L’INDIA AL VOTO: il Paese più popoloso al mondo (quasi 1,5 miliardi di abitanti), in pieno sviluppo ma con forti disparità sociali, è un Paese dove c’è la DEMOCRAZIA, con “vere” elezioni dei rappresentanti del governo – Ma è anche sempre più autoritario, con tensioni violente fra gruppi etnici e religiosi (scontri tra militanti musulmani e induisti) – Quale futuro per l’INDIA?

(L’INDIA è il paese più popoloso al mondo, quasi 1,5 miliardi di abitanti – foto ripresa da https://www.argia.eus/en/) – “(…) Secondo la Commissione elettorale indiana, oltre 968 milioni di elettori si sono registrati in vista delle elezioni generali, che si svolgono in sette fasi tra il 19 aprile e il primo giugno, decretando il partito di maggioranza del Lok Sabha (o “Casa del popolo”): con 543 membri, si tratta della più potente tra le due camere del parlamento perché oltre a contare un numero maggiore di seggi, esercita il controllo finanziario ed è la camera verso la quale è responsabile il Consiglio dei ministri. (…)” (Cristina Kiran Piotti, dal quotidiano “DOMANI” del 8/4/2024)

……………………..

(India, carta fisica e politica, mappa ripresa da https://mydbook.giuntitvp.it/) – “(…) Il paese più popoloso al mondo non può che mandare al voto l’elettorato più numeroso. Per assicurare questo diritto dai monti impervi dell’Himalaya alle assolate Isole Nicobare, saranno dispiegati in 15 milioni tra dipendenti governativi (principalmente insegnanti) e personale di sicurezza: una vera e propria sfida per i funzionari elettorali. (…)” (Cristina Kiran Piotti, dal quotidiano “DOMANI” del 8/4/2024)

………………………….

TRA ARRESTI E DISPARITÀ IL PAESE PIÙ POPOLOSO SI PREPARA AL VOTO

di Cristina Kiran Piotti, dal quotidiano “DOMANI” del 8/4/2024

– In India 968 milioni di elettori si sono registrati per andare alle urne. Ma la più grande democrazia al mondo ha qualche problema –

   Secondo la Commissione elettorale indiana, oltre 968 milioni di elettori si sono registrati in vista delle elezioni generali, che si svolgeranno in sette fasi tra il 19 aprile e il primo giugno, decretando il partito di maggioranza del Lok Sabha (o “Casa del popolo”): con 543 membri, si tratta della più potente tra le due camere del parlamento perché oltre a contare un numero maggiore di seggi, esercita il controllo finanziario ed è la camera verso la quale è responsabile il Consiglio dei ministri.

   Il grande favorito, suggellano senza gran stupore i più recenti sondaggi, è il Bharatiya Janata Party guidato dal primo ministro Narendra Modi, che governa l’India dal 2014 e che ha annunciato di voler superare, con la sua coalizione, quota 400 seggi.

DEMOGRAFIA DEL VOTO

Il paese più popoloso al mondo non può che mandare al voto l’elettorato più numeroso. Per assicurare questo diritto dai monti impervi dell’Himalaya alle assolate Isole Nicobare, saranno dispiegati in 15 milioni tra dipendenti governativi (principalmente insegnanti) e personale di sicurezza: una vera e propria sfida per i funzionari elettorali, che dovranno percorrere 40 chilometri per raggiungere la 44enne Sokela Tayang, unica a votare per il seggio di un minuscolo villaggio nello stato dell’Arunachal Pradesh.

   A quelle che sono considerate le elezioni tra le più lunghe della sua storia recente (44 giorni) si aggiunge il fattore cambiamento climatico: secondo l’Istituto meteorologico indiano decine di ondate di calore colpiranno la nazione nella rovente stagione pre-monsonica, che coinciderà con il voto di grandi masse di popolazione.

   Si vota con il sistema uninominale secco e il voto, espresso solo dagli elettori che si sono registrati, avviene utilizzando macchine per il voto elettronico. Tra i tanti, bisognerà prestare attenzione a come voteranno i giovani neomaggiorenni, che affrontano il primo voto: parliamo di poco più di 1,8 milioni di persone, ma meno del 40 per cento di loro si è registrato – quota che scende ad un quarto degli aventi diritto in stati popolosi e decisivi come Bihar e Uttar Pradesh.

I PARTITI

A queste elezioni si presenteranno 58 partiti politici statali e sei partiti nazionali. Tra questi ultimi ci sono il Bjp guidato dal primo ministro Narendra Modi e il suo principale avversario, il Congress, il cui presidente Mallikarjun Kharge si affianca all’uomo-simbolo Rahul Gandhi. Un tempo principale contendente nell’arena nazionale, dopo aver governato il paese per decenni, il partito si è ridotto all’ombra del suo antico splendore ottenendo nel 2019 appena 52 seggi, contro gli oltre 300 del Bjp.

   Seguono l’Aam Aadmi Party di Arvind Kejriwal, chief minister di Delhi, attualmente in carcere per una indagine per corruzione che secondo le opposizioni è politicamente motivata. Poi il Bahujan Samaj Party (che nasce su ispirazione del lavoro dell’attivista Dalit Bhimrao Ramji Ambedkar) e il Partito Comunista dell’India (marxista) attualmente al potere nello stato del Kerala – ma che nella scorsa tornata nazionale era riuscito a ottenere appena tre seggi, tutti nel sud. Infine, il Partito popolare nazionale, che governa in Meghalaya con l’appoggio del Bjp.

   I due principali partiti guidano due coalizioni, la Nda per il Bjp e India per il Congress – ma le fratture e le defezioni all’interno dell’intesa di opposizione, negli ultimi mesi, non si contano.

