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L’alluvione del Polesine del novembre 1951 fu un evento catastrofico che colpì gran parte del territorio della provincia di Rovigo (e in parte la provincia di Venezia), causando centouno vittime: e tra queste accertate, ben 84 tra bambini, donne, anziani che morirono insieme sul “camion della morte”, un veicolo di soccorso che fu inghiottito dalle acque all’altezza del comune di Frassinelle con il suo carico di fuggiaschi.
In tutto 101 vittime dell’alluvione paradossalmente (e tragicamente) possono apparire anche poche se si va a considerare la vastità della distruzione: che portarono a più di 180.000 senzatetto, con conseguenze sociali ed economiche disastrose per un territorio già di per sé povero. I polesani in quella prima metà del ‘900 erano protagonisti di alti livelli di emigrazione, che diventarono ben più consistenti con i disastri della grande alluvione del ’51: con questo tragico evento oltre 100.000 polesani emigrarono verso le regioni industrializzate e il nord Europa alla ricerca di fortuna e di lavoro.
Ne parliamo (scriviamo) qui per innanzitutto come rispetto e memoria di questa tragedia nel suo settantesimo anniversario dal novembre 1951; ma anche per parlare di questa meravigliosa terra che è il Polesine, atipica, diversa da tutte le altre del Veneto e del Nordest. Che è sempre apparsa marginale rispetto ad altre aree più “all’attenzione mediatica” nel Veneto (Venezia, Vicenza e la sua economia, la montagna bellunese, Treviso, Verona snodo con il Nord Europa…); ma di Rovigo e il Polesine si parlava (si parla) molto meno (almeno questo a noi sembra).
In effetti, pur in un’economia che ha scontato difficoltà ad affermarsi nei decenni, ora appare che ci può essere un recupero sostanzioso di un Polesine visto come terra e ambiente così straordinario e unico. Non è solo, guardando all’economia, il risultato economico positivo durante il Covid nel 2020 di Rovigo (+490 milioni di esportazioni rispetto all’anno prima), meglio di tutte le altre parti del Veneto, derivante essenzialmente dal commercio di medicinali e preparati farmaceutici.
O del riso coltivato nel Delta del Po, o dell’ortofrutta prodotta abbondantemente (come l’insalata di Lusia), l’aglio bianco, il melone, il miele, la zucca….. E l’industria di trasformazione agroalimentare di questi stessi prodotti. E poi la vongola, l’ostrica, i molluschi allevati a Porto Tolle (esempi si possono vedere nella Sacca degli Scardovari nel Parco del Delta del Po). E poi il mantenimento e crescita della coltivazione della barbabietola (con forte aumento del biologico) e la produzione di zucchero.
L’essenza di un “nuovo Polesine” non è solo data da questi prodotti, ma anche dal fatto che una sua certa marginalità al giorno d’oggi (che peraltro va sempre più scemando), può apparire l’essenza originale di un territorio di notevole interesse per nuove esperienze di sviluppo in tutti i campi, tecnologici, della formazione culturale (l’Università a Rovigo…); sia poi nell’agricoltura che nel turismo. Del vivere bene in una terra che sta ben recuperando (in meglio, con minor sentore di alcune delle distorsioni della crescita confusa delle altre provincie venete); un trend di sviluppo che lo può portare (il Polesine) ad essere in poco tempo come l’esperienza di progresso più interessante di tutto il Nordest.
E’ così che dalla memoria di una immane tragedia e sofferenza dei polesani, con la disastrosa alluvione di settant’anni fa, ci stiamo accorgendo tutti che da quella terra ricca di paesaggi meravigliosi, abbiamo molto da andare a conoscere, imparare, nel suo modo di essere e di esprimersi, in particolare per quella transizione ecologica che stiamo tutti cercando. (s.m.)
