio naturale e socio-culturale trentino. L’orso fu riportato in Trentino per volere dei trentini, non certo per una imposizione del governo nazionale: l’orso ha in Trentino una valenza culturale molto forte e la consuetudine alla coesistenza tra uomo e orso è antica e radicata. La coesistenza si è sviluppata tra accettazione ed eliminazione degli esemplari pericolosi: in questo equilibrio consiste il compromesso che fa sì che l’uomo non diventi l’unico solitario abitante della terra.

E cosa dire invece della presenza di grandi carnivori in generale? Lei è un esperto del lupo: ci sono analogie tra la situazione del lupo e quella dell’orso in Italia in termini di numeri, diffusione e pericolosità per l’uomo?

Lupo e orso sono specie totalmente diverse e non ha alcun senso paragonarle, nemmeno nei loro rapporti con l’uomo. Si continua con la favola di Cappuccetto Rosso e nessuno si chiede quante volte abbia letto una notizia di attacco di un lupo a un uomo in Italia negli ultimi cento anni: zero, nonostante l’Italia abbia circa 3500 lupi. Continuano le notizie false o gonfiate. Solo pochi giorni fa una donna ha detto di essere stata morsa da un lupo mentre portava a spasso il suo cane e i giornali hanno subito titolato di attacchi all’uomo. Ma la realtà è che quel lupo (se poi di lupo davvero si trattava) puntava al cane e la signora ha rimediato un morso nel tentativo di mettersi tra lupo e cane, così come avviene a tutti i padroni di cani in situazioni simili di scontri tra cani. La coesistenza tra uomo e predatori è possibile ma richiede prima di tutto, conoscenza senza demagogie e falsità e poi disponibilità al compromesso nel condividere uno spazio che non è solo per gli umani ma per tutta la natura. Certo, esiste anche una linea di pensiero che vuole l’uomo padrone della terra, così come esiste una linea di pensiero sul razzismo o su tante altre posizioni etiche: sta a noi decidere da che parte stare.

In generale, infatti, questa vicenda sembra riproporre anche il tema delicato del rapporto uomo-natura. Noi esseri umani spesso ce ne sentiamo i padroni, come se non ne fossimo parte, valutando l’ambiente e le altre specie che lo abitano solo in termini utilitaristici. Quanto è invece importante trovare un giusto equilibrio tra noi e il resto della biosfera?

È essenziale trovare un punto di equilibrio: non è solo una questione etica e astratta ma è anche una concreta necessità di sopravvivenza umana. Il sistema naturale che sostiene l’uomo sulla terra è composto da una miriade di essere viventi, ognuno con un suo ruolo nel mantenere la salute dell’intero sistema. Ogni specie ha un ruolo ed è importante che quel ruolo sia mantenuto. Non siamo in grado, né scientificamente né eticamente, di assegnare patenti di diverso valore alle specie sulla terra. L’unica via è trovare compromessi accettabili che permettano la coesistenza di tutti. E coesistenza implica anche limitare il peso di qualche elemento del sistema. In poche parole, implica anche il controllo numerico di qualche specie, a cominciare dall’uomo. Non dimentichiamo che, a fronte di 100 orsi, l’Italia ha 60 milioni di dannosissimi umani: prevenire la loro prolificazione sarebbe un passo utile verso la coesistenza.

(Fabio Bartoli, 14/4/2023, da https://www.micromega.net/)

(*LUIGI BOITANI è professore ordinario di Zoologia all’Università la Sapienza di Roma dove ricopre le cattedre di Biologia e conservazione della fauna selvatica per la laurea triennale in Scienze Biologiche e di Ecologia animale e biologia della conservazione per la laurea magistrale in Ecobiologia. È il Presidente della Large Carnivore Initiative for Europe)

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(orsi famiglia, foto da https://www.corriere.it/)

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CATTURATA L’ORSA JJ4. L’ESEMPLARE ERA CON TRE CUCCIOLI, LASCIATI LIBERI Continua a leggere

ACQUA, BENE FINITO: in vista dell’estate 2023 è necessario un piano di razionamento dell’acqua per i diversi usi; e diffondere il RIUSO delle acque reflue depurate IN AGRICOLTURA (con un potenziale acqueo di 9 miliardi di metri cubi l’anno, in Italia viene sfruttato solo il 5%) – Il nostro un Paese ricco d’acqua ma che la spreca

Una piccola pianta che riceve la preziosa dose di acqua necessaria per crescere e produrre frutti
(https://www.centroverderovigo.com/it/blog/perche-innaffiare-le-piante-anche-in-inverno-48), immagine ripresa da https://abaqua.it/

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IL RISCHIO ACQUA NEL MONDO (mappa da https://www.greenme.it/) – da https://futuranetwork.eu/: La crisi idrica del 2022 è il segnale di un futuro difficile – Ad agosto del 2022, il 60% del territorio europeo si trovava in condizioni critiche o estremamente critiche a causa della siccità. Non è solo l’Europa ad aver vissuto, finora, un anno particolarmente siccitoso: una situazione simile si è verificata anche negli Stati Uniti, nei Paesi del Nord Africa e in Cina. Altri Paesi, come la Corea del Sud e il Pakistan, sono stati invece colpiti da forti alluvioni. La siccità, le alluvioni e le tempeste, sono gli eventi estremi che causano il maggior numero di morti ogni anno e la loro diffusione è destinata ad aumentare: secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), nei prossimi 30 anni il 20% della popolazione mondiale sarà soggetto a disastri legati all’acqua 

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#Emergenzasiccitàmaifinita, al Governo chiediamo subito una risposta concreta

Legambiente, https://www.legambiente.it/,

Occorre definire in vista dell’estate 2023 un piano di razionamento dell’acqua per i diversi usi e diffondere il riuso delle acque reflue depurate in agricoltura.

A fronte di un potenziale di 9 miliardi di metri cubi all’anno, in Italia viene sfruttato solo il 5% (475 milioni di metri cubi) secondo i dati Utilitalia.

Legambiente rilancia otto storie di riuso in agricoltura da replicare e che arrivano dall’Italia e dal resto d’Europa: dal depuratore di Fregene all’impianto di Fasano-Forcatella (Br) alle buone pratiche di Cipro e Valencia.

Definire un piano di razionamento dell’acqua per agricoltura, usi civili e industriale per una tempestiva riduzione dei prelievi, diffondere e praticare in agricoltura il riutilizzo delle acque reflue depurate, superando gli ostacoli normativi nazionali (DM 185/2003) con l’attuazione del regolamento UE 741/2020, e indirizzare fin da ora la produzione del 2023 verso attività agricole meno idroesigenti rivedendo i sistemi di irrigazione che favoriscano la riduzione dei consumi.

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(sistema irriguo a goccia, foto da https://bioqualita.eu/) – L’irrigazione a goccia costituisce il sistema più efficiente anche se non è semplice da utilizzare quando la topografia del suolo è irregolare e la qualità dell’acqua è tale da generare nel tempo delle occlusioni degli ugelli. (Mariella Pentimalli, da https://abaqua.it/, 11/10/2022)

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#Emergenzasiccitàmaifinita, al Governo chiediamo subito una risposta concreta

Legambiente, https://www.legambiente.it/

   Sono queste per Legambiente le prime azioni concrete che il Governo Meloni deve mettere in campo se davvero vuole fronteggiare l’emergenza siccità, mai finita dall’estate scorsa, (…) per fare pressing sul Governo e chiedere che si passi dalle parole ai fatti, dando il via ad una strategia idrica nazionale fatta di interventi di breve, medio e lungo periodo non più rimandabili e che favoriscano l’adattamento ai cambiamenti climatici e la riduzione di prelievi e di sprechi d’acqua. Bisogna prelevare meno acqua possibile, senza se e senza ma, e per far ciò occorre adottare un approccio circolare delle acque prendendo come esempio anche quelle esperienze virtuose già attive in diversi territori.

   Secondo l’indagine “Il riutilizzo delle acque reflue in Italia”, realizzata da Utilitalia (https://www.utilitalia.it/, la Federazione delle imprese idriche, ambientali ed energetiche), il riuso delle acque reflue depurate in agricoltura ha un potenziale enorme (9 miliardi di metri cubi all’anno, l’acqua esce dai depuratori), ma in Italia viene sfruttato, a causa di limiti normativi, pregiudizi degli agricoltori e una governance non ancora ben definita, solo per il 5% (475 milioni di metri cubi).

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(Sistema integrato depurazione acque Peschiera Borromeo, foto da https://www.recyclingweb.it/) – Sistema Integrato delle Acque Reflue Urbane e del Riuso di Peschiera Borromeo nell’area periurbana di Milano – Costruito nel 1982, quello che sorge a sud del comune di Peschiera Borromeo è uno dei più grandi impianti di depurazione del Gruppo CAP che riceve le acque reflue provenienti dalla zona a sud di Milano, dai comuni a nord di Peschiera Borromeo, interni alla città metropolitana, e da altri della provincia di Monza e della Brianza per un totale di cinquecentomila abitanti serviti.   Il depuratore si compone di due linee tecnologicamente differenti; la prima linea è una linea tradizionale che lavora seguendo diverse fasi (pretrattamento, trattamento biologico, terziario attraverso biofiltrazione e disinfezione attraverso acido peracetico). La seconda, è stata aggiunta nei primi anni duemila, e adotta una tecnologia più moderna chiamata Biofor®, grazie alla disinfezione tramite raggi ultravioletti si riesce ad avere come risultato un’acqua depurata idonea per uso irriguo diretto, utilizzata dal gestore dei campi attigui al depuratore. L’impianto gestisce 200.000 m3 al giorno di acqua in arrivo, che corrispondono all’acqua utilizzata dalla cittadinanza nel bacino sotteso dal depuratore, all’interno della struttura è inoltre presente un laboratorio per l’analisi delle acque reflue. (…) (https://www.recyclingweb.it/ )

#Emergenzasiccitàmaifinita, al Governo chiediamo subito una risposta concreta

Legambiente, https://www.legambiente.it/

   Otto le esperienze su cui Legambiente “accende i riflettori”, studiate e promosse dal Joint Research Centre (JRC) della Commissione europea, di cui cinque sono esperienze italiane e le altre europee. Parliamo di realtà, da replicare, e che ben raccontano come in ambito agricolo sia possibile riutilizzare in maniera sostenibile il flusso d’acqua senza inutili sprechi. 

