PFAS IN VENETO (e anche in Lombardia, e in tanti Paesi…) – Si risolverà mai il problema dell’inquinamento delle acque dato dalle sostanze perfluoroalchiliche (PFAS)? …causa di malattie gravi…. (e la Regione Veneto ha rinunciato a una indagine epidemiologica per capire gli effetti sulla salute di più di 100mila suoi cittadini esposti)

(PERICOLO PFAS, manifestazione in Regione Veneto di GREENPEACE) – I PFAS sono sostanze chimiche persistenti e difficilmente degradabili, che tendono ad accumularsi nell’ambiente e nei tessuti degli organismi. Per sette anni la Regione Veneto ha lasciato in sospeso, “per ragioni di approfondimenti di natura economica-finanziaria”, l’effettuazione dell’indagine epidemiologica per valutare gli effetti sulla popolazione delle province di VicenzaPadova e Verona, interessate all’inquinamento da sostanze perfluoroalchiliche (appunto i PFAS).
Sin dalla loro introduzione sul mercato globale a partire dalla metà del secolo scorso, i PFAS hanno trovato un massiccio impiego perché conferiscono proprietà idro- e oleo-repellenti. Queste sostanze sono utilizzate per la loro capacità di respingere sia i grassi che l’acqua, per le loro proprietà ignifughe, per la loro elevata stabilità e resistenza alle alte temperature, grazie al loro legame carbonio-fluoro.
Oggi però, nella maggior parte dei trattamenti in cui i PFAS vengono impiegati esistono alternative più sicure.
I PFAS trovano un massiccio impiego in una vasta gamma di applicazioni industriali e prodotti di largo consumo, tra cui:
– imballaggi alimentari, padelle antiaderenti, filo interdentale, carta forno, farmaci, dispositivi medici, cosmetici;
– capi di abbigliamento, prodotti tessili e di arredamento, capi in pelle;
– nell’industria galvanica (in particolare cromatura), scioline, cosmetici, gas refrigeranti, nell’industria elettronica e dei semiconduttori, nell’attività estrattiva dei combustibili fossili, in alcune applicazioni dell’industria della gomma e della plastica, nelle cartiere, nei lubrificanti, nei trattamenti anticorrosione, nelle vernici, in prodotti per l’igiene e la pulizia e nelle schiume antincendio.

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COSA SONO I PFAS? – da http://scienzamateria.blog.tiscali.it/?doing_wp_cron – Una famiglia di COMPOSTI CHIMICI POLI E PERFLUORATI UTILIZZATI IN MOLTI SETTORI INDUSTRIALI, soprattutto per la produzione di materiali resistenti ai grassi e all’acqua. Sono molecole caratterizzate da un forte legame tra fluoro e carbonio che le rende difficilmente degradabili, perciò SI ACCUMULANO NELL’AMBIENTE E POSSONO FACILMENTE PASSARE NEI VIVENTI interferendo anche in modo grave con il loro metabolismo

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(Poscola a Trissino in Via Pianeta, foto da Wikipedia) – Il torrente Poscola è un corso d’acqua della provincia di Vicenza. Nasce a Priabona di Monte di Malo, da una piccola grotta. Scorre inoltre a Castelgomberto, Trissino sfociando a Montecchio Maggiore nel fiume Guà. (da Wikipedia)

POSCOLE, PASSATO E PRESENTE. TESTIMONIANZE DI UNA VIOLENZA AMBIENTALE SENZA PRECEDENTI. TRA SPECULAZIONE E PFBA. I NUOVI DATI ARPAV

di SERGIO FORTUNA, 18/10/2023, da https://pfas.land/

La questione delle Poscole ci è sempre stata a cuore perché era un luogo bellissimo. La Poscola nasce in una grotta di acqua freschissima e chiarissima al Passo di Priabona e poi scende dalle creste del Pulgo e dei Campi Piani del Faedo per risorgere sulla Praderia. Tanto era bello, importante, unico, questo luogo baciato da Dio e da Pan, da mito e da storia (qui addirittura prende nome il Priaboniano), che si era pensato prima di proteggerlo e poi di farlo diventare perfino area di interesse comunitario. Poi sono arrivati i barbari (i Veneti contemporanei, con la lettera maiuscola identitaria), la speculazione iniziata con i Marzotto, la Superstrada Pedemontana Veneta voluta senza né scienza né sentimento da Luca Zaia e dai suoi satelliti politici ed economici, in joint “project financing” venture. Risultato. La distruzione di una zona bellissima, ricca di acqua e di storia, di flora e di fauna, e di umanità.

La Poscola oggi, dopo essere stata violentata ed inquinata dai PFBA (vedi nota su nuovi dati ARPAV in calce, con la presenza degli inquinanti a Sarego), dopo essere stata deviata per ben 3 volte dal suo alveo naturale e imbrigliata dentro al cemento, dopo essere stata lo scarico mefitico per decenni della Miteni di Trissino, rappresenta il torrente più violentato e inquinato d’Italia e forse d’Occidente. Un vero e proprio crimine ambientale permesso dalla politica distruttrice dei valori fondamentali di una civiltà. Da coloro che piangono il Vajont e in Dolomiti per le Olimpiadi e qui per la speculazione hanno fatto e stanno facendo lo stesso. La Poscola è la vergogna del Veneto a cielo aperto. La vergogna “naturalistica”.

A raccontarci tutto ciò un nativo del luogo e una grande sensibile artista. Nel mentre in alto passa la nuova Alta Via dei Montecchiani ribelli. Quelli che attraversando i territori in punta di piedi, su sentieri remoti e non allineati, si rivoltano contro il malaffare di chi li sta distruggendo quotidianamente.
Comitato di Redazione PFAS.land

POSCOLA, PASSATO E PRESENTE

di Sergio Fortuna

   Il passato di quei luoghi, data l’età, lo posso ricordare. Il fondovalle della Poscola a nord di Castelgomberto, dopo le Casarette, era fatto solo di campi, alberate, siepi e fossi. Alcune case c’erano, sui due versanti, ma ai piedi delle colline, costruite sul “sengio”, saldo e fuori dall’acqua.

   Perché il posto si trova allo sbocco della valle della Poscola sulla più ampia valle dell’Agno e i sedimenti portati dal torrente principale avevano  sbarrato la valle secondaria, creando una zona paludosa. Questa era stata bonificata nel Medio Evo mediante le “fosse” (toponimo attestato fin dal 1269), canali che drenavano l’acqua dai campi, ma essendo in buona  parte al livello della Poscola erano (e sono ancora oggi) piene d’acqua tutto l’anno. 

   Fino agli anni Settanta la zona era rimasta in questo stato. Nelle Fosse si pescavano le tinche, mentre nella Poscola, che scorreva lenta e senza arginature, contornata da pioppi, si potevano trovare le “salgarele” e i “marsoni”, spesso pescati abusivamente mediante le “moscarole”. Il posto migliore era il Fosson, ufficialmente Poscoletta, che scendeva dai declivi di Cereda e portava acqua in ogni stagione, mentre a monte della confluenza spesso d’estate la Poscola era secca.

   Siepi e alberate poi fornivano il terreno ideale ai cacciatori locali. Dal paese ci si arrivava attraverso una strada bianca che correva tra il ripido pendio del monte di Santo Stefano e la Poscola, che alle Cengelle veniva attraversata da un vecchio ponte in pietra a due arcate, con balaustra in ferro. La strada proseguiva verso il Tezzon, dall’altra parte della valle, verso Cereda, e incrociava con un angolo retto la roggia che da lì scendeva, con paracarri in pietra uniti da traversi in ferro: lì, si diceva, erano stati uccisi quattro soldati tedeschi, alla fine della guerra; ora c’è una rotatoria. 

   Ricordi personali, perché abitavo alla Villa, il vecchio centro del paese, e bastava poco per uscire verso quei luoghi favolosi. Dopo il ponte c’erano “cavezzagne” che si inoltravano nei campi, spesso coltivati a mais: bastava inoltrarsi per qualche decina di metri per sentirsi fuori dal mondo. Alcuni di questi campi venivano coltivati da una famiglia vicina a casa mia, i cui ragazzi dopo che i prati erano stati “segati” avevano il permesso di giocare a calcio in questi con gli amici. Così decine di bambini raggiungevano in bicicletta i prati, circondati dalle alte canne del mais, e potevano sfogarsi per un pomeriggio dietro a un pallone senza disturbare nessuno. Per la sete, c’era la limpida acqua della Poscola: sì, abbiamo fatto quello che oggi sarebbe un tentativo di suicidio, e senza danni. 

   Poi negli anni Sessanta la strada delle Cengelle venne allargata e asfaltata, e anche il ponte, con una gettata di cemento. Cominciò il traffico, perché dal paese attraverso questa strada si poteva raggiungere la provinciale di Priabona, e data la tortuosità del percorso, anche incidenti, diversi dei quali mortali. Più a sud, lungo la strada delle Casarette, venne costruito uno stabilimento dove si lavorava la plastica, primo insediamento che veniva a rompere l’integrità della Praderia, come era chiamato quel largo fondovalle allora fatto solo di campi coltivati e ora in parte occupato dalla zona industriale di Castelgomberto e Cornedo. Per la parte più a nord, che per la presenza di numerosi corsi d’acqua veniva detta “le Poscole”, al plurale, si cominciava a parlare di zona protetta.

(continua il racconto su: 18 ottobre 2023 | POSCOLE, PASSATO E PRESENTE. TESTIMONIANZE DI UNA VIOLENZA AMBIENTALE SENZA PRECEDENTI. TRA SPECULAZIONE E PFBA. I NUOVI DATI ARPAV – forever chemicals – informazione e azione contro i crimini ambientali (pfas.land) 

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(Mamme NO PFAS, foto da Il Corriere del Veneto) – Ad essere più a rischio dalla CONTAMINAZIONE DA PFAS, come spesso avviene in casi del genere, è innanzitutto la salute dei BAMBINI: per questo ne è sorto un MOVIMENTO di cosiddette MAMME NO PFAS, che si sono prese direttamente il compito di testare e conoscere quel che è accaduto e quel che accade, manifestando contro le sottovalutazioni (delle autorità, ma anche dell’opinione pubblica) di quanto sta accadendo…

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VENETO PFAS – Area ROSSA: area di massima esposizione sanitaria – Area ARANCIO: area captazioni autonome – Area GIALLO CHIARO: area di attenzione – Area VERDE: area di approfondimento – Area OMBREGGIATA: Plume di contaminazione

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PFAS, ELIMINATO L’ULTIMO DUBBIO: “SONO CANCEROGENI CERTI”

di Stefano Baudino, da L’indipendente,  https://www.lindipendente.online/, 4/12/2023

   Trenta scienziati dell’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC) hanno fatto chiarezza sul legame tra esposizione a sostanze perfluoroalchiliche (PFAS) e insorgenza di tumori. In un lavoro che verrà presto pubblicato sulla rivista scientifica The Lancet Oncology, i ricercatori hanno infatti concluso che una delle tipologie di PFAS più diffuse è certamente cancerogena e che pertanto va inserita nel gruppo 1 delle sostanze che possono causare neoplasie. L’aggiornamento della lista avrà una forte rilevanza in tutti quei processi in cui le vittime di queste pericolose sostanze industriali chiedono giustizia, come nel caso dei cittadini veneti che da anni si battono contro le istituzioni e l’azienda che ha sversato PFAS nella falda idrica sotto le province di Vicenza, Padova e Verona.

   In particolare, i Pfoa, composto chimico della famiglia dei Pfas, sono stati considerati cancerogeni per gli esseri umani “sulla base di prove sufficienti di cancro negli esperimenti sugli animali – scrivono i ricercatori – e di prove meccanicistiche forti nell’uomo esposto”. Si parla, nello specifico, di un rapporto causa-effetto tra la presenza di Pfoa nel sangue, nei tessuti e negli organi dei soggetti contaminati e le patologie da essi sviluppate. I Pfos, altro appartenente al gruppo dei Pfas, sono stati invece fatti rientrare nel gruppo 2B (a cui in precedenza appartenevano i Pfoa) poiché “possibilmente” cancerogeni. La ricerca, che presto vedrà la luce, illustrerà gli utilizzi industriali dei Pfas e prenderà in esame le correlazioni con determinate tipologie di tumore, in particolare quelli del rene e dei testicoli. Il rapporto, inoltre, conferma la trasmissibilità da mamme a neonati, nonché il fatto che i Pfas determinano una minore reazione dei vaccini e una maggiore vulnerabilità alle infezioni.

   I contenuti del nuovo studio costituiscono l’ennesimo tassello tecnico-scientifico che ha evidenziato la grande pericolosità dei Pfas, dando ragione a quell’universo di movimenti e associazioni – primo tra tutti quello delle “Mamme No Pfas” – che da sempre, in piazza come nelle aule giudiziarie, denunciano la questione. Attualmente è in corso davanti alla Corte d’Assise di Vicenza un processo che vede alla sbarra i dirigenti della Miteni di Trissino – azienda chimica specializzata in produzione di intermedi fluorurati per agrochimica, farmaceutica e chimica, dichiarata fallita nel 2018 – per le responsabilità sottese al grave inquinamento da sostanze perfluoroalchiliche di una vasta falda acquifera in Veneto, che avrebbe coinvolto 350mila cittadini nelle aree di Vicenza, Padova e Verona.

   In aula Pietro Comba, ex dirigente in pensione di Iss, lo scorso giugno ha riferito che nel 2017 svolse con i tecnici della Regione un lavoro atto a porre le basi dello studio epidemiologico per accertare le possibili correlazioni tra la presenza di Pfas nel sangue e l’insorgenza di tumori. Un progetto che si sarebbe arenato, a detta di Comba, per motivazioni politiche.

   Recentemente, in seguito alle pressioni ricevute dalle associazioni ambientaliste e dalle forze di opposizione, l’assessora regionale leghista alla Sanità Manuela Lanzarin ha ammesso che a bloccarlo furono «ragioni di approfondimenti di natura economica-finanziaria».

   Un mese fa, peraltro, è stata archiviata l’indagine a carico degli stessi manager della Miteni per omicidio colposo ai danni di tre lavoratori e per lesioni colpose rispetto alle patologie che hanno colpito 18 loro colleghi. Il gip, su proposta dei pm, aveva deciso di archiviare anche per la difficoltà di delineare una connessione certa tra Pfas e patologie riscontrate. Ma ora i risultati della ricerca dello IARC sembrano dire esattamente l’opposto.

   Un importantissimo ruolo, nella cornice di questa battaglia per la verità e la giustizia, è stato giocato da vari movimenti ambientalisti che, tra il 2015 e il 2016, riuscirono a inaugurare una rilevazione a campione che mise in luce valori elevati di Pfas nel sangue dei residenti dei comuni coinvolti dal disastro ambientale.

   La questione fu così grave da indurre, nel 2018, il governo a dichiarare lo stato di emergenza, istituendo una zona rossa in ben 30 comuni, e, tra il novembre e il dicembre 2021, l’Alto Commissariato dell’Onu a inviare in missione in Veneto una delegazione per comprendere se la gestione dell’emergenza abbia violato i diritti umani. Ne conseguì un rapporto in cui si evidenziò come “in troppi casi, l’Italia non è riuscita a proteggere le persone dall’esposizione a sostanze tossiche”.

   Successivamente, l’allarme Pfas è risuonato anche in Lombardia. Uno scenario inquietante è infatti emerso dal rapporto “Pfas e acque potabili in Lombardia, i campionamenti di Greenpeace Italia”, pubblicato due mesi fa dall’associazione ambientalista, in cui è stato attestato che ben 11 dei 31 campioni raccolti nelle acque potabili di una serie di Comuni di tutte le province Lombarde risultano contaminati da Pfas.

   In 4 casi l’organizzazione ha registrato una contaminazione da Pfas superiore al limite indicato nella Direttiva europea 2020/2184, ovvero 100 nanogrammi per litro. Lo scorso maggio, in seguito a numerose richieste di accesso agli atti inoltrate alle Agenzie di tutela della salute e agli enti gestori delle acque lombarde, la stessa associazione aveva pubblicato i risultati delle analisi eseguite dalle autorità competenti sulla concentrazione di Pfas nell’acqua destinata a uso potabile in Lombardia tra il 2018 e il 2022.  Dall’esame era risultato positivo alla presenza di sostanze perfluoroalchiliche circa il 19% dei campioni (ben 738). Il valore più alto di positività ai Pfas (pari all’84% dei campioni) era stato trovato nelle acque della provincia di Lodi, seguita da Bergamo (60,6%) e Como (41,2%), mentre a Milano era risultato contaminato quasi un campione su tre. (STEFANO BAUDINO)

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Vedi su questo BLOG GEOGRAFICAMENTE:

Risultati della ricerca per “pfas” – Geograficamente (wordpress.com)

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RAPPORTO TECNICO GREENPEACE SUI PFAS IN VENETO (novembre 2023):

c00256b4-relazione-analisi-vegetali-e-alimenti-2023-3-novembre-2023.pdf (greenpeace.org)

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Un’indagine dell’ISPRA (Istituto superiore per la protezione e ricerca ambientale) rivela la quantità di prodotti chimici e pesticidi presenti nelle acque italiane: secondo le ultime rilevazioni quasi il 64% delle acque di fiumi e laghi sono contaminate. E l’AREA GEOGRAFICA con i livelli più alti di contaminazione acquifera è quella della pianura padano-veneta. Circa il 70% delle acque superficiali risulta inquinato in Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna. Tante, troppe, le cause di tale situazione di precarietà. Inquinamento da pesticidi e, in Veneto, anche (non solo) inquinamento da PFAS. (mappa da ISPRA, INQUINAMENTO ACQUE ITALIA)

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ANALISI TEMPORALE PFAS VENETO // 2015-2022entra nella mappa >> https://www.datawrapper.de/_/B4Wzo/ [per gentile concessione di FELICE SIMEONE, ricercatore CNR] – da https://pfas.land/

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SCONCERTANTI COSTI SOCIALI DELL’INQUINAMENTO DA PFAS

(nuove mappe interattive dei territori contaminati del Veneto)

di Dario Zampieri, 25/7/2023, da https://pfas.land/

– “Nonostante la cortina di silenzio stesa dalle autorità, la saga dei Pfas che ha investito il territorio del Veneto occidentale si arricchisce continuamente di nuovi elementi. Il mito di un territorio operoso, affluente e felice, portato quotidianamente ad esempio dalla narrazione ufficiale e dalla stampa, si infrange non appena si cerchino informazioni non ufficiali, ma autorevoli in quanto provenienti da fonti indipendenti assolutamente attendibili. Sebbene chiunque ne possa intuire l’esistenza, quello dei veri costi della produzione e dell’uso dei Pfas è un argomento da conoscere nei suoi termini quantitativi, che sono veramente sconcertanti. Tenendo sempre presente che le sofferenze delle persone colpite nella salute non sono in alcun modo monetizzabili.

Dati alla mano, che troverete nell’articolo, risultano ancora insufficienti i nuovi limiti di sommatoria PFAS messi dalla Regione Veneto recentemente, su direttiva Europea, alle acque potabili. Da 390 ng/litro sui PFAS diversificati (vecchi e nuovi) siamo passati a 100 ng/litro (tutti inclusi). Piccoli passi di fronte ai grandi crimini ambientali permessi per decenni nei nostri territori. Talmente grandi che i nuovi limiti, seppur ancora alti, stanno mettendo a rischio la chiusura di molti acquedotti comunali, come accaduto poche settimane fa nel Comune di Montebello. Sta per collassare un intero sistema fondato sul silenzio. A dimostrazione di ciò le recenti mappe create da Felice Simeone, ricercatore CNR, che riportiamo in calce al nostro nuovo articolo, scritto dal prof. Dario Zampieri”.
Comitato di Redazione PFAS.land

COSTI SOCIALI E PROFITTI PRIVATI DEI PFAS

Nel mondo, le aziende responsabili della produzione della maggior parte dei Pfas sono solo una dozzina (3M, AGC, Archroma, Arkema, BASF, Bayer, Chemours, Daikin, Dongyue, Honeywell, Merk, Solvay). A causa di scarsa trasparenza non è facile acquisire le informazioni sui volumi di sostanze chimiche prodotte annualmente. ChemSec (https://chemsec.org/reports/the-top-12-pfas-producers-in-the-world-and-the-staggering-societal-costs-of-pfas-pollution/) è riuscita ad investigare sui principali produttori di Pfas scoprendo che i costi sociali di tale produzione sono enormemente superiori ai profitti delle aziende.

   La ChemSec, Segretariato internazionale di chimica, è un’organizzazione indipendente no-profit con base in Svezia nata nel 2002, che opera per la sostituzione dei prodotti chimici tossici con prodotti alternativi non tossici. È supportata economicamente dal governo svedese, da privati e da organizzazioni no-profit svedesi ed è membro dell’Ufficio Europeo per l’ambiente (EEB).

   Lo sforzo investigativo sui Pfas ha prodotto dei risultati sconcertanti. I volumi di denaro della vendita dei Pfas – 26 miliardi di euro – non sono esorbitanti se confrontati col volume generato da tutti i prodotti chimici – 4,4 migliaia di miliardi di euro. In pratica, si tratta solo dello 0,5%.

   Ma quanti sono i profitti effettivi? La mega corporazione americana 3M dichiara di realizzare con i Pfas un margine di profitto del 16% su volumi di vendita di 1,3 miliardi di dollari, cioè appena 200 milioni all’anno. Assumendo questa percentuale per tutta l’industria dei Pfas, i profitti generati globalmente in un anno sarebbero di circa 4 miliardi di euro, una cifra importante, ma poca cosa rispetto ai profitti ottenuti con tutti i prodotti chimici.

IN EUROPA

Ma qual è il costo reale della produzione e vendita dei Pfas? Un report del 2019 sponsorizzato dal Consiglio Nordico dei Ministri (https://www.norden.org/en) con il titolo Il costo dell’inazione stima che solo in Europa i costi sanitari diretti per esposizione ai Pfas sarebbero tra 52 e 84 miliardi di euro l’anno. A questi bisogna aggiungere i costi per rimuovere i Pfas dall’ambiente. Per i suoli si stimano 2000 miliardi di euro. Per le acque d’Europa (pensiamo ad esempio ai costi di rifacimento degli acquedotti e ai costi annui di filtraggio con carboni attivi in Veneto) si stimano 238 miliardi di euro. Estrapolando a tutto il mondo sarebbero 16 migliaia di miliardi di euro l’anno. A questi costi andrebbero aggiunti i danni agli animali e al deprezzamento di terreni e abitazioni delle zone contaminate. ChemSec conclude che se le aziende produttrici dovessero pagare i danni causati la maggior parte di esse andrebbe in fallimento.