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VI RICORDATE DEL POLESINE?
di Brunella Giovara, da “il VENERDÌ” de “la Repubblica” del 22/10/2021
– Settant’anni dopo la prima grande alluvione, questa terra nata povera è oggi diventata ricca. Un miracolo? “No, abbiamo soltanto trasformato la sfortuna in opportunità” –
ROVIGO – Sull’argine, nessuno. Chilometri di argine, da Porto Viro ad Adria, una sera di ottobre, se si apre il finestrino entra l’odore della laguna. Ma la gente dov’è? Nel buio, poche luci lontane, eppure ci sono dei paesi là sotto, per strada solo nutrie grasse, più nutrie che persone, in Polesine, sicuro.
Il buio è lo stesso di 70 anni fa, quando nel Delta arrivò la grande acqua, piovve undici giorni e il vento era scirocco. Nella memoria, Polesine significa ancora alluvione, la prima del 1951, poi nel ’57, nel ’60, nel ’66. Era la malora, non si faceva in tempo a rimettersi in piedi che arrivava un’altra piena e si ripartiva da capo. Emigrarono in 80 mila, uno su tre. Qualcuno tornò, e questo spiega i paesi vuoti, le case abbandonate nella pianura enorme che di notte mette paura. Piatta, buia, è stata una terra di carestia, la “Cenerentola del Veneto. Poi è arrivato il riscatto. Il salto di qualità. Negli anni Duemila il Pil era già arrivato al livello di quello regionale”, dice Francesco Jori, studioso, curatore della mostra inaugurata a Rovigo il 23 ottobre.
Cinquant’anni, ci hanno messo. Quest’area mista di acqua dolce e salata, campi e ponti, canali che si intrecciano, idrovore, è stata il meridione del Veneto, i parenti poveri costretti ad andarsene. Migranti climatici, li si direbbe oggi. La loro terra non c’era più, migliaia di animali annegati nelle stalle, i contadini piangevano perché non potevano salvarli, una foto mostra le vacche con il muso a pelo dell’acqua, gli occhi impazziti dalla paura.
Nel racconto di una contadina che abbandonò la casa di Donada il 17 novembre 1951, c’è quella stessa disperazione grande. “Nessuno sparecchiò”, tutti corsero verso il punto di raccolta. A gennaio lei tornò, la barca accostò alla finestra del primo piano: entrò in camera da letto, era in ordine come l’aveva lasciata. Si affacciò sul vano scala e vide l’acqua nera, ferma, che copriva il sotto. Così per chilometri, l’acqua sommerse tutto. Ci furono relativamente pochi morti, data la vastità della distruzione. Centouno vittime, quelle accertate. Di queste, 84 tra bambini, donne, anziani, morirono insieme sul “camion della morte”, scrissero i giornali. Scappavano da un’acqua cattiva, ma l’autista non era del posto, sbagliò direzione. Li hanno seppelliti a Frassinelle, e sono ancora lì.
“La prima semina della barbabietola fu nel ’52, ma il raccolto andò male. Le barbabietole avevano il “bisso nero”, una malattia. Geremia Gennari aveva dieci anni, ricorda bene i dettagli, il Po che cresceva e suo padre che diceva: “Sarà come quando i tedeschi nella ritirata hanno tagliato gli argini. Si riempiranno i fossi…”. Poi si spostarono in paese, poi portarono il bestiame sull’argine, poi attraversarono in barca il canale e si ritrovarono sfollati in Emilia.
GRANDI OPERE E TRIVELLE
Dopo Gennari studiò, entrò in politica, fece l’amministratore, fu dirigente della Coldiretti, vide da vicino il boom del Veneto dei Sessanta, e anche quello più lento dei suoi paesi. Lo Stato fece grandi opere, come la Transpolesana, e mise tre miliardi di lire per rinforzare gli argini, su terre che sono 3-4 metri sotto il livello del mare, come l’Olanda. Ci fu la riforma agraria, i poderi e le nuove vacche concessi alle famiglie, le case popolari, l’interporto di Rovigo, la centrale elettrica. “Ci fu la tenacia della popolazione, e un’onda di crescita”, un’onda buona, infine.