   Si va dal depuratore di Fregene – che grazie ad un trattamento spinto dell’acqua ne permette il riutilizzo per l’irrigazione dei campi agricoli – al Sistema Integrato delle Acque Reflue Urbane e del Riuso di Peschiera Borromeo nell’area periurbana di Milano; dal progetto di San Benedetto del Tronto con l’implementazione dei processi di trattamento che permetteranno all’acqua recuperata di poter essere utilizzata per l’irrigazione all’impianto di Fasano-Forcatella (Br), in Puglia, che intercetta le acque del depuratore comunale e dopo averle affinate, le distribuisce a 50 aziende agricole. Nei periodi di minor richiesta, l’acqua, raccolta nel lago Forcatella, viene utilizzata per la ricarica indiretta della falda e mitigare l’intrusione di acqua marina. Altra buona pratica arriva dall’impianto di depurazione biologico di Milano San Rocco che consente in ambito agricolo e industriale il riutilizzo delle acque che vengono scaricate nelle rogge irrigue.

   Spostandoci in Europa, tra le altre esperienze che vanno nella stessa direzione c’è il riutilizzo dell’acqua messo in campo a Pinedo-Acequia del Oro, a Valencia, in Spagna, dove l’acqua reflua viene recuperata e utilizzata per irrigare le risaie e gli orti. Il flusso di acqua recuperata utilizzata per l’irrigazione è di 15.000 m3/giorno nella stagione settembre-maggio e di 180.000 m3/giorno tra maggio e settembre, ed è distribuito attraverso una rete di 80 km di canali aperti.

   Oppure il sistema pilota di riutilizzo dell’acqua di Haaksbergen, nei Paesi Bassi, in funzione dal 2015, dove l’aumento delle condizioni di siccità registrato nel corso degli anni ha reso necessaria un’alternativa alla fonte di approvvigionamento e le acque reflue trattate sono diventate una fonte per l’irrigazione. Durante il normale funzionamento, l’effluente dell’impianto di depurazione di Haaksbergen viene scaricato nel torrente Bolscherbeek che viene poi utilizzato dagli agricoltori per l’approvvigionamento di acqua per l’irrigazione agricola.

   Infine altra buona pratica arriva da Cipro dove il sistema di riutilizzo dell’acqua di Limassol-Amathus, situato a Limassol, in esercizio dal 1995, e l’effluente terziario, viene riutilizzato per molteplici usi che vanno dall’irrigazione di colture per l’alimentazione animale, agli ulivi e agrumi, fino all’innaffiamento delle aree verdi. Inoltre viene utilizzato anche per la ricarica della falda di Akrotiri, utilizzata solo per l’irrigazione.

   “Tutela, zero sprechi e riuso – dichiara Giorgio Zampetti, direttore generale di Legambiente – sono le tre parole chiave su cui il Governo Meloni deve lavorare per prevenire “l’emergenza idrica”, ormai strutturale per la crisi climatica. Per ridurre i prelievi di acqua e gli scarichi nei corpi idrici, occorre praticare seriamente il riutilizzo delle acque reflue depurate in agricoltura e nei cicli produttivi.

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(LA CRISI IDRICA DEL 2022, MAPPA da https://futuranetwork.eu/) – Il WRI, World Resources Institute, ha appena lanciato Aqueduct, una mappatura interattiva e aggiornata del “rischio acqua” nel mondo: attraverso l’uso di colori che vanno dal giallo tenue al rosso intenso, la mappa offre un’immediata visione delle aree del globo che più soffrono (o che, in un futuro non troppo lontano, più potrebbero soffrire) per la scarsità di questo bene primario e prezioso.(da https://www.greenme.it/ )

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#Emergenzasiccitàmaifinita, al Governo chiediamo subito una risposta concreta

Legambiente, https://www.legambiente.it/

   Oggi c’è un potenziale enorme non utilizzato a causa di una normativa nazionale inadeguata e superata anche dal regolamento europeo del 2020 dedicato proprio al riuso, che va applicato subito anche nel nostro Paese. Ci sono poi le risorse del PNRR e quelle a disposizione del commissario per l’adeguamento del sistema depurativo, su cui stiamo ancora pagando decine di milioni di euro all’anno di multe europee, che devono essere indirizzate anche in questa direzione.

   L’agricoltura è il settore che risente principalmente della scarsità dell’acqua e al tempo stesso è il principale protagonista nella sfida per ridurre sprechi e consumi. Occorre una riconversione del sistema di irrigazione che punti su sistemi di microirrigazione a goccia, la diffusione di colture e sistemi agroalimentari meno idroesigenti e una revisione del sistema di tariffazione degli usi dell’acqua basato su premialità e penalità per valorizzare le esperienze virtuose”. (Legambiente 2023, https://www.legambiente.it/)

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(STRATI DEL SOTTOSUOLO, da https://digimparoprimaria.capitello.it/app/books/CPAC90_2613616A/html/240, da noi ripreso da https://abaqua.it/ ) — “(…) Considerato che il 70% dell’acqua potabile viene sfruttata per irrigare i campi coltivati (stando ai dati messi a disposizione dalla FAO nel 2022), occorre individuare e diffondere pratiche agronomiche volte ad ottimizzare il suo impiego in questo ambito. (…) Le colture con un lungo periodo di crescita sono maggiormente colpite dalla siccità. Ne fanno parte le barbabietole da zucchero, le patate, il granoturco e tutte le colture foraggere.” (Mariella Pentimalli, da https://abaqua.it/, 11/10/2022)

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PREVENIRE LA SICCITÀ SI PUÒ. RISCOPRENDO LE BANCHE DELL’ACQUA

di Rudi Bressa, dal quotidiano DOMANI del 12/4/2023

   Mancano all’appello almeno 400 millimetri di pioggia. L’ultimo anno idrologico appena concluso, che va da settembre a marzo, non fa altro che confermare la tendenza che stiamo registrando dalla fine del 2021. La situazione più grave si registra nuovamente in Piemonte, dove secondo l’Arpa è piovuto e nevicato la metà rispetto alla media, mentre negli invasi manca il 45 per cento di acqua e la portata dei fiumi è gravemente deficitaria. A preoccupare però è anche lo stato di salute delle falde, che vedono scendere il livello in maniera drastica: a Bosco Marengo in provincia di Alessandria si è passati da una media storica, a marzo, di 13,22 metri a 22,96. A Suno (Novara) da 5,6 metri a 110,15, mentre a Scarnafigi (Cuneo) da 5,58 a 7,75. Un segnale di sofferenza, seppur sotterraneo e invisibile.

   In un periodo di crisi idrica come quella attuale le soluzioni a disposizione sono relativamente poche, ovvero grandi invasi da milioni di metri cubi, il riutilizzo delle acque reflue soprattutto per l’agricoltura e, in ultima analisi, la desalinizzazione dell’acqua di mare, costosa sia energeticamente sia per quanto riguarda la realizzazione degli impianti.

   Per il futuro è invece possibile lavorare in maniera preventiva, sfruttando le esistenti falde acquifere.

Stoccare l’acqua nel sottosuolo

In termini tecnici si parla di ricarica in condizioni controllate, o water banking (banche dell’acqua). Nella pratica si tratta di «una soluzione che si applica sfruttando l’immenso serbatoio che è il sottosuolo», spiega Rudy Rossetto ricercatore del Centro di ricerca produzioni vegetali della Scuola superiore Sant’Anna. «In molte parti d’Italia è possibile stoccare milioni e milioni di metri cubi di acqua senza andare ad alterare la morfologia o occupare ampie aree di territorio».

   Realizzare grandi invasi, dighe e laghi artificiali ha un costo, sia in termini economici, che di manutenzione, che appunto di consumo di suolo. Queste sono invece tecniche idrauliche ben note, tanto che i primi manuali sono stati pubblicati in Italia alla fine degli anni Venti del secolo scorso.

Riqualificare i fiumi

Nella valle del Cornia, in Toscana, il fiume omonimo scorre per 50 chilometri, attraversando le province di Pisa, Grosseto e Livorno, e risulta essere l’unica fonte di acqua dell’intera area. Con il progetto Life Rewat, cofinanziato dalla Commissione europea, è stato possibile invertire la forte situazione di degrado sia della qualità che della quantità delle acque, lavorando proprio sul principio che vede nelle soluzioni basate sulla natura (nature based solution) le migliori tecniche di adattamento alle mutate condizioni climatiche.