   A questo s’è aggiunto l’arresto dello chief minister di Delhi e il congelamento dei conti correnti del Congress a causa di una controversia fiscale che i critici denunciano come una forma di repressione pre-elettorale da parte del primo ministro. Il tutto, nel pieno di uno scandalo legato ad un opaco meccanismo di finanziamento dei partiti (di cui il Bjp è risultato il principale ma non certo unico beneficiario). Non a caso, le campagne elettorali indiane sono tra le più costose al mondo: questa primavera secondo alcune previsioni il costo complessivo potrebbe superare i 10 se non i 16 miliardi di dollari.

SUD VS NORD

Storicamente, si ritiene che una faglia politica contrapponga gli stati federali del più prospero e istruito sud alla base di sostegno di Modi, nel cuore più conservatore del nord, il quale meglio risponde alla narrativa nazionalista hinduista cara al primo ministro.

   Fatta eccezione per un breve periodo alla guida del Karnataka, il Bjp non è infatti mai riuscito a sfondare negli stati meridionali. Di contro, grossomodo il Congress, tra alleanze e coalizioni, negli ultimi anni ha mantenuto un ruolo centrale nel sud: sarà quindi interessante seguire il risultato del voto in Telangana, Karnataka, Kerala, Tamil Nadu e Andra Pradesh.

   Anche perché, nelle ultime settimane, si è fortemente intensificata la campagna elettorale di Modi sia in questi stati, sia in Bengala Occidentale, dove il Bjp tenta di minare il partito dell’All India Trinamool Congress.

   Molti osservatori, infatti, suggeriscono di iniziare a discutere di est vs ovest, e delle mancate promesse di sviluppo industriale del Bengala (governato dalla potente Mamata Banerjee del Tmc), rispetto alla crescita costante in Gujarat, a nord-ovest. Eppure, proprio nel Gujarat, stato d’origine di Modi, per la prima volta si verificano scontri sui nomi dei candidati Bjp.

RICCHEZZA E VOTO

Nel 2022 l’India è diventata la quinta economia più grande al mondo, superando la Gran Bretagna. Se continuerà di questo passo, potrebbe sorpassare Germania e Giappone, assicurandosi il ruolo di terza economia nel 2030, dietro a Cina e Stati Uniti.

   Di pari passo macina terreno, ci rivela uno studio del World Inequality Database, la classe più ricca: il numero di miliardari indiani è quasi triplicato negli ultimi 10 anni. Tuttavia, prosegue lo studio, i redditi della maggior parte degli indiani sono rimasti stagnanti.

   Numericamente, a pesare sul voto sarà la potente classe media, quella che maggiormente apprezza la visibilità internazionale ottenuta dal primo ministro, ma anche le misure appetibili per il voto urbano, come quella che il governo chiama “infrastruttura pubblica digitale”, e ovviamente la spinta finanziaria e industriale.

   Ma la gran parte della forza lavoro indiana oggi si concentra nelle aziende agricole, e si ritiene che il 40 per cento della popolazione dipenda, in un modo o nell’altro, dall’agricoltura: alle classi più povere, il governo negli ultimi anni ha dedicato programmi che spaziano dall’elettricità ai servizi igienici nelle case dei villaggi più remoti.

   E poi, una pioggia di sussidi governativi: a seconda delle classifiche, beneficerebbero di alcuni dei piani più noti e ampi, come il PMGKAY, soprattutto gli stati poveri del nord-est del paese. E parlando di campagne, andrà tenuto d’occhio l’esito del voto in Punjab e Uttar Pradesh, e di riflesso l’impatto delle proteste dei contadini, che più di una volta sono state in grado di impensierire il governo.

   Oltre ad aiuti e sussidi, il principale tema per l’elettore indiano è la disoccupazione. Secondo la Banca Mondiale, l’India (come del resto tutta l’area) non sta creando abbastanza posti di lavoro per sostenere i giovani: secondo il think tank Center for Monitoring Indian Economy, nel 2023 il tasso di disoccupazione giovanile era pari al 45,4 per cento e va in gran parte attribuito alla disoccupazione nelle campagne, rispetto alla disoccupazione urbana.

CLASSI E RELIGIONE

Altro fattore da considerare è la battaglia per il voto delle caste più basse o Obc, grande bacino elettorale del paese, che potrebbe sfiorare fino al 40 per cento della popolazione.

   È indubbio che il successo del Bjp guidato da Modi (il quale si definisce egli stesso Obc) sia anche dovuto alla sua capacità di attirare elettori di gruppi svantaggiati, strappandoli al Congress, pur mantenendo alta l’attenzione a temi cari alle caste più alte, come si è visto nel corso della massiccia inaugurazione del tempio dedicato al dio Rama ad Ayodhya, ad inizio anno.

   Tempio che sorgeva su un luogo contestato dalla comunità musulmana, principale minoranza religiosa del paese, che costituisce il 15 per cento della popolazione. Oggetto di una serie di misure e norme che varie organizzazioni considerano discriminatorie, come l’implementazione della legge sulla cittadinanza Caa, il voto musulmano potrebbe avere un peso importante.

   Eppure nelle precedenti elezioni, il voto è risultato estremamente frammentato, contribuendo anzi alla vittoria del Bjp. Sarà così anche nei prossimi mesi?

(Cristina Kiran Piotti, dal quotidiano “DOMANI” del 8/4/2024)

………………………….

Gli episodi di tensione tra gruppi etnici e religiosi sono sempre più diffusi e violenti in molte regioni dell’India (FOTO tratta da https://www.orizzontipolitici.it/)

…………………………

(Mappa delle città capitali in India – da https://upload.wikimedia.org/) – (Mappa delle città capitali in India. Le città Capitali degli stati indiani sono distinte dalla legge indiana in capitali amministrative, legislative e giudiziarie). L’INDIA è una federazione di Stati con parlamenti e governi autonomi. Sono 28 Stati e 8 territori, fra cui quello della capitale, Delhi.   La maggior parte degli Stati segue nei confini le frontiere linguistiche. Certe regioni rivendicano l’autonomia come nuove entità statali. Chandigarh è un caso particolare: il Punjab e l’Haryana formavano un solo Stato; nel 1966 sono stati separati in base alla lingua ma hanno mantenuto la capitale d’origine che è stata posta in un territorio separato. (Vedi tutto su Stati federati e territori dell’India – Wikipedia)

………………………..