Marco Gottardi, funzionario del Parco del Delta del Po veneto, ente che sta conducendo una battaglia contro il progetto delle trivelle per estrarre il gas dal mare, contro il rischio concreto di un ulteriore abbassamento della terra, conosce le onde buone e quelle cattive. Il padre emigrato a Torino, lui nato lì nel ’59, quartiere Pellerina: “Mio padre aveva nostalgia, voleva morire a casa. Tornammo nel ’66, e non c’era neanche l’acqua potabile”.
Quando l’acqua si ritirò, e ci vollero mesi di bonifica, la terra fu da subito fertile, ricca di minerali e sostanza organica. Lì si è impiantata una delle chiavi del successo del Polesine moderno. L’agricoltura, la barbabietola per gli zuccherifici che si stavano costruendo, poi le colture di qualità, la ricerca dell’eccellenza ovvero dei marchi Dop e Igp, che sono il riso del Delta (su novemila ettari), l’insalata di Lusia, l’aglio bianco, il melone, il miele, la zucca. Oggi ci sono stabilimenti dove si fa la “quarta gamma”, si imbusta, si mette sottovuoto l’ortofrutta e si spedisce alle catene dei supermercati, e all’estero. Tutto fresco, da questi campi asciugati dall’acqua, è stata un’impresa epica e anche biblica, si racconta ancora di una mamma che mise il figlio neonato in un cesto e lo affidò alla corrente, perché almeno lui si salvasse. Non si è mai capito se è successo davvero, o se è una di quelle leggende che nascono nella paura.
OSTRICHE E COMPUTER
“Soffre di vertigini? No? Allora mi segua” Si sale sulla torre Donà, che è il grattacielo di Rovigo, seguendo il sindaco Edoardo Gaffeo, 54 anni, docente di Politica economica a Trento. La torre è medievale, è il simbolo della città, restaurata con una struttura di scale, 17 rampe da 17 scalini, si sale nel vuoto e infine si guarda sotto. Da una parte il Po, dall’altra l’Adige, in fondo c’è il mare. Una provincia piccola, “230 mila abitanti, territorio tra i più anziani d’Italia”.
Però c’è l’università, partita vent’anni fa con le sedi distaccate di Padova e Ferrara, duemila studenti che possono studiare qui invece di andare a Padova e a Ferrara, e “adesso si inaugura il corso di laurea magistrale in inglese, in Ingegneria idraulica: si comincia con cinquanta studenti, tutti stranieri”, evidentemente all’estero sanno che la materia è di casa, “e poi serve una narrazione legata all’acqua, ma in chiave positiva e moderna”.
Il ricordo, certo, poi il futuro “su un territorio che dal punto di vista idrogeologico è il più sicuro del Nord Italia”, adesso. Gaffeo pensa che qui “si è trasformata la sfortuna in opportunità”, poi c’è ancora così tanto da fare: “Una delle chiavi di volta di città così piccole è la cultura, la possibilità di formarsi e il potenziamento di quello che c’è, il teatro, il conservatorio e le grandi mostre, il turismo culturale ma che l’Innovation Lab”, che è poi il vecchio liceo trasformato in palestra digitale, con i laboratori per il co-learning, co-working, co-design. I corsi per i bambini che imparano a programmare, e per i nonni analfabeti digitali, alle prese con il computer o la macchina a taglio laser. “Siamo una terra storica di emigrazione, perciò bisogna lavorare perché i giovani restino, per scelta”.
Poi, c’è la vongola. Anche l’ostrica, che qui è rosa. Gli impianti in laguna, la mattina gli allevatori vanno a raccogliere, ed è tutto oro. Il distretto con base a Porto Tolle è cresciuto specializzandosi nei molluschi, e con i colleghi veneziani ne produce tonnellate, per milioni di euro. A Scardovari, nella cavàna di Alessio Greguoldo, si incollano le ostriche sul filo, poi si appendono in acqua, “sono l’unico a usare energia rinnovabile, con pannelli fotovoltaici e l’eolico”, altri seguiranno. Le sue ostriche finiscono nella cucine dei grandi chef, “e il futuro è nel territorio, nel prodotto di qualità, e in una vita di qualità. E come vede, noi viviamo già in un quadro”. La laguna manda lampi metallici, c’è una grande quiete, e ci sono anche le barche della vigilanza per evitare furti di molluschi.