   Ovvero ripristinare le precedenti condizioni di naturalità ha permesso al fiume di ritornare a essere un’importante risorsa per tutta l’area geografica. In questo caso l’acqua va stoccata quando piove, sfruttando tutti i deflussi che vanno naturalmente verso il mare. «Andando a operare sul fiume abbiamo aumentato l’infiltrazione di un milione e mezzo di metri cubi d’acqua», continua Rossetto.

   Il sistema non prevede la costruzione di opere ex novo, piuttosto tutta una serie di interventi di tipo ingegneristico, composti da sonde e sensori che comunicano in tempo reale a un cuore tecnologico tutti i parametri dell’acqua del fiume, e che decide come e quando derivarla per essere stoccata nelle vasche di infiltrazione nelle vicinanze: si sfrutta la diversa permeabilità del terreno in modo tale che l’acqua si infiltri e vada a ricaricare le falde sotterranee. In questo modo si abbatte anche la carica batterica e l’eventuale presenza di contaminanti, migliorandone di conseguenza la qualità.

   «Attualmente stiamo derivando 80 litri al secondo dal fiume Cornia, il che ci permette di arrivare a 2 milioni di metri cubi di acqua infiltrata l’anno», sottolinea Rossetto. E ciò avviene su una porzione di territorio di poco meno di un ettaro, con i costi che si abbattono sensibilmente: se per un invaso della stessa capacità si spendono in media dai 12 ai 20 milioni di euro, «in questo caso spendiamo circa 500mila euro, progettazione compresa, con un tempo di realizzazione di due anni».

Bassi investimenti

Rispetto alle cosiddette “grandi opere”, infatti, le soluzioni basate sulla natura hanno brevi tempi di realizzazione, bassi costi d’investimento e l’occupazione di aree di limitata estensione, consentendo allo stesso tempo di immagazzinare grandi volumi d’acqua nel sottosuolo, senza ricorrere all’uso di infrastrutture artificiali.

   Ma allora perché in Italia questa tecnica non ha ancora preso piede, e anzi gli impianti riconosciuti sono solo due, di cui uno in Emilia Romagna? Secondo il ricercatore si tratta di una questione culturale, «siamo indietro di 20 anni e manca un vero scambio con gli altri paesi. Manca la massa critica di conoscenze. Queste tecniche sono diffuse da tempo negli Stati Uniti, Australia e Israele, paese in cui piove meno della metà dell’Italia».

   Nel frattempo lo scorso 21 marzo, in concomitanza con la Giornata mondiale dell’acqua, è stata inaugurata una nuova vasca d’infiltrazione, in località Forni nel comune di Suvereto in provincia di Livorno, grazie a un finanziamento di circa 100mila euro da parte del dipartimento nazionale di Protezione civile proprio nell’ambito dell’emergenza idrica in corso. Attraverso ulteriori 2.500 metri quadrati di superficie filtrante, si andrà a incrementare di altri 5mila metri cubi il volume di acqua, che sarà così disponibile per la prossima estate. (Rudi Bressa, dal quotidiano DOMANI del 12/4/2023)

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ACQUA, BENE FINITO: AGRICOLTURA E ZOOTECNIA BIOLOGICA SONO PARTE DELLA RISPOSTA

da https://bioqualita.eu/

(…..) Partiamo da un presupposto fondamentale, come ci ricorda lo storico e saggista Piero Bevilacqua: viviamo in una sorta di illusione ideologica che ci fa sembrare infinito lo sfruttamento delle risorse naturali a causa dell’idea di uno sviluppo senza fine.

   Invece la situazione è ben diversa. La continua edificazione dei nostri territori li impoverisce, distrugge le aree boschive preziose per la salute delle falde acquifere, oltre a rappresentare delle vere e proprie barriere anti calore (Bevilacqua e Isabella Pratesi, direttrice Programma di Conservazione del WWF).
   (…) L’acqua è un prezioso capitale naturale ma senza il sistema artificiale, cioè infrastrutture, tubazioni, invasi, dighe, non è possibile fruirne (Antonio Massarutto, economista esperto di reti idriche). Perciò bisogna investire in tecnologia, oltre a ridurre le perdite d’acqua lungo le reti idriche e mettere in connessione schemi idrici differenti per trasferire acqua là dove serve per gestire le emergenze.
   Il surriscaldamento climatico provoca un rallentamento del ciclo dell’acqua che causa una mancata ricarica delle falde (Mario Tozzi, geologo e divulgatore scientifico).

   L’elenco del cattivo utilizzo dell’acqua è lungo: gestione privata non oculata, usi casalinghi inappropriati di acqua potabile (gli sciacquoni, ad esempio!), l’uso di decine di milioni di litri per innevare piste da sci per non parlare del grande bisogno d’acqua richiesto dai campi di golf o dai giardini all’inglese, fiumi depredati d’acqua per produrre energia elettrica come il Piave, un tempo navigabile (Fausto Pozzobon di Legambiente Veneto).

   Gran parte dell’opinione pubblica, però, punta il dito contro l’agricolturaidrovora per eccellenza. Le colture meno bisognose d’acqua sono da preferire ad altre che richiedono abbondanti annaffiature, come ad esempio il kiwi.

   Tra le varie soluzioni, l’agricoltura biologica ha tra i propri obiettivi “un impiego responsabile (…) delle risorse naturali, come l’acqua”. L’agricoltura biologica rappresenta quindi un modello agricolo che la preserva e per capire meglio come ciò avviene abbiamo chiesto un contributo a Sara Petrucci, agronomo, esperta di biologico.
   Il ruolo dell’agricoltura nell’utilizzo delle risorse idriche è cruciale sia nelle quantità impiegate, sia nella qualità dell’acqua restituita dopo gli impieghi. Per questo puntare su metodi agricoli che abbiano a cuore una gestione idrica sostenibile è oggi sempre più necessario.

   L’agricoltura biologica, definita e normata uniformemente nell’Unione Europea, opera certamente in questa direzione. Nell’art. 3 del Reg CE 834/07 viene elencato, tra gli obiettivi, quello di assicurare “un impiego responsabile dell’energia e delle risorse naturali come l’acqua, il suolo, la materia organica e l’aria”. E ciò può trovar applicazione in una serie di buone pratiche come quelle descritte qui sotto.

SISTEMI IRRIGUI VIRTUOSI

Molte colture si prestano ad essere irrigate con sistemi che prevedono un forte risparmio idrico, come la micro irrigazione mediante l’ala gocciolante. Di uso ormai comune per le colture orticole e ornamentali sia convenzionali sia biologiche, è altrettanto adatta a frutteti e a impianti di piccoli frutti. L’agricoltura biologica promuove l’irrigazione a goccia soprattutto quale strategia preventiva dalle fitopatologie, ma anche per limitare il consumo di acqua, che di fatto è un input di produzione esterno.

L’USO DI SOVESCI E IL RUOLO CHIAVE DELLA SOSTANZA ORGANICA

La pratica del sovescio, centrale nella coltivazione biologica, consente al terreno di immagazzinare una notevole riserva idrica. La sostanza organica genera molti effetti positivi sulle caratteristiche biologiche, chimiche e fisiche del suolo. In particolare, legandosi alle particelle minerali di terreno, crea un effetto spugna che porta ad aumentare la capacità del suolo di trattenere l’acqua. Nell’art. 12 del Reg 834/07, viene così enunciato: “la fertilità e l’attività biologica del suolo sono mantenute e potenziate mediante la rotazione pluriennale delle colture, comprese le leguminose e altre colture da sovescio e la concimazione con concime naturale di origine animale o con materia organica, preferibilmente compostati, di produzione biologica.”

PACCIAMATURA

La pacciamatura è la copertura del suolo tra le piante coltivate, mediante materiali diversi. Lo scopo principale di questa pratica è il contenimento dell’erba infestante, ma l’effetto non secondario è la riduzione dell’evaporazione dell’acqua dal suolo, e quindi una minore perdita idrica.

SCELTA DI SPECIE E VARIETÀ CHE RICHIEDONO POCA ACQUA

Le colture vegetali differiscono tra specie e varietà per le loro richieste idriche, per cui nelle zone siccitose è opportuno orientarsi verso varietà più resistenti alla scarsità di precipitazioni. A titolo di esempio, nell’ambito della cerealicoltura biologica si stanno diffondendo in tutta la penisola progetti che prevedono la coltivazione di miscugli di vecchie varietà di frumento, con lo scopo di creare popolazioni che nel tempo si evolvano secondo i luoghi. La loro composizione varietale si modificherà in base a quei determinati ambienti, così che in luoghi siccitosi saranno le varietà particolarmente resistenti alle carenze idriche a prevalere sulla popolazione, portando nel tempo a miscugli adattati proprio a quei contesti.

L’ALLEVAMENTO

La zootecnia è un settore agricolo che fa un largo consumo di acqua. Gli allevamenti biologici prevedono la disponibilità di ampi spazi aperti e di pascoli, con conseguente minore presenza in stalla degli animali e possibilmente minori consumi di acqua per i lavaggi di questi ambienti.