INDIA: LA PIÙ GRANDE DEMOCRAZIA AL MONDO È SEMPRE PIÙ AUTORITARIA

di Matteo Bertasio, da https://www.orizzontipolitici.it/, 19/10/2023

   A luglio (2023), nel pieno della stagione dei monsoni, uno scandalo senza precedenti ha travolto l’India, accendendo i riflettori su una regione dimenticata dai media mainstream. Sui principali canali social indiani è circolato un video di due donne assediate da un’orda di uomini (tra le 800 e le 1000 persone). Secondo alcuni testimoni, sarebbe stata la polizia stessa ad aver consegnato le donne al gruppo. Il video proviene dal Manipur, una regione del nord-est tra Bangladesh e Myanmar, dove da almeno cinque mesi è in corso il più violento conflitto civile che l’India ricordi negli ultimi decenni. Le due donne appartengono alla minoranza cattolica dei kuki, mentre gli uomini alla maggioranza hindu dei meiteis. 

   Gli episodi di tensione tra gruppi etnici e religiosi sono sempre più diffusi e violenti in molte regioni dell’India. Ciò sembra seguire un pattern preciso, cristallizzato e perfezionato negli anni, sia da parte degli alti ranghi del Bharatiya Janata Party a Nuova Delhi sia nel complesso apparato burocratico di partito che governa gli stati. L’India è la nazione (e la democrazia) più popolosa al mondo e dal 2014 è governata dal BJP, il partito nazionalista Hindu del Presidente Narendra Modi. L’uomo è costantemente etichettato come “il leader più popolare al mondo” con approval ratings che sfiorano il 70% ed è in corsa verso una terza storica rielezione nel 2024. 

IL SISTEMA MEDIATICO IN INDIA E IL CONTROLLO DEL BJP

Gran parte del successo di Modi è dovuto al controllo serrato dei media e dell’informazione che è riuscito ad imporre negli anni. Il Primo Ministro viene descritto come il “padre degli indiani” e il “messia dei poveri” e controlla un apparato strabiliante e diversificato di media: dai dibattiti su Twitter e Facebook (su cui ha un totale di quasi 300 milioni di follower) ai principali canali televisivi nazionali e le stazioni radio, dove gestisce un podcast in prima persona, chiamato Mann Ki Baat, che ricorda le fireside chats di Franklin D. Roosevelt, e in cui parla, con una linea telefonica aperta, di temi cari all’elettore medio induista. La radio, in quanto mezzo di comunicazione, porta con sé la credibilità e l’autenticità del passato, ma la diffusione effettiva del suo messaggio avviene attraverso i social media.

   C’è anche un lato più oscuro, tuttavia, nella strategia implementata dal BJP per controllare la comunicazione. Il panorama mediatico nazionale si concentra spesso su casi sensazionali e scandalistici, studiati appositamente per incrementare gli indici di ascolto. Le periferie sono così intenzionalmente dimenticate e raramente vengono rese note al pubblico storie che provengono da aree rurali al di fuori delle principali metropoli di Mumbai e Nuova Delhi. È proprio in queste zone dimenticate, tuttavia, che nascono e si sviluppano le tensioni etniche e religiose e dove lo stato è maggiormente assente. Temi di fondamentale importanza politica, quali lo scarso accesso all’acqua potabile e al sistema sanitario in centinaia di villaggi del nord-ovest o l’aumento drastico del lavoro e della prostituzione minorile nelle caste più basse nel periodo post-COVID non sono noti agli elettori delle città

   Modi non parla delle periferie anche e soprattutto perché lì è dove si concentrano i suoi oppositori politici, principalmente di religione non induista. Secondo l’ultimo censimento nazionale, circa il 14% della popolazione indiana è di religione musulmana e il 2% di religione cristiana; i primi vivono principalmente nelle regioni del nord-ovest (Jammu e Kashmir, Uttar Pradesh) mentre i secondi costituiscono quasi il 50% della popolazione del Manipur che, come già analizzato, è diviso tra kukis e meiteis. 

   Gli episodi del Manipur hanno suscitato grande scandalo e il silenzio di Modi a riguardo è risultato assordante a molti. A tre mesi di distanza dall’accaduto il primo ministro è stato forzato ad esprimersi a riguardo, attraverso brevissime dichiarazioni parlamentari di solidarietà alle vittime, non menzionando, tuttavia, l’ampio contesto del conflitto etnico nella regione che ha già mietuto 180 vittime e costretto più di 60 mila kukis ad emigrare. Dall’inizio degli scontri, infatti, per ragioni di sicurezza l’amministrazione locale guidata dal BJP ha imposto un internet shutdown sull’intera regione che ha soppresso ogni copertura mediatica degli accaduti, spingendo di conseguenza giovani freelancer, specialmente donne, a documentare attraverso mezzi alternativi le violenze.

LA REPRESSIONE MEDIATICA IN INDIA: IN CHE MODO GLI SCONTRI RELIGIOSI AVVANTAGGIANO MODI

La limitazione all’accesso ad internet negli stati periferici è lo strumento più oppressivo di controllo della comunicazione del BJP e viene utilizzato sempre più frequentemente dai governi locali. L’ondata di censura ha avuto inizio il 5 agosto 2019, quando il parlamento indiano ha revocato con la maggioranza di due terzi dell’assemblea l’Articolo 370 della Costituzione. La norma garantiva un governo de facto autonomo alle regioni confinanti con la Cina del Kashmir e Jammu ed era resistita persino alla guerra sino-indiana combattuta nel 1972 per il controllo dell’area che ne ha ridefinito i confini. 