   Va inoltre ricordato che l’EFSA (Agenzia Europea per la Sicurezza Alimentare), modificando il proprio parere del 2018, nel 2020 ha stabilito una nuova soglia di sicurezza raccomandando una dose tollerabile di 4,4 nanogrammi per chilogrammo di peso corporeo alla settimana. Anche la sicurezza alimentare ha costi sanitari, sociali ed economici. Si veda questo documento >> https://doi.org/10.2903/j.efsa.2020.6223

Il prezzo medio dei Pfas è di quasi 19 euro per chilogrammo, ma il vero costo sarebbe di 18.297 euro per chilogrammo, cioè circa 1000 volte superiore.

   In pratica, la produzione dei Pfas è insostenibile anche dal punto di vista economico. È tempo di includere nel prezzo delle merci anche i costi sociali, fra cui una ridotta durata della vita e una diminuzione dei giorni lavorativi; il mondo non dovrebbe essere una discarica e le persone non sono merci usa e getta o strumento per far ulteriore profitto con le cure sanitarie.

   Senza tener conto che le sofferenze prodotte dalle patologie non sono monetizzabili.

NEGLI USA

Negli Usa, tre aziende, Chemours, Dupont e Corteva hanno dichiarato di aver raggiunto l’accordo di sborsare 1,19 miliardi di dollari per contribuire a filtrare i Pfas dal sistema di distribuzione delle acque potabili (https://www.nytimes.com/2023/06/02/business/pfas-pollution-settlement.html). Centinaia di comunità hanno citato in giudizio 3M, Chemours e altre aziende, chiedendo miliardi di dollari di danni per far fronte agli impatti sulla salute e al costo della bonifica e del monitoraggio dei siti inquinati.
   Bloomberg News ha riferito che 3M ha raggiunto un accordo provvisorio del valore di almeno 10 miliardi di dollari con città e paesi statunitensi per risolvere le richieste relative ai Pfas. Tuttavia, la responsabilità di 3M potrebbe essere ancora maggiore. In una presentazione online a marzo, CreditSights, una società di ricerca finanziaria, ha stimato che il contenzioso Pfas potrebbe alla fine costare a 3M più di 140 miliardi di dollari.

   L’avvocato Robert Bilott ha dichiarato che il processo iniziato nel mese di giugno 2023 presso il tribunale federale della Carolina del Sud è un banco di prova per queste cause legali, un passo incredibilmente importante in quelli che sono stati decenni di lavoro per cercare di assicurarsi che i costi di questa massiccia contaminazione da PFAS non siano sostenuti dalle vittime, ma siano sostenuti dalle aziende che hanno causato il problema.

   L’accordo preliminare con Chemours, DuPont e Corteva, che si sono tutti rifiutati di commentare l’annuncio, potrebbe non essere la fine dei costi per quelle società.

   La società 3M ha dichiarato che entro la fine del 2025 prevede di abbandonare tutta la produzione di Pfas e lavorerà per porre fine all’uso di Pfas nei suoi prodotti. Dopo il rapporto Bloomberg, le azioni di 3M sono aumentate notevolmente, così come le azioni di Chemours, DuPont e Corteva. 

   Lo scorso anno l’EPA (Agenzia per la protezione ambientale degli Usa) ha stabilito che anche livelli delle sostanze chimiche molto inferiori a quanto precedentemente stabilito potrebbero causare danni e che quasi nessun livello di esposizione è sicuro. L’EPA ha consigliato che l’acqua potabile non contenga più di 4 ng/L (nanogrammi/litro) di PFOA (acido perfluoroottanoico) e altrettanti di PFOS (acido perfluoroottansolfonico). In precedenza, l’agenzia aveva consigliato che l’acqua potabile non contenesse più di 70 ng/L di queste sostanze chimiche, mentre ora afferma che il governo richiederà per la prima volta livelli vicini allo zero.

   L’EPA ha stimato che questo standard costerebbe ai servizi idrici statunitensi 772 milioni di dollari all’anno. Ma molti servizi pubblici affermano di aspettarsi che i costi siano molto più alti.

NEL VENETO

L’ex azienda locale che conosciamo è, tutto sommato, piccola rispetto alle 12 principali, ma il territorio interessato del Veneto è grande, date le caratteristiche idrogeologiche della zona e la durata almeno trentennale della contaminazione delle acque sotterranee. Infatti, la localizzazione dell’impianto Miteni in un tratto di valle con sottosuolo costituito da sabbie e ghiaie molto permeabili, perdipiù a ridosso del torrente Poscola, ha permesso che lo spandimento di reflui liquidi raggiungesse la falda idrica sottostante, generando un plume che si è lentamente propagato per decine di chilometri a valle. Di fatto, la falda indifferenziata del tratto di valle tra Castelgomberto e Montecchio Maggiore costituisce la ricarica del sistema multifalde (più falde ospitate in materiali sabbiosi separati da strati impermeabili argillosi, che da Montecchio in giù costituiscono il sottosuolo), protette solo sulla verticale, ma non lateralmente da monte.

   Come troppo spesso, se non quasi sempre, la pianificazione territoriale, quand’anche esista, considera gli interessi economici (di alcuni) e non le conoscenze scientifiche del territorio, rendendo di fatto i disastri cosiddetti “ambientali” e quelli “naturali” dei disastri artificiali largamente annunciati.

   L’estrattivismo produce profitti per pochissimi, mentre territori definiti sacrifice zones sono sacrificati nella discarica globale del Wasteocene, l’epoca degli scarti. Quando i cittadini contaminati e ora costretti a pagare per tentare di risolvere i problemi apriranno gli occhi, chiedendo conto alla politica, che sembra sorda?

(DARIO ZAMPIERI, 25/7/2023, da https://pfas.land/)

da https://pfas.land/

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MESSA AL BANDO DEI PFAS: LE ALTERNATIVE ESISTONO? (PFAS: 5 PAESI EUROPEI CHIEDONO LA RESTRIZIONE, di Daniele Di Stefano, da https://www.rigeneriamoterritorio.it/ del 26/9/2023)

I PFAS sono impiegati in una miriade di processi industriali: dalla manifattura che usa gas fluorurati al tessile, dall’edilizia al petrolchimico, all’elettronica. Ma le alternative esistono. L’Appendice E2 del documento pubblicato dall’ECHA le riporta raggruppate per settore di applicazione. (…)   In GERMANIA, nonostante le alternative ai PFAS siano già sul mercato, l’industria generalmente non ha preso bene l’idea del bando. Sebbene la Germania sia uno dei Paesi che hanno avanzato la proposta, le aziende dell’automotive, dell’elettronica e della meccanica hanno avvertito che senza PFAS non ci saranno turbine eoliche, accumulatori di energia, auto elettriche e semiconduttori. Mettendo in subbuglio il governo.

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Leggi anche:
• Pfas Veneto: nel sito della Miteni si aspetta la bonifica da 6 anni
• Pfas Lombardia, Greenpeace lancia l’allarme

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PROCESSO PFAS, A VICENZA PARLANO LE VITTIME

di Laura Fazzini, da https://www.osservatoriodiritti.it/ 2/11/2023

– Al tribunale di Vicenza prosegue il processo per il grave inquinamento da Pfas. Questa volta hanno testimoniato i cittadini, che per decenni hanno bevuto acqua contaminata –

   Nel tribunale di Vicenza, in un’aula piena e silenziosa, il 26 ottobre si sono alternate le diverse parti civili davanti alla giuria popolare che da due anni raccoglie testimonianze nelle tre provincie venete stravolte dalla contaminazione da Pfas nell’acqua di rubinetto.

   Sindacati, associazioni e semplici mamme hanno cercato di spiegare cosa ha voluto dire aver paura dell’acqua, l’ansia di non sapere cosa fosse finito nel loro corpo né di come sarà il loro futuro.

PROCESSO PFAS, LA TESTIMONIANZA DEL SINDACATO

Il primo ad essere sentito è stato il referente Cgil della provincia di VicenzaGianpaolo Zanni. Sin dal 2013, il sindacato ha cercato di raccogliere le paure dei circa 500 operai che per decenni hanno lavorato le sostanze Pfas, considerate “perfette” perchè impossibili da distruggere. Paure legate alle analisi del sangue fatte dentro lo stabilimento dal medico aziendale, Giovanni Costa. Medico che avrebbe sempre tranquillizzato sulla bassa tossicità di questi composti, considerati però dalla comunità scientifica come interferenti endocrini e correlate a diverse patologie come colesterolo alto e ipertensione.

   «Abbiamo chiesto all’azienda e allo Spisal (Servizio sanitario locale destinato al monitoraggio sanitario negli ambienti di lavoro, ndr) come stessero gli operai, cosa fossero queste sostanze. Per anni ci hanno tranquillizzati, ora mi siedo qui come parte civile in un processo per avvelenamento delle acque e disastro ambientale per sostanze considerate tossiche».

   Alle domande degli avvocati difensori sulla mancata azione del sindacato, Zanni ha risposto così: «L’azienda ci ha promesso nuove misure di sicurezza e che le produzioni erano sicure. Gli operai hanno i valori di Pfas più alti al mondo, quale sicurezza hanno fatto prima di essere imputati per disastro ambientale?».

LEGAMBIENTE E ISDE IN LOTTA CONTRO I PFAS

Piergiorgio Boscagin, presidente del circolo PerlaBlu di Legambiente e volto noto nel mondo della lotta no Pfas, è tra i testimoni che sono stati ascoltati. Dopo aver lottato 10 anni per ottenere questo processo, si è preso tempo per guardare in faccia chi giudicherà quello che potrebbe risultare essere il più vasto inquinamento da sostanze pericolose d’Europa.

   «Dal 2007 mi occupo degli scarichi della zona industriale dove insisteva Miteni. Abbiamo fatto denunce, manifestazioni e presidi. All’inizio ci tranquillizzavano sia l’azienda che le istituzioni, poi hanno smesso di venire ai nostri incontri e ora siamo qui», spiega con voce ferma. Legambiente, insieme ai medici per l’ambiente Isde, dalla scoperta dei Pfas nelle acque potabili di tre province nel 2013 ha cercato di avvisare la popolazione.

   «Abbiamo sempre chiesto che chi inquina paghi, che le acque pulite destinate alla nostra agricoltura non vengano perse per diluire i reflui industriali dei privati, di Miteni. Dopo 10 anni di lotte io sono qui, con i miei 135 nanogrammi di Pfoa nel sangue quando la soglia è 8», conclude Boscagin.

LE MAMME NO PFAS CHIEDONO GIUSTIZIA AL TRIBUNALE DI VICENZA

Anche il movimento Mamme No Pfas, un gruppo di madri e padri che da anni chiede giustizia e prevenzione, interviene al processo. «All’inizio non ci credevo, mi pareva impossibile che dai nostri rubinetti uscissero sostanze pericolose. Ma poi ho visto le analisi dei miei figli e ho detto no, non era Scherzi a Parte, era la nostra vita», ha detto una di loro.

   Le analisi Pfas vengono svolte per la popolazione che vive nella zona più inquinata, denominata rossa, dal 2017. «In quel periodo stavo vivendo un altro incubo, un tumore che mi aveva colpito dopo aver travolto mia sorella. Ci siamo chieste come mai fossimo malate, ora che conosco i Pfas come interferenti endocrini si spiega tutto».

   Lei da quel tumore si è ripresa, la paura però rimane per quelle sostanze che studia notte e giorno. «All’inizio con alcune mamme volevamo condannare i gestori dell’acqua per averci dato un prodotto guasto. Ma poi abbiamo capito che non era un prodotto guasto, era una violenza contro il nostro territorio e i nostri figli. E siamo arrivate a sederci qui, per chiedere giustizia per il nostro futuro»

ACQUA INQUINATA, L’AIUTO NEGATO A UNA GIOVANE MADRE

«Nel 2017, quando ho fatto il prelievo per le analisi Pfas, ho detto all’infermiere che stavo allattando il mio primo figlio. Mi ha detto che i Pfas passavano al feto dalla placenta e poi nel latte materno». A dirlo – in un’aula immobile e muta – è stata una giovane Mamma No Pfas.

   «Poche settimane dopo, in un’assemblea pubblica nel teatro del mio comune, dove le istituzioni ci spiegavano cosa fossero i Pfas, mi sono alzata e ho chiesto se dovevo smettere di allattare dopo l’allarme di quell’infermiere. Un rappresentate dell’’istituzione sanitaria locale mi ha risposto che la notizia dell’infermiere non era fondata a livello scientifico e ho continuato ad allattare, tranquillizzata». Ma dal 2019 è dimostrato a livello scientifico che i Pfas, interferenti endocrini, passano attraverso il latte materno e la placenta.

Il marito della donna ha 208 nanogrammi di Pfoa nel sangue, quando la soglia italiana è 8.

PROCESSO PFAS, LE VITTIME RACCONTANO L’ANGOSCIA PER FIGLI E PARENTI

A sedersi al posto dei testimoni c’è stata anche una madre di Lonigo, lì dove l’acqua potabile ha raggiunto mille nanogrammi per litro di Pfoa. Anche lei, come le altre, ci ha chiesto di non essere citata per nome.

«Siamo tutti e quattro parti civili, abitando nell’epicentro della tragedia abbiamo tutti valori alti. Ma vi immaginate cosa voglia dire fare fatica a pagarsi una casa nuova e sapere solo dopo di aver scelto uno dei posti più inquinati d’Europa? Sapete cosa significa vivere nell’incertezza di non sapere cosa succederà ai miei figli, a quel futuro che ho voluto io?» chiede alla giuria.

   Dai primi articoli sulla contaminazione usciti nel 2013 ha smesso di usare l’acqua di rubinetto e spende soldi ogni mese per avere acqua pulita in bottiglia. «Sapete cosa vuol dire riempirsi la casa di bottiglie di vetro e preferire l’insalata in sacchetto per non doverla lavare con acqua inquinata? Non è un incubo, è la nostra vita dal 2013».

   E ancora: «Sapete cosa significa avere un marito giovane che per anni ha perdite ematiche spaventose per una colite ulcerosa tremenda? Questa malattia, cronica, è una delle cinque patologie correlate all’esposizione da Pfas. E lo sappiano noi perchè studiamo giorno e notte per difenderci e per difendere i nostri figli».

(LAURA FAZZINI, da https://www.osservatoriodiritti.it/ 2/11/2023)

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I PFAS E LO STUDIO «DESAPARECIDO»: CRISANTI INFILZA LANZARIN, ANNICHIARICO, TONIOLO E RUSSO

di MARCO MILIONI, da https://www.veronasera.it/ del 12/10/2023 Continua a leggere

MARC AUGÉ e lo studio della nostra TRIBÙ quotidiana – Una nuova ANTROPOLOGIA con suoi neologismi: SURMODERNITÀ…, o NONLUOGHI: spazi estranianti senza storia (metrò, autogrill, centri commerciali, aeroporti…; ma anche CAMPI PROFUGHI: zone di transito divenute stabili per i poveri in fuga del pianeta e rifiutati dal mondo ricco)

MARC AUGÉ (foto da https://www.open.online/)   –   MARC AUGÉ, direttore dell’EHESS (École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi) e noto per le sue importanti ricerche etnografiche è morto all’età di 87 anni. L’annuncio della scomparsa è stato dato da Romain Huret, presidente dell’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, dove Augé ha svolto tutta la carriera accademica e che ha diretto dal 1985 al 1995. Nato a Poitiers, dopo aver contribuito allo sviluppo delle discipline africanistiche ha riportato i frutti teorici elaborati in quell’esperienza dando il via a un’antropologia dei mondi contemporanei attenta alla dimensione rituale del quotidiano e della modernità.

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(FRANCIA, luglio 2023, violenza e saccheggi nelle BANLIEU: Nanterre, Parigi…. Qui sopra è a Marsiglia – foto da www.adnkronos.com/)

“(…) Non sappiamo se Marc Augé (Poitiers, 2 settembre 1935 – 24 luglio 2023), prima di chiudere definitivamente gli occhi, lui che li aveva tenuti ben aperti tutta la vita per decrittare il mondo, abbia avuto modo di riflettere sull’ennesima esplosione di violenza nelle banlieue francesi di tre settimane fa. Si era dedicato con passione al tema e ogni volta che capitava d’incontrarlo non mancava di ribadire un concetto che lo ossessionava.   E che chiamava in causa, soprattutto, il sistema educativo: «Ci sono state crepe in quel sistema che non ci sarebbero dovute essere. Tutti sono andati a scuola ma alcuni lo hanno fatto male, si sono persi, fuorviati. C’è stata una tendenza a lasciare che i fratelli maggiori si occupassero dei più piccoli».   Era il risultato di una frattura risalente agli anni Settanta, «quando è cominciato il fenomeno della disoccupazione di massa. I quartieri simbolo della modernizzazione operaia sono diventati rifugi per persone declassate. E se si trattava di magrebini sono diventati simbolo di sconfitta. Un problema che si è riflesso nelle famiglie e ha provocato tensioni, a volte disprezzo da parte dei figli verso i genitori». (…)” (GIGI RIVA, dal quotidiano DOMANI del 26/7/2023)   –   Quali sono gli errori da non ripetere, anche in base all’esperienza francese? «Quando negli Anni 70 in Francia abbiamo accolto i figli dei migranti economici, originari soprattutto del Nord Africa, non abbiamo capito l’ampiezza del compito che ci aspettava. Questi bambini sono andati a scuola, ma per formarli ci sarebbe voluta una mobilitazione eccezionale. Invece si è pensato che la loro presenza fosse temporanea. Questi giovani si sono sentiti accettati solo in apparenza: erano francesi certo, ma di serie B. È stata una politica incompleta e poco coraggiosa». (Laura Aguzzi, da “La Stampa” del 13/5/2016)

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COSÌ MARC AUGÉ CI HA COSTRETTO A GUARDARCI ALLO SPECCHIO

di GIGI RIVA – scrittore, dal quotidiano DOMANI del 26/7/2023

– È stato l’antropologo della post-modernità e ha scoperto lati di noi che cerchiamo di ignorare – Ha applicato alla società occidentale i metodi di indagine usati in genere per le tribù esotiche – È diventato celebre per la definizione di non-luoghi, applicata a tutte quelle realtà cittadine che non posseggono un’anima –

   Non sappiamo se Marc Augé (Poitiers, 2 settembre 1935 – 24 luglio 2023), prima di chiudere definitivamente gli occhi, lui che li aveva tenuti ben aperti tutta la vita per decrittare il mondo, abbia avuto modo di riflettere sull’ennesima esplosione di violenza nelle banlieue francesi di tre settimane fa. Si era dedicato con passione al tema e ogni volta che capitava d’incontrarlo non mancava di ribadire un concetto che lo ossessionava.

   E che chiamava in causa, soprattutto, il sistema educativo: «Ci sono state crepe in quel sistema che non ci sarebbero dovute essere. Tutti sono andati a scuola ma alcuni lo hanno fatto male, si sono persi, fuorviati. C’è stata una tendenza a lasciare che i fratelli maggiori si occupassero dei più piccoli».

Tornare in Europa

Era il risultato di una frattura risalente agli anni Settanta, «quando è cominciato il fenomeno della disoccupazione di massa. I quartieri simbolo della modernizzazione operaia sono diventati rifugi per persone declassate. E se si trattava di magrebini sono diventati simbolo di sconfitta. Un problema che si è riflesso nelle famiglie e ha provocato tensioni, a volte disprezzo da parte dei figli verso i genitori».

   La scuola, la famiglia. Erano questi àmbiti il terreno d’indagine sotto casa del grande antropologo che ha ribaltato i cliché della sua professione. I comportamenti degli umani si possono e si devono studiare dappertutto, non solo andando alla ricerca degli usi e costumi di qualche tribù esotica.

   Certo era stato in Africa, Costa d’Avorio e Togo soprattutto, o in America Latina, ma aveva capito che gli stessi metodi usati in terre lontane potevano essere straordinariamente utili per indagare la “surmodernità”, le aree evolute dell’Europa metropolitana.

Genio del paganesimo

Compresa la Francia, ovviamente, la terra d’origine che lo aveva issato fino al prestigioso ruolo di direttore dell’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales (Ehess), la Spagna e l’Italia, paesi cugini che ha amato e spesso frequentato. Non accontentandosi di rimanere stretto nel suo ambito ma dilatando il suo sapere all’etnologia, la filosofia, la scrittura.

   Un intellettuale a tutto tondo la cui opera, se non era politica nel senso stretto, era strutturata “politicamente”. Avendo come sostrato quell’idea forte della laicità maturata, per opposizione, proprio studiando le religioni. Non per caso una delle prime opere che lo ha reso famoso ha per titolo Genio del paganesimo (1982, chiara citazione per contrasto al Genio del cristianesimo di Chateaubriand), in cui evidenzia come il paganesimo non oppone lo spirito al corpo né la fede al sapere e postula una continuità tra ordine biologico e ordine sociale.

Non-luoghi

Lo sbocco di tante riflessioni si sostanzia nel 1986 con Un etnologo nel metrò, un viaggio nel sottosuolo dove Marc Augé indaga gli individui che frequentano il fitto reticolo parigino come fossero indigeni della post-modernità, ne svela le solitudini, li mette in relazione con i nomi delle fermate che alludono a passati stratificati, storici o geografici che siano.

   E l’acme della sua produzione sfocia nel 1992 con Non-luoghi, introduzione a una antropologia della surmodernità, l’invenzione di un neologismo che entrerà nei vocabolari dopo essere entrato nel linguaggio comune. Centri commerciali, aeroporti, autostrade, sale d’aspetto, ascensori, sono gli spazi che hanno la prerogativa di non essere identitari, relazionali o storici e sono in antitesi con i luoghi antropologici.

   I non-luoghi sono la rappresentazione fisica dell’epoca in cui viviamo caratterizzata dalla precarietà assoluta e dall’individualismo. Sono prodotti usa e getta, di puro consumo, che nessuno abita e che tutti sfruttano. Zone di transito come il loro opposto, i campi profughi che non simboleggiano il benessere della società opulenta ma l’impossibilità per i migranti di conservare i luoghi d’origine e di raggiungere una meta dove costruire una nuova identità impossibile.