IL RISO

Tra le colture vegetali, quella che maggiormente dipende dalle disponibilità idriche è il riso. La risaia tuttavia non consuma irreversibilmente l’acqua, poiché questa torna infatti in circolo e viene riassorbita dal suolo. Coltivare riso con metodo biologico mantiene salubre l’acqua, poiché non vi  restano residui di trattamenti chimici per il diserbo.

da https://bioqualita.eu/ 

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(norme per il riutilizzo delle acque reflue in agricoltura, foto ripresa da https://www.teatronaturale.it/) – “(…) A proposito di utilizzo di residui nell’ambito agricolo, ai fini dell’ottimizzazione dell’utilizzo della risorsa idrica, riciclare l’acqua reflua urbana ed utilizzarla in agricoltura può contribuire ad alleviare i problemi legati alla scarsità dell’acqua e a ridurne l’inquinamento. Tuttavia, secondo un recente rapporto della FAO, è opportuno sottolineare che tale pratica non è attualmente diffusa quanto dovrebbe. Trattandosi di acque derivanti dalle attività umane – domestiche, industriali o agricole – prima di essere utilizzate per l’irrigazione, devono essere necessariamente depurate perché contengono sostanze organiche ed inorganiche che possono essere dannose per la salute e l’ambiente. Il riutilizzo sicuro delle acque reflue per la produzione alimentare può contribuire ad alleviare la competizione tra città e settore agricolo per l’uso dell’acqua. (…)” (Mariella Pentimalli, da https://abaqua.it/, 11/10/2022)

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IL NUOVO COMMISSARIO

NON POSSIAMO LASCIARE LE REGIONI A GESTIRE L’ACQUA

di Edoardo Zanchini, da DOMANI, 3/4/2023

   È una buona notizia la prossima nomina di un commissario nazionale contro la siccità. Dimostra che il governo ha compreso la dimensione di una crisi che dura da più di un anno e che potrà solo aumentare nei prossimi mesi.

   Riguarda tutto il paese, ma in particolare la pianura padana dove la situazione è davvero drammatica, con impatti ambientali, sulle attività agricole e sulla produzione energetica. Servono risposte immediate per fronteggiare i prossimi mesi e al contempo occorre disegnare un nuovo modello di gestione di una risorsa che diventerà sempre più preziosa.

   Per questo sarà un banco di prova importante per il governo Meloni, che dovrà dimostrare di essere disponibile ad aprire un confronto su un tema così complesso. Perché nessuno ha la bacchetta magica ma al contempo non basta l’approccio muscolare o ideologico.

   Per verificarlo bisognerà guardare in particolare a due questioni: quali priorità di intervento verranno scelte e quali saranno gli attori istituzionali coinvolti.

NON SI TRATTA DI DESTINO

Questa siccità non è un evento improvviso, terribile come altri che periodicamente capitano in un paese a forte rischio idrogeologico e sismico. Siamo dentro un processo di riscaldamento del pianeta in cui lunghi periodi di siccità saranno la nuova normalità a cui dobbiamo prepararci.

   La buona notizia è che siamo un paese ricco di acqua e di opportunità per fronteggiare la situazione nei prossimi anni. Se non lo abbiamo fatto in questi anni è per una gestione inadeguata, con investimenti sbagliati o in ritardo, mancati controlli ma anche un ritardo culturale nell’affrontare i problemi.

   Non basta dire che si sbloccheranno i cantieri fermi e che si punterà su dighe, desalinizzatori e nuovi bacini di raccolta. Perché possono essere un ennesimo spreco di risorse se non sono fatti dove ha veramente senso ed è più urgente.

LE COSE DA FARE SUBITO

Se, invece, lo scenario in cui si collocano gli interventi è quello definito dal piano di adattamento climatico presentato poche settimane fa dal ministro Pichetto Fratin, l’ordine delle priorità è chiaro.

   In primo luogo, si devono ridurre perdite e sprechi ancora superiori al 40 per cento secondo Istat. Secondo, dai depuratori escono nove miliardi di metri cubi di acqua pulita all’anno, pari a circa due terzi dei consumi complessivi. Quest’acqua deve essere utilizzata per tutti gli usi compatibili: industriali, di irrigazione del verde, ma anche in agricoltura. Come sarebbe possibile per le norme europee ma non per quelle italiane che vanno aggiornate. Stesso ragionamento vale per le acque meteoriche, che non vanno buttate in fogna ma raccolte in invasi o cisterne, reimmesse in falda o utilizzate per tante funzioni dove vanno benissimo.

   Già solo facendo questo, metà dei fabbisogni teorici potrebbe essere soddisfatto, riducendo i consumi della preziosissima acqua potabile. Se ci sommiamo le riduzioni delle perdite, la situazione può tornare gestibile nei prossimi anni, soprattutto se i maggiori consumatori di acqua – ossia gli agricoltori – vengono coinvolti in un processo di innovazione nella gestione e consumo.

   Pare che la ragione del rinvio della nomina del commissario siano le regioni. Fino a oggi l’unica certezza del governo Meloni è che, qualsiasi sia la decisione da prendere, prima si deve avere il loro consenso. In questo caso, come per tanti altri, il ruolo delle regioni è la causa dei problemi. Prima di tutto, perché nella definizione delle priorità scompaiono i veri problemi ma si applica un approccio distributivo, e poi perché in caso di inerzia ministri e commissari fanno finta di non vedere per non aprire uno scontro politico.

   Se si vogliono davvero affrontare le questioni, serve un organo nazionale di coordinamento e definizione delle priorità – come ai tempi della struttura di missione di Matteo Renzi –, con poteri sostitutivi. E poi un lavoro a stretto contatto con i soggetti che l’acqua e il territorio conoscono e gestiscono, ossia le Autorità istituite per i sette distretti idrografici in cui è diviso il paese, gli Ato che gestiscono il servizio idrico integrato nelle diverse aree del paese e, infine, i comuni che si trovano a gestire al contempo siccità e alluvioni. Se, invece, la premier Giorgia Meloni vuole approfittare della nomina del commissario per velocizzare qualche intervento e trattare con le regioni, il fallimento sarà scontato, ma poi bisognerà spiegarlo a imprese agricole e energetiche in lotta per chi ha più diritto a quell’acqua, e fare i conti con le proteste di cittadini a cui si dovrà razionarla e portarla a caro prezzo con le autobotti. (Edoardo Zanchini, da DOMANI, 3/4/2023)

DECRETO SICCITÀ, LE SCELTE DEL GOVERNO: MENO BUROCRAZIA, CABINA DI REGIA E MULTE PER I LADRI D’ACQUA

di Peppe Aquaro, 7/4/2023, da https://www.corriere.it/

   Arriva alla vigilia di Pasqua il Decreto siccità, approvato giovedì 6 aprile dal Consiglio dei ministri. Lo si attendeva da tempo. Nel dl approvato dal consiglio dei ministri ci sono una Cabina di regia interministeriale, presieduta dal premier o dal ministro delle Infrastrutture e un «Commissario straordinario» per la scarsità idrica. La ‘regia’ farà capo al dicastero delle Infrastrutture, sulla cui home-page si legge che per battere l’emergenza siccità si attuerà uno «snellimento delle procedure autorizzative» e ci saranno «iter più veloci per la realizzazione delle infrastrutture idriche e per la sicurezza e la gestione degli invasi». Per attuare il Decreto, composto da 16 articoli, il Governo ha già stanziato 8 miliardi di euro (una buona parte dei quali provengono dai fondi del Pnrr).

   Ma cerchiamo di capire nel dettaglio cosa prevede il decreto. Per poter prevenire e cercare di contrastare la siccità — dal momento che siamo in presenza di una vera e propria emergenza — nel decreto è prevista l’istituzione di una cabina di regia, a cui sarà affidata, entro 30 giorni, una ricognizione delle opere più urgenti da fare. All’interno di queste stesse opere, più di una decisione spetterà al Commissario straordinario nazionale, una figura che farà da collante tra la Cabina di regia del governo e le realtà locali. Fermo restando che, nel caso dovessero verificarsi ulteriori ritardi o criticità riguardanti i lavori, la Cabina di regia può, quando occorre, “scavalcare” il lavoro del Commissario nazionale, nominando altre figure (commissari “ad acta”). E che l’acqua, l’oro blu, sia un bene prezioso, lo si capisce da un passaggio dell’articolo 13 del Decreto: «Per chi estrae o utilizza acqua pubblica senza autorizzazione, sono previsti multe che vanno da 8.000 a 50 mila euro».

Tutti i poteri del commissario straordinario

Alla testa di una organizzazione in grado di fronteggiare l’emergenza idrica, il Commissario straordinario nazionale nominato dal Governo avrà pieni poteri. La durata prevista del suo incarico è fino a dicembre prossimo, ma potrebbe anche essere confermato per un altro anno. Di che cosa si occuperà il commissario nazionale? Oltre a realizzare d’urgenza gli interventi decisi dalla Cabina di regia, dovrà fare ciò che finora in pochi hanno provveduto a fare: per esempio, occuparsi seriamente della situazione degli invasi. «Gli invasi in tutta Italia sono all’11 % delle loro capacità: per cambiare il corso delle cose dovrebbero essere portati al 35-40 per cento, cosa che accade già in Paesi come Spagna e Portogallo», ricorda Francesco Vincenzi, presidente dell’Anbi (Associazione nazionale dei consorzi per la gestione e la tutela del territorio e delle acque irrigue). Tra i poteri sostitutivi del Commissario, in caso di inadempienza, è previsto anche il potere di avviare procedure accelerate per gli interventi di miglioramento delle infrastrutture idriche e di dragaggio degli invasi, cui sono destinate risorse aggiuntive.