   Le due regioni, con il Reorganization act, sono state accorpate in un unico stato federato e separate dal Ladakh, un territorio più a nord conteso tra India, Cina e Pakistan. La riorganizzazione segue chiari fini politici di assoggettare la minoranza islamica ad un miglior controllo delle autorità locali ed ha suscitato l’ira dei residenti musulmani, che sono scesi in piazza in protesta contro il BJP.

   Secondo Human Rights Watch, tra il 2020 e il 2022 sono stati imposti 127 shutdown in India, incluso un blackout del 4G nel Jammu e Kashmir durato un anno e mezzo. I filmati trapelati dalla regione, tuttavia, mostrano scene sempre più violente di scontri tra militanti musulmani e induisti, che si sono radicalizzati in concomitanza del picco dell’ondata di COVID. 

   Tra i temi più ricercati su Youtube India sono emersi video di rapimenti e linciaggi di gruppo di credenti musulmani da parte dei cosiddetti Hindu vigilantes, discorsi di monaci induisti che condannavano alla dannazione i credenti che si fossero macchiati di sposare uomini o donne di religione islamica, e un discorso del segretario del partito di estrema destra, Hindu Mahasabha, che inneggiava apertamente al genocidio dei musulmani nel nord-ovest: “Se noi [hindu] diventeremo soldati e uccideremo due milioni di musulmani, allora saremo vittoriosi”. 

   La frangia estremista del movimento politico induista – seguace dell’ideologia Hindutva, che professa la superiorità degli Hindu sul territorio indiano – è diventata sempre più popolare da quando i media hanno iniziato a diffondere ossessivamente la teoria del complotto Love Jihad, secondo la quale sarebbe in atto da tempo un processo di conversione occulto da parte dei musulmani residenti in India con l’obiettivo di abbattere la maggioranza induista nel paese e costituire un califfato indiano negli anni avvenire. 

   Nonostante Modi e il BJP si siano più volte dissociati dalle violenze dei militanti, la carriera politica del Primo Ministro è segnata dall’attivismo Hindutva dai tempi del suo primo incarico come Ministro capo del Gujarat durante gli scontri del 2002, che hanno causato la morte di quasi 800 musulmani. Anche in quel frangente il primo Ministro mantenne un profilo basso, sminuendo gli accaduti nonostante emersero negli anni successivi molteplici prove riguardo il coinvolgimento dell’esercito nel massacro. 

IL FUTURO DELL’INDIA: TRA IL DETERIORAMENTO DELLA DEMOCRAZIA E UN’ECONOMIA SEMPRE PIÙ SPECIALIZZATA

La strategia coloniale del divide et impera persiste ad oggi nella politica di Modi, anche se indirettamente. Il suo avversario politico, Rahul Gandhi – che lo affronterà per la terza volta nel 2024 a capo della coalizione elettorale INDIA – sta costruendo la propria campagna sull’apparente complicità del BJP nel conflitto etnico del Manipur. I suoi sforzi hanno portato alla creazione della più grande alleanza partitica nella storia della democrazia indiana: 28 formazioni unite affronteranno il messia delle folle nell’improbabile impresa di detronarlo. La sigla della coalizione è un acronimo per Indian National Developmental Inclusive Alliance, con un chiaro riferimento al nome della nazione. Sia in ottica induista che in chiave elettorale, dunque, può essere letto il tentativo di Modi di cambiare il nome dell’India in Bharat sui documenti ufficiali del G20. 

   Gli analisti regionali e i sondaggi concordano nell’indicare Modi come grande favorito per la vittoria il prossimo anno. Il primo ministro, nel suo discorso al 77esimo anniversario dell’Indipendenza dagli inglesi, ha dichiarato che il paese è in lotta per diventare la terza economia mondiale nei prossimi cinque anni. Le statistiche aggregate sulle performance indiane confermano un’ottima ripresa del Paese post-COVID e un trend macroeconomico diverso da quello delle altre nazioni “in via di sviluppo” dell’est asiatico.   Piuttosto che scommettere sull’abbondanza di forza-lavoro per competere con i mercati occidentali e mantenere una politica di cambio stabile con euro e dollaro, l’India predilige una produzione orientata al mercato domestico, grandi investimenti nel settore tecnologico e una progressiva facilitazione del Foreign Direct Investment.  

   L’obiettivo del governo è quello di crescere grazie all’accumulazione di capitale piuttosto che attraverso gli export, sintomo di un’economia ormai matura e pronta al “grande balzo”. 

   Stati Uniti e Cina osservano con attenzione le dinamiche interne alla politica indiana. Modi mantiene un approccio amichevole con entrambe le potenze, rafforzando l’alleanza con il blocco atlantico da un lato e normalizzando le tensioni sul confine sino-indiano dall’altro. L’avvicinamento delle due più grandi economie al leader rinforza l’immagine che egli raffigura di sé ai media nazionali, contribuendo ad aumentare la sua popolarità. In un’apparente tensione tra democrazia e svolta autoritaria, la nazione più popolosa del mondo potrebbe diventare il partner più importante nel lungo termine non solo in chiave economica, ma anche geopolitica. 

(Matteo Bertasio, da https://www.orizzontipolitici.it/, 19/10/2023)

……………………….

(NARENDRA MODI interviene il 6 aprile 2024 a un comizio elettorale nella città di Pushkar – FOTO da https://altreconomia.it/) – “(…) L’India è la nazione (e la democrazia) più popolosa al mondo (1,428 miliardi di abitanti), e dal 2014 è governata dal BJP (Bharatiya Janata Party), il partito nazionalista Hindu del Presidente Narendra Modi (nella foto), che è il favorito per la rielezione nel 2024. 

………………..

ELEZIONI IN INDIA: IL CLIMA NON È UNA PRIORITÀ

di Bianca Terzoni, da https://www.lasvolta.it/, 5/4/2024

– 950 milioni di elettori dovranno decidere sul futuro di uno dei maggiori Paesi responsabili di emissioni di gas serra. Il grande assente nei programmi elettorali? La lotta alla crisi climatica –

   Dal 19 aprile al 1° giugno la democrazia più grande del mondo sarà chiamata alle urneServiranno quasi 44 giorni per far votare tutta la popolazione.