Non-tempo

Nell’evoluzione perenne di un uomo onnivoro, ghiotto di ogni conoscenza, il passo successivo riguarda il tempo. Proprio Che fine ha fatto il futuro? Dai non-luoghi al non-tempo (2008) è il titolo che segna l’ingresso in una dimensione più filosofica.

   Viviamo il presente in una maniera così ingombrante che il qui ed ora si è ingoiato il passato, la precarietà con la sua mancanza di prospettive ha annullato il futuro. E, biologicamente, l’allungarsi delle prospettive di vita, e di una vita in buona salute, ha cancellato la vecchiaia tanto che senza indugi esclama: «La vecchiaia non esiste».

   E, addirittura, in un’intervista a Libération: «Più passa il tempo più ho la sensazione che la morte non esista». Nonostante chi lo ha frequentato ultimamente ha potuto notare le offese degli anni sul suo incedere claudicante.

La bicicletta

C’era, in Marc Augé, un ottimismo di fondo, un dolce abbandonarsi, ad esempio, ai piaceri della buona tavola, una volontà ferrea di gustarsi ogni momento ed ogni occasione.

   Una convinzione profonda nella capacità delle persone di potersi reinventare, simboleggiata, ad esempio, da un oggetto di uso comune. Il bello della bicicletta (2008), secondo lui trasvolata da “mito maturo” a utopia ecologista e democratica.

   I ciclisti come portatori di un nuovo umanesimo che annulla le differenze di classe, induce all’uguaglianza, riconduce l’esistenza delle nostre città a ritmi più sostenibili. L’andamento lento della pedalata è la cadenza sulla riscoperta dei luoghi, antidoto contro i non-luoghi e, in definitiva, anche il sogno di un avvenire più conforme a ciò per cui (anche) siamo nati: la contemplazione.

   Per tutto questo mancherà Marc Augé, certo analista impietoso delle storture della contemporaneità, fustigatore delle disuguaglianze, grillo parlante delle nostre aberrazioni. Ma sempre con lo sconfinato sorriso sulle labbra di chi in fondo conserva una speranza nel genere umano. (GIGI RIVA, dal quotidiano DOMANI)

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(NONLUOGHI, ed. Eleuthera 2009) – Nel 1992 Marc Augé, all’epoca studioso già affermato e direttore a Parigi di uno dei più prestigiosi istituti di ricerca in scienze sociali al mondo (l’École des Hautes Études en Sciences Sociales, EHESS), pubblicò un libro che conteneva già nel titolo l’espressione non-lieux, poi tradotta letteralmente un anno dopo nella prima edizione italiana del libro: Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, di cui seguirono diverse ristampe (la più recente nel 2018). (da https://www.ilpost.it/ 25/7/2023)

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(Marc Augé, la surmodernità, da https://slideplayer.it/)   –   Marc Augè: “la surmodernità”
è definita come modernità portata all’eccesso dovuto alla trasformazione accelerata di tre elementi: 1-TEMPO ≠ principio di intelligibilità. Eccesso di eventi. Accelerazione della storia. 2-SPAZIO restringimento del pianeta (esplorazione e globalizzazione). Sovrabbondanza spaziale (aumento riferimenti immaginifici). Produzione di nonluoghi. 3-INDIVIDUO produzione individuale di senso. Percezione della storia. Problema del senso del presente. (da https://slideplayer.it/ )

Surmodernità: un neologismo da lui coniato in riferimento ai fenomeni sociali, intellettuali ed economici tipici dello sviluppo delle società occidentali alla fine del Novecento, in particolare il superamento della fase postindustriale e la diffusione della globalizzazione. E attribuì a questa nuova fase della modernità la caratteristica dell’“eccesso”: eccesso di avvenimenti che gli storici faticano a interpretare; eccesso di spazi facilmente raggiungibili o fruibili, in cui si moltiplicano i nonluoghi; ed eccesso di ego, cioè la tendenza delle persone a interpretare le informazioni a livello individuale e non sulla base di un significato definito a livello di gruppo. (da https://www.ilpost.it/ 25/7/2023)

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MARC AUGÉ: “LE MIE PERIFERIE NON SONO UN CONCETTO GEOGRAFICO”

Laura Aguzzi, da “La Stampa” del 13/5/2016

   C’è un grande malinteso nel concetto di periferia. Ce lo racconta Marc Augé, (…): «L’errore più comune è applicare una categoria geografia a un problema sociale ed economico. L’idea di periferia esclude quella di centro, ma è un concetto sbagliato. Prendiamo Parigi: ci sono dei quartieri che sono periferici solo in base al tipo di popolazione che vi abita. O la stessa Molenbeek, l’area di Bruxelles divenuta snodo del terrorismo internazionale: non è un quartiere estraneo alla città. Piuttosto alla società».

(…)

Quali sono gli errori da non ripetere, anche in base all’esperienza francese?

«Quando negli Anni 70 in Francia abbiamo accolto i figli dei migranti economici, originari soprattutto del Nord Africa, non abbiamo capito l’ampiezza del compito che ci aspettava. Questi bambini sono andati a scuola, ma per formarli ci sarebbe voluta una mobilitazione eccezionale. Invece si è pensato che la loro presenza fosse temporanea. Questi giovani si sono sentiti accettati solo in apparenza: erano francesi certo, ma di serie B. È stata una politica incompleta e poco coraggiosa». (…..)

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(GRECIA, Lesbo, il CAMPO PROFUGHI di MOIRA, un inferno senza fine – foto da www.repubblica.it)   –   I non-luoghi sono la rappresentazione fisica dell’epoca in cui viviamo caratterizzata dalla precarietà assoluta e dall’individualismo. Sono prodotti usa e getta, di puro consumo, che nessuno abita e che tutti sfruttano. Zone di transito come il loro opposto, I CAMPI PROFUGHI che non simboleggiano il benessere della società opulenta ma l’impossibilità per i migranti di conservare i luoghi d’origine e di raggiungere una meta dove costruire una nuova identità impossibile. (…)” (GIGI RIVA, dal quotidiano DOMANI del 26/7/2023)

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(AEREOPORTI, foto da https://www.ilpost.it/)

nonluoghi sono quegli spazi contrapposti ai luoghi antropologici, quindi tutti quegli spazi che hanno la prerogativa di non essere identitari, relazionali e storici. Sono tutti quegli ambiti adibiti alla circolazione, al consumo e alla comunicazione. Agli occhi dell’autore, questi nonluoghi sono spazi della provvisorietà e del passaggio, spazi attraverso cui non si possono decifrare né relazioni sociali, né storie condivise, né segni di appartenenza collettiva. I nonluoghi sono prodotti della società della surmodernità, incapace di integrare in sé i luoghi storici confinandoli e banalizzandoli in posizioni limitate e circoscritte alla stregua di “curiosità” o di “oggetti interessanti”. I nonluoghi sono incentrati solamente sul presente e sono altamente rappresentativi della nostra epoca, che è caratterizzata dalla precarietà assoluta, dalla provvisorietà, dal transito e dal passaggio e da un individualismo solitario. Le persone transitano nei nonluoghi ma nessuno vi abita. In altre parole, sono tutto il contrario della città storica nella quale le regole di residenza, la divisione in quartieri, delimitava lo spazio e permettevano di cogliere nelle loro linee essenziali le relazioni tra gli abitanti.

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LA PAROLA A MARC AUGÉ
di Sara Capogrossi, da http://www.caffeeuropa.it/ del 24/5/2002
   Docente alla Ecole des Hautes Etudes di Parigi, a conclusione di una prolungata “vacanza” romana in veste di visiting professor presso la cattedra di Marcello Massenzio – storico delle religioni all’Università di Tor Vergata – Marc Augé è stato ospite alla Società geografica italiana, per un’intervista collettiva sui rapporti tra antropologia e geografia e sul possibile dialogo tra le due discipline. Un invito, quello dei geografi italiani, che sembra una risposta al provocatorio tema dei “non-luoghi”, introdotto dall’antropologo francese nel suo libro più famoso e dibattuto: Nonluoghi, per l’appunto (vedi Caffè Europa 151 ). Un testo straordinariamente intenso, che rischia però di oscurare il lavoro del suo stesso autore e di indurre a fraintendimenti.
   Per capire a fondo il significato di quest’opera occorre situarla nel giusto contesto, insiste Massenzio, moderatore dell’incontro, presentando l’ospite francese. Augé nasce, infatti, come etnologo africanista e per lunghi anni studia sul campo società diverse dalle nostre, e perciò tanto più difficili da penetrare. Frutto di queste ricerche sono opere quali Il genio del paganesimo (Bollati e Boringhieri) e Il senso del male, in cui si approfondisce la differenza tra male e malattia. Solo più tardi lo studioso volta lo sguardo dalle società esotiche per dirigerlo sulla nostra realtà: cambia l’oggetto di studio, dunque, e quindi cambia l’approccio; eppure c’è continuità nel suo lavoro.

   Innanzitutto, l’antropologo è interessato alla produzione simbolica del senso, quale che sia l’ambito nel quale si muove. Inoltre, Augé studia la trasformazione della nostra realtà, il farsi altro della nostra società, e soltanto chi, come lui, è abituato a decodificare l’altrui può capire il farsi altro dell’identico, i nostri cambiamenti. Un nuovo modo di pensare il tempo, che ci porta a riflettere sulla fine della storia, sull’incapacità di darsi una prospettiva.

   Sul farsi altro dello spazio, che ci porta ai non-luoghi. E i geografi si sentono giustamente chiamati in causa dall’evocazione di spazi in cui la geografia non avrebbe senso di essere: a questo nodo si riferisce, per l’appunto, la prima domanda rivolta ad Augé da Armando Montanari, direttore della Home of Geography: “Qual è il rapporto tra l’antropologo Augé e la geografia? Noi sappiamo che qualche decennio fa ha compiuto studi in Africa con colleghi francesi. Nelle sue opere ho trovato citate molte discipline: urbanistica, architettura, e così via. Negli ultimi lavori, però, ho riscontrato poca attenzione nei confronti della geografia come scienza. Ritiene che insieme ai non-luoghi non ci sia neppure una geografia?”
   “Quando ho fatto le mie ricerche sul campo, in Africa“, risponde Augé, “certamente la collaborazione con i geografi era non solo necessaria, ma indispensabile, perché entrambi, geografi e antropologi, non possono non prendere coscienza dell’importanza primaria dell’organizzazione dello spazio, di come le varie culture africane mettano in opera il senso dello spazio. Fondamentale per lo studio delle civiltà africane è capire le regole di residenza, che non sono arbitrarie, ma estremamente rigide e perciò è necessario percepire i fondamenti dell’organizzazione sociale, nonché capire la divisione precisa dello spazio. Dunque, gli anni Sessanta e Settanta sono stati all’insegna di una collaborazione forte fra geografia e antropologia. Poi c’è stato un cambiamento di prospettiva.”
   “Il discorso dei non-luoghi certamente ha a che fare con lo spazio – è una banalità – però decolla da questo concetto, perché essi hanno a che fare con la nuova sensibilità culturale che va sotto il nome di surmodernité e quindi attengono più al simbolico immaginario che alla geografia propriamente detta. Immaginario, simbolico, percezione dell’altro sono domande proprie dell’antropologia. Ma la collaborazione non è finita. Nello studiare i “filamenti urbani” ho dovuto ripristinare rapporti stretti con la geografia.”
   “Per quanto riguarda il turismo, esso è un argomento centrale della geografia e interessa lo studio della surmodernité, ma il turismo che osservo io è altra cosa, perché è un turismo che si rifà all’idea di consumo. Il turismo visto come consumo del paesaggio, consumo dell’altro e quindi come simbolizzazione dell’altro per arrivare al consumo. E in questo senso mi sono un po’ distaccato da quell’accoppiata formidabile che c’era prima tra antropologia e geografia.”
   Claudio Minca dell’Università di Venezia, domanda invece ad Augé: “Per noi geografi il luogo è un concetto sul quale abbiamo riflettuto da sempre e da sempre abbiamo pensato di avere una sorta di privilegio su questo soggetto. Quelli che lei cita come non-luoghi (parchi tematici, aeroporti, ecc.) sono spazi in cui molte persone lavorano, si incontrano, socializzano. Nel momento stesso in cui assegniamo identità a questi spazi, come possiamo considerarli non-luoghi?
   Risponde Augé: “Io non ho mai voluto fare una lista dogmatica o manichea di luoghi, da una parte, e non-luoghi dall’altra. Ho trattato questi termini come coppie di opposti (luoghi/non-luoghi), una concettualizzazione che permette di aggredire la realtà. Certamente è bene avere le idee chiare: la divisione è ideale. Nei luoghi i segni dell’identità collettiva, della socializzazione, del patrimonio culturale comune sono chiaramente visibili, perché fissati nello spazio. I non-luoghi, per assurdo, possono aiutare a capire i segni che contraddistinguono i luoghi, proprio perché se ne evidenzia l’assenza.”
   Chiede ancora Minca: “Secondo lei il nuovo rapporto tra spazio privato e pubblico ha cambiato i concetti di normalità all’interno dello spazio pubblico e di devianza dalla stessa?
   Risponde Augé: “La tendenza dominante è tesa a privatizzare i luoghi sociali. Nelle città sudamericane (come Caracas, per esempio), i centri urbani sono diventati spazi interdetti a chi non fa parte della borghesia danarosa. Sono cittadelle fortificate, intorno alle quali c’è una serie di costruzioni miserabili, tipo favelas. Uno spazio segnato da un’antinomia radicale pubblico/privato, che rimanda a un’altra caratteristica della surmodernité: la discriminante povertà/ricchezza è sempre più estrema, i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. È finita l’utopia marxiana dell’egualitarismo. Lo spazio pubblico non è solo spazio condiviso (per esempio una piazza come piazza Navona, a Roma), lo spazio pubblico è quello in cui si forma l’opinione pubblica, che nella surmodernité è su scala planetaria. Tutto ci interessa, ma non c’è un luogo ove si formi l’opinione pubblica su scala mondiale. Da qui il tentativo dei movimenti di protesta (più o meno ingenuo, più o meno riuscito) per creare spazi dove formare un’opinione pubblica all’altezza dei tempi.
   L’ultima domanda è di Armando Montanari: “Come ha risolto il dilemma del ‘paradosso etnografico’: la contraddizione che vede l’etnografo lavorare sul campo e partecipare alla cultura, al linguaggio oggetto di esame, provare empatia, e poi, necessariamente, assumere un distacco critico, per elaborare il frutto dei propri studi?
   “Io sono piuttosto critico nei confronti dell’antropologia postmoderna americana“, dice Augé, “impegnata a criticare i testi di antropologia. Stimo, invece, quella di stampo britannico, Edward Evans Prichard, in particolare, è stato un autorevole modello. Come ci insegna questo autore, onestamente si deve distinguere ciò che appartiene all’indagine dall’interpretazione. In questo modo si può anche prendere le distanze da un’interpretazione che non si ritiene più valida, ma si può sempre riprendere e riutilizzare il materiale raccolto, che è privo di considerazioni personali. I problemi, le domande che l’etnologo rivolge all’altro sul campo (all’estraneo) non sono diverse da quelle che ci si pone quando si riflette su se stessi ed è questo che non ha capito l’antropologia postmoderna“.

(Sara Capogrossi, da http://www.caffeeuropa.it/ del 24/5/2002)

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(UN ETNOLOGO NEL METRÒ, Elèuthera – É il saggio (del 1986) in cui sdogana la ricerca etnografica fatta a casa propria, dimostrando che si può studiare l’altro osservandolo in metro) 

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STRANIERO A ME STESSO tutte le mie vite di etnologo, Bollati Boringhieri – È il suo libro autobiografico in cui confessa il grande dispiacere di non aver partecipato al Sessantotto francese, a Parigi – Badate, non è un’autobiografia, avverte Marc Augé in apertura del libro. Almeno non nel senso tradizionale. In effetti, queste pagine gremite di immagini che riaffiorano, di incontri decisivi, di paesaggi perduti, di eventi della Grande Storia spesso colti di scorcio, affidano il loro ritmo sottotraccia a una incalzante variazione sull’idea di luogo. Quello dell’etnologo Augé, innanzi tutto, che si identifica con lo sradicamento, col non essere mai al proprio posto. La sua itineranza si consuma perlopiù in Africa, nella regione lagunare della Costa d’Avorio e nel Togo del Sud, e in America Latina…

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(MARC AUGÉ, foto da https://torino.corriere.it/)

“LE MIE PERIFERIE NON SONO UN CONCETTO GEOGRAFICO” C’è un grande malinteso nel concetto di periferia. Ce lo racconta Marc Augé, antropologo francese, teorico dei non-luoghi (…) «L’errore più comune è applicare una categoria geografica a un problema sociale ed economico. L’idea di periferia esclude quella di centro, ma è un concetto sbagliato. Prendiamo Parigi: ci sono dei quartieri che sono periferici solo in base al tipo di popolazione che vi abita. O la stessa Molenbeek, l’area di Bruxelles divenuta snodo del terrorismo internazionale: non è un quartiere estraneo alla città. Piuttosto alla società». (Laura Aguzzi, da “La Stampa” del 13/5/2016)

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MARC AUGÉ: UN NONLUOGO TUTTO PER SÉ

di MARCO AIME, da “La Stampa” del 25/7/2023

– Il filosofo francese è scomparso a 87 anni. Ha rivoluzionato il metodo di osservazione dell’uomo L’antropologia era lo sguardo dell’Occidente sull’altro: lui ha portato l’etnografia in casa, in metro, tra vicini – I suoi anni in Africa sono stati fondamentali per le intuizioni sul paganesimo e il sacro – “Più passa il tempo e più ho la sensazione che la morte non esista”, diceva Marc Augé al quotidiano francese Libération, in un’intervista del 2021 –

   Ci piaceva scherzare sul fatto che avevamo lo stesso nome e il cognome di quattro lettere, con la A iniziale e la E finale. Eravamo diventati amici, Continua a leggere

La CRISI CLIMATICA e la NEGAZIONE di essa: il mondo precipita nel disastro ambientale e poco nulla si fa (o, peggio, c’è il dileggio e la negazione) –  I 5 grandi temi legati alla sfida ambientale: lotta alle povertà; lotta alle disuguaglianze; transizione energetica; parità di genere; produzione di cibo sana per l’ambiente e per l’umanità

IL NEGAZIONISMO AMBIENTALE PORTATO AVANTI DA ALCUNI QUOTIDIANI ITALIANI (immagine tratta da https://www.climalteranti.it/)

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(nell’immagine: LA CRISI CLIMATICA AFFAMA IL MONDO: RAPPORTO OXFAM) — Secondo il rapporto “Hunger in a heating World – How the climate crisis is fuelling hunger in an already hungry world” pubblicato da OXFAM, «In soli 6 anni il numero di persone colpite dalla fame è più che raddoppiato nei 10 Paesi che hanno registrato il maggior numero di eventi climatici estremi: erano 21 milioni nel 2016, oggi sono 48 milioni, 18 milioni dei quali realmente sull’orlo della carestia.   Siccità, desertificazione, cicloni e alluvioni sempre più frequenti stanno mettendo a rischio milioni di vite nei contesti più vulnerabili del pianeta. Per far fronte alle crisi umanitarie che ne conseguono servono 49 miliardi di dollariossia la cifra richiesta dalle Nazioni Unite nell’appello per il 2022: un ammontare equivalente ai profitti realizzati in meno di 18 giorni dalle grandi aziende energetiche dei combustibili fossili».
   I 10 Paesi al mondo più colpiti da eventi climatici estremi negli ultimi 20 anni sono Somalia, Haiti, Gibuti, Kenya, Niger, Afghanistan, Guatemala, Madagascar, Burkina Faso e Zimbabwe.
   Stati che, pur pagando il prezzo più alto del cambiamento climatico, messi assieme sono responsabili di appena lo 0,13% delle emissioni globali di CO2 in atmosfera, mentre i Paesi del G20 ne producono il 76,60%. (…) (da https://greenreport.it/, 19/9/2022)

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UNA TERRA PER TUTTI, L’ULTIMO RAPPORTO DEL CLUB DI ROMA: ABBIAMO POCO PIÙ DI SEI ANNI PER EVITARE IL BARATRO

di Silvia Zamboni, Europa Verde, vicepresidente Assemblea legislativa Emilia Romagna, 6/4/2023, da https://www.ilfattoquotidiano.it/

Una Terra per tutti – l’ultimo rapporto al Club di Roma, uscito cinquant’anni dopo il primo, rivoluzionario, The Limits to Growth – è una raccolta di contributi di autorevoli scienziati, economisti ed esperti di ecologia. Andrebbe diffuso ai quattro angoli del Pianeta per creare consapevolezza sulle devastazioni che infliggiamo alla Terra a causa del modello oggi prevalente di produrre e consumare. Un modello fallimentare anche sul piano sociale e all’origine di inaccettabili disuguaglianze dentro i singoli popoli, e tra i diversi popoli.

   E se anche è vero che questi rapporti appartengono ormai a un genere consolidato di pubblicazioni, ciò che rende unico Una Terra per tutti, oltre alle diverse competenze complementari di autori ed autrici, è l’inedita exit strategy dall’emergenza climatica e sociale che delinea.

   Per Europa Verde ho contribuito alla conoscenza del volume organizzando una presentazione a Bologna, alla quale hanno portato il proprio contributo il professor Vincenzo Balzani, professore emerito dell’Università di Bologna, fondatore di Energia per l’Italia e membro del comitato scientifico di Europa Verde, e Gianfranco Bologna, direttore scientifico e Senior Advisor del Wwf Italia e segretario generale della Fondazione Aurelio Peccei, che rappresenta il Club di Roma in Italia. I loro interventi hanno confermato che Una terra per tutti è lo studio più completo sulla necessità di cambiare l’attuale sistema economico e sociale: da un capitalismo di “rapina” per pochi a una prosperità equilibrata che non lasci indietro nessuno.

   Il cambiamento da mettere in campo è declinato dal rapporto in cinque grandi sfide: lotta alle povertà; lotta alle disuguaglianze per ridurre la crescente forbice tra chi ha tanto e chi ha niente; transizione energetica verso un sistema elettrico alimentato da fonti rinnovabili; parità di genere ed empowerment delle donne; cambiamento del sistema alimentare per una produzione di cibo sana per l’ambiente e per l’uomo.