Gli invasi sono a metà delle loro capacità

La facoltà di ricorrere ai poteri sostitutivi del Commissario sarà comunque sottoposta a delibera del Consiglio dei ministri. E include, oltre alla «regolazione dei volumi e delle portate degli invasi», «la verifica e il coordinamento dell’adozione, da parte delle regioni, delle misure previste per razionalizzare i consumi ed eliminare gli sprechi, la verifica e il monitoraggio dell’iter autorizzativo dei progetti di gestione degli invasi finalizzati alle operazioni di sghiaiamento e sfangamento». A proposito di sghiaiamento e sfangamento, sempre il presidente di Anbi ricorda: «Attualmente abbiamo invasi al 50 % della loro capacità: sono più i detriti negli invasi che l’acqua: dovrebbero essere portati via in discarica, ma si tratterebbe di una operazione costosissima».

Procedure più snelle

Occorre comunque fare presto. Per una operazione in cui sono coinvolti tutti. Compresi gli Osservatori distrettuali permanenti nominati all’interno delle Autorità di bacino (spetterà a loro controllare l’utilizzo delle risorse) e le Regioni, alle quali spetterà, entro il prossimo 30 settembre, efficientare gli invasi esistenti, liberandoli da fanghi e sedimenti. Ma ciò che contraddistingue il cosiddetto “Decreto siccità” è la presa d’atto che, per realizzare qualcosa, occorrerà snellire gli iter procedurali, come ricordano all’Anbi: «Ciò che salta subito all’occhio, leggendo le prime informazioni sul decreto, è una generale sburocratizzazione da parte del Governo: non possiamo più aspettare mille pareri su come risolvere la situazione del livello dei grandi laghi, quando il lago di Garda è già solo al 30 % del suo riempimento, o il lago Maggiore, altrettanto in sofferenza, si presenta a poco meno della metà del suo livello».

Oltre l’emergenza

Infine, tra una situazione sempre più drammaticamente cronicizzata del fiume Po, la cui portata decresce vistosamente ed è inferiore ai minimi storici e addirittura al più che siccitoso 2022, ed in Umbria il lago Trasimeno ristagna ai livelli più bassi dal 2019, sarebbe forse più corretto non parlare di emergenza siccità: «Non parlerei più di emergenza ma di un problema strutturale: da risolvere nell’arco di dieci anni almeno e programmando un miliardo di investimento di spesa per ciascun anno», spiega Vincenzi, per il quale 10 miliardi non sono assolutamente tanti: «Soltanto nel 2022, il settore agricolo, a causa della siccità e di una mancata programmazione, ha subito danni per 7 miliardi di euro». (Peppe Aquaro, 7/4/2023, da https://www.corriere.it/)

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(autunno 2022 in PAKISTAN: le peggiori inondazioni del secolo. Eventi estremi che si ripeteranno in futuro; foto da https://www.ilfattoquotidiano.it/) – In PAKISTAN la situazione da forti alluvioni (verificatesi nel 2022) è particolarmente grave: un periodo di ondate di calore è stato seguito da cicli di monsoni intensi che hanno provocato inondazioni, causando la morte di oltre mille persone e lasciando milioni di cittadini sfollati

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TECNICHE AGRONOMICHE PER RAZIONALIZZARE L’UTILIZZO DELL’ACQUA IN AGRICOLTURA

di Mariella Pentimalli, da https://abaqua.it/, 11/10/2022

   Alla luce della problematica crescente relativa alle risorse idriche nel mondo, risulta opportuno individuare in tutti i campi delle strategie per custodire quelle disponibili e utilizzarle nel modo più efficace possibile.  Considerato che il 70% dell’acqua potabile viene sfruttata per irrigare i campi coltivati (stando ai dati messi a disposizione dalla FAO nel 2022), occorre individuare e diffondere pratiche agronomiche volte ad ottimizzare il suo impiego in questo ambito. Dato che ogni ambiente di coltivazione ha delle caratteristiche peculiari, tali tecniche vanno scelte e calibrate opportunamente tenendo conto di molteplici fattori che sono interconnessi.

   Prendiamo innanzitutto in esame le conseguenze che ha lo stress idrico sui processi vitali delle piante: quando le piante non trovano nel suolo esplorato dalle loro radici acqua (libera) sufficiente per controbilanciare la traspirazione, entrano in una fase di stasi anabolica, cioè smettono di produrre, avvizziscono e infine disseccano. In base al grado di stress al quale sono sottoposte possono avvenire:

1- Modificazioni anatomiche. Queste sono dovute al fatto che Continua a leggere

PONTE SULLO STRETTO: sogno o incubo? La GRANDE OPERA porterà progresso alla Sicilia e al Sud d’Italia: realtà? vero sviluppo? spreco di risorse? falso obiettivo (e le auspicate autostrade del mare per le merci? il traffico aereo per i passeggeri? i traghetti veloci?) – Con contesti ambientali, progettistici, finanziari assai difficili

(Il Ponte sullo Stretto, come ipotesi di realizzazione, immagine da https://www.fanpage.it/) – Il governo ha approvato il decreto sul Ponte sullo Stretto, che unirà Calabria e Sicilia. Sarà l’infrastruttura sostenuta da cavi più lunga al mondo, con i suoi 3,2 km. Il progetto prevede piloni alti fino a 400 metri e 60,4 metri di larghezza dell’impalcato. Sei le corsie stradali, tre per ogni senso di marcia. Transiteranno 6mila veicoli l’ora. Due i binari per i collegamenti ferroviari, con il passaggio di 200 treni al giorno. Oltre 7 miliardi di euro i costi stimati dell’opera, cinque anni per la realizzazione. (17/3/2023, da Corriere.it)

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(Il progetto per come dovrebbe apparire il ponte sullo Stretto, immagine da https://masterx.iulm.it/)

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PONTE SULLO STRETTO: LA GRANDE INCOMPIUTA D’ITALIA

di IVAN TORNEO, 16/3/2023, da https://masterx.iulm.it/

   Via libera al Decreto per il Ponte sullo Stretto di Messina. Il Consiglio dei Ministri del 16 marzo ha approvato un testo che consente il riavvio del percorso di progettazione e realizzazione del collegamento tra la Sicilia e il resto del Continente. Non è la prima volta che si avviano progetti per la realizzazione dell’opera italiana più attesa di sempre. Si spera che sia l’ultima.

Ecco cosa c’è da sapere sulla travagliata storia del Ponte sullo Stretto.

NASCE IL NUOVO PROGETTO

Rinasce la Società Stretto di Messina, stavolta con una nuova e più moderna governance. È prevista una cospicua partecipazione del Mef e del Mit, a conferma dell’importanza che il governo attribuisce alla possibilità di un collegamento tra Calabria e Sicilia.

   Si ricomincia dal progetto definitivo approvato nel 2011. Esso verrà aggiornato ai nuovi standard tecnici, di sicurezza e ambientali. Con i suoi 3,2 chilometri, si tratterà del ponte strallato più lungo al mondo.

   «È una giornata storica non solo per la Sicilia e la Calabria ma per tutta l’Italia», ha dichiarato il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini. «Dopo 50 anni di chiacchiere questo Consiglio dei ministri approva il Ponte che unisce la Sicilia al resto dell’Italia e all’Europa», ha aggiunto Salvini in un messaggio video al termine del Consiglio dei Ministri. Si tratta di uno dei tanti ambiziosi piani del governo per il Paese. (IVAN TORNEO, 16/3/2023, da https://masterx.iulm.it/)

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“Il Ponte sullo Stretto riceve il via libera dal Consiglio dei Ministri. Con i suoi 3.2 Km sarà l’infrastruttura sostenuta da cavi più lunga al mondo. Se ci abbiamo messo oltre 50 anni ad approvarlo quanti anni saranno necessari per realizzarlo?” Gabriel Debach (17/3/2023) (Immagine e testo da https://twitter.com/GabrielDebach/)

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IL PONTE SULLO STRETTO NELLA STORIA

Sembra quasi assurdo, ma l’unico Ponte sullo Stretto mai realizzato risale all’epoca dei romani. Si trattava di un ponte di barche e botti, secondo la testimonianza di Plinio il Vecchio e Strabone. Il console Lucio Cecilio Metello nel 251 a.C. lo fece costruire per trasportare dalla Sicilia i 140 elefanti da guerra sottratti ai cartaginesi nella battaglia di Palermo.

   Nel 1840 anche il sovrano del Regno delle Due Sicilie, Ferdinando II di Borbone, immaginò la realizzazione del ponte. Il re incaricò un gruppo di architetti e ingegneri dell’epoca di fornirgli idee e progetti concreti per l’edificazione dell’opera. Dopo averne constatata la fattibilità – ben due secoli fa – si racconta che il sovrano preferì rinunciare a causa dei costi dell’opera, insostenibili per le casse del Regno. (IVAN TORNEO, 16/3/2023, da https://masterx.iulm.it/)

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Lo studio dell’ingegner Marco Peroni, secondo il quale il Ponte di Messina resisterebbe senza problemi ai venti e ai sismi. Qualche dubbio sul percorso ferroviario (da https://www.tempostretto.it/)

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REGNO D’ITALIA E PROGETTI MODERNI

Il primo ad esplorare la fattibilità di un collegamento per l’isola nel Regno d’Italia fu il ministro dei Lavori pubblici del governo La Marmora, Stefano Jacini, nel 1866, pochi anni dopo l’unificazione. Da lì inizia la storia infinita di progetti, idee e tentativi di costruzione mai realizzati.