   1,4 miliardi di abitanti per un totale di 950 milioni di elettori, incaricati di decidere chi siederà nel Lok Sabha, la Camera bassa del Parlamento indiano. Narendra Modi, l’attuale primo ministro e leader del Bharatiya Janata Party, cerca di ottenere un terzo mandato. La maggior parte dell’opposizione si è riunita nel gruppo India (Alleanza inclusiva indiana per lo sviluppo nazionale), guidato da Mallikarjun Kharge.

   Tra i programmi elettorali manca una componente importante: la lotta al cambiamento climatico. Molti portavoce di Modi assicurano un continuo sviluppo per quanto riguarda le energie rinnovabili e la riduzione di emissioni inquinanti, ma nel programma non compare nulla di troppo specifico.

   Secondo una ricerca della Cnn, nel 2022 l’India è stato il terzo Paese al mondo per le emissioni di gas serra, dopo Cina e Stati Uniti. L’assenza di tematiche ambientali nel dibattito pubblico è da ricercare anche nella poca informazione, specialmente nella parte sud del Paese.

   Non è la prima volta che l’ambiente non è protagonista: secondo uno studio di Environmental Reasearch, tra il 1999 e 2019 l’emergenza climatica ha fatto parte dello 0,3% delle attività del Parlamento indiano.  Negli ultimi anni la situazione è migliorata. Sotto la guida di Modi, il Paese si è impegnato nella decarbonizzazione, nell’impiegare energia fotovoltaica ed eolica al 50% entro il 2030, e a ottenere emissioni zero entro il 2070.

   A livello internazionale l’India considera la questione climatica come una priorità, ma questo non si riflette nelle politiche del Paese e nel dibattito politico pre-elezioni. I combustibili fossili continuano a dominare la produzione di energia, e lo Stato rimane una delle più soggette al cambiamento climatico. Secondo l’Indian Meteorological Department, il Paese sperimenterà un’ondata di caldo estremo proprio nel periodo di elezioni tra aprile e giugno.

   Tra le iniziative più rilevanti verso la sostenibilità si inserisce il progetto di Gautam Adani, direttore esecutivo di Agel, Adani Green Energy. L’imprenditore sta trasformando aree di un deserto di sale nell’ovest dell’India in una delle più importanti risorse di energia pulita disponibili sul Pianeta. Una volta che gli impianti fotovoltaico ed eolico del Khavda Renewable Energy Park saranno terminati, verrà generata una quantità di energia pulita tale da donare elettricità a 16 milioni di case indiane.

   Seppur carente all’interno della campagna elettorale, il tema del cambiamento climatico è rilevante tra i giovani. Secondo un sondaggio di Climate Education, su 1.600 abitanti che andranno per la prima volta al voto la lotta all’ambiente è al terzo posto come priorità, dopo l’occupazione e l’economia. Per i partecipanti, i cittadini sarebbero responsabili al 44% del cambiamento climatico, anche se le risposte variano da regione a regione.

   Nonostante il risultato delle seconde elezioni più lunghe nella storia dell’India, la lotta al cambiamento climatico e la transizione green saranno cruciali in un Paese che secondo molti si avvia a diventare la terza potenza economica al mondo. (Bianca Terzoni, da https://www.lasvolta.it/, 5/4/2024)

…………………………

Le zone contese del Kashmir: il territorio indiano del JAMMU E KASHMIR, quello pakistano dell’AZAD KASHMIR e quello cinese del AKSAI CHIN (da Wikipedia)

(da Wikipedia) Il conflitto del Kashmir si riferisce in generale alla disputa tra India, Pakistan e Cina per la regione del Kashmir. Questa disputa è sfociata più volte in confronti armati fra i tre Stati. (…) Quasi immediatamente dopo l’indipendenza dal Regno Unito (15 agosto 1947, ndr), le tensioni fra l’India e il Pakistan cominciarono a degenerare. (…) L’India, a prevalenza induista, col corredo delle regioni che a tale cultura religiosa si richiamavano, e l’altro, il Pakistan, a maggioranza marcatamente islamica, con le regioni i cui abitanti abbracciavano tale credo. Questo portò a disordini nelle aree dove le minoranze dell’altra religione erano numerose. Fu così che scoppiò la guerra indo-pakistana del 1947-1948, la prima di tre guerre totali fra le due nazioni in relazione al Principato del Kashmir. (…) Il maharaja, chiedendo l’aiuto dell’India in opposizione al Pakistan, nell’ottobre 1947 firmò l’atto di annessione e il Kashmir, unilateralmente, entrò a far parte dell’Unione indiana e ne divenne il 25º Stato, detto “Jammy Kashmir“. Mentre l’annessione del Kashmir all’India fu ratificata dalla Gran Bretagna, il Pakistan al contrario rifiutò di riconoscere tale atto unilaterale e continuò a rivendicare l’annessione integrale del Kashmir di cui occupava già un terzo del territorio. (…) Dopo tre guerre totali, le schermaglie di confine tra India e Pakistan sono riprese nel 2016-2018, consistenti in pesanti scontri a fuoco tra le forze indiane e pakistane attraverso il confine di fatto, noto come la Linea di controllo (LoC), tra il due stati nella regione contesa del Kashmir… (leggi tutto: Conflitto del Kashmir – Wikipedia)

………………………..

(India, mappa da Wikipedia)

…………………………

IL RUOLO PARADOSSALE DELLE DONNE NELLA POLITICA INDIANA

da https://terzomillennio.uil.it/ (Dipartimento Internazionale UIL), 7/1/2024

   Le contraddizioni economiche, sociali e politiche continuano a caratterizzare l’ambiziosa crescita dell’India. Il colosso asiatico, che ad aprile 2023 ha superato la Cina per numero di abitanti (1,428 miliardi contro 1,425), continua il suo percorso per affermarsi come superpotenza a livello globale.