   Quello che si propone è dunque un radicale cambio di paradigma perché, se per economia intendiamo il bene delle persone e dell’ambiente, l’attuale modello è con tutta evidenza diseconomico. Come aveva già evidenziato il pioneristico The Limits to Growth – che sovvertiva il dogma della crescita illimitata alla base dell’idea novecentesca di economia – in un Pianeta finito le risorse non rinnovabili sono finite. E come tali vanno gestite, se vogliamo garantire una vita dignitosa per tutti ed evitare il collasso ecosistemico del Pianeta.

   L’importanza di questo rapporto è ben sintetizzata dalle parole di Vanessa Nakate, la nota attivista africana, fondatrice del movimento Rise Up, che forse ricorderete assieme a Greta Thunberg in uno dei tanti inconcludenti vertici globali sul clima. Ha scritto Vanessa: “Le idee esplorate in questo libro dovrebbero essere discusse in tutti i parlamenti del mondo. Dobbiamo cambiare le nostre economie in modo da cominciare ad anteporre le persone al profitto e abbiamo bisogno che i ricchi, gli inquinatori, paghino la loro parte per i danni che la crisi climatica sta scatenando sulle comunità povere in tutto il mondo. È ormai giunto il momento di creare un mondo più giusto e equo per tutti”.

   La grande tragedia odierna è che, in risposta all’accelerazione della crisi climatica e agli allarmi lanciati dagli scienziati sulle conseguenze, anche sociali, del riscaldamento globale, a prevalere sono una sostanziale inazione della politica (vedi le Conferenze Onu sul clima dopo quella di Parigi) e l’inerzia del “continuare a fare come si è sempre fatto”. Mentre Una terra per tutti ci dice chiaramente che il decennio 2020-2030 è l’ultima occasione che abbiamo per invertire la rotta prima che il cambiamento climatico sfugga dal nostro controllo. Ce lo dice anche il climate clock, l’orologio climatico che, grazie a Europa Verde, è stato caricato sulla home page del sito dell’Assemblea legislativa Emilia-Romagna e che presto apparirà su un display all’ingresso degli uffici regionali: abbiamo poco più di sei anni per evitare il baratro.

   Infine, una nota a margine. Il titolo del primo rapporto al Club di Roma è stato tradotto maldestramente con I limiti dello sviluppo (mentre il titolo corretto era “I limiti alla crescita”) implicando, in una lettura altrettanto sbagliata, che si volesse bloccare un democratico accesso generalizzato al benessere. Mentre quel testo evidenziava che, a quel passo di consumo di risorse non rinnovabili e di incremento demografico, l’economia sarebbe collassata per esaurimento delle risorse naturali disponibili.

Mi sono spesso chiesta se vengano (anche) da lì le critiche agli ecologisti di essere dei radical chic. Sta di fatto che già in quel primo rapporto erano chiare le contraddizioni di un sistema che ci ha portato a poco più di sei anni di distanza dal punto di non ritorno. Scrive in proposito Bill McKibben, autore di The End of Nature e di Eaarth: “Se nel 1972 avessimo prestato attenzione a The Limits to Growth non saremmo nella situazione in cui ci troviamo oggi. Ciò che resta di questo decennio potrebbe essere la nostra ultima opportunità di procedere, almeno in parte, nel modo giusto”.

Più che dibattere sulle parole, sarebbe stato più utile guardare la luna e non il dito. Abbiamo sei anni per recuperare. (Silvia Zamboni, 6/4/2023, da https://www.ilfattoquotidiano.it/)

(Il rapporto UNA TERRA PER TUTTI) — UNA TERRA PER TUTTI – Il più autorevole progetto internazionale per il nostro futuro, a cura di Jørgen Randers, Johan Rockström, Sandrine Dixson-Declève, Owen Gaffney, Jayati Ghosh, Per Espen Stoknes (novembre 2022, Edizioni Ambiente, pagg. 276, euro 25) – Una Terra per tutti è un antidoto alla perdita di speranza. Un insieme di indicazioni chiare verso un futuro migliore di quello prospettato oggi. Utilizzando i più avanzati software di simulazione e modellizzazione, gli autori esplorano le politiche in grado di portare il massimo beneficio al maggior numero di persone

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(THE LIMITS TO GROWTH) — Il rapporto del Club di Roma, uscito nel 1972, il primo, rivoluzionario, The Limits to Growth (i limiti della crescita) – Cinquant’anni fa un libro ci metteva in guardia sulle possibili derive della crescita. The Limits to Growth – in italiano I limiti dello sviluppo – parlava chiaro: l’umanità si stava spingendo verso un punto di non ritorno (“Il titolo del primo rapporto al Club di Roma è stato tradotto maldestramente con I limiti dello sviluppo, mentre il titolo corretto era “I limiti alla crescita”, implicando, in una lettura altrettanto sbagliata, che si volesse bloccare un democratico accesso generalizzato al benessere. Mentre quel testo evidenziava che, a quel passo di consumo di risorse non rinnovabili e di incremento demografico, l’economia sarebbe collassata per esaurimento delle risorse naturali disponibili” – Silvia Zamboni, 6/4/2023, da “Il Fatto Quotidiano”) (nell’immagine qui sopra: la copertina della versione inglese del Rapporto)

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AVANZA L’ONDA DEL NEGAZIONISMO CLIMATICO, ANCHE IN EUROPA

di Gianni Silvestrini, da https://www.qualenergia.it/, 6/6/2023

Negazionismo climatico e opposizione alle politiche energetiche verdi saranno al centro dei programmi di molti partiti di destra nelle elezioni europee del 2024. Uno snodo fondamentale per le strategie di questo decennio.

   Dopo due leader come Trump e Bolsonaro che hanno negato la pericolosità dell’emergenza climatica, rallentando di fatto la transizione ambientale, l’attenzione è ora puntata sulla vecchia Europa, riferimento negli ultimi trent’anni per le politiche ambientali.

   Gli equilibri che si definiranno dopo le elezioni europee del 2024 influenzeranno infatti notevolmente le politiche di questo decennio.

   Ma le sicurezze del passato sono incrinate dall’emergere di forze di estrema destra che, oltre alle note posizioni sul fronte sociale, pensiamo ai migranti, stanno sempre più definendosi come negazioniste climatiche.

   In Germania l’AFD negli ultimi sondaggi ha sfiorato il 20% ponendosi come terza forza politica e superando i Verdi. Le sue posizioni rispecchiano quelle di altri partiti di destra, contrari alle trasformazioni verso la mobilità elettrica e le rinnovabili.

   Tonia Mastrobuoni scrive su Repubblica: “l’ideologo della Nuova destra tedesca, Goetz Kubitschek, trait d’union tra l’Afd e i movimenti giovanili neonazisti come gli Identitari, spiega che la destra non considerava più i comunisti e i socialisti come principali avversari politici, bensì i verdi: “Un nemico antropologico.

   Alza la testa anche l’estrema destra spagnola che si era già opposta alla legge sul cambiamento climatico. E i neonazisti svedesi in forte crescita appoggiano il nuovo governo di destra puntando, oltre al solito blocco dell’immigrazione, al contrasto delle fonti rinnovabili.

   E potremmo continuare evidenziando gli spostamenti che stanno avvenendo in vari paesi, Italia inclusa.

   Insomma, si configurano posizioni politiche che rappresentano un chiaro attacco alla scienza. Sempre più spesso, infatti, vengono messe in discussione e sbeffeggiate le posizioni degli esperti climatici dell’IPCC di tutte le discipline e di tutti i paesi, consolidatesi negli ultimi decenni.

   Che sia in atto un riscaldamento del pianeta viene accettato, ma vengono negate clamorosamente le responsabilità dell’uomo, il ruolo combustibili fossili…

   Durante la pandemia di Covid una rumorosa minoranza criticava le posizioni di medici e ricercatori rifiutando di vaccinarsi, ma la gran maggioranza ha invece fatto il vaccino. Sul clima, malgrado l’aumento dei fenomeni estremi, cresce in maniera impressionante lo scetticismo. Secondo un recente sondaggio condotto dall’Università di Chicago la quota di coloro che ritengono fondamentale la responsabilità dell’uomo nei cambiamenti climatici è crollata negli Usa dal 60%, registrato solo cinque anni fa, al 49%.

   E secondo un recente sondaggio IPSOS, relativo a due terzi della popolazione mondiale, quasi quattro persone su dieci credono che il cambiamento climatico sia dovuto principalmente a cause naturali.

   Rimane il fatto che “puoi dire che la forza di gravità non è vera, ma se ti butti da una scogliera, precipiti”, come ricordano gli studenti e docenti dell’Ohio State University che lottano contro un disegno di legge che limiterebbe le discussioni sulle politiche climatiche.

   L’avanzata del negazionismo climatico fa capire l’importanza delle elezioni europee del 2024. La critica alle politiche climatiche sarà infatti al centro dei programmi, in particolare da parte di coloro che vogliono minare il riferimento rappresentato dall’Unione europea.

   È bene ricordare, ad esempio, che se le rinnovabili stanno espandendosi in maniera clamorosa nel mondo è anche grazie alle politiche assunte dall’Europa dopo la firma del Protocollo di Kyoto nel 1997.  Ed è interessante il fatto che la decisione di Bruxelles sul passaggio dal 2035 alla vendita di sole auto elettriche, sia stato rapidamente replicata dalla California e da altri sei Stati degli Usa.

   In questo contesto difficile, dovremo evidenziare con forza i vantaggi occupazionali e sociali della rivoluzione energetico-climatica, ponendoci anche i problemi connessi con la transizione, come per le industrie della componentistica dell’auto.

   Ma fortunatamente l’accelerazione in atto delle tecnologie green difficilmente si fermerà, come ci ricorda la notizia che probabilmente la Cina riuscirà a raggiungere con dieci anni di anticipo i suoi obiettivi di decarbonizzazione.

   E la stessa Iea ha alzato la stima per il 2023 a 440 GW rinnovabili, cioè il doppio di quanto installato globalmente nel 2019. (Gianni Silvestrini)

(Articolo tratto dall’editoriale della rivista bimestrale QualEnergia n.2/2023) 

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(Nell’immagine: CLIMATE CHANGE, la mappa con i sedici punti di non ritorno, da “Il Sole 24ore” del 3/1/2023) — (da https://www.infodata.ilsole24ore.com/ del 3/1/2023) Uno studio pubblicato in questi giorni sulla rivista scientifica Science ha identificato 16 punti di non ritorno che potranno verificarsi con un innalzamento delle temperature sopra 1,5°C. I Climate tipping points sono punti di svolta nella crisi climatica, superati i quali le conseguenze sono irreversibili, con un pericoloso impatto sull’umanità. Lo studio è basato sulla revisione di oltre 200 articoli scientifici a partire dal 2008 ed è coordinato da David Armstrong McKay dell’Università britannica di Exeter. La tesi è che anche rispettando l’accordo di Parigi che chiedeva di limitare il riscaldamento globale sotto i 2°C si rischia di assistere al superamento di numerosi punti di non ritorno.
Nella mappa in alto è indicata la posizioni dei punti di non ritorno nella criosfera (blu), nella biosfera (verde) e nell’oceano/atmosfera (arancione) e i livelli di riscaldamento globale ai quali verranno probabilmente attivati.  Il colore degli indicatori esprime la stima della soglia centrale di riscaldamento globale inferiore a 2°C, ovvero all’interno dell’intervallo dell’accordo di Parigi (arancione chiaro, cerchi); tra 2 e 4°C, cioè accessibile con le attuali policy (arancione, rombi); e 4°C e oltre (rosso, triangoli).

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(VANESSA NAKATE, attivista per il clima) — Vanessa Nakate (nella FOTO), la nota attivista africana, fondatrice del movimento Rise Up, che forse ricorderete assieme a Greta Thunberg in uno dei tanti inconcludenti vertici globali sul clima. Ha scritto Vanessa: “(…) Dobbiamo cambiare le nostre economie in modo da cominciare ad anteporre le persone al profitto e abbiamo bisogno che i ricchi, gli inquinatori, paghino la loro parte per i danni che la crisi climatica sta scatenando sulle comunità povere in tutto il mondo. È ormai giunto il momento di creare un mondo più giusto e equo per tutti”. (Silvia Zamboni, 6/4/2023, da “Il Fatto Quotidiano”)

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LA CRISI CLIMATICA AFFAMA IL MONDO

da https://greenreport.it/, 19/9/2022

– Oxfam: nei 10 Paesi più colpiti dal cambiamento climatico sono raddoppiati gli affamati –

   Secondo il rapporto “Hunger in a heating World – How the climate crisis is fuelling hunger in an already hungry world” pubblicato da OXFAM, «In soli 6 anni il numero di persone colpite dalla fame è più che raddoppiato nei 10 Paesi che hanno registrato il maggior numero di eventi climatici estremi: erano 21 milioni nel 2016, oggi sono 48 milioni, 18 milioni dei quali realmente sull’orlo della carestia.   Siccità, desertificazione, cicloni e alluvioni sempre più frequenti stanno mettendo a rischio milioni di vite nei contesti più vulnerabili del pianeta. Per far fronte alle crisi umanitarie che ne conseguono servono 49 miliardi di dollariossia la cifra richiesta dalle Nazioni Unite nell’appello per il 2022: un ammontare equivalente ai profitti realizzati in meno di 18 giorni dalle grandi aziende energetiche dei combustibili fossili».

   I 10 Paesi al mondo più colpiti da eventi climatici estremi negli ultimi 20 anni sono Somalia, Haiti, Gibuti, Kenya, Niger, Afghanistan, Guatemala, Madagascar, Burkina Faso e Zimbabwe.

   Stati che, pur pagando il prezzo più alto del cambiamento climatico, messi assieme sono responsabili di appena lo 0,13% delle emissioni globali di CO2 in atmosfera, mentre i Paesi del G20 ne producono il 76,60%. Con i Paesi G7 che impattano da soli per quasi la metà delle emissioni globali a fronte di una capacità di risposta e adattamento nemmeno lontanamente paragonabile a quella di questi 10 paesi.

   Gli effetti più drammatici della crisi climatica si riscontrano in questo momento nei seguenti stati:

Somalia – al 172° posto su 182 paesi per la capacità di risposta alla crisi climatica – con la peggiore siccità mai registrata, una carestia già in corso nei distretti di Baidoa e Burhakaba e 1 milione di persone costrette a lasciare le proprie case per sopravvivere;

Kenya, dove la siccità ha ucciso quasi 2,5 milioni di capi di bestiame e lasciato 2,4 milioni di persone senza cibo, tra cui centinaia di migliaia di bambini;

Niger, con 2,6 milioni di persone che soffrono di fame acuta (+767% rispetto al 2016), mentre la produzione di cereali è crollata di quasi il 40% per l’impatto di alluvioni, siccità e del conflitto che attraversa il Paese;

Burkina Faso dove i livelli di fame sono cresciuti del 1350% dal 2016, con oltre 3,4 milioni di persone senza cibo a causa del conflitto in corso nel paese e del processo di desertificazione che sta bruciando campi e pascoli;

Guatemala, dove una gravissima siccità ha contribuito alla perdita di quasi l’80% del raccolto di mais e devastato le piantagioni di caffè. Mariana López, madre, che vive a Naranjo, nel Corridoio Secco del Guatemala, ha detto a Oxfam: «Non abbiamo mangiato per otto giorni e ho dovuto vendere la terra dove non cresceva più niente per la siccità».

   Il rapporto è stato pubblicato in vista dell’Assemblea generale dell’Onu e della 27esima Conferenza delle parti Unfccc e Francesco Petrelli, policy advisor per la sicurezza alimentare di Oxfam Italia, fa notare che «La crisi climatica non è più un’emergenza pronta ad esplodere, ma una realtà di portata epocale che si sta consumando sotto i nostri occhi. Il numero di eventi climatici sempre più estremi e imprevedibili è cresciuto di ben 5 volte nell’ultimo mezzo secolo. Per milioni di persone già colpite dagli effetti della guerra in Ucraina e dalle crescenti disuguaglianze, è impossibile fronteggiare i disastri climatici. Basti pensare che tra il 2010 e il 2019 i danni materiali diretti e indiretti dovuti al clima sono stati in media di 3,43 milioni di dollari al giorno. Siamo di fronte ad una tempesta perfetta che produce una crescita esponenziale della fame globale, per la quale devono essere adottate misure urgenti, radicali e non più rinviabili. Di questo passo tra il 2030 e il 2050 fino a 720 milioni di persone – ovvero 1 abitante su 11 del pianeta – rischia di ritrovarsi in condizioni di povertà estrema a causa della crisi climatica».

   Il rapporto ricorda che «L’Africa produce il 2% delle emissioni, ma entro il 2030 118 milioni di persone saranno colpite dalla crisi climatica. Una catastrofe destinata a peggiorare se le temperature medie globali supereranno i 2° C di aumento (rispetto al periodo pre-industriale), con le produzioni di cereali come miglio e sorgo che potrebbero calare fino al 25% in paesi con Kenya e Burkina Faso. Nel complessol’Africa produce appena il 2% alle emissioni globali di CO2, ma gli effetti del cambiamento climatico entro il 2030 potrebbero costringere fino a 118 milioni di persone a fare i conti con siccità, inondazioni e temperature sempre più estreme».

   Petrelli denuncia che «La fame, alimentata dal cambiamento climatico, è la riprova delle profonde disuguaglianze che attraversano il pianeta. I Paesi che hanno minori responsabilità per la crisi climatica e quasi nessuno strumento per affrontarla, ne pagano il prezzo più alto. Nell’indice globale che misura quanto i diversi paesi siano in grado di adattarsi al cambiamento climatico, quelli più colpiti sono agli ultimi posti. Paradossalmente, i leader delle nazioni più ricche, come quelle del G20 – che controllano l’80% dell’economia mondiale – continuano a difendere gli interessi delle aziende più ricche e inquinanti, spesso tra i primi sostenitori delle loro campagne politiche ed elettorali. Si stima che le aziende che producono energia dai combustibili fossili abbiano realizzato in media 2,8 miliardi di dollari al giorno di profitti negli ultimi 50 anni. È evidente quindi quanto sia urgente un cambio di paradigma per far fronte a questa immane crisi».

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   Petrelli conclude: «È necessario inoltre stanziare immediatamente le risorse richieste dalle Nazioni Unite per fronteggiare l’emergenza. Farlo è un dovere etico, non è carità. È un’assunzione di responsabilità che riguarda il nostro comune futuro. È poi evidente, che non possiamo risolvere la crisi climatica senza correggere le disuguaglianze presenti nel sistema alimentare e in quello energetico. La strada da seguire è far pagare chi inquina di più: un’addizionale di appena l’1% sui profitti annui delle multinazionali che producono energia da combustibili fossili porterebbe circa 10 miliardi di dollari di entrate per gli stati, sufficienti a colmare gli ammanchi finanziari per far fronte all’aumento della fame globale». (da https://greenreport.it/, 19/9/2022)

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(Mappa da https://www.foodandtec.com/) — Quanto sono seri i Paesi rispetto ai loro impegni climatici? Pochissimo, anzi per nulla: anche quest’anno nessuno Stato tra quelli considerati dal report Climate Change Performance Index 2023 raggiunge le performance necessarie a contrastare la crisi climatica.
L’Italia traccheggia sempre al centro della classifica al 29° posto.
Danimarca, Svezia, Cile, Marocco e India sono in testa.
Iran, Arabia Saudita e Kazakistan ultimi.
USA e Cina sono i principali responsabili delle emissioni globali, e si piazzano nelle posizioni di retroguardia.
(da https://www.foodandtec.com/ 21/11/2022)

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LA MALATTIA DEL NEGAZIONISMO

di Mario Tozzi, da “La Stampa” del 12/6/2023

– Dal fumo ai pesticidi e ora il clima: non-verità scientifiche alternative difendono il capitalismo dal 1970 ma la crisi è reale: basta ipocrisia – La loro religione è quella del mercato così nasce il livore contro gli ambientalisti – Si vuole far passare l’idea che la scienza, non sia unanime ma lo è: la causa è l’uomo –

   E’ almeno dagli anni Novanta del XX secolo che il dibattito sul cambiamento climatico all’interno della comunità degli scienziati specialisti (unico terreno di dibattito possibile nella scienza) si è concluso con la dichiarazione che l’attuale riscaldamento globale è anomalo e accelerato rispetto al passato e dipende, con una confidenza e un consenso oltre il 90%, dalle attività produttive dei sapiens. Perché allora sta affiorando un rigurgito non di dubbi (lo scetticismo è il sale della ricerca scientifica), ma di negazionismo vero e proprio che arriva a mettere in discussione il metodo stesso, riportando tutto al rango di semplice opinione? Da dove nasce? Dove vuole arrivare?

   Tutto nasce negli Usa alla fine della Guerra Fredda, quando alcuni scienziati precedentemente occupati nel programma atomico nazionale, di grande personalità e fieramente anticomunisti, si trovano progressivamente senza una occupazione specifica e con un nemico che andava piano piano scolorendo. C’era bisogno di conquistare nuove posizioni remunerate di rilievo, che trovavano nelle consulenze federali, e di un nuovo nemico, che identificavano nella salute dei sapiens e nell’ambiente. I nomi, tra i quali spiccano Frederick Seitz e Fred Singer, sono sempre quelli: li ritroviamo in tutte le storie che seguono.

   Il casus belli sono le ricerche scientifiche che, fino dagli anni Cinquanta, mettono in luce la correlazione diretta fra il cancro ai polmoni e fumo di sigaretta. E, dagli anni Settanta, anche con il fumo passivo, svincolando la malattia dalla decisione libera dell’individuo di fumare oppure no. A quel punto iniziano le battaglie legali contro le major del tabacco, che assoldano quegli scienziati per un lavoro di controinformazione pseudoscientifico avvalorato dalla loro precedente autorevolezza in altri campi. E i mezzi di comunicazione decidono colpevolmente di prestare fede ai dubbi mercanteggiati da questa lobby, trincerandosi dietro il principio di equilibrio informativo, principio che in scienza ha ragione di esistere quanto la favola di Cappuccetto Rosso: non si danno la stessa importanza e lo stesso peso informativo alla scienza certificata e a quella prezzolata e non verificata. In questo modo si intimidiscono gli organi di controllo e le vittime, che riescono a organizzarsi solo a partire dagli anni Novanta nelle prime class actions di successo: si sono guadagnati almeno 40 di profitti.