   Ma i primi progetti davvero contemporanei nascono nel 1968. In quell’anno l’Anas indice un concorso d’idee internazionale, il cosiddetto Progetto 80. Tra i vincitori c’è l’ingegnere Sergio Musmeci, che ipotizza un ponte con due piloni alti 600 metri sulla terraferma, per evitare di dover lavorare sul peculiare fondo marino dello stretto: instabile e a forma di “V”. La più grande difficoltà logistica per la realizzazione del ponte. Lo stesso Musmeci non lo considera fattibile. All’epoca non esistevano ancora materiali adatti a garantire la sicurezza per sostenere quei 3 km. Troppe vibrazioni legate al vento, troppa instabilità sul fondale. (IVAN TORNEO, 16/3/2023, da https://masterx.iulm.it/)

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(La nave traghetto Rosalia nello stretto di Messina, foto da WIKIPEDIA) – Attraversiamo lo Stretto di Messina – Reportage sul traghettamento – GeoMagazine.it
(Attraversiamo lo Stretto di Messina – Reportage sul traghettamento – GeoMagazine.it – YouTube )

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QUANTO È COSTATO “NON FARE” IL PONTE

Tra il 1981 e il 1997 l’Italia investe 135 miliardi di lire per ulteriori studi sulla fattibilità. Su progetto a campata unica con Pietro Lunardi ministro delle Infrastrutture, nel 2003, viene aperto un primo cantiere in cui si fa un buco grande come un campo da calcio e profondo 60 metri, utile all’ancoraggio dei cavi. Secondo la Corte dei Conti, Il conto in euro a questo punto è già salito a oltre 130 milioni.

   La Società Stretto di Messina – oggi ricostituita – finisce per essere controllata nel 2007 all’81,84% da Anas e partecipata da Rete ferroviaria italiana (Rfi), Regione Calabria e Sicilia. Con il ritorno a Palazzo Chigi di Prodi il progetto frena, per ripartire due anni dopo con il Berlusconi IV. La questione continua ad animare il dibattito pubblico, tra chi la considera un’opera essenziale e simbolica, e chi parla di altre priorità per la Sicilia. Nel mezzo tutti coloro che temono la struttura sia ancora logisticamente infattibile.

   Nel bilancio del 2013 emerge un debito per gli impianti pari a 1,3 miliardi. Finora di questa somma lo Stato ha versato solo 20 milioni, ma c’è una causa ancora in corso che dovrebbe arrivare a sentenza nel 2023. Ma la cifra è rimasta il simbolo di quanto possa costare sul serio il Ponte: 1,3 miliardi per i soli impianti preparatori.

   Tirando le somme, il conto complessivo di tutti i progetti d’avviamento per l’edificazione del Ponte sullo Stretto di Messina dovrebbe essere di circa 1,2 miliardiIl costo del Ponte per questo nuovo progetto, invece, si aggira intorno ai 6-7 miliardi di euro. (IVAN TORNEO, 16/3/2023, da https://masterx.iulm.it/)

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(foto aerea dello Stretto, da https://www.themapreport.com/) – “(…) Nel 2021 Kyoto Club, Legambiente e Wwf hanno firmato un controdossier per contestare le conclusioni di un gruppo di lavoro incaricato dal governo Conte. Agli esperti era stato chiesto di valutare le possibili alternative per l’attraversamento stabile dello stretto di Messina e la missione è proseguita sotto il governo Draghi. I firmatari del controdossier hanno però contestato l’essenza stessa dei quesiti: secondo loro, agli esperti non sono state chieste le alternative migliori al ponte in termini di costi di realizzazione e manutenzione, tempi, prestazioni, effetti sociali e territoriali, o impatti sulle diverse componenti ambientali, ma solo le alternative tecniche per realizzarlo e basta.   Le tre sigle hanno chiarito che in quel tratto di mare si registra una delle più alte concentrazioni di biodiversità al mondo e che lo stretto rappresenta un importantissimo luogo di transito per l’avifauna. Nel controdossier si ricorda che nel 2005 la Commissione europea si era detta pronta ad aprire una procedura d’infrazione contro l’Italia per violazione della direttiva comunitaria uccelli proprio in relazione al progetto del ponte a unica campata.  Kyoto Club, Legambiente e Wwf hanno anche risvegliato la memoria di uno dei più grandi rimossi storici dell’area, e cioè che la Calabria meridionale (tutta l’area di Reggio Calabria) e la Sicilia Orientale (area del messinese), sono comprese nella zona sismica 1, nel più alto rischio di pericolosità. Rischio che diventò realtà in uno dei terremoti più feroci della storia europea – magnitudo 7,1 – che nel 1908 rase al suolo la città di Messina cambiandone per sempre i connotati e uccidendo 80 mila persone. (…)” (da “IL PONTE SULLO STRETTO SAREBBE UN’ASTRONAVE NEL DESERTO,di Rosa Maria Di Natale, 30/1/2023, da  https://www.internazionale.it/essenziale/)

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QUALI SONO GLI OSTACOLI DEL PONTE SULLO STRETTO?

di Giuseppe Cutano, da https://www.geomagazine.it/, 19/3/2023

   Come un ritornello si torna a parlare di Ponte sullo Stretto. Già i romani si posero il problema di collegare la Sicilia al resto del Continente e loro lo fecero unendo tante barche per fare spostare degli elefanti catturati durante le guerre puniche. Successivamente furono i Borbone a metà ‘800 e si proseguì con l’Unità d’Italia in questa impresa di progettare un collegamento stabile sullo Stretto di Messina.

   Le soluzioni proposte furono tantissime, ma negli ultimi due secoli non si è mai concretizzato nulla. Il sisma del 1908, uno dei più forti della storia d’Italia che causò anche un grande maremoto con 80.000 vittime, fu un elemento che raffreddò gli entusiasmi.

   Di certo l’importante faglia che attraversa lo Stretto fa sì che le due coste si allontanino di qualche mm ogni anno e non è problema da poco. A causa di questa faglia, ne avevamo già parlato su GeoMagazine.it, c’è l’impossibilità di una soluzione via tunnel. La geologia della Manica, al quale spesso si fa erroneamente riferimento, non è minimamente paragonabile alla nostra. Fra tutte le soluzioni quello di un ponte a campata unica sembra quella più realisticamente realizzabile. Piloni dentro le acque dello Stretto non possono essere costruiti per ovvie questioni di profondità (circa 250 m). Ovviamente per fare il progetto si è scelto il tratto più corto dello stretto e la campata sarebbe pari a 3,3 km fra Cannitello, vicino a Villa San Giovanni in Calabria, e i Laghi Ganzirri a punta Peloro sul lato di Messina. 

   Del progetto ponte ne abbiamo parlato in più occasioni e abbiamo anche provato a percorrere lo Stretto con le condizioni attuali e ne abbiamo fatto un reportage.

   Andiamo ora ad analizzare quali ad oggi sono le condizioni oggettivamente ostative per la realizzazione di un attraversamento stabile dello Stretto.

DIFFICOLTA’ TECNICHE

Stando al progetto definitivo, la soluzione a campata unica, è comunque non semplice perché sarebbe comunque il ponte a campata unico più lungo al mondo. Non esistono ponti con tali estensioni. Sentiamo poi anche spesso dire “Ma all’estero fanno anche cose più complesse“, ma dobbiamo rispondere che lo Stretto è una unicità al mondo e dal punto di vista tecnico non è mai stata realizzata nessuna opera simile. Nemmeno in Giappone o nel Nord Europa. Per reggere tutto questo peso e questa “sospensione” sono necessarie due notevoli torri in calcestruzzo alte quasi 400 m (382 m per la precisione).

   Il ponte sarà corredato di cavi d’acciaio per reggere l’impalcato. Dunque le torri terranno i cavi dove verrà appoggiato il piano di transito (doppio binario + 6 corsie stradali). Questo ponte, in gergo tecnico, viene chiamato “ponte strallato”. Queste importanti dimensioni dovranno garantire stabilità durante sismi importanti e anche con il vento. 

   I miti dell’Odissea di Scilla e Cariddi ci possono far immaginare le condizioni dello Stretto. Il vento qui è spesso presente e sostenuto anche perché lo stretto stesso crea l’”effetto Venturi”. La sezione orografica, stringendosi, fa si che il vento aumenti la sua velocità. Dunque dal punto di vista tecnico è una vera e propria scommessa. I tecnici hanno testato i modellini in scala nelle gallerie del vento con risultati positivi, ma il collaudo definitivo si avrà solo a lavori finiti. 

   Anche dal punto di vista realizzativo l’opera non è semplice per la costruzione di queste alte torri e per l’ampia profondità delle fondamenta che devono essere scavate in una geologia molto complessa come quella dell’area dello Stretto. Inoltre gli accessi andranno modificati e ingenti lavori sono previsti per km all’interno dei due lati soprattutto, sul lato siciliano.

   In Calabria l’ammodernamento della autostrada A3, oggi A2, aveva già previsto dei lavori propedeutici. Lato ferroviario è ancora tutto da pensare a da fare e le modifiche dei tracciati, visto che i treni non possono affrontare cambi di pendenza immediati come le rampe di accesso stradale, saranno importanti e si propagheranno all’interno per molti km.

   Dunque i tempi per realizzare il ponte e le opere accessorie, nel progetto del 2003 erano pari a 11 anni, oggi si legge di 7, ma saranno con molta probabilità molto più lunghi anche per la realizzazione di tutte le opere propedeutiche agli accessi soprattutto ferroviari. Per onestà intellettuale basti pensare che per pochi km di Metro a Roma sono trascorsi anche decenni. 