   Secondo gli analisti, l’India ha fatto registrare buoni risultati economici nel 2023: il PIL continua a crescere (+7,60% a settembre 2023); la rupia è stabile e perde poco valore rispetto ad altre valute estere in confronto al dollaro statunitense; gli indici di borsa sono ai massimi storici; gli investimenti pubblici si concentrano nelle infrastrutture (120 miliardi di dollari entro il 2024) oltre che nell’industria pesante e nel settore manifatturiero.

   Nonostante il crescente autoritarismo del governo nazionalista di Narendra Modi e la sempre minore libertà di stampa, in aggiunta al suprematismo induista a scapito di altre confessioni religiose, il Paese è ancora considerato la più grande democrazia del mondo: alle elezioni del 2019 il tasso di partecipazione è stato del 67%, superiore a molte democrazie occidentali.

Una crescita fatta di profonde disuguaglianze

In realtà, osservando ulteriori indicatori di sviluppo, si nota come l’ascesa dell’India non sia priva di ambiguità e disuguaglianze profonde a tutti i livelli.

   La disoccupazione è inferiore al 10% ma la partecipazione delle donne al mercato del lavoro non raggiunge il 20% e il reddito pro-capite è appena superiore ai duemila dollari annui. Tra le conseguenze di una crescita disarmonica c’è l’aumento della pressione insostenibile sulle città a causa dell’emigrazione dalle zone rurali, che ospitano ancora la maggior parte della popolazione in condizioni di povertà e arretratezza.

   Secondo Oxfam in India vivono 228,9 milioni di poveri (il 16% degli abitanti), di cui 83 milioni in condizioni di estrema povertà, mentre il 5% degli indiani possiede oltre il 60% della ricchezza del paese.

   In questo contesto socioeconomico segnato da luci ed ombre lo scenario politico non fa eccezione, in particolare in relazione al ruolo delle donne. A inizio dicembre 2023 si sono concluse le elezioni locali che hanno confermato il dominio del partito al governo, il Bharatiya janata party (Bjp), negli stati della “hindi belt”, dove vive un terzo della popolazione.

Le donne nella politica indiana

Con l’approssimarsi delle elezioni del 2024 la politica indiana cerca i voti cruciali dell’elettorato femminile ma le donne che riescono ad intraprendere la carriera politica sono poche ed il pensiero sessista dominante prende di mira anche le parlamentari. Queste ultime sono appena 31 alla Camera alta (12,6%) e 82 in quella bassa (15%), contro rispettivamente 208 e 457 colleghi uomini. Nella composizione di governo, tra ministri e sottosegretari, le donne con incarichi sono appena 12 su 79.

   L’adozione delle quote di genere, previste dalle riforme degli ultimi anni, è rimasta solo sulla carta: tra i candidati presentati alle ultime elezioni dal Bjp e dal partito d’opposizione Indian National Congress (INC) le donne erano solo il dodici percento.

   Una situazione paradossale considerando che l’elettorato femminile è sempre più importante in India, poiché forma una base elettorale molto ampia e generalmente, a differenza degli uomini, le donne non sono affiliate ai partiti. A novembre, nello stato del Madhya Pradesh la percentuale delle votanti è stata del 76% delle aventi diritto (negli anni Sessanta l’adesione era sotto al 30%).

   Finché non vi sarà un reale cambiamento culturale accompagnato da criteri di selezione con meno barriere per l’accesso delle donne in Parlamento, le quote rosa e le leggi incideranno poco. E in questo contesto la già annunciata e controversa riforma dei collegi elettorali rischia di rimandare azioni concrete e l’entrata in vigore delle quote di genere previste dal Women Reservation Bill, approvato a settembre 2023.

   In uno scenario di crescenti tensioni politiche in vista della tornata elettorale del 2024, la parità di genere, sia in politica sia nella società e nel mondo del lavoro, rischia di rimanere in secondo piano tra i chiaroscuri di una crescita non priva di contraddizioni e ostacoli per l’India.

(https://terzomillennio.uil.it/ – Dipartimento Internazionale UIL-, 7/1/2024)

………………………

(La coltivazione del riso nel Kerala, India – Foto ripresa da https://ilbolive.unipd.it/) – “(…) L’AGRICOLTURA, UN SETTORE STRATEGICO. Non appare esagerato definire il subcontinente indiano come Paese dei ‘nuovi’ record. Compresi quelli meno nobili delle disuguaglianze. Secondo Oxfam International, una piccolissima parte della popolazione indiana – appena l’1% – detiene circa il 40% della ricchezza del Paese e, se si allarga il dato al 5% della popolazione più abbiente, si arriva al 60%. Mentre, per converso, la metà della popolazione con i redditi più bassi detiene appena il 3% della ricchezza totale (in questo scenario la stessa analisi Oxfam ha infatti evidenziato che fra il 60 e il 70% della popolazione ha a disposizione il corrispettivo di circa due dollari al giorno). Anche se siamo di fronte a tassi di urbanizzazione in sensibile aumento, l’agricoltura rimane un settore strategico. Un comparto che ancora oggi assorbe quasi il 60% della popolazione e produce attorno al 17% del Pil del Paese. (…)” (Valentino Federici, da https://www.mondomacchina.it/, febbraio 2024)

………………………………

L’INDIA CONTINUA A CORRERE

di Valentino Federici, da https://www.mondomacchina.it/, febbraio 2024

– Anche nel 2024 il Subcontinente registrerà il maggior tasso di crescita del PIL fra i ‘grandi’ del pianeta. L’agricoltura resta un settore strategico per il sistema-Paese ma è condizionata dai cambiamenti climatici e da bassa produttività. Il ruolo della meccanizzazione per modernizzare il settore primario –

   Fine gennaio 2024. Esce il World Economic Outlook. E il Fondo Monetario internazionale analizza lo stato di salute e le prospettive delle principali economie del pianeta. Continua a leggere

SALVARE LE FORESTE DEL MONDO: popolazioni, persone in contesti difficili (donne, comunità isolate, popoli indigeni…) trovano una loro rivalsa e affermazione salvando gli alberi, la vita globale che dà la foresta. Encomio di un altro sviluppo possibile, da crederci e sostenere (noi che le nostre foreste le abbiamo distrutte)

(Mamas, Indonesia, da https://www.greenme.it/) – THE POWER OF MAMA”: così questo gruppo di donne coraggiose salva le foreste dagli incendi in INDONESIA – Le “MAMAS” dell’Indonesia sono un gruppo di donne vigili del fuoco nato nel 2022 dopo i tanti incendi boschivi che hanno colpito il BORNEO: sono quasi 100 donne di età compresa tra i 19 e i 60 anni (Rebecca Manzi, da https://www.greenme.it/)

………..