DA BERGANTINO A CONEY ISLAND
C’è un altro distretto importante, ed è quello della giostra. Nato nel dopoguerra a Bergantino, “dai meccanici di biciclette che dovevano campare” racconta l’imprenditore Giorgio Cuoghi davanti allo spritz. Un genio delle luci, sono sue quelle che illuminano Coney Island. Settanta imprese, 500 addetti, costruiscono ruote panoramiche e altre attrazioni gigantesche che esportano nel mondo, e anzi sono i primi nel mondo, avendo resistito all’alluvione, essendosi specializzati nella lavorazione del legno e delle resine. “Mio padre era meccanico, montava gli abbeveratoi nelle stalle. Siamo una categoria di spiriti liberi, di inventori che volevano correre, volevano una vita diversa”.
Nati in povertà, via dalla povertà, ma lasciando le radici tra la terra e l’acqua, dove adesso c’è il grande Parco di dune e boschi, ora Mab Unesco. Moreno Gasparini, presidente del Parco: “Un milione centomila visitatori, quest’anno. Il nuovo turismo è eco, è slow, è fatto di bici, grandi spazi, archeologia, cultura, il Po”. Poi, come dice Gottardi, “per noi il fiume è sempre stato la casa”, persino quando era cattivo. (Brunella Giovara, da “il VENERDÌ” de “la Repubblica” del 22/10/2021)
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POLESINE, L’ALLUVIONE DEL 1951: UN TESTIMONE RACCONTA LA FUGA, LA PAURA E IL ROMBO DEL FIUME CHE INGHIOTTE TUTTO
di Enzo Fusaro (testo raccolto da Monica Fusaro),
da https://www.ilgazzettino.it/nordest/ del 13/10/2021
Si avvicina il settantesimo anniversario dell’alluvione del Polesine del novembre 1951 e ogni anno per me è alquanto doloroso rivivere quei momenti di panico e impotenza, di cui sono stato testimone con i miei increduli occhi di bambino di otto anni. So che si moltiplicano le intenzioni di tramandare la memoria di quanto avvenuto quella tragica notte con eventi e manifestazioni, quindi ho chiesto a mia figlia di aiutarmi a scrivere per rendermi disponibile al racconto, in modo da tramandare il ricordo di quanto siamo piccoli di fronte alla natura e passare il messaggio che per quel che ciascuno può, bisogna cercare di aiutarla, non ostacolarla o distruggerla, questa benedetta natura.
Mi commuovo ancora mentre racconto, sarà l’età che rende più sensibili, sarà anche che le tragedie lasciano segni indelebili che nessun lasso di tempo può cancellare. Ricordo l’arrivo repentino di mio nonno, col viso trasfigurato dalla paura, temendo di non arrivare sufficientemente presto: se avesse tardato, saremmo stati travolti tutti dalla furia del fiume, quello stesso fiume che tante volte aveva accompagnato i miei giochi di bambino. Egli arrivò in tempo, fortunatamente, ci svegliò bruscamente, erano circa le 21 di una serata qualunque, il nonno mi strappò dai miei sogni, urlava: «Presto, alzatevi! Vestitevi! Il Po ha rotto gli argini, dobbiamo scappare!».
Così ci trascinammo fuori dai nostri poveri giacigli, corremmo a raccogliere qualche coperta e del cibo, io non capivo niente di ciò che stava accadendo, sentivo solo che non andava bene, che c’era un grosso problema e ascoltavo la paura crescere e piano piano, trasformarsi in panico. Cercavo mia sorella Gabriella con lo sguardo, lei è sempre stata un riferimento per me, lo è anche ora che siamo anziani e di vita ne abbiamo vissuta tanta entrambi. Cercavo lei e speravo di cogliere un bagliore di speranza nei suoi occhi, un segno che mi tranquillizzasse. Ma lei era tutta intenta a raccogliere i documenti: mamma aveva distribuito i compiti tra lei e mio fratello maggiore, Vanni. Gabriella si sarebbe occupata dei documenti e Vanni di raccattare del cibo, panbiscotto soprattutto, non c’era molta scelta. Mia madre, Renza Ravarra, nel frattempo, svegliò mio fratello Luigino, il più piccolo, ferito a una mano, lo vestì e lo prese in braccio nonostante fosse incinta del sesto figlio. Mio nonno Antonio Fusaro cercò una lanterna a petrolio, mia nonna, Marietta Parpaiola, qualche coperta. Mio padre purtroppo non era con noi, la sua assenza in quel momento sembrava un macigno a tutti noi, ma stava lavorando a Milano.