DIFFICOLTA’ AMBIENTALI

Forse non tutti sanno che lo Stretto di Messina è una area protetta riconosciuta a livello europeo. E tutte le opere realizzate all’interno delle aree protette denominate SIC e ZPS della Rete Natura 2000 devono essere approvate a seguito di una Valutazione di Incidenza Ambientale.

   Questa valutazione si preoccupa di analizzare tutti gli effetti in ogni fase del progetto sulla flora e sulla fauna. Nel 2013 la commissione del Ministero diede parere negativo. Spesso, dal punto di vista ambientale, viene però detto che il ponte sarebbe migliorativo in termini di emissioni, perché toglierebbe le navi dallo Stretto che ad oggi sono a combustione.

   Certo che se oggi pensiamo a navi completamente elettriche e ricaricate con rinnovabili questo beneficio in termini di emissioni verrebbe meno. Dunque con degli scenari odierni una valutazione di impatto ambientale andrebbe certamente rivista. Della soluzione di elettrificazione delle navi ne abbiamo parlato in un articolo recentemente.

   Ci sono strumenti però che ha in mano l’esecutivo che come nel caso dell’Aeroporto di Malpensa, ritenuta ai tempi opera strategica, possono andare in deroga a queste analisi ambientali, ma nel 2023 sarebbero certo una forzatura visti i chiari problemi ambientali che stiamo vivendo. Dunque siamo disposti a sacrificare uno dei luoghi di maggior pregio del nostro Paese per questa opera? A voi la risposta.

DIFFICOLTA’ SOCIO-ECONOMICHE

Ad oggi la stima dei costi è pari a 7 miliardi di euro, che in un opera così complessa non è difficile pensare che possa lievitare. La cifra è molto importante, ma non sarà finanziata dall’Unione Europea che non la ritiene una opera prioritaria. Di certo chi si attende che il transito sarà gratuito come l’autostrada A2 oppure a prezzo calmierato si sbaglia.

   Già oggi transitare nei tunnel alpini ha dei costi proibitivi, ma lo è in tutti i ponti europei importanti del Nord Europa. Non è utopia pensare che il transito possa costare oltre i 50 euro. Nonostante queste alte tariffe sembra che non sarà facile rendere l’opera profittevole e il grosso dei costi ricadrà sulla collettività. Facciamo due calcoli “della serva”. Oggi transitano all’anno circa 2 milioni di mezzi sullo Stretto.

   Con il costo che abbiamo ipotizzato avremmo ricavi per 100 milioni l’anno. Senza contare tasse e costi di gestione, con questi numeri, il ponte si ripagherebbe in 70 anni. Per avere i conti in ordine quale azienda finanzierebbe un progetto con un rientro così lungo? I benefici coprono davvero questa cifra ingente? Lo Stato può permetterselo in tempi di crisi economica?

   Nel calcolo precedente abbiamo trascurato i costi di gestione che saranno molto ingenti per via delle notevoli manutenzioni che si dovranno fare. L’ambiente costiero con l’acqua salmastra rende l’aria molto aggressiva per i materiali in acciaio e dunque sarà importante una continua manutenzione e con costi di esercizio annuali importanti.

   Dal punto di vista sociale, essendo evidente la precarietà generale che affligge due regioni come la Calabria e la Sicilia, sprovviste di linee ad alta velocità, con infrastrutture fortemente obsolete e carenti, con una sanità in evidente agonia, è lecito porsi diverse domande. La popolazione locale è disposta ad accettare che i soldi vengano dirottati su questa opera a discapito di altri investimenti importanti per il Sud?

   L’opera dal punto di vista meramente tecnico è sicuramente affascinante e sfidante, i record affascinano tutti, ma certo è che non si può mettere la testa sotto la sabbia trascurando quale sia il contesto. Un quadro molto delicato dal punto di vista ambientale e unico al mondo, tanto che come dicevamo vi sono state istituite diverse aree protette. Inoltre il contesto sociale è molto fragile e i benefici non sembrerebbero essere giustificati per una opera costosa e complessa.

   Viene davvero difficile pensare che questa opera possa spostare le regioni dell’estremo Sud dall’ultime posizioni in Europa per qualità della vita e benessere con un ponte. Qualcuno dirà che non si investe al Sud in favore del Nord e per queste ragioni che il Ponte è mai stato realizzato, ma il Sud invece potrebbe guidare la sua rinascita con progetti più ampi e strutturali.

   Non possiamo poi non rimarcare il fatto che in questi anni, in attesa del fantomatico “ponte”, è stato fatto poco per migliorare la situazione degli attraversamenti. Il nostro reportage parla chiaro. Sicuramente con cifre nettamente inferiori e con tempi rapidi il miglioramento dell’attraversamento poteva essere sicuramente ottimizzato in maniera considerevole.

   Ovviamente se il ponte diviene uno strumento politico diventa difficile giudicare l’opera di per se che però ha oggettivi problemi di varia natura. Chi oggi è all’esecutivo, visti i tempi di realizzazione, non sarà più responsabile un domani durante la costruzione e la messa in esercizio. Di certo, senza sapere ne leggere ne scrivere, se in tutti questi anni l’opera non è mai stata realizzata le difficoltà forse ci sono davvero. (GIUSEPPE CUTANO, da https://www.geomagazine.it/, 19/3/2023)

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(…) Rilanciare i collegamenti – (il controdossier ambientalista contro la costruzione del Ponte) le associazioni Kyoto Club, Legambiente e Wwf sono state durissime: secondo loro la relazione degli esperti incaricati dal ministero delle infrastrutture e della mobilità sostenibile, non è un’analisi comparativa di tutte le possibili alternative al ponte e non fornisce neppure un quadro di insieme sufficiente per la redazione di un documento di fattibilità per altri progetti. Al contrario, tratta le altre possibilità “come se si trattasse di far atterrare un’astronave in un deserto”. Tra i firmatari del controdossier c’è anche MARIA ROSA VITTADINI (nella foto qui sopra), docente emerita dell’università di Venezia, già direttrice generale per la valutazione d’impatto ambientale (Via) del ministero dell’ambiente e presidente della commissione tecnica Via e valutazione ambientale strategica (Vas). “Oggi non esistono le infrastrutture di collegamento che dovrebbero allargare i benefici del ponte al territorio; ci basta questo per dire che manca un quadro di ragionevolezza delle previsioni”, spiega. “Il ponte a tre campate non è fattibile per motivi biologici perché l’impianto dei pilastri che devono sostenerle, si infilerebbe in strutture biomorfologiche in movimento, non affidabili. Può darsi che optino per questa soluzione, ma manca il progetto preliminare e il percorso dovrebbe ripartire daccapo. Il ponte a campata unica è invece di per sé troppo instabile e costoso, nonché lontano dai centri dove converge il traffico”. (…) (da “IL PONTE SULLO STRETTO SAREBBE UN’ASTRONAVE NEL DESERTO,di Rosa Maria Di Natale, 30/1/2023, da  https://www.internazionale.it/essenziale/)

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LA STORIA INFINITA DEL PONTE SULLO STRETTO*

di Carlo Scarpa, 17/03/2023, da https://lavoce.info/

*Articolo pubblicato originariamente il 24 gennaio 2023

   Quasi a ogni cambio di governo l’idea del Ponte sullo stretto di Messina viene riesumata o accantonata. Andrebbe presa una decisione definitiva. Ed è una decisione politica, perché sotto il profilo economico è difficile valutare se l’opera conviene o meno

   “Salvo intese” il Ponte sullo Stretto si farà. Ovvero: se non ci ripensiamo, andiamo avanti. Pur con questa formula bizzarra, il Governo ha comunque deciso di fare un altro passo avanti. Il vero punto interrogativo è se dietro questa formula politicamente tiepida vi sia una volontà politica effettiva. Perché il progetto sembra ormai inarrestabile.

   Si tratterà di capire se per aggiornare il progetto basta un anno e mezzo o se servirà una proroga. Ma è un dettaglio. Anche perché si sta lavorando alla Alta Velocità fino a Reggio Calabria, si investono miliardi per le ferrovie siciliane. Il Ponte rischia di essere un dettaglio. Fin quando i soldi non finiscano.

   Il tema del Ponte sullo stretto di Messina torna periodicamente alla ribalta e conviene quindi capirne le origini e il senso. L’idea è secolare, il progetto supera i cinquanta anni. Con un dibattito infinito tra chi lo considera un sogno, chi un incubo.

   Nel dicembre 1971 viene approvata la legge 1158/1971 “Collegamento viario e ferroviario fra la Sicilia ed il continente”, che prevede la costituzione di una Spa incaricata “dello studio, della progettazione e della costruzione, nonché dell’esercizio del solo collegamento viario” (la ferrovia, era affidata alle ferrovie dello stato). La Stretto di Messina Spa doveva essere istituita a cura di Anas, delle regioni Calabria e Sicilia, ciò che è avvenuto solo nel 1981. Dopo alcuni riassetti, dal 2013 la società è in liquidazione.

   La liquidazione di un’impresa non è cosa semplice e spesso ci vogliono anni per chiudere effettivamente tutte le partite in corso (crediti, debiti, contenziosi legali e così via). Ma dieci anni sono comunque tanti e riflettono il fatto che sulla scena politica si sono confrontate diverse posizioni, con il susseguirsi di varie fasi di stop and go. Così la Spa è ancora lì, pronta a riprendere le operazioni alla bisogna.