   Lo stesso accade per le piogge acide, un problema ambientale che aveva portato a bruciare letteralmente le foreste nordamericane e scandinave negli anni Settanta. In questo caso la ricerca scientifica aveva identificato nello zolfo il chiaro e solo responsabile, ma desolforare gli impianti di produzione di energia statunitensi era oneroso e avrebbe comportato una riduzione dei profitti, ragione per cui i negazionisti si sono messi all’opera per insinuare il dubbio che non fosse quello il meccanismo, tirando in ballo fenomeni particolari e, in sostanza, facendo perdere tempo alla regolamentazione del settore.

   Sul Ddt le cose sono andate peggio: ancora oggi ci sono “scienziati” che, al di fuori del campo delle riviste certificate, criticano il bando del Ddt, perché così si sarebbero condannati milioni di bambini per le malattie nei paesi poveri. Colpevoli i democratici e i radicali statunitensi, influenzati surrettiziamente dagli ambientalisti fomentati dal libro di Rachel Carson Primavera Silenziosa (1962). Nel libro si mettevano in luce i danni micidiali che i pesticidi stavano recando agli uccelli e agli altri viventi, facendo emergere che se qualcuno fosse costretto a scegliere su chi far rimanere in vita sul pianeta fra i sapiens e le api, la scelta sarebbe immediata e irrevocabile: gli ecosistemi possono fare a meno dei sapiens, ma non degli insetti. Si è poi scoperto che le zanzare si “adattano” al Ddt e che questo risultava inefficace già nelle seconde ondate di malaria susseguenti alle prime irrorazioni.

   Nel 1995 Rowland, Crutzen e Molina vincono il Nobel per la chimica per aver scoperto il meccanismo di impoverimento dell’ozono che lacerava l’atmosfera causando il cosiddetto buco dell’ozono. E attribuendone la responsabilità al cloro contenuto nei Cfc, utilizzati come propellenti nelle bombolette spray e come additivi nei refrigeratori. Per anni i negazionisti avevano tentato di impedire quel rapporto causa—effetto, per proteggere gli interessi delle corporation che fabbricavano Cfc, obbligate poi a cessare la produzione e al bando dei Cfc solo dopo anni di estenuanti trattative a Montreal (1987). Anche in questo caso la scienza certificata aveva correttamente previsto tutto, compreso il fatto che con il bando gli strappi si sarebbero ricuciti, cosa che si completerà fra il 2040 e il 2066.

   E oggi tocca al cambiamento climatico, in una guerra senza quartiere che vede protagonisti anche organi senza alcuna autorevolezza scientifica, in cui appaiono pochissimi scienziati, quasi sempre non specialisti, e molti signor nessuno (nella diramazione italiana perfino un sommelier!), approfittando dell’analfabetismo funzionale del 47% degli italiani e dell’idea, tutta giornalistica, che sulla scienza si deve discutere anche fuori dai circoli deputati. Oppure reclutando scienziati pure autorevoli, ma non specialisti, che danno la colpa del cambiamento al sole, mentre i dati Nasa dicono esattamente il contrario, oppure sostengono che è sempre stato così e l’uomo non c’entra nulla. Posizioni però sostenute non sulle riviste scientifiche peer reviewed, dove avrebbero un senso anche se scettiche, ma nelle interviste a giornalisti compiacenti che si sono occupati fino al giorno prima di cronaca nera o di costume.

   Creando così una confusione generale che è il vero obbiettivo: i negazionisti non vogliono proporre una verità scientifica alternativa, che non esiste in nessun dato, ma dimostrare che il dibattito è ancora aperto e che la scienza non è unanime. Proprio quando sono ormai anni che il consenso su le riviste scientifiche a proposito del ruolo forzante dell’uomo nel riscaldamento globale è superiore al 97%. L’obiettivo è impedire ogni forma di regolamentazione del libero mercato, vista come figlia e madre di quel comunismo che i negazionisti ancestrali volevano combattere. Ideologia pura, in base alla quale si bollano paradossalmente come ideologici gli ambientalisti “verdi fuori e rossi dentro” (espressione non a caso coniata proprio negli Usa in quegli anni ruggenti). Oggi il comunismo è scomparso, ma il nemico è diventato l’ambientalismo: per questo si alimenta un vento oscurantista che tende a ridurre tutto a opinione sulla quale è possibile discettare. E perché devo fare sacrifici o redistribuire ricchezza ai Paesi poveri, quando gli scienziati non sono nemmeno d’accordo fra loro?

   La massimizzazione dei profitti, scaricando costi sociali e ambientali, e il mercato senza regole, questa la vera religione, altro che quella di Greta o di Ultima Generazione. E non è un caso che si riscontri un vero livore contro questi ragazzi, alimentato da un’ipocrisia indecente, additando loro come nemici e alzando una cortina fumogena attorno ai veri responsabili. La crisi ambientale mette a nudo i limiti intrinseci del sistema economico capitalista che non riesce a trovare un rimedio nel libero mercato perché il capitale naturale non è infinito: se Marx avesse messo la questione ambientale nel giusto conto, le sue previsioni si sarebbero rivelate più azzeccate. Il banchetto è finito, è arrivato il conto e non serve a nulla ignorare il cameriere o additare lui come responsabile del prezzo salato. (Mario Tozzi, da “La Stampa” del 12/6/2023)

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LA CRISI CLIMATICA È UN’EMERGENZA UMANITARIA (foto da https://www.unhcr.org/)

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CAMBIAMENTO CLIMATICO E DISASTRO AMBIENTALE

di Davide Papotti, da https://www.doppiozero.com/, 1/6/2023

   La geografia è considerata di norma una disciplina che studia lo spazio, come già suggerisce la stessa etimologia della parola: “scrittura/descrizione della Terra”. Eppure, a ben pensarci, basta introdurre parole, quali quelle che stiamo leggendo ed ascoltando sempre più frequentemente nei discorsi mediatici di questi ultimi mesi, come “dinamiche territoriali”, “trasformazioni dello spazio”, “cambiamento climatico”, per comprendere come la dimensione temporale sia inevitabilmente intrecciata con l’analisi geografica.

   In un interessante volume uscito nel 2006, intitolato significativamente La geografia del tempo. Saggio di geografia culturale (Torino, Utet), il geografo Adalberto Vallega (1934-2006) esprimeva in questo modo il cuore della questione: “[…] chiederci come sia possibile cogliere il senso del tempo nel segno del luogo e, così facendo, come si possa scoprire a quali valori e a quali significati il tempo del singolo luogo conduca. In sostanza, si pone la questione del modo in cui affrontare un apparente paradosso, che consiste nel costruire una ‘geografia del tempo’, intesa come rappresentazione del tempo che connota i luoghi”.

   Le acute parole di Vallega possono essere un utile punto di partenza per svolgere qualche riflessione sulle urgenti (un altro aggettivo di natura temporale…) questioni che i tragici eventi degli ultimi mesi hanno posto con evidenza alla nostra attenzione. I fenomeni di estrema siccità, seguiti a distanza di poche settimane da inondazioni ed alluvioni, hanno provocato un cortocircuito di percezioni contrastanti: acqua in quantità insufficiente vs acqua in eccesso.

   Questa contrapposizione, evidenziata dai mass media, suggerisce implicitamente la Continua a leggere

LA NUOVA DIGA nel Porto di Genova all’inizio della costruzione: MAGAOPERA mai realizzata con espresse perplessità di tenuta (su un progetto dichiarato impeccabile) – Ma ne usufruirà Genova per aumentare i traffici delle navi portacontainer rispetto ai porti del nord Europa? Reggerà una competizione nazionalista e poco collaborativa?

Nella foto: IL PORTO DI GENOVA (autorità portuale del Mar Ligure Occidentale) da www.ilpost.it/ – 10/5/2023 – NUOVA DIGA DI GENOVA: il Tar annulla l’aggiudicazione a Webuild dell’appalto da un miliardo, ma l’opera va avanti – Accolto il ricorso del consorzio Eteria. Bocciata la procedura di Autorità Portuale ma i lavori resteranno a Salini perché finanziati dal Pnrr. Si apre la partita per un maxi risarcimento all’impresa illegittimamente esclusa

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(IL PROGETTO DELLA NUOVA DIGA DI GENOVA, immagine dai costruttori WEBUILD, ripresa da www.ilpost.it/) – La FASE A di costruzione delle diga foranea nel porto di Genova, quella appena iniziata, e che dovrà concludersi entro novembre 2026 (lo impone il Pnrr), servirà a creare oltre 4 chilometri di barriera che, già così, consentirà l’ingresso delle grandi navi portacontainer di ultima generazione — “DIGA FORANEA”: significa che è la prima protezione dal mare per le navi che entrano nel porto – “(…) Complessivamente sarà lunga circa 6,2 chilometri. Sarà costruita per far entrare in porto enormi navi portacontainer, le più grandi mai costruite, lunghe oltre 400 metri, larghe 62 e con un carico di oltre 24mila TEU, acronimo di twenty-foot equivalent unit, lo standard minimo di un container (teu: unità di misura pari a un container da 20 piedi, NDR). La diga attuale dista 550 metri dalla costa, mentre quella nuova sarà costruita a una distanza di 800 metri per permettere anche alle navi più grandi di ruotare su loro stesse in caso di manovra. (…)” (da “IL POST.IT”, 4/5/2023, https://www.ilpost.it/)

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PARTITI I LAVORI DELLA NUOVA DIGA DI GENOVA, OPERA PNRR DA UN MILIARDO

– Via alla prima gettata di ghiaia. È il progetto più complesso e imponente tra quelli finanziati col Fondo complementare –

di Raoul de Forcade, da “Il Sole 24ore” del 4/5/2023 – https://www.ilsole24ore.com/

   La posa della “prima pietra” della nuova diga foranea di Genova, che in questo caso si è concretizzata con una gettata di ghiaia sul fondo marino, dalla nave Maria Vittoria Z, ormeggiata 500 metri al largo del porto di Genova-Sampierdarena, è avvenuta alle 12,50 precise di giovedì 4 maggio 2023.

   Un evento cui hanno dato avvio, premendo un pulsante rosso da palazzo San Giorgio, sede dell’Autorità di sistema portuale (Adsp) di Genova e Savona, il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini, insieme al viceministro Edoardo Rixi, ai vertici delle istituzioni genovesi e liguri, al commissario per l’opera, Paolo Emilio Signorini (presidente anche dell’Adsp) e a Pietro Salini, ad di Webuild, società che, in consorzio con Fincantieri Infrastructure, Fincosit e Sidra, ha vinto l’appalto (del valore di 850 milioni).

   Con questa cerimonia si aprono i lavori dell’opera più complessa e mastodontica tra quelle finanziate (in parte) grazie al Piano nazionale di ripresa e resilienza. Dei 950 milioni complessivi necessari a costruire il primo e più importante tratto della diga (Fase A), infatti, 500 arrivano dal Fondo complementare al Pnrr; circa 100 milioni dal ministero delle Infrastrutture; 300 milioni dall’Adsp, di cui 280 circa con un prestito Bei (Banca Europea Investimenti, NDR); 57 milioni dalla Regione Liguria. (Raoul de Forcade, da “Il Sole 24ore” del 4/5/2023 – https://www.ilsole24ore.com/)

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(nella foto: la MSC GÜLSÜN, una delle più grandi navi portacontainer del mondo, con una capacità di 23.000 TEU – foto da www.lastampa.it/) – Il trasporto marittimo continua a rappresentare il principale “veicolo” dello sviluppo del commercio internazionale: il 90% delle merci, infatti, viaggia via mare. I trasporti marittimi e la logistica valgono circa il 12% del PIL globale

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Raoul de Forcade, da “Il Sole 24ore” del 4/5/2023 – https://www.ilsole24ore.com/:

Salvini: «Opera per lo sviluppo del Paese»

«Quest’opera – ha detto Salvini – contribuirà allo sviluppo del Paese. I critici dicono che mai è stata fatta prima una diga cosi ma l’Italia è il Paese dove si osa, dove si crea con gli ingegneri migliori al mondo. Ingegneri che portano sapienza italiana nel mondo ma troppo spesso non qui in Italia. Invece oggi costruiamo anche qui».

   La diga è il più grande intervento mai realizzato per il potenziamento della portualità italiana, e fa parte del sistema integrato di interventi che stanno ridisegnando l’accessibilità marittima, stradale e ferroviaria del porto di Genova e della Liguria: TERZO VALICO e PARCHI FERROVIARI, COLLEGAMENTI DIRETTI con l’AUTOSTRADA, POTENZIAMENTO delle BANCHINE, SVILUPPO delle RIPARAZIONI NAVALI, e COLD IRONING (ndr: il “cold ironing” è il sistema che consente il collegamento elettrico delle navi alla banchina permettendo di spegnere i generatori ausiliari a combustibile fossile al fine di alimentare i propri servizi di bordo: tale processo permette così di azzerare l’inquinamento acustico nelle aree urbane circostanti e ridurre le emissioni di CO2, NOe polveri sottili, sfruttando l’energia elettrica immessa in rete tramite gli impianti di produzione da fonti rinnovabili installati su tutto il territorio; NDR).

   La nuova diga foranea sarà realizzata in DUE FASI è costerà complessivamente circa 1,35 miliardi di euro. La FASE A, quella appena iniziata, e che dovrà concludersi entro novembre 2026 (lo impone il Pnrr), servirà a creare oltre 4 chilometri di barriera che, già così, consentirà l’ingresso delle grandi navi portacontainer di ultima generazione, superiori a 18mila teu (unità di misura pari a un container da 20 piedi) di carico; mentre la FASE B, che deve ancora essere appaltata, prevede la costruzione di un’altra tranche di murata che porterà la lunghezza della diga a 6,2 chilometri. (Raoul de Forcade, da “Il Sole 24ore” del 4/5/2023 – https://www.ilsole24ore.com/)

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(Il progetto della nuova diga foranea di Genova, immagine da https://www.dailynautica.com/) – mai è stata fatta prima una diga così – “(…) Nonostante le rassicurazioni, negli ultimi mesi sono emersi dubbi sull’opportunità di costruire una diga così grande, con proteste per l’impatto ambientale e per l’organizzazione del cantiere.   Piero Silva, professore universitario di pianificazione portuale all’università di Grenoble, consulente esterno delle prime fasi progettuali, ha scritto una lettera alla città di Genova in cui esprime dubbi sulle previsioni ottimistiche dell’autorità portuale. Lo scorso anno si dimise da consulente dopo che i suoi rilievi non vennero presi in considerazione. (da “IL POST.IT”, 4/5/2023, https://www.ilpost.it/)

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Raoul de Forcade, da “Il Sole 24ore” del 4/5/2023 – https://www.ilsole24ore.com/:

Si costruirà su fondali fino a 50 metri

Per realizzare il basamento di quest’opera – unica nel suo genere dal punto di vista ingegneristico – che poggerà su fondali fino a una profondità di 50 metri, saranno impiegati 7 milioni di tonnellate di materiale roccioso, su cui verranno posizionati 97 cassoni prefabbricati in cemento armato, larghi 35 metri, lunghi 67 metri e alti fino a 33 metri (come un palazzo di 10 piani).

   Questa infrastruttura marittima, spiegano i tecnici dell’Adsp (Autorità di sistema portuale), è studiata anche per proteggere i bacini e le strutture portuali dai cambiamenti climatici: un vero argine al mare. E il materiale proveniente dalla demolizione della vecchia diga sarà quasi tutto riutilizzato, in un’ottica di economia circolare, riducendo gli impatti ambientali della costruzione.

   La costruzione della nuova diga, come si è accennato, consentirà l’accesso al porto in sicurezza anche alle moderne navi definite ultra large, che oggi subiscono limitazioni per il ridotto spazio di manovra nel bacino storico realizzato a fine anni ’30. Una volta ultimata, il porto avrà un bacino di evoluzione di 800 metri e sarà possibile differenziare il traffico merci da quello passeggeri e crocieristico.

Crescita dei traffici tra il 22 e il 30%

Questo, ha sottolineato Signorini, consentirà al porto di Genova di essere competitivo con i maggiori hub europei e attestarsi sempre più in alto fra quelli del Mediterraneo. Il commissario e presidente dell’Adsp stima che la nuova diga assicurerà una crescita progressiva annua dei traffici commerciali «tra il 22% e il 30% dal 2027 al 2030, anno in cui sarà ultimata anche la Fase B». L’Adsp calcola il beneficio economico in 4,2 miliardi, in termini di maggiori introiti da traffico container, di diritti e tasse portuali.

   Mentre, sempre secondo Signorini, ammontano a un miliardo gli investimenti che potranno partire sulle banchine, da parte dei privati, grazie al traino dell’opera. Msc, ad esempio, ha confermato il patron dell’azienda, Gianluigi Aponte, investirà 280 milioni per il potenziamento di calata Bettolo e anche le banchine occupate dal Hapag Lloyd e dal gruppo Spinelli dovranno essere adeguate alla nuova diga. La costruzione dell’opera, infine, impiegherà, circa mille persone e numerose imprese del territorio.

Con la diga, logistica Nord Ovest più competitiva

Sul fronte delle istituzioni locali, il governatore ligure, Giovanni Toti, ha detto che «questa diga fa sì che la logistica del Nord Ovest diventi davvero competitiva in Europa e lasciatemi dire che, insieme ai cassoni, oggi affondiamo una politica che troppo spesso distrugge e non costruisce».

   Mentre il sindaco di Genova, Marco Bucci, ha chiosato: «Avere la diga vuol dire avere più acqua, quindi anche più terra su cui dare ricaduta economica e occupazionale sulla città. Come nei secoli passati, quando Genova si allarga sul mare, genera una ricaduta sulla città stessa. Questo è il concetto chiave della giornata di oggi».

   Salini, parlando a nome dei costruttori, e rispondendo a chi ha chiesto se il consorzio riuscirà davvero a finire in tre anni i lavori, ha affermato: «Certo che ce la faremo. Ce la metteremo tutta. Ci mettiamo tutta la nostra buona volontà per realizzare la diga. Questo sforzo lo facciamo per il Paese. Il ponte di Genova lo abbiamo fatto noi: pensavate che sarebbe stato pronto? Forse no; e invece lo è stato. Noi quando ci proviamo, ci proviamo».

   Impegnato sull’opera è anche il gruppo Rina. «Il ruolo che l’azienda ha nella realizzazione della diga – spiega l’ad del Rina, Ugo Salerno – è lo stesso che l’azienda ha avuto anche nella ricostruzione del ponte di Genova, cioè quello di project manager e direzione lavori nonché la parte legata alla regia dell’esecuzione dell’operazione. Un ruolo che sappiamo svolgere e a cui guardiamo con grandissimo senso di responsabilità, come per tutte le infrastrutture. Questa però è speciale, perché è molto importante per la città e molto complessa da eseguire. La seguiremo con straordinaria attenzione». (Raoul de Forcade, da “Il Sole 24ore” del 4/5/2023 – https://www.ilsole24ore.com/)

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Vedi il video che spiega bene (di Geopop.it):

Nuova diga foranea di Genova, la più profonda d’Europa: a cosa serve e come sarà costruita (geopop.it)

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(tracciato terzo valico ferroviario, lungo 53 km di cui il 70 per cento in galleria, la nuova linea interessa 14 Comuni nelle province di Genova e Alessandria) – Da https://www.fsitaliane.it/:  La nuova linea ferroviaria Terzo Valico è in primo luogo finalizzata a migliorare i collegamenti del sistema portuale ligure con le principali linee ferroviarie del Nord Italia e con il resto d’Europa, in coerenza con le strategie annunciate nel Libro Bianco dei Trasporti dell’UE: trasferire entro il 2030 il 30% del traffico merci, oltre i 300 km, dalla strada al ferro, e il 50% entro il 2050, con vantaggi per l’ambiente, la sicurezza e l’economia.

Parte fondamentale del Core Corridor TEN-T Reno-Alpi – il più importante asse europeo di collegamento nord a sud su cui si muove il maggior volume di merci trasportate in Europa, attraversando i Paesi a maggior vocazione industriale (Paesi Bassi, Belgio, Germania, Svizzera e Italia), il Mediterraneo con il Mare del Nord, i porti dell’Alto Tirreno con quelli del Nord Europa – il Terzo Valico consentirà di superare gli attuali ostacoli allo sviluppo del trasporto ferroviario tra Genova, Milano e Torino.

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(supply chain, immagine ripresa da https://www.insidemarketing.it/) – per SUPPLY CHAIN s’intende un sistema di organizzazioni, persone, attività, informazioni e risorse coinvolte nel processo atto a trasferire o fornire un prodotto o un servizio dal fornitore al cliente

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DALLA PANDEMIA ALLA GUERRA IN UCRAINA: DUE ANNI DI STRAVOLGIMENTI DELLE CATENE DEL VALORE

da https://www.ispionline.it/ ottobre 2022

   Gli ultimi tre anni hanno messo a dura prova l’economia mondiale: la pandemia prima, e la guerra in Ucraina poi, hanno messo sotto pressione le supply chains di tutto il mondo (e in particolare quelle collegate con Cina e Asia) (ndr: per supply chain s’intende un sistema di organizzazioni, persone, attività, informazioni e risorse coinvolte nel processo atto a trasferire o fornire un prodotto o un servizio dal fornitore al cliente, NDR), mettendo a nudo gli elementi di vulnerabilità della globalizzazione: un sistema giunto ad un tale livello di interdipendenza da poter essere messo in difficoltà da problemi di carattere regionale o locale. Il settore della logistica e dei trasporti, vera “spina dorsale” di questo sistema basato sul criterio della massima efficienza (che si concretizzava nel just in time e nella minimizzazione delle scorte), ha subito un forte stress la cui cartina di tornasole è stato l’aumento significativo dei costi dei noli dei containers trasportati via mare, così come dei tempi di consegna delle merci. Fattori che si sono tradotti nell’aumento, da marzo 2020, dei costi di spedizione di un container sulle rotte transoceaniche globali con gravi conseguenze anche con riferimento al fenomeno inflazionistico.