(Carta del BORNEO, da https://it.m.wikivoyage.org/) – Il BORNEO è un’isola di 743.107 km², nel sud-est asiatico, divisa tra MALAYSIA (regioni di Sabah e Sarawak) e BRUNEI nella parte settentrionale, e INDONESIA nella parte meridionale (regione del KALIMANTÀN), la terza isola del mondo per superficie, 4.095 m s.l.m. (da Wikipedia)

FERMARE IL FUOCO

LE «MAMAS» DELL’INDONESIA: LA FORESTA DIFESA DALLE DONNE

di AGNESE RANALDI, dal quotidiano “DOMANI” del 31/3/2024

– Sono una novantina e pattugliano il Borneo, armate di pompe idriche per sconfiggere incendi e deforestazione. Vogliono salvare le loro comunità, ma riescono anche a emanciparsi, trovando un ruolo attivo nella società –

   Le foreste del Borneo sono pattugliate da un reggimento che non imbraccia armi, ma pompe idriche, e che è composto unicamente da donne. Si tratta del POWER OF MAMA, l’unità antincendio che dal 2022 è attiva a KETAPANG, nel KALIMANTAN occidentale indonesiano (NDR: nella carta qui sopra: “KENDAWANGAN”).

   Insieme a una novantina di compagne, di età compresa tra i 19 e i 60 anni, la coordinatrice del collettivo Siti Nuraini presidia il territorio per preservare l’ambiente e proteggere salute e mezzi di sussistenza delle comunità locali. «Ogni anno subivamo incendi», ha raccontato Nuraini alla Bbc, «il fumo diventava così forte che i residenti erano costretti a evacuare e le scuole dovevano chiudere. Molti bambini soffrivano di infezioni respiratorie». L’Indonesian Nature Rehabilitation Initiation, affiliato alla no profit Animal Rescue, ha creato questo collettivo di pompiere forestali per rendere le donne agenti attivi del cambiamento e per combattere attivamente gli incendi che mettono a rischio la fauna selvatica, la vita delle persone e la biodiversità.

Taglia e brucia

Il villaggio di Nuraini si trova affianco alla foresta pluviale, uno dei polmoni verdi del Sudest asiatico. L’estesa presenza di torbiere la rende un importante serbatoio di carbonio: questi habitat, infatti, immagazzinano il doppio del carbonio di tutte le foreste del mondo. Ma il loro lavoro benefico è sempre più minacciato dalla deforestazione selvaggia praticata dalle coltivazioni intensive, che danno fuoco a porzioni di foresta per ampliare gli appezzamenti di terreno coltivabili.

   L’Indonesia è particolarmente suscettibile agli incendi, ma la colpa non è del caldo né del cambiamento climatico (che comunque fa il suo). Bensì di scelte politiche che hanno messo al primo posto la crescita economica, e solo in un secondo piano il benessere degli ecosistemi naturali e sociali. L’Indonesia è la maggior produttrice di olio di palma al mondo. Insieme alla Malesia, è la fondatrice del Council of Palm Oil Producing Countries, l’organizzazione intergovernativa che rappresenta le priorità, gli interessi e le aspirazioni delle nazioni produttrici di olio di palma del mondo cosiddetto in via di sviluppo. Include, infatti, anche l’Honduras e tre osservatori: Papua Nuova Guinea, Colombia, e Ghana.

   «L’olio di palma viene prodotto in modo sostenibile», si legge sul sito ufficiale del Consiglio, «in particolare migliorando la produzione senza aprire nuovi terreni per la coltivazione della palma da olio». Ma nel 2023 l’industria dell’olio di palma ha continuato a disboscare l’Indonesia attraverso la pratica agricola dello slash-and-burn (“taglia e brucia”). Si parla di quasi un milione di ettari di foresta che sono letteralmente andati in fumo, perché per fare spazio alle coltivazioni di olio di palma gli agricoltori producono roghi, che causano ingenti emissioni di carbonio e aggravano il problema della foschia transfrontaliera che riguarda tutta l’isola. Questo ha reso i terreni indonesiani aridi, e le lunghe distese di torbiere secche e suscettibili agli incendi.

La deforestazione

È così che anche fenomeni naturali come El Niño, che contribuisce a creare sull’isola un clima molto torrido, risultano particolarmente inclementi coi boschi del Borneo. Secondo il ministero dell’Ambiente e delle Foreste, più di 994mila ettari (15 volte Giacarta) sono bruciati da gennaio a ottobre 2023.

   Secondo un’analisi di TheTreeMap, le piantagioni industriali sono cresciute di 116mila ettari nel 2023, con un aumento del 54 per cento rispetto all’anno precedente. La deforestazione associata è aumentata del 36 per cento, con 30mila ettari di foresta convertiti nel 2023 rispetto ai 22mila ettari del 2022.

   Il movimento POWER OF MAMA, oltre a proteggere le comunità locali, incoraggia a bruciare i terreni usando la gestione indigena dei fuochi, che promuove la diversità ecologica e protegge le comunità dai rischi di incendi incontrollati.