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E io? Anche io avevo ricevuto un compito, allora pensai di essere grande, qualunque cosa volesse dire quella frase, essere grande. Io avrei dovuto prendere per mano mio fratello Rossano di sei anni e tenerlo stretto. Avevo la responsabilità di un altro essere umano, credo di essere cresciuto in quel momento, con quella consapevolezza.
Dunque ci avviammo correndo verso il palazzone, un condominio alto tre piani, che svettava nella nostra campagna fatta di case isolate, basse e tutte uguali. Si trovava a circa un chilometro da casa nostra e noi corremmo lungo quella strada buia, facendo attenzione a non cadere nel fosso. Non c’era nemmeno più il tempo di avere paura, dovevamo essere più veloci del fiume per salvarci.
Sentivo la voce dei nonni che gridavano: «’tenti putei, a no cascare!», poi sentivi che si offrivano di dare il cambio a mia madre che teneva in braccio il piccolo Luigino, ma lei no, non voleva lasciare il suo cucciolo nemmeno un attimo.
In lontananza si udiva il ruggire delle onde, sempre più vicino. Arrivammo in prossimità del palazzone e iniziammo a gridare che eravamo noi, i Fusaro, che ci aprissero, per l’amor di Dio! Allora vedemmo due uomini venirci incontro, furono molto buoni, aiutarono mia madre con Luigino, presero per mano anche noi bambini e via, su per le scale dell’alto edificio, fino al terzo piano, l’ultimo. Ora il pensiero di quel che stava accadendo tornò prepotente: eravamo protagonisti di una disgrazia.
Il rumore delle onde si faceva sempre più forte e sempre più vicino, con esso cresceva anche la paura. Ci sdraiammo su giacigli di fortuna insieme ad altri sfollati, grazie agli abitanti di quel terzo piano che ci avevano accolto, provammo a riprenderci dalla fatica della corsa, ma non avemmo nemmeno il tempo di riposare: ecco il boato, ecco l’acqua e il fango che colpirono il palazzone, che per fortuna resse. L’edificio tremò, noi pregammo che resistesse alla furia del fiume, e Dio ce la mandò buona: quel mostro di cemento fu più forte della natura a rimase in piedi, per il momento eravamo salvi, ma l’acqua arrivò a quattro metri e mezzo. (Enzo Fusaro, testo raccolto da Monica Fusaro)
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POLESINE, NOVEMBRE 1951: LA TRAGEDIA DEL “CAMION DELLA MORTE”. IL POLESINE SCOMPARE SOTT’ACQUA
di Nicola Cappello, da https://www.ilgiornaledelpo.it/
La mattina di quel mercoledì 14 novembre 1951, le scuole di Occhiobello, in provincia di Rovigo, rimasero chiuse. La piena del Po si stava avvicinando, la popolazione era nervosa e nessuno si sentiva al sicuro. Quel giorno tutti lo passarono a sistemare bestie e averi, portandoli ai piani superiori degli edifici. Aveva piovuto tanto in quel periodo e in tutto il Nord Italia, aumentando il livello dell’acqua degli affluenti e dell’asta principale del fiume, mentre un vento di scirocco impediva al mare di ricevere, creando una miscela che da lì a poco avrebbe scatenato la forza del fiume sulla popolazione.
Già nel primo pomeriggio intere famiglie si industriavano, chi per proteggere le cose, chi per cercare riparo, mentre Continua a leggere