(vedi tutto lo STUDIO su: studio_conftrasporto.pdf (ispionline.it) )

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(La rete portuale del Mediterraneo, da LIMES, Carta di Laura Canali del 2020, https://www.limesonline.com/)

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L’OPERA PIÙ COSTOSA DEL PNRR

LA NUOVA “DIGA FORANEA” DI GENOVA COSTA 1,3 MILIARDI DI EURO E IL SUO CANTIERE È ENORME, COSÌ COME IL SUO IMPATTO SULLA CITTÀ

da “IL POST.IT”, 4/5/2023, https://www.ilpost.it/

   Giovedì 5 maggio 2023 è stato versato il primo carico di ghiaia della nuova diga del porto di Genova, l’opera più imponente e costosa del PNRR, il piano nazionale di ripresa e resilienza con cui il governo italiano intende spendere i finanziamenti europei del Recovery Fund. In questo caso sarà finanziata con una parte del cosiddetto fondo complementare, cioè una quota di soldi garantiti dall’Italia per completare i finanziamenti europei.

   Come spesso accade in queste occasioni, è stata più che altro una cerimonia simbolica: l’operazione ha mosso a distanza la gru di una nave che ha versato un carico di ghiaia in mare. Considerata la grandezza dell’opera e i costi, finora la preparazione del progetto è stata veloce e tra le istituzioni c’è un certo ottimismo sulla possibilità di finire i lavori entro il 2026.

   La diga viene spesso chiamata “diga foranea”: significa che è la prima protezione dal mare per le navi che entrano nel porto. Se ne discute da quasi un decennio, anche se il primo atto formale risale al 2018, quando il progetto rientrò nel cosiddetto decreto Genova approvato dal governo in seguito al crollo del ponte Morandi.

   Complessivamente sarà lunga circa 6,2 chilometri. Sarà costruita per far entrare in porto enormi navi portacontainer, le più grandi mai costruite, lunghe oltre 400 metri, larghe 62 e con un carico di oltre 24mila TEU, acronimo di twenty-foot equivalent unit, lo standard minimo di un container. La diga attuale dista 550 metri dalla costa, mentre quella nuova sarà costruita a una distanza di 800 metri per permettere anche alle navi più grandi di ruotare su loro stesse in caso di manovra. Due ingressi dedicati e separati consentiranno di tenere distinte le rotte del traffico merci da quelle di traghetti e navi da crociera.

   Secondo le stime dell’autorità portuale la diga è un’opera necessaria per lo sviluppo e la competitività del porto, che altrimenti andrebbe incontro a un calo annuo del 6,8 per cento del traffico container. Dal porto di Genova passano ogni anno 66 milioni di tonnellate di merci, circa il 33 per cento del traffico container nazionale. Tutti i più grandi operatori mondiali come MSC, Maersk, Cosco, CMA CGM, Evergreen, Hyundai Merchant Marine, Hapag-Lloyd offrono servizi nel porto di Genova, così come i maggiori operatori di terminal portuali come Spinelli, Messina, Gavio, Grimaldi e alcune compagnie petrolifere come Eni ed Esso.

   Quando l’opera sarà conclusa, l’autorità prevede di arrivare a gestire tra i 5 e i 6 milioni di TEU all’anno, con un beneficio economico sul lungo periodo pari a 4,2 miliardi di euro in maggiori introiti da traffico di container, diritti e tasse portuali. Secondo le previsioni Genova avrebbe un vantaggio competitivo anche nei confronti del porto di Rotterdam, nei Paesi Bassi, il primo scalo mercantile europeo, soprattutto per gli scambi con i porti del Sud Est asiatico come Singapore e Shanghai in Cina e Yokohama in Giappone.

   Anche l’investimento pubblico è notevole. In totale la diga costerà 1,3 miliardi di euro, se le stime saranno rispettate. La prima fase del cantiere da finire entro il 2026 costerà 950 milioni di euro, di cui 500 milioni stanziati dal fondo complementare del PNRR finanziato con risorse nazionali, 100 milioni di euro dal fondo per le infrastrutture portuali, 264 milioni dalla banca europea degli investimenti (BEI) e i rimanenti 86 milioni di euro dall’autorità portuale e dalle amministrazioni locali. «La diga porterà tantissimi investimenti pubblici e privati», ha detto il sindaco di Genova Marco Bucci.

   I lavori saranno complessi perché verranno fatti senza interrompere il traffico portuale: si dovrà costruire un basamento fatto di roccia a 50 metri di profondità, utilizzando in totale 7 milioni di tonnellate di materiale. Sul basamento verranno poi posizionati cassoni in cemento armato alti 33 metri, larghi 35 e lunghi 67. I cassoni saranno poi riempiti con materiale di risulta ricavato in parte dalla demolizione della vecchia diga e in parte dallo scavo del fondale.

   L’appalto per la costruzione è stato vinto da un consorzio di imprese guidato da Webuild e a cui partecipano anche Fincantieri Infrastructure Opere Marittime, Fincosit e Sidra. Webuild ha costruito anche il nuovo ponte San Giorgio. Saranno circa mille le persone impegnate nei cantieri, tra assunzioni dirette e indirette. Andrea Tafaria, segretario del sindacato Filca Cisl della Liguria, ha detto che la diga è «un’occasione preziosissima: garantirà al settore edile una massa salari di 180 milioni di euro, oltre 6 milioni e mezzo di ore lavorate, ricadute occupazionali e ci permetterà di avviare percorsi formativi in tutti gli ambiti».

   Webuild assicura che saranno rispettati «i più stringenti criteri di sostenibilità». La costruzione, infatti, si basa sul riuso dei vecchi materiali, in particolare l’utilizzo di quasi tutto il materiale proveniente dalla demolizione della vecchia diga per ridurre l’impatto ambientale nella fase di costruzione, le operazioni di trasporto e il consumo di carburante.

   Nonostante le rassicurazioni, comunque, negli ultimi mesi sono emersi dubbi sull’opportunità di costruire una diga così grande, con proteste per l’impatto ambientale e per l’organizzazione del cantiere.

   Piero Silva, professore universitario di pianificazione portuale all’università di Grenoble, consulente esterno delle prime fasi progettuali, ha scritto una lettera alla città di Genova in cui esprime dubbi sulle previsioni ottimistiche dell’autorità portuale. Lo scorso anno si dimise da consulente dopo che i suoi rilievi non vennero presi in considerazione.

   Nella lettera pubblicata due giorni fa, Silva ribadisce le sue critiche. La diga, dice, è un progetto assolutamente sovradimensionato se paragonato ai modesti obiettivi in termini di traffico container. Inoltre avrà costi e tempi spropositati, ben superiori alle promesse fatte. Silva sostiene inoltre che il progetto abbia «un rischio tecnico altissimo, prevedendo la diga su uno spesso strato limoargilloso inconsistente, a profondità dove la consolidazione di tale strato indispensabile è considerata dagli esperti impossibile». Per Silva il disegno della diga causerà problemi legati alla sicurezza della navigazione perché la rotta di ingresso e uscita delle navi dal porto non è parallela, un difetto che in caso di brutto tempo potrebbe causare un impatto tra le navi e la diga stessa.

   Negli ultimi mesi diverse associazioni ambientaliste hanno protestato per la mancanza di indagini geologiche preliminari in vista del cantiere e soprattutto per l’impatto ambientale dei lavori in mare. Secondo dati diffusi dal ministero dell’Ambiente, il cantiere causerà un’emissione di gas serra pari a circa 401mila tonnellate di CO2. «L’equivalente dell’attività di un anno della ex centrale a carbone in porto», ha detto Selena Candia, consigliera regionale della lista Sansa, all’opposizione. «E in questi numeri non vengono contabilizzati l’esercizio e il traffico ulteriore».

   Alcuni comitati locali si sono opposti alla concentrazione dei lavori di preparazione dei cassoni della diga in un cantiere portuale nel quartiere di Prà. Secondo questi comitati i lavori avrebbero un impatto notevole sul traffico della zona, sull’inquinamento e sul paesaggio, perché i cassoni sono alti 33 metri. Nelle ultime settimane si sono riuniti più volte per chiedere alle istituzioni di trovare soluzioni alternative. Una decisione non è ancora stata presa, ma il vice ministro delle Infrastrutture Edoardo Rixi ha detto che è impensabile concentrare tutta l’attività di preparazione nella zona portuale di Prà. Tra le ipotesi c’è lo spostamento di una parte del cantiere a Vado Ligure. (da “IL POST.IT”, 4/5/2023, https://www.ilpost.it/)

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LA SIGNORA DELLE MERCI – Breve storia della logistica,di CESARE ALEMANNI (LUISS University Press, maggio 2023, euro 16,00, pagine 200)

LA SIGNORA DELLE MERCI

Breve storia della logistica

da https://www.iltascabile.com/

Cesare Alemanni è giornalista, scrittore e curatore di contenuti. Si interessa di sistemi globali e dell’interazione tra tecnologia, economia e geopolitica. Nel 2023 ha pubblicato La signora delle merci (LUISS University Press), un libro sulla storia della logistica e il suo ruolo nei meccanismi della globalizzazione.

– Dopo la fine della Guerra Fredda (…), dal punto di vista dei paesi occidentali più avanzati (…), vi è un’apertura di un ampio spazio di azione, ed esportazione di capitali e produzioni (…). Programma che, quantomeno dal punto di vista industriale e produttivo, difficilmente sarebbe stato possibile senza l’intervento della logistica. La cui capacità di imporre forme di “command & control”, di natura operativa, concettuale e “socio-territoriale”, a questo nuovo spazio e di organizzarne, coordinarne e fluidificarne i flussi di materiali è una componente decisiva nel passaggio dalla carta alla pratica, del modello economico del neoliberismo. Gli elementi decisivi in tal senso sono soprattutto due: l’incremento della capacità di calcolo, previsione, progettazione e gestione di sistemi complessi ed entropici, che è figlio dell’avanzare delle tecnologie informatiche (oltre che dell’esperienza logistica bellica), e lo sviluppo di un sistema di trasporto estremamente fluido e del tutto anfibio: la containerizzazione, ovvero il linguaggio materiale, il medium-messaggio in cui “parla” l’epoca della globalizzazione –

Sebbene aspiri alla semplificazione e alla sintesi, la logistica dimora nella complessità e nella molteplicità.” –

– “Le filiere sono la vera ragione, invisibile agli occhi, della stupefacente rapidità e del ridotto costo del progresso tecnologico e informatico di questo nostro primo scorcio di XXI secolo.” –

Filiere che, di recente, sono diventate la faglia di frattura e conflittualità “sospesa” più calda del pianeta (chiedere a Taiwan). A dimostrazione dell’ingenuità di coloro che, negli anni Novanta, in proposito dei processi d’integrazione industriale e finanziaria, parlavano dell’avvento utopico di un “mondo piatto” e post-politico, le filiere e la logistica hanno in realtà creato una mappa globale fatti di inediti punti di accumulo tensivo, in cui gli snodi e la rarefatta geoeconomia delle supply chain contano più delle specificità geografiche o delle contrapposizioni ideologiche. –

– …Ricapitolando lo sviluppo della FEITORIA (stazione commerciale, magazzino europeo in territorio straniero, NDR) di MACAO, un mandarino cinese del Seicento ce ne restituisce i sedimenti di uso (“all’inizio hanno messo un porto, col tempo hanno costruito magazzini e infine hanno eretto torri militari e bastioni per difendersi al loro interno”) e ci ricorda come nello sviluppo di qualunque ecosistema logistico, la “ragion pura” del trasporto conviva con “la ragion pratica” dell’amministrazione e della difesa.  

   Fino a marzo 2020 termini come “supply chain”, “filiere”, “catene del valore” circolavano solo tra specialisti. Negli ultimi tempi le cose sono cambiate. Il covid, la guerra in Ucraina e le tensioni sino-americane hanno messo alla prova i sistemi di produzione-distribuzione da cui dipende l’economia contemporanea. Gli effetti sono noti: l’inflazione che sta erodendo il nostro potere di acquisto ha origine dallo sfibrarsi delle catene di approvvigionamento, ancor prima che dalla crisi energetica. 

   Per questo motivo, ve ne sarete accorti, di recente si parla di supply chain anche al bar. Il dibattito, tuttavia, si è mantenuto sulla superficie delle cose. Non ci si è per esempio chiesti cosa, col tempo, abbia reso le filiere tanto fragili e conduttive per gli shock operativi ed economici. Quali siano i loro presupposti.  Quali strumenti, in condizioni normali, ne garantiscano il funzionamento. L’interesse per i problemi delle “supply chain” non si è tradotto in pari curiosità per i temi della logistica. È curioso. La logistica non è solo responsabile del funzionamento delle filiere, è la ragione della loro stessa esistenza. Essa è molto più di un collante materiale delle supply chain e del loro Continua a leggere

IL RACCONTO DI NATALE 2022 per i nostri affezionati 25 lettori: dal libro WORKS di VITALIANO TREVISAN, mirabile opera letteraria che racconta lo spirito (assai discutibile) degli ultimi decenni del Nordest italiano; attraverso i LAVORI svolti dallo scrittore (persona, intellettuale, che ci mancherà molto) (Buon Natale)

Il 7 gennaio 2022 è morto lo scrittore Vitaliano Trevisan (nella foto). Aveva 62 anni. Scrittore, attore, drammaturgo, sceneggiatore, aveva esordito nella letteratura con il romanzo I quindicimila passi (pubblicato nel 2022). Il suo libro più recente è Works (Einaudi, 2016), rieditato con un’ampia, lunga e coinvolgente appendice nel 2022. Nato a Sandrigo, vicino Vicenza, nel 1960, era arrivato tardi alla scrittura, svolgendo prima vari mestieri, dall’operaio al gelataio, al geometra, esperienze poi da lui raccontate in Works. In questo testo autobiografico, che si fa ritratto di una generazione cresciuta nel nord est, Trevisan racconta anche l’impossibilità di allontanarsi dalla propria storia e dalla propria educazione, da quella vicenda di famiglia che è sempre, scrive, “una storia di soldi”.

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Works. Edizione ampliata, di Vitaliano Trevisan (2022, Einaudi Stile libero, pagg 704, euro 22)

    Proponiamo qui di seguito quattro pagine (sulle 700) del (magnifico) libro WORKS di VITALIANO TREVISAN (editore “Einaudi, Stile libero”, 22 euro), scrittore scomparso nel gennaio scorso (2022); libro pubblicato per la prima volta nel 2016, e integrato nell’ultima versione del 2022 con un’ampia appendice di una quarantina di pagine dal titolo: “Dove tutto ebbe inizio, un testamento letterario”. (una lettura, “Works”, coinvolgente di un mondo personale, esistenziale, pubblico, quello veneto, descritto da Vitaliano in modo mirabile, ricordando le sua tantissime attività lavorative). Ve ne proponiamo qui uno (dei suoi lavori) tratto dal libro:

Polli e condoni: un intermezzo pubblico (di Vitaliano Trevisan, da “Works”)

   “Quasi dimenticavo, in mezzo a tutto questo, l’incarico da geometra novantista (allora si chiamavano così i precari assunti dalle pubbliche amministrazioni, con contratto di tre mesi) per i comuni di Nanto e Castegnero, che condividevano l’ufficio tecnico, incarico conferitomi per intercessione del mio amico e datore di lavoro, che era amico del geometra comunale dei comuni succitati, il quale un giorno gli aveva chiesto se non conoscesse qualcuno, possibilmente con un minimo di esperienza, cui quel lavoro di tre mesi avrebbe fatto comodo, essendo in arrivo un condono edilizio – forse uno dei primi della serie -, che avrebbe di sicuro intasato il suo ufficio, così come si prevedeva avrebbe intasato gli uffici di tutti i comuni del resto d’Italia.

   Ed eccomi così, per tre mesi, geometra condonatore. Lavoro piuttosto facile in verità, che consisteva nel ritirare e protocollare le domande di condono presentate direttamente dai proprietari, o dal loro professionista di fiducia, verificarne, quando nel caso sul campo, la veridicità dei dati, valutare la tipologia e l’entità dell’abuso e, rientrante quest’ultimo nei canoni del condono, calcolare infine, tramite apposite tabelle, l’esborso necessario a sanarlo. Tutto qui.

(Ritengo doveroso annotare, di passaggio, che le pratiche presentate direttamente dai privati, erano nella quasi totalità dei casi redatte sottobanco da geometri comunali di comuni limitrofi, che poi reciprocamente se le approvavano. Tutto più o meno alla luce del sole, ovviamente. Funzionava nel modo seguente: di solito, per evitare conflitti di interesse -ah!-, ci si scambiava territorio, per così dire, cioè io, geometra comunale che sto a Bolzano Vicentino, eseguo sottobanco i condoni del limitrofo comune di Bressanvido, e lascio che il geometra comunale di Bressanvido esegua i suoi nel mio territorio; poi io faccio passare i suoi, lui i miei, e tutti siamo contenti, geometri comunali e committenti, che ben volentieri pagano in nero la metà di quello che pagherebbero a un professionista. Si dette però anche il caso di molti geometri comunali tanto sfacciati, da ritenere di non dover sottostare nemmeno a questa regola diciamo così di buon gusto, che redigevano domande di condono relative al territorio di loro competenza, che poi loro stessi si sarebbero trovati a dover approvare. Il geometra comunale di X, per esempio, mio compaesano, coetaneo di mio cognato e suo amico, costruì così la sua fortuna, a forza di condoni edilizi compilati sottobanco, e approvati soprabanco. Bei tempi, signore e signori e altri generi vari, tempi in cui si poteva far fortuna così, partendo dal niente come si dice, da geometra comunale ad amministratore di una grossa ditta di raccolta e riciclaggio di rifiuti, e tutto in un paio d’anni, grazie a un’ondata di condoni ben amministrata)

   Nel giro di un paio di settimane ero così veloce a sbrigare le pratiche, che il geometra comunale K – chiamiamolo così, visto che il nome non lo ricordo; l’aspetto sì, ma sono un po’ stanco di descrivere – si premurò di mettermi sull’avviso. Sei troppo veloce, mi disse un giorno, meglio se te la prendi un po’ calma; in fondo ci sono altri due mesi no?

   Ero basito. Troppo veloce!, era la prima volta che qualcuno mi “rimproverava” perché ero troppo veloce, e non per il contrario. Ma il concetto di lavoro, nel pubblico, è affatto diverso rispetto che nel privato. Per come la vedevo io, il geometra K avrebbe potuto benissimo seguire tutte le pratiche di condono senza alcun bisogno di un aiuto, ma anche lui, che pure non si interessava di tirar su condoni per conto suo, era comunque molto preso dagli affari suoi, che al momento consistevano nella preparazione di un esame universitario – ca va sans dire studiava architettura a Venezia -, essendo il suo progetto di carriera legato al conseguimento della laurea, titolo indispensabile per salire al rango di dirigente, sempre all’interno dell’amministrazione pubblica.

   Slow down then, rallentare, far durare un giorno ciò che si potrebbe fare in mezza giornata, e visto che l’aspirante architetto geometra comunale K mi ha preso in simpatia, accompagnarlo nelle sue frequenti uscite, avendo così l’occasione di rendermi conto della cosiddetta realtà del territorio e delle sue particolarità, a partire dai comignoli, che nel paese di Castegnero si distinguono nettamente da tutti quelli della provincia e, sembra, dal resto del mondo, per una loro ridondante e specifica tipologia costruttiva, basata sul mattone facciavista. In effetti, basta farsi un giro per la parte storica del paese, per rendersi conto che, a un certo punto, doveva essere stato a Castegnero con i comignoli, un po’ come fu in Olanda con i bulbi di tulipano, e così come ad Amsterdam ci si rovinava per i bulbi, così a Castegnero per i comignoli, che ognuno voleva più alto e più ridondante di quello del vicino. Le cose più strane accadono ovunque anche a pochi chilometri da casa.

   Interessante territorio comunque, una grossa fetta di steppa cerealicola assolutamente piatta, in parte terreno di bonifica, ovviamente mussoliniana, tra i colli Berici e gli Euganei, tagliata in due dalla strada della Riviera Berica; e un’altra parte che si estendeva in quota sui colli, quelli Berici naturalmente, essendo gli Euganei sotto il dominio di Padova, eppure così vicini alla vista, che non avrei avuto difficoltà a immaginarmi Petrarca che, “solo et pensoso”, quei campi deserti andasse misurando a passi tardi e lenti, tra distese di mais e soia marca Pioneer, e allevamenti di polli, se solo all’epoca avessi letto Petrarca.

(Francesco Petrarca, Canzoniere, sonetto 35 –Einaudi, Torino 2005, uno dei preferiti dall’autore. Che a dire la verità ne ha letti solo due, grazie a una femmina intelligente e troppo sensibile che, avendo letto i suoi libri, li aveva scelti per lui. Scelta assolutamente giusta, dato che l’autore ne ha poi ricavato due racconti e un corto teatrale. Stupido!, non potevo fermarmi a “uno dei preferiti dall’autore”? Sì. Se fossi solo l’autore.)

   Restavano i campi e soia marca Pioneer e gli allevamenti di polli. Più polli che condoni in effetti, una proliferazione incontrollata di polli, e relativi pollai, edificati nel giro degli ultimi dieci anni, sparsi per tutto il territorio dei due comuni. Non a caso, l’ottanta per cento delle domande di condono che vagliavo, riguardavano pollai più o meno grandi. L’odore di pollo nell’aria stagnante di quei mesi estivi – non so dire l’anno esatto, ma solo che era piena estate -, a volte era insopportabile. Ricordo un pomeriggio caldo e afoso, uno dei primi che avrei passato in quell’ufficio del comune di Nanto, situato in un fabbricato d’angolo, all’incrocio tra la statale e la strada che porta al centro del paese, incrocio regolato da un semaforo.

   Naturalmente mi hanno assegnato la stanza peggiore, cioè quella d’angolo dell’edificio d’angolo, al primo piano, con due finestre, una sulla statale, l’altra sulla strada verso il centro, proprio sopra i semafori, così ché, quando si formavano delle code, l’aria diventava quasi irrespirabile – finestre naturalmente aperte; niente aria condizionata all’epoca. A un certo punto, oltre alla consueta puzza dei gas di scarico, si fa strada un odore nauseabondo che invade presto tutta la stanza, un odore denso e insopportabile che non riesco a identificare. Mi affaccio alla finestra, e, proprio sotto di me, ecco l’orrore: un camion fermo al semaforo, il cui cassone scoperto è ricolmo di teste, zampe e interiora di pollo, su cui ronza un esercito di mosche. Dalla parte posteriore del cassone fuoriesce sgocciolando un misto di sangue e altri umori.