Il ruolo delle donne

La progressiva infertilità dei campi impatta in modo significativo sulle donne indonesiane. Secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro, meno di un terzo dei lavoratori dell’olio di palma sono donne. I dati però non tengono conto del lavoro informale, come quello svolto dalle donne nei campi curati dai loro mariti. La sfida, per loro, è quella di riuscire a conciliare il peso del lavoro domestico con la necessità di portare avanti l’attività familiare nelle coltivazioni.

   Ma le cose stanno cambiando, anche grazie a iniziative come il Musim Mas’ Women Smallholders Programme, che ha formato circa 500 donne nella regione di Riau, a Sumatra. Nato nel dicembre 2023, il gruppo serve a fornire assistenza sanitaria e aiutare le donne impiegate in questo genere di lavori a mantenere uno stile di vita sano.

   Inoltre, secondo il rapporto Onu “Rural Women and Girls 25Ye rs after Beijing”, a livello globale si è assistito a una progressiva “femminilizzazione” del lavoro agricolo nelle aree rurali. Ciò è dovuto anche al fenomeno dell’urbanizzazione, dettato dalle nuove opportunità di lavoro offerte dallo sviluppo industriale, che nel Sudest asiatico – considerato in buona parte composto da economie “emergenti” – in alcuni casi è ancora in corso.

   Sono molti gli uomini che si sono spostati per cercare impiego in città, anche se restano la percentuale più alta dei proprietari terrieri nella campagna. Anche per questo, le donne indonesiane devono caricarsi, oltre al lavoro domestico, anche delle attività di sostentamento della loro famiglia e della comunità in cui vivono. Subiscono così, molto più spesso e in modo più sproporzionato, anche le conseguenze più inclementi del cambiamento climatico che si abbatte sui campi.

L’autodeterminazione

Il lavoro del POWER OF MAMA mira a ispirare le donne locali a svolgere un ruolo attivo nella protezione delle foreste, per garantire la sopravvivenza delle comunità e della fauna locale, come gli orangotango. Le Mamas battono quattro aree boschive: Pematang, Dagung, Sungai Besar, Sungai Awan Kiri e Sukamaju.

   Evitare che le foreste e le torbiere, un tempo umide e ricche di carbonio, siano prosciugate dall’agricoltura industriale è importante per ragioni che intersecano giustizia sociale, giustizia di genere e ambientalismo.

   Nuraini si alza presto tutte le mattine, esce indossando un hijab marrone con su scritto “the power of mama” e scarponi di gomma al ginocchio. «Ci deridevano perché indossavamo le uniformi e ci univamo alle pattuglie di controllo», ha raccontato, «gli uomini del villaggio ci prendevano in giro e dicevano cose come: “Donne che pattugliano? Davvero?”».

   Laili Khairnur, ambientalista e attivista per i diritti delle donne, ha raccontato che soprattutto nelle aree rurali le donne sono attori chiave dei programmi che coinvolgono le comunità. «Questo perché le donne sono le prime beneficiarie», ha detto alla Bbc, «il senso di appartenenza a un programma è la base del loro coinvolgimento». In altre parole, partecipare a iniziative collettive come il Power of Mama consente loro di aiutare la propria comunità, di autodeterminarsi, e quindi di aiutare sé stesse.

(AGNESE RANALDI, dal quotidiano “DOMANI” del 31/3/2024)

(Carta dell’INDONESIA, da WikIpedia)
BORNEO, la foresta pluviale esistente, quella rasa al suolo e le PIANTAGIONI di PALMA da OLIO (foto ripresa da https://ilfattoalimentare.it/). L’Indonesia è il massimo produttore al mondo di questo olio vegetale, ma ora sembra che il suo massimo produttore, la Golden Agri Resources, ha raggiunto un’intesa per la cessazione della deforestazione: Vai all’articolo di Arturo Cocchi (da “la Repubblica”)

……………………………..

…………………..

GLI ULTIMI 30 ANNI DELLE FORESTE NEL MONDO
Fonte: Global Forest Resources Assessment 2020, Main report (FAO)
Le foreste sono cruciali per l’equilibrio dell’ambiente globale, fornendo habitat alla fauna selvatica ed essendo i più grandi assorbitori di carbonio del mondo sulla terraferma. Ma negli ultimi tre decenni, il 43% dei paesi ha visto una riduzione netta della propria area forestale, mentre il 38% ha guadagnato area forestale e il 19% non ha avuto alcun cambiamento complessivo

…………………………

(I «Fronti di deforestazione» secondo il Wwf)

PATRIMONIO VERDE

NON SOLO AMAZZONIA: LE 15 FORESTE PIÙ A RISCHIO DEL PIANETA

di Carola Traverso Saibante, da https://www.corriere.it/

– Le foreste coprono il 30% delle terre emerse e contengono la gran parte di biodiversità. Ogni minuto 26 ettari di foresta (pari a 35 campi da calcio) vengono distrutti. Dal Congo al Kenya, dal Cile a Sumatra, ecco alcune tra quelle più a rischio –

I «Fronti di deforestazione» secondo il Wwf

Alcune tra le foreste di cui abbiamo parlato sono state identificate quali «Fronti di deforestazione» nell’ultimo capitolo del rapporto Living Forests Report: Saving Forests at Risk, realizzato recentemente dal Wwf. Piantagioni di palma da olio, soia; agricoltura e allevamento; legna per combustibile e carta; attività estrattiva; infrastrutture, dighe e altri progetti minacciano questi polmoni verdi. Secondo il rapporto, con gli attuali ritmi di deforestazione, nel giro di quindici anni si perderà un’area della taglia di Francia, Germania, Spagna e Portogallo messi insieme.

   I 170 milioni di ettari di foreste che andranno persi nel globo tra il 2010 e il 2030 si concentreranno all’80% negli undici fronti di deforestazione identificati: Amazzonia, foresta atlantica, Chocó-Darién e Gran Chaco, Borneo, Nuova Guinea