L’iter del progetto e i costi

Il progetto preliminare del ponte fu approvato dal Cipe il 1° agosto 2003, pur con alcune prescrizioni e raccomandazioni. La stima dei costi al 2006 era di poco meno di 4 miliardi di euro (tra progettazione ed esecuzione), somma determinata dopo regolare gara con un general contractor (un’Ati – associazione temporanea di imprese – capitanata da Impregilo, oggi parte di Webuild).

   Il contratto non fu però approvato dal governo Prodi nel 2006, mentre fu invece confermato dal governo Berlusconi nel 2008, con il conseguente aggiornamento del piano economico e finanziario, il rifinanziamento dell’intera operazione e l’introduzione di una serie di condizioni che nel 2016 la Corte dei conti definiva “in favore delle parti private”. Dati i ritardi per i lavori, il contractor cominciò ad avanzare pretese (tecnicamente “riserve”) che condussero a una transazione conclusa nell’ottobre 2009; all’epoca il costo complessivo (inclusi oneri finanziari, a quanto si capisce) risultava pari a 6,3 miliardi. Il progetto definitivo è poi stato approvato nel luglio 2011 da un nuovo governo Berlusconi, sulla base del preliminare del 2003.

   Purtroppo (per il ponte), quattro mesi dopo, il governo cambiò e il successivo esecutivo Monti espresse forti dubbi sul progetto, di fatto annunciandone l’affossamento. Per limitare i danni da pagare ai privati nel caso di mancata esecuzione fu approvato uno specifico decreto (il Dl 187 del 2012), che però non ha impedito il successivo contenzioso, né la liquidazione della società.

   Cosa abbiamo già pagato? La Corte dei conti al 2013 quantificava i costi già sostenuti in oltre 300 milioni (di allora). Purtroppo, è facile prevedere come le analisi e i progetti effettuati siano ormai obsoleti. Nessuno costruirebbe oggi qualcosa di importante sulla base di analisi di venti anni fa, su una situazione di fatto che potrebbe essere cambiata. Quindi, se anche si ripartisse, è facile pensare che si dovrebbe riiniziare più o meno da zero, come si intuisce anche da quanto scriveva nel 2021 il Gruppo di lavoro del ministero delle Infrastrutture.

   Ma non basta. Sono ancora pendenti i pesanti contenziosi con le imprese che si sono aggiudicate il progetto. Qualcuno ha già conteggiato le richieste tra i costi del progetto, anche se la questione sarà definita al termine di un procedimento assai intricato. Se poi si decidesse davvero di costruire il Ponte, è possibile che i contenziosi vengano in qualche modo composti all’interno del nuovo progetto.

   Quanto ai costi futuri (ed eventuali) per costruire il Ponte, un conto serio aggiornato non è pubblicamente disponibile, e soprattutto andrebbe rivisto insieme al progetto, considerando i costi attuali delle costruzioni, che sono esplosi. Sul sito di Webuild si parla di un costo complessivo di oltre 7 miliardi; a me pare ottimistico, ma vedremo… Nel frattempo, a gennaio 2022, il ministero ha avviato un nuovo progetto di fattibilità; con quali ulteriori costi, non so dire.

   Occorre poi considerare i rischi. Secondo un recente studio congiunto italo-tedesco, quello sismico si conferma elevato. Ovviamente, ci sarebbero anche significativi rischi ambientali, come per qualunque opera di queste dimensioni. Tutti temi da considerare seriamente, ma che difficilmente bloccherebbero il progetto, se i benefici ci fossero davvero.

Servirebbe? E quali sarebbero i benefici?

Quali potrebbero essere, allora, i benefici? Questa è la vera domanda. E la risposta è tutt’altro che semplice. Fin quando un’opera non viene completata, alcuni costi si materializzano, mentre i benefici sono solo aspettative. E anche i costi futuri sono molto più prevedibili dei benefici. Ciò premesso, l’unica analisi costi-benefici proposta (non dai proponenti – sarebbe chiedere troppo?) conduce a risultati negativi, con costi superiori ai benefici attesi, che sono computati considerando il risparmio nei tempi di trasporto.

   Basta questo? Con tutta la simpatia per queste analisi, dobbiamo però ammettere che con un progetto che cambierebbe radicalmente e strutturalmente il territorio, per arrivare a una risposta definitiva occorrerebbe poco meno di una sfera magica, e anche l’analisi costi-benefici aiuta fino a un certo punto. Perché molti parametri fatichiamo a valutarli.

   È vero che il risparmio di tempo tra un ponte e i traghetti attuali non sarebbe colossale. Ma come valutiamo la flessibilità garantita dal non dipendere dai traghetti? Si è al sicuro da mare grosso, guasti, disorganizzazione dei porti, scioperi. Non si dipende dagli orari dei traghetti. Sotto questo profilo, la Sicilia quasi cesserebbe di essere un’isola. Qual è il valore di questo e a quanto traffico condurrebbe?   Francamente, non lo so, e temo nessuno riesca veramente a prevederlo.

   I sostenitori del progetto sottolineano poi come connettere un’isola al continente abbia una valenza politica importantissima di tutela della continuità territoriale. Se si concorda che la vicinanza non la si misura in chilometri, ma in tempi di percorrenza e nella loro prevedibilità, allora il ponte avvicina. Quanto pesa questo fattore? È evidente come diverse persone possano avere sensibilità differenti, ma archiviare la questione come irrilevante sarebbe superficiale.

   La risposta sulla desiderabilità di questa opera passa quindi attraverso questioni alle quali non credo esistano risposte univoche. È una di quelle opere, in cui si deve riaffermare il primato della Politica (con la “P” maiuscola), sperando che la decisione ultima giunga all’esito di un dibattito aperto, rigoroso, informato e senza pregiudizi.

   Cosa succederà? Difficile fare previsioni. Dati i tempi anche solo di approvazione e avvio di opere come questa, se continuiamo ad avere un governo che vuole il Ponte, e quello successivo che lo accantona, continueremo anche ad avere costi di progettazione e di contenzioso senza fine. E nessun ponte. (Carlo Scarpa, 17/03/2023, da https://lavoce.info/)

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(AUTOSTRADE DEL MARE, immagine da https://www.logisticamente.it/) – “(…) Come sostenuto da Marco Ponti, docente di economia dei trasporti al Politecnico di Milano, e Andrea Boitani, docente di economia politica all’Università Cattolica di Milano sul sito di analisi economiche “La voce”, “Il traffico previsto per il ponte (…) anche nelle ipotesi più favorevoli, è modesto: il traffico “interurbano” di breve distanza (tra Messina e Reggio) sarebbe più rapido con un sistema di traghetti veloci; il traffico merci di lunga distanza ha nelle “autostrade del mare” un concorrente molto più economico, e il traffico passeggeri di lunga distanza viaggia già in gran parte in aereo. Al crescere del reddito (e al decrescere delle tariffe aeree, grazie all’auspicabile sviluppo della concorrenza) il traffico di superficie si ridurrà nonostante il ponte”. (da https://ifg.uniurb.it/)
“(…) In sostanza, per far viaggiare le merci su distanze superiori a 500 – 700 km (Ragusa e Milano, ad esempio, distano 1.400 km) il trasporto su gomma perde la sua convenienza a favore di altre possibilità come quelle offerte dall’alternativa multimodale. Con le autostrade del mare, come la linea già esistente Messina – Salerno, ad esempio, c’è la possibilità di imbarcare i camion sulle navi facendo riposare l’autista, senza rischio di incidenti e senza inquinamento. Per alcune realtà economiche siciliane, ad esempio il settore delle primizie che vengono prodotte nel ragusano, il ponte non avrebbe alcuna utilità, perché i prodotti ortofrutticoli di pregio devono arrivare sui mercati (come quello di Milano) in tempi rapidi. Per questo a Ragusa si sta trasformando l’ex aeroporto militare di Comiso in uno scalo merci. Discorso simile può valere per il traffico passeggeri: un milanese o un tedesco che decidono di passare le vacanze in Sicilia o devono venirci per lavoro, difficilmente sceglieranno di viaggiare in macchina o in treno se hanno la possibilità – anche grazie all’abbassamento delle tariffe che si è verificato negli ultimi anni – di prendere un aereo. (…)” (da https://ifg.uniurb.it/)

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I POSSIBILISTI (FAVOREVOLI) (con soluzioni tecniche)

“IL PROGETTO DEL PONTE DI MESSINA MODELLO PER ALTRI PONTI. MA SI PUÒ ANCORA MIGLIORARE”

da https://www.tempostretto.it/ 2/1/2023

   Il ponte sullo Stretto di Messina quando e se verrà realizzato, sarà un’opera straordinaria, frutto di decenni di ricerche e progetti, man mano modificati e migliorati per raggiungere un elevato standard di servizio e costruzione.

   Tutte le soluzioni di attraversamento sono state vagliate, ciascuna con i suoi pro e contro, e alla fine ha prevalso quella di un attraversamento aereo a una singola campata, con le torri disposte a terra sul continente e sull’isola sicula.

   Riguardo ai livelli di sicurezza, si è scelto di adottare “periodi di ritorno” estremamente elevati sia per gli stati limite di servizio (deformazione e percorribilità) – portati a duecento anni – sia per le azioni più rilevanti sul ponte (vento e sisma), di cui sono stimati duemila anni come periodo di ritorno.

   Il tracciato dell’attraversamento è stato studiato con più varianti possibili nella zona di minor distanza tra la Sicilia e il continente, valutando opzioni diverse tra Continua a leggere