   Come a ogni altro orrore, dopo quel primo shock iniziale ci feci presto l’abitudine. Si trattava di uno dei tanti camion pieno degli scarti di lavorazione del grande pollificio, situato nella frazione vicina, che impiegava circa cinquecento dipendenti, e trattava, industrialmente parlando, non so più quanti migliaia di polli al giorno, che trasportava detti scarti, cioè l’impressionante accumulazione di teste, zampe e interiora di pollo, verso un altro stabilimento, più giù verso Noventa, sempre facente capo alla stessa proprietà, dove  dette teste e zampe e interiora di pollo, opportunamente trattate e miscelate con altre sostanze, sarebbero poi diventate mangime per animali – dove si dimostra che, al presente, vale per il pollo ciò che vale per il maiale, ovvero di entrambi non si butta via niente. Ed ecco spiegata l’abnorme proliferazione di polli e pollai, perché da quando la fabbrica di polli era stata impiantata, come si usa dire da queste parti – e detto di passaggio: particolare significativo questo modo di dire che uno impianta un’attività industriale, come si scavasse un buco nel terreno e ci impiantasse dentro la sua fabbrica come si pianta un albero -, da un tipo del paese, un contadino come gli altri, che però a un certo punto doveva aver avuto una visione, perché smise di coltivare e si mise ad allevare polli in batteria, per venderli a un grande pollificio, noto a livello nazionale, e poi, avendo fatto così, in tempi bravi, un sacco di soldi, si doveva esser detto che se lo facevano loro, poteva farlo benissimo anche lui, e impiantò il pollificio con cui fece più soldi ancora. Da qui la ricaduta sul territorio, che ora andavo sanando, visto che, seguendo il suo esempio, tutti quelli che nei dintorni avevano anche solo un fazzoletto di terra, si dedicarono anche loro all’allevamento di polli in batteria, spesso come secondo lavoro, che poi vendevano direttamente al pollificio del compaesano, che nel frattempo era diventato così ricco, da potersi permettere di comprare un’intera collina, la prima uscendo dal paese, alta circa un due-trecento metri, per due chilometri di diametro, e la villa settecentesca che sorgeva sulla sua cima; villa che aveva poi fatto ristrutturare, e che ebbi modo di visitare, essendoci al suo interno più di un’opera da sanare. Ricordo bene i bagni, marmo bianco carrara e rosso asiago, lavabi anche in marmo, rubinetteria placcata oro, e tutto il peggio del meglio, e viceversa, che uno può aspettarsi da un venditore di polli diventato straricco nell’arco di poco più di vent’anni.

   Poco altro resta da dire di quell’estate da geometra condonatore, a parte forse le furiose corse in moto – Yamaha Xt 600 -, la mattina per andare, la sera per tornare, lungo la trafficatissima Riviera Berica delle ore di punta, dove mi divertivo a fare lo slalom tra auto e camion incolonnati, o a sorpassare un camion tenendo il centro strada mentre dalla parte opposta ne arrivava un altro, così da trovarmi in mezzo ai due colossi, a centoquaranta-centocinquanta all’ora, con non più di venti centimetri parte per parte, sempre ben conscio del pericolo, sempre pensando: Basterebbe un attimo e finirei stritolato. Era uno dei miei esercizi preferiti. La vulnerabilità della situazione, in quelle frazioni di secondo, anziché spaventarmi, mi dava alla testa. L’adrenalina è una droga potente.”

(VITALIANO TREVISAN, dal libro WORKS, Ed. Einaudi “Stile libero”)

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VITALIANO TREVISAN E I TRE SALTI D’EPOCA DEL MONDO DEI VINTI

di Aldo Bonomi, da “Il Sole 24ore” del 31/5/2022

– Libro tumultuoso nel suo dispiegare in una vita, la sua, tante vite minuscole che fanno racconto di una moltitudine messa al lavoro scomponendo e ricomponendo una composizione sociale: la società veneta –

   Cambia l’antico adagio gonfio di rassegnazione «si lavora per mangiare», induce a “mangiare lavori” nel mercato della flessibilità, produce angoscia quando diventa “il lavoro che ti mangia”. Sono tre salti d’epoca che diventano letteratura del profondo nel libro Works (Einaudi) che ci ha lasciato Vitaliano Trevisan nell’angoscia della «mia cazzuta vita».

   Vita così definita e raccontata in quel profondo nordest con famiglia che ti fa geometra per mangiare, il capitalismo di territorio ingordo di lavori e infine la vita nuda mangiata dai lavori. Libro tumultuoso nel suo dispiegare in una vita, la sua, tante vite minuscole che fanno racconto di una moltitudine messa al lavoro scomponendo e ricomponendo una composizione sociale: la società veneta.

   A cui sbatte in faccia «la merda dei lavori» quando si fa «marmellata di maroni» con cui definisce ciò che resta dei corpi che si sfracellano al suolo negli “incidenti sul lavoro” facendo il lattoniere e il realizzatore di capannoni proliferanti nella fabbrica diffusa. Con uno sguardo amaro che si fa dolce nel mettere assieme anche il padroncino di impresine sui tetti: tutti con dentro il mito di essere supereroi del superlavoro quando mangiare lavoro diventa l’unica identità.

   Che Vitaliano scompone e ricompone mentre gli entra dentro facendo l’operaio di gabbie per uccelli, l’apprendista muratore, il cameriere, il geometra molecolare di villette a schiera dilaganti per poi salire, si direbbe verso l’alto del terziario, in uno studio di architettura per interni, designer per un capitalismo che imparava a vestire e vendere la merce. Per poi scendere ritrovandosi venditore di mobili e poi inoltrarsi nel distretto del mobile arredo ai piani alti di una grande impresa di cucine componibili leader di filiera di un capitalismo cresciuto dove si applica la qualità totale.

   Parola magica che ti entra dentro con tanto di comandi della nuova macchina che fa andare fuori di testa quelli come Walter, mansionati solo per imputare dati. Con la storia di Walter, rincontrato anni dopo nei pressi di un centro per la salute mentale, pare dare un monito agli apologeti dello smart working che come si sa ha due facce: quella dell’algoritmo e quelli a cui dà il ritmo.

   Con la qualità totale arrivano a Vicenza anche i cacciatori di teste e Vitaliano scopre di essere una “risorsa umana”. Apre pure una partita Iva nel circuito della consulenza. Dura poco, ha bisogno d’aria aperta, sale sui tetti a fare capannoni.

   Prova anche la mobilità da disoccupazione, affacciandosi ai lavori per gli enti locali. Ci regala pagine straordinarie sulla acrofobia del tempo vuoto che prende i suoi conterranei quando gli manca il pieno del lavoro. Si inoltra nel circuito delle cooperative sociali ed è feroce con la loro autoreferenzialità da “esercito dei buoni”.

   Fa stagione nella filiera del gelato tracciata dalla storia dal Veneto alla Baviera dove oggi scorre anche la subfornitura meccatronica verso la Bmw. Filiere pesanti che necessitano di piattaforme logistiche che tocca come addetto ai magazzini. Così come annusa il distretto orafo vicentino seguendo il tentativo della moglie di rilanciare l’azienda di famiglia, regalandoci riflessioni e drammi da “familismo amorale”. Che spesso è una malattia endemica nel passaggio dell’eredità imprenditoriale.

   Da cui sfugge scegliendo di fare il portiere di notte in un albergo della città infinita fatta di villette e capannoni che collega Vicenza con Verona. Questo diviene il suo osservatorio antropologico del nordest cambiato nella sua composizione sociale che continua a cambiare segnato dai miti e dai riti della sua iperindustrializzazione diffusa. Portiere di notte per leggere e scrivere libri come questo che segna il salto d’epoca dal lavoro salariato alla proliferazione e svalutazione del lavoro.

   Porta dentro con rabbia questo mondo dei vinti nel mondo di quelli che “lavorano comunicando” facendo l’attore, il drammaturgo, il regista teatrale, il librettista, lo sceneggiatore. Saggista e scrittore con una produzione letteraria alla Bernhard, “soccombente” a Salisburgo e nell’Austria Felix come Vitaliano lo era a Vicenza e nel “Veneto Felice”, ci lascia dentro riflessioni amare e interroganti.

   A me che vado per microcosmi e per distretti, raccomanda di entrare dentro capannoni e fabbrichette prima di farne retorica, ai geometri e agli architetti-urbanisti di percorrere la città infinita veneta per vedere ciò che resta del territorio e ai giuslavoristi di leggersi Works per capire come si fa strame, lui scrive «merda», dei lavori.

   Ne ha anche per i creativi e gli eventologi che vestono merce e organizzano festival di impresa. Sarà per questo che quest’anno al festival “Vicenza città impresa” hanno organizzato una serata nel Teatro Olimpico in ricordo del soccombente Vitaliano Trevisan. Al festival abitualmente si celebrano momenti dedicati alla letteratura di impresa. Vitaliano ci lascia un messaggio. Dedichiamo tempo e spazio alla questione aspra e interrogante dei lavori. (Aldo Bonomi, da “Il Sole 24ore” del 31/5/2022)

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I suoi primi racconti (le antologie Un mondo meraviglioso e Trio senza pianoforte/oscillazioni) risalgono alla fine degli anni Novanta, mentre con I quindicimila passi nel 2002 ha esordito nel romanzo: prendendo a pretesto l’ossessione del protagonista nel contare e annotare i passi dei suoi tragitti, il libro prende di mira l’educazione cattolica e le ipocrisie della provincia italiana. Con quel libro ha vinto il Campiello Europa e il Premio Lo Straniero. Da lì, la sua carriera di autore ha decollato e negli anni Duemila. Trevisan si è diviso tra la letteratura, la scrittura per il cinema e per il teatro e la recitazione. Tra gli altri suoi libri per Einaudi ricordiamo Il ponte, un crollo (2007) e Grotteschi e Arabeschi (2009). Per il teatro, Trevisan ha curato nel 2004 l’adattamento di Giulietta di Federico Fellini e scritto, tra gli altri, Il lavoro rende liberi, messo in scena nel 2005 da Toni Servillo. I suoi monologhi Oscillazioni e Solo RH sono stati pubblicati da Einaudi nel volume Due monologhi (2009)

Ha lavorato anche per il cinema – con Matteo Garrone in Primo Amore (2004), come attore e come co-sceneggiatore, e con Gianclaudio Cappai in Senza lasciare traccia (2016) e in tv (tra le altre, nella serie RIS).

E’ morto suicida il 7 gennaio 2022.

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RADIOTRE: trasmissione “Le meraviglie” – Ex Canapificio Roi di Cavazzale raccontato da VITALIANO TREVISAN:

https://www.raiplaysound.it/audio/2022/01/Le-meraviglie-del-15012022-db0a7367-e120-4565-8b04-cea1cba27eee.html

Ex Canapificio Roi di Cavazzale raccontato da Vitaliano Trevisan

Una puntata originariamente in onda nel giugno 2017, in omaggio allo scrittore vicentino recentemente scomparso. Una lunga passeggiata attraverso Cavazzale ad inquadrare la storia di una grande fabbrica abbandonata che ha segnato il destino sociale e politico del paese. Vitaliano Trevisan ci porta a condividere la storia di un ex canapificio nel vicentino. Una importante struttura dismessa, rende possibile un discorso sul carattere di un territorio molto legato al tessile. Il modello di sviluppo imprenditoriale era quello sociale: nei primi del novecento la famiglia Roi edificava le case per gli operai costruendo nel 1929 un teatro sede di una filodrammatica. Nello stabilimento lavoravano soprattutto donne tra le quali la madre di Vitaliano Trevisan. Dalla fine della seconda guerra mondiale inizia una lunga crisi del settore della canapa che ha portato nel 1957 alla fine della avventura della famiglia Roi.

15 Gen 2022

CANAPIFICIO ROI di Cavazzale (foto storica da https://www.equilibrium-bioedilizia.it/)

Il Canapificio Roi di Cavazzale (VI) fu tra le poche realtà industriali italiane dell’800 dove si svolgeva l’intero ciclo della lavorazione della canapa. All’interno del canapificio venivano realizzati prodotti di ogni genere esportati anche all’estero, dal filo per le reti da pesca, ai tessuti per le lenzuola, alle vele delle navi e molto altro. Una realtà industriale quella del Canapificio Roi che ha profondamente inciso sulla realtà economica e sociale vicentina, arrivando a impiegare nel 1940 fino a 1200 operai, di cui il 75% erano donne. (da https://www.equilibrium-bioedilizia.it/ )

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CRESPADORO, Vicenza, località CAMPODALBERO, Contarda MOLINO, doveva viveva Vitaliano Trevisan nell’ultima parte della sua vita (foto da “Il Mattino di Padova”)

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DOVE TUTTO EBBE INIZIO (stralcio iniziale dell’APPENDICE al libro WORKS di VITALIANO TREVISAN)

   “Mi accade, di tanto in tanto, di non riuscire a dormire. Meglio lasciare il letto subito, prima che i demoni inizino con le loro insinuanti litanie. Una passeggiata notturna, lunga quanto basta perché si stanchino di aspettare. Naturalmente il paese è deserto e discretamente buio, cosa che in fondo apprezziamo, dato che non c’è niente da vedere. In questo posto, per trovarci qualcosa uno dev’esserci nato. Ma se ci è nato, com’è il caso di chi scrive, non è affatto detto che da quel qualcosa scaturiscano ricordi belli e piacevoli. In effetti, più passa il tempo, più mi rendo conto che tornare a vivere qui non è stata affatto una buona idea.

   A dire la verità non fu una scelta, ma una delle tante conseguenze della vita, sempre al di sotto delle mie possibilità, che ho scelto di condurre. No, anche a monte nessuna scelta, a meno che tenersi in equilibrio su un filo, preoccupandosi solo di non cadere in qualcosa che avesse un’apparenza di definitivo – come ad esempio sposarsi, avere dei figli eccetera – non si possa considerare tale. Da qui, uno dei principi fondamentali a cui mi sono sempre attenuto: non fare mai un mutuo per acquistare una casa.

   I mutui sono trappole mortali, fatti apposta per renderci ricattabili, per legarci mani e piedi – nel mio caso mano e penna -, a quel mondo umano che, come detto, abbiamo imparato molto presto a detestare, e sempre più abbiamo detestato e detestiamo, ma a cui, evidentemente, siamo comunque legati, visto che, nonostante tutto, non ci siamo mai veramente decisi a lasciarlo. E abbiamo ben due contratti, per altrettanti libri che, prima o poi dovremo anche scrivere, visto che abbiamo incassato anticipi già spesi – come avere due mutui, in un certo senso, e su un altro stiamo trattando. Dunque legati con un fottuto cappio intorno al collo. Se uno ci pensa, una situazione di merda. Intendo la condizione umana in generale. Ma è proprio questo il punto, che fin da bambino non sono mai riuscito a fare a meno di pensarci, arrivando sempre alla conclusione che non solo si tratta di una situazione di merda, ma di una situazione di merda senza via d’uscita; o meglio che l’unica possibile via d’uscita è prendere in mano la situazione di merda e stringere il nodo subito, senza por tempo in mezzo.

   O così, o rassegnarsi ad aspettare, con gli altri, che esso si stringa da sé, così che un giorno, in un bar che frequentiamo di sfuggita, giusto il tempo di prendere il tabacco e magari bere un caffè, tanto per rovinarci la giornata scorrendo Il Giornale di Vicenza, qualcuno dirà: È morto; e qualcun altro chiederà, De cosa?; e il primo risponderà con un’altra domanda, De cosa vuto che ‘l sia morto? e tutto sarà chiaro. Se fosse stato un infarto, o qualsiasi altra cosa, l’avrebbe detto. Ma da queste parti è più probabile che la fine arrivi in forma di domanda retorica.

   Forse dovrei smettere di fumare. Non credo che lo farò. Ho bisogno anch’io di un po’ di compagnia. Il fatto è che proprio non credevo mai che sarei arrivato a questa età, in cui la prospettiva di cui sopra, già di per sé triste, si fa ogni giorno insieme più vicina e più triste. Impreparato per i cinquanta. Impreparato anche per i quaranta. Impreparato sempre, a dire la verità, ma un tempo, l’idea che in ogni momento avrei potuto prendere l’iniziativa e farla finita, mi rendeva l’esistenza più tollerabile. In fondo, il bene più prezioso su cui l’essere umano può contare, ciò che davvero lo distingue dall’animale, è la possibilità di sottrarsi al mondo in ogni momento attraverso il suicidio. Ma perché questo pensiero possa essere di effettiva consolazione, la modalità dev’essere il più possibile estetica, e l’idea di suicidarmi ora, a cinquanta e passa anni, ha un che di ridicolo.

   Ah quegli occhi, che un tempo mi amavano in modo così incondizionato, e ora non riescono a nascondere il disgusto. Faccio di tutto per evitare il loro sguardo, ma uno deve pur farsi la barba di tanto in tanto. Ho provato a farla crescere, ma era peggio: per regolarla ero costretto a mettere gli occhiali, e quella piccola vena che mi pulsa nella tempia, vederla così nitidamente mi era insopportabile. Avrei dovuto cogliere l’occasione e stringere il cappio al momento giusto, quando ero ancora giovane, come Carlo Michelstaedter, come Sarah Kane, come Stig Dagerman – sui libri di quest’ultimo, sempre si trova scritto, e io sempre leggo, “morto suicida a trentuno anni, all’apice del successo”. Adesso è tardi. Dovrò rassegnarmi a portare in giro la carcassa difettata per il tempo che sarà.

   E poi quale successo? Nel caso di chi scrive si tratta solo di notorietà, di avere un qualche nome, cosa che induce il volgo a credervi anche ricchi, e a chiedersi come mai siate tornati a vivere in questo paese del cazzo, in una casa che ormai cade a pezzi, e a stupirsi nel vedervi viaggiare in treno in seconda classe.  Certo, avere successo è estremamente pericoloso, specie se si è giovani. Sempre pensato così. I numerosi esempi di più o meno giovani scrittori investiti da un’improvvisa ondata di successo, e a causa di ciò precocemente rincoglioniti, sia come scrittori che come persone, non ha fatto che confermare quella prima istintiva ripugnanza.

   Ma ora, giunto a un’età più che matura, penso che peggio di avere successo, e peggio anche di non averne affatto, è restare nel mezzo, ossia guadagnare notorietà, che è in sé una sorta di successo, senza però guadagnare i soldi che gli esterni, il cosiddetto volgo di cui sopra, inevitabilmente vi associano.  Pazienza, mi dico, è uno scotto da pagare. Non appena uno scrive qualcosa, e lo pubblica, deve anche accettare che chiunque abbia avuto la compiacenza di leggere, si senta anche in diritto, visto il tempo investito, di farsi a riguardo un’opinione. Tuttavia questo è del tutto normale, e non c’è nulla da aggiungere. Il problema è che chi legge non solo si fa un’opinione su ciò che ha letto (spesso senza nemmeno aver letto), ma anche, direi soprattutto, si fa un’opinione su chi ha scritto.

   Qualsiasi cosa si scriva, sembra non si possa fare a meno di andare a vedere se dietro le parole, anche le più chiare e precise, non vi siano delle altre parole, un qualche movente nascosto, una qualsiasi cosa utile a dividere il mondo in un noi e un loro – e se non si è con loro, si è contro di loro. L’atteggiamento più normale, e il più stupido, è di attribuire allo scrittore la stessa visione del mondo dei suoi personaggi, stupidità che, cipollianamente, si distribuisce equamente a prescindere che si tratti di lettori cosiddetti alti, bassi e/o medi, ammesso che una tale distinzione abbia un senso, cosa di cui voglio dubitare, e da ciò proporre la più neutra distinzione in lettori professionali e non professionali, anch’essi comunque inesorabilmente, cipollianamente accomunati in termini di percentuale di stupidità. (…..)”

(stralcio iniziale dell’APPENDICE al libro WORKS di VITALIANO TREVISAN)

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VITALIANO TREVISAN, L’IMPLACABILE BELLEZZA DI “WORKS”

di Alessandro Mezzena Lona, 7/4/2022, da https://www.arcanestorie.it/

– Un premio strega lo avrebbe meritato più di tanti altri. Lui, Vitaliano Trevisan, sarebbe andato a ritirarlo con la faccia piallata e di rappresentanza dell’altro se stesso. Quel Vitaliano Trèvisan, con l’accento spostato sulla e, che sapeva scendere a patti con teatranti, critici e editori indossando il “cappello dell’ipocrisia”. L’alieno che viveva dentro di lui, che si opponeva al suo carattere solitario e scontroso e gli sussurrava che non poteva sottrarsi sempre ai riti obbligatori della società. Che avrebbe potuto stare appartato, nel suo angolo di Veneto, pur senza negarsi frequenti apparizioni in pubblico, in tivù, nei consessi letterari che contano. Perché il mondo è pieno di artisti ribelli, di asceti sfuggenti, di contestatori irriducibili, che fanno cadere ogni loro parola, ogni gesto, come fossero forieri di altrettante verità rivelate. –

   Ma Vitaliano Trevisàn, con l’accento sulla a, non era proprio capace di smettere di camminare in direzione ostinata e contraria. Come raccontava nel suo libro “Tristissimi giardini” (Laterza, 2010), liberare di tanto Continua a leggere

SICCITÀ e DESERTIFICAZIONE: effetti più riscontrabili del CAMBIAMENTO CLIMATICO, a sua volta causato dall’aumento di Co2 – Ma siamo sicuri che tutto si risolva con nuove tecnologie (desalinizzatori, invasi d’acqua, auto elettriche contro la Co2) e non con un drastico cambiamento del modo di vita di spreco?

LA DESERTIFICAZIONE È UNO DEGLI EFFETTI PIÙ DANNOSI DEL CAMBIAMENTO CLIMATICO, perché la mancanza di acqua crea problemi di approvvigionamento idrico e insicurezza alimentare. Sempre più persone si trovano per questo costrette a migrare. (da https://www.openpolis.it/, 17/6/2022) (l’immagine è ripresa da https://www.meteoweb.eu/)

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MAPPA DELLA SICCITA’, LIVELLO DI RISCHIO; da ANSA del 22/6/2022

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Intervista di LUCA MERCALLI di FANPAGE

“SAREMO PROFUGHI CLIMATICI COME GLI ETIOPI SE NON RIDURREMO LE EMISSIONI DI CO2”

A cura di Davide Falcioni, 17/6/2022, da https://www.fanpage.it/

   L’allarme di Luca Mercalli: “Siamo già in emergenza climatica e ogni giorno che perdiamo aumenta la quantità di anidride carbonica nell’atmosfera. Dobbiamo paragonare il nostro pianeta a un malato grave, bisogna intervenire subito per curarlo. Stasera stessa, non tra un anno”.

   “Ci stiamo avvicinando sempre più alla catastrofe climatica. Dovremmo parlarne tutti i giorni, dovrebbe essere la notizia di apertura di tutti i giornali. Invece…“.

   A parlare, intervistato da Fanpage.it, il climatologo Luca Mercalli all’indomani delle ennesime disastrose notizie sul fronte ambientale: sulle Alpi non c’è più un filo di neve, i livelli dei fiumi e laghi del nord Italia sono ai minimi storici, le temperature sono significativamente più alte rispetto alla media stagionale e la siccità sta già imponendo – e siamo solo a giugno – il razionamento dell’acqua. Ci sembra grave, e lo è: eppure è niente rispetto a quello che ci attende nei prossimi anni se non invertiremo subito rotta. “Dobbiamo abbattere le emissioni di CO2, dobbiamo cominciare a farlo stasera stessa, non tra 10 anni”.

Professore, il Po è in secca, i livelli dei laghi sono ai minimi storici, sulle Alpi non c’è più neve. Perché?

Le cause dell’attuale siccità risiedono nella circolazione atmosferica generale che, a partire dallo scorso dicembre, si è bloccata in una situazione poco evolutiva. Così tutta l’Europa è sotto una struttura di alta pressione che tiene alla larga le perturbazioni ricche di umidità provenienti dagli oceani, quelle che dovrebbero portare le piogge. Lo stallo dura da sei mesi: le ondate di caldo africano non fanno altro che peggiorare la situazione idrica. Un conto è avere siccità con temperature fresche, un altro con temperature anomale, superiori di almeno tre gradi rispetto alle medie del periodo: ciò infatti genera un’ulteriore necessità di acqua per l’agricoltura, le attività industriali e quelle domestiche. Il problema è che non si vede una soluzione a breve termine.

Cosa ci attende nei prossimi mesi?

Non c’è più neve sulle Alpi quindi la disponibilità di acqua si ridurrà ulteriormente. Riguardo i prossimi mesi è difficile essere accurati: le previsioni stagionali hanno un’affidabilità modesta, ma tutto lascia pensare che questa sarà un’estate calda e senza piogge almeno fino alla fine di settembre.

E cosa dobbiamo aspettarci invece nei prossimi anni?

La crescita delle temperature sta già causando la fusione dei ghiacci della Groenlandia, dell’Antartide e delle montagne di tutto il mondo: ciò provoca l’aumento dei livelli di mari e oceani, fenomeno a cui contribuisce anche il caldo stesso incrementando il volume delle acque. Di fatto, i livelli dei mari salgono di 4 millimetri ogni anno. In un Paese con 8mila chilometri di coste come l’Italia si possono ben immaginare le conseguenze. Senza politiche di riduzione delle emissioni di Co2 tra una trentina d’anni chi vive nel Delta del Po o nella laguna veneta dovrà scappare perché avrà il mare nel salotto di casa.

Quanto tempo abbiamo per invertire la rotta?

Non ne abbiamo più, lo ripetiamo da anni. Siamo già in emergenza climatica e ogni giorno che perdiamo aumenta la quantità di anidride carbonica nell’atmosfera. Dobbiamo paragonare il nostro pianeta a un malato grave, bisogna intervenire subito per curarlo. Stasera stessa, non tra un anno. Il tempo che ci resta perché la “terapia” sia efficace è una decina d’anni: dopodiché non servirà più e i parametri fisici sceglieranno la loro strada definitiva. La temperatura media del pianeta aumenterà di oltre due gradi, limite stabilito dagli accordi di Parigi: se rimarremo sotto quella soglia le generazioni future potranno avere una vita accettabile; se la supereremo invece le conseguenze saranno catastrofiche.

Di “catastrofe” parlava mesi fa anche il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres.

Sì. Disse testualmente che l’insostenibilità del sistema energetico globale “ci avvicina sempre più alla catastrofe climatica”. Spiegò che ormai ogni minuto conta, che ogni chilo di CO2 è importante, che dobbiamo fare in fretta. Peccato che le sue parole non siano state l’apertura dei giornali di tutto il mondo. Eppure dovremmo averlo capito: quella del cambiamento climatico non è una notizia “ancillare”. È LA NOTIZIA, lo scriva in maiuscolo per favore. Dovremmo chiederci ogni giorno cosa abbiamo fatto per il clima, dovremmo dire che abbiamo un ministro della transizione ecologica impresentabile. Dovremmo chiedere al governo cosa sta facendo per il clima. La risposta è “niente”.

Saremo anche noi italiani profughi climatici, come etiopi o somali?

Sì. Lo saremo. C’è un bel libro di un autore italiano, Bruno Arpaia. Si intitola “Qualcosa là fuori”, è un romanzo, racconta l’emigrazione dei napoletani in Svezia alla fine di questo secolo per scappare dall’Italia desertificata, con tanto di scafisti sul Mar Baltico e razzisti svedesi che sparano loro addosso. È un romanzo, ma è molto realistico.

Professore, lei è anche un No Tav. Si dice che quell’opera permetterà di trasportare merci su gomma anziché su rotaia riducendo di conseguenza l’inquinamento. È così?

No. Quell’opera non serve a niente, non ha nessuna finalità ambientale come invece viene propagandato dai suoi promotori. Per realizzare i 57 chilometri di tunnel dell’alta velocità verranno emessi, da oggi al 2035, 10 milioni di tonnellate di CO2. Questo dato è stato fornito dai promotori stessi della Tav e molto probabilmente è sottostimato. Ma prendiamolo per buono e facciamo finta sia vero: quelle emissioni peggioreranno il clima. I promotori lo sanno ma dicono che si recupererà, tuttavia serviranno almeno 30 anni di servizio, quando comunque i camion saranno elettrici o a idrogeno. Dobbiamo abbattere drasticamente le emissioni subito, non tra 50 anni, né tra 30. Subito. Le emissioni dovranno essere zero nel 2050. (da https://www.fanpage.it/)

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SICCITÀ: salato il DELTA DEL PO, a rischio i bacini dell’acqua potabile (foto da “la Repubblica”)

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“(…) LE CAUSE DELL’ATTUALE SICCITÀ RISIEDONO NELLA CIRCOLAZIONE ATMOSFERICA generale che, a partire dallo scorso dicembre, si è bloccata in una situazione poco evolutiva. Così tutta l’EUROPA È SOTTO UNA STRUTTURA DI ALTA PRESSIONE CHE TIENE ALLA LARGA LE PERTURBAZIONI ricche di umidità provenienti dagli oceani, quelle che dovrebbero portare le piogge. Lo stallo dura da sei mesi: le ondate di caldo africano non fanno altro che peggiorare la situazione idrica. Un conto è avere siccità con temperature fresche, un altro con temperature anomale, superiori di almeno tre gradi rispetto alle medie del periodo: ciò infatti genera un’ulteriore necessità di acqua per l’agricoltura, le attività industriali e quelle domestiche. Il problema è che non si vede una soluzione a breve termine. Cosa ci attende nei prossimi mesi?  Non c’è più neve sulle Alpi quindi la disponibilità di acqua si ridurrà ulteriormente. Riguardo i prossimi mesi è difficile essere accurati: le previsioni stagionali hanno un’affidabilità modesta, ma tutto lascia pensare che questa sarà un’estate calda e senza piogge almeno fino alla fine di settembre. (…)” (LUCA MERCALLI, intervistato da Davide Falcioni, da da https://www.fanpage.it/ del 17/6/2022) (L’IMMAGINE QUI SOPRA, ALTA E BASSA PRESSIONE, è tratta da https://www.ecoage.it/)

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QUEI RIMEDI SBAGLIATI CONTRO LA SICCITÀ

di Mario Tozzi, da “la Stampa” del 22/6/2022

   Visto che il Gran Secco in Italia imperversa, ecco che iniziano a venire fuori le soluzioni più fantasiose per porre rimedio a una siccità come mai se ne erano registrate nell’ultimo secolo. Invece di studiare una gestione complessiva delle acque dolci durante il resto dell’anno, noi lo facciamo regolarmente e rigorosamente solo in emergenza: lo stesso atteggiamento che riserviamo al clima, alla fine delle risorse, al depauperamento della biodiversità.

   Come se non ci fossero stati dati scientifici e ricercatori a ribadire gli elementi di crisi anche con un buon anticipo. A testimonianza ulteriore che: a) le emergenze ambientali nel nostro paese non esistono fino al momento in cui diventano troppo gravi, e allora si possono continuare a ignorare, tanto il problema è troppo complesso; b) non siamo assolutamente in grado di gestire le risorse, avendo sposato l’incomprensibile idea che esse siano infinite; c) perduriamo nell’ignoranza dei sistemi naturali e li riduciamo a contingenze ingegneristiche o economiche, non potendomi pronunciare su quali delle due sia quella peggiore.

   Il cambiamento climatico cambia i tempi del ciclo dell’acqua sulla Terra e diminuisce la permanenza nei fiumi, nei laghi e nelle falde sotterranee, contribuendo alla siccità più estrema, al propagarsi degli incendi e alla morte dei fiumi. Questo cambiamento, è bene ribadirlo, non è come quelli del passato e dipende dalle nostre attività produttive.

   Però l’abuso e lo spreco di acqua da parte dei sapiens procurano danni ancora più gravi, danni che non riconosciamo subito perché non avvengono tanto al rubinetto di casa (l’acqua potabile ammonta al 20% scarso dell’uso complessivo), quanto nelle campagne, negli allevamenti e nel settore industriale.

   E’ l’acqua occulta, quella contenuta in beni, servizi e merci che nessuno misura ma che cambia gli ordini di grandezza dei consumi: se a ciascuno di noi possiamo attribuire 50-60 litri al giorno per bere e lavarci, quando mettiamo insieme tutti gli usi dell’acqua, arriviamo tranquillamente a 5000 litri/persona. Al giorno.

   Ecco dov’è il problema. Tutte cifre e ragionamenti noti da tempo che, però, non hanno impedito a chi ci amministra di fare finta di nulla, sperando nel classico stellone italico e proponendo oggi, in emergenza, soluzioni come il travaso di acque dai laghi alpini al Po, la canalizzazione di acque svizzere, la desalinizzazione dell’Adriatico e magari pure del Tirreno, lo svuotamento dei bacini idroelettrici, il recupero delle acque dei distretti minerari.

   Nessuna di queste è una soluzione praticabile a breve, ma, fatto più grave, si tratta di palliativi che peggiorerebbero il complesso della situazione idrogeologica di un paese tradizionalmente ricco di acque che si è giocato un patrimonio collettivo anche sposando scelte produttive poco comprensibili se non in logiche di mero profitto, come il passaggio a colture particolarmente idrovore.

   Desalinizzare, per esempio, va bene nelle piccole isole, ma non sulla riviera adriatica: quanta energia ci vuole e quanto costa? A prezzo di quali emissioni? E dove mettiamo i residui inquinanti e le salamoie? Scambiare i fiumi per canali abbracciando improbabili travasi transalpini o padani avrebbe conseguenze ecosistemiche di cui non conosciamo la portata, quando proprio ora è prioritario conservare l’integrità di un mondo naturale che ci garantisce la qualità di quelle stesse acque. Abbiamo prosciugato le falde e i fiumi oltre ogni limite e ora vorremmo riempirli come fossimo bambini capricciosi col secchiello cui stanno per levare il mare. (Mario Tozzi, da “la Stampa” del 22/6/2022)

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– 55 milioni di persone ogni anno sono esposte a siccità e desertificazione, secondo l’Oms.
– 216 milioni di persone potrebbero essere costrette a migrare entro il 2050, a causa della siccità e degli eventi a essa connessi, secondo le stime della Banca mondiale.
L’INDICE SPEI (STANDARDIZED EVAPOTRANSPIRATION INDEX), o INDICE DI SICCITÀ MEDIA, è uno dei principali indicatori utilizzati per misurare desertificazione e siccità. Permette di quantificarne gli effetti su ecosistemi, coltivazioni e risorse idriche. Qui, è calcolato a livello annuale. Tiene conto sia delle precipitazioni che della potenziale evapotraspirazione dell’acqua e del loro contributo nella generazione di siccità. I dati si riferiscono ai cambiamenti previsti per gli anni 2040-2059 rispetto ai valori degli anni 1986-2005. I valori positivi (colore più scuro) indicano un grado sufficiente di umidità e quelli negativi (colore chiaro) una maggiore aridità. FONTE: elaborazione openpolis su dati Banca mondiale  (ultimo aggiornamento: lunedì 13 Giugno 2022) (nell’immagine qui sopra INDICE SPEI, da https://www.openpolis.it/)

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CLIMA, CONFLITTI E MIGRAZIONI (foto da https://blog.pltpuregreen.it/) “(…) Come afferma l’Unccd (United nations convention to combat desertification), la siccità ha un forte impatto ambientale, danneggiando gli ecosistemi, ma anche numerosi effetti secondari che ricadono sulle popolazioni che ci vivono. Spesso è infatti all’origine di carestie, sfollamenti e conflitti. (…)” (da https://www.openpolis.it/, 17/6/2022)

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DESERTIFICAZIONE E SICCITÀ RENDONO MOLTE AREE OSTILI ALLA VITA UMANA

da https://www.openpolis.it/ , 17/6/2022

– La desertificazione è uno degli effetti più dannosi del cambiamento climatico, perché la mancanza di acqua crea problemi di approvvigionamento idrico e insicurezza alimentare. Sempre più persone si trovano per questo costrette a migrare –

   Uno degli effetti più evidenti del cambiamento climatico è la desertificazione. Sono sempre più frequenti i periodi di siccità e molte zone della Terra stanno gradualmente diventando più aride e inospitali per molte specie tra cui la nostra.

   Alcuni dei paesi maggiormente colpiti da questi fenomeni sono tra i più poveri della Terra. Se poi consideriamo che gli eventi climatici estremi hanno anche numerosi effetti secondari, portando a conflitti e disordini sociali e politici, capiamo in che modo la desertificazione costringa moltissime persone ad abbandonare la propria abitazione, per cercare altrove una vita migliore.

La siccità, uno degli effetti più nocivi del cambiamento climatico

La mancanza di acqua è uno degli eventi climatici più frequenti e in assoluto più dannosi che il cambiamento climatico contribuisce a causare. Secondo il centro euromediterraneo sui cambiamenti climatici (Cmcc), come capacità di devastazione del territorio, delle infrastrutture e della vita animale e umana sulla Terra è seconda solo a tempeste e alluvioni.

   Come afferma l’Unccd (United nations convention to combat desertification), la siccità ha un forte impatto ambientale, danneggiando gli ecosistemi, ma anche numerosi effetti secondari che ricadono sulle popolazioni che ci vivono. Spesso è infatti all’origine di carestie, sfollamenti e conflitti.

   La siccità di per sé è un evento climatico che ciclicamente è normale si verifichi. Tuttavia, negli ultimi anni gli episodi di estrema siccità hanno vessato sempre di più la Terra, lasciando costi elevatissimi da pagare e tracce profonde, come evidenziato dall’organizzazione mondiale per la sanità (Oms). E le previsioni per il futuro prossimo, purtroppo, confermano questa tendenza.

Come si misurano siccità e desertificazione

L’aridità del suolo è un fenomeno complesso, cui contribuiscono molte cause e da cui scaturiscono molteplici effetti. Conseguentemente, sono numerosi gli indicatori ad oggi utilizzati per misurarla. I fattori che vengono presi in analisi sono principalmente: le precipitazioni, le temperature medie, l’umidità del suolo e l’impatto sulle coltivazioni. Elementi che gli indicatori rapportano tra loro con variabili gradi di complessità.

   Uno degli indicatori più diffusi è lo standardized precipitation index (Spi) che quantifica la siccità da un punto di vista meteorologico, misurando le anomalie nell’accumulo di precipitazioni, solitamente con cadenza mensile. Un avanzamento di questo indicatore è lo standardized precipitation and evapotranspiration index (Spei), che aggiunge il fattore dell’evapotraspirazione potenziale.

   Secondo la definizione fornita dall’Ispra, l’evapotraspirazione corrisponde alla quantità di acqua che si trasferisce in atmosfera per i fenomeni di traspirazione della vegetazione e di evaporazione diretta dagli specchi. Si parla di evapotraspirazione potenziale quando il contenuto d’acqua nel terreno non costituisce un fattore limitante e può variare a seconda delle caratteristiche climatiche (temperatura, vento, umidità relativa, ecc.). In sintesi, rappresenta la massima quantità di acqua che può essere trasformata in vapore dal complesso dei fattori atmosferici e dalla vegetazione di un determinato territorio.

In oltre il 70% dei paesi del mondo la siccità è in aumento

Le previsioni sulla variazione di umidità per gli anni 2040-2059 rispetto agli anni 1986-2005

Stando ai dati della Banca mondiale, l’anomalia prevista per gli anni 2040-2059 rispetto alla media del periodo 1986-2005 sarebbe nella maggior parte dei paesi del mondo caratterizzata da una notevole aridità.  Sono appena 52 su 193 gli stati in cui il dato è invece positivo, e si tratta perlopiù di piccole isole, che ospitano una porzione molto ridotta della popolazione mondiale.

   In 140 nazioni invece le previsioni anticipano una crescente aridità. Alcune zone risultano particolarmente colpite, soprattutto quelle che già oggi sono desertiche, come l’Africa settentrionale e il Medio oriente. Ma anche Asia centrale, Africa meridionale, Australia e alcune aree dell’America centrale presentano valori negativi elevati.

   A registrare una tendenza opposta, verso una maggiore umidità, sono Canada, Russia e la Scandinavia, oltre ad alcuni stati dell’Asia sud-orientale (Filippine, Cambogia, Indonesia e Tailandia) e orientale (Giappone e Corea in particolare).

Le migrazioni causate dalla siccità

La siccità è un fenomeno fortemente sottostimato, nonostante comporti numerosi effetti secondari a catena, che come accennato non si limitano al danneggiamento degli ecosistemi ma hanno un impatto profondo anche sulla vita delle comunità.

   La siccità causa insicurezza alimentare.

   Può causare infatti difficoltà di approvvigionamento idrico, danni al settore agricolo e, di conseguenza, una situazione di insicurezza alimentare. Tutto ciò contribuisce ad aggravare – soprattutto in territori già instabili – conflitti e disordini. Una caratteristica che anche l’organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) considera tipica degli eventi climatici.

   Tutto questo fa sì che molte persone siano costrette, a causa di eventi legati alla desertificazione della Terra, ad abbandonare la propria abitazione per cercare altrove condizioni di vita migliori. Come riporta l’organizzazione meteorologica mondiale, le stime realizzate dalla Banca mondiale nel 2021 anticipano che la siccità e i fattori a essa legati potrebbero portare oltre 200 milioni di persone a migrare.

   216 milioni di persone potrebbero essere costrette a migrare entro il 2050, a causa della siccità e degli eventi a essa connessi, secondo le stime della Banca mondiale.

   Da sottolineare che nella maggior parte dei casi, queste persone non arrivano a oltrepassare i confini del proprio paese. Si parla quindi di “sfollati interni”.

   Lo sfollato interno è una persona costretta o obbligata a lasciare il luogo di residenza abituale a causa di conflitti, violenze o disastri naturali, e che si è mossa all’interno dello stesso paese di provenienza.

   Alcuni dei paesi più colpiti da questi disastri naturali rientrano tra quelli più esposti al rischio di insicurezza alimentare e sono anche paesi considerati prioritari dalla cooperazione italiana.

   Si tratta di Afghanistan, Somalia, Sud Sudan, Etiopia, Kenya, Pakistan e Iraq, come abbiamo approfondito in un recente articolo su questo tema. (da https://www.openpolis.it/, 17/6/2022)

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(BRUNO ARPAIA, “QUALCOSA LÀ FUORI”, GUANDA ed., 2016, euro 16,00 – “(…) C’è un bel libro di un autore italiano, Bruno Arpaia. Si intitola “Qualcosa là fuori”, è un romanzo, racconta l’emigrazione dei napoletani in Svezia alla fine di questo secolo per scappare dall’Italia desertificata, con tanto di scafisti sul Mar Baltico e razzisti svedesi che sparano loro addosso. È un romanzo, ma è molto realistico. (…)” (LUCA MERCALLI, intervistato da Davide Falcioni, da da https://www.fanpage.it/ del 17/6/2022)

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“(…) LA CRESCITA DELLE TEMPERATURE STA GIÀ CAUSANDO LA FUSIONE DEI GHIACCI DELLA GROENLANDIA, DELL’ANTARTIDE E DELLE MONTAGNE DI TUTTO IL MONDO: ciò provoca l’AUMENTO DEI LIVELLI DI MARI E OCEANI, fenomeno a cui contribuisce anche il caldo stesso incrementando il volume delle acque. Di fatto, i livelli dei mari salgono di 4 millimetri ogni anno. In un Paese con 8mila chilometri di coste come l’Italia si possono ben immaginare le conseguenze. SENZA POLITICHE DI RIDUZIONE DELLE EMISSIONI DI CO2 tra una trentina d’anni CHI VIVE NEL DELTA DEL PO O NELLA LAGUNA VENETA DOVRÀ SCAPPARE perché avrà il mare nel salotto di casa. (…)” (LUCA MERCALLI, intervistato da Davide Falcioni, da da https://www.fanpage.it/ del 17/6/2022) (nella FOTO qui sopra: IL GHIACCIAIO DELLA MARMOLADA, ORAMAI IN ESTINZIONE)

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GHIACCIAI PERDUTI

di Enrico Martinet, da “la Stampa” del 23/6/2022

– Dal Bianco al Rosa fino alla Marmolada le alte temperature svestono le montagne cambiando il panorama e riducendo le riserve – Soltanto in Valle d’Aosta ne sono scomparsi oltre 30 in vent’anni – L’amarezza degli esperti “Facciamo da anni sempre gli stessi errori” – 23% la riduzione della riserva idrica in Valle d’Aosta rispetto alla media; 75% la percentuale di neve in meno registrata a giugno nell’arco alpino; 9 i metri di spessore persi dal ghiacciaio della Marmolada in dieci anni –

   Vesti che cadono. Anzi, fondono. E la montagna resta nuda, con rocce che paiono di un altro pianeta e morene che crescono. Ciò che è fragile, come tutto ai confini tra terra e cielo, diventa Continua a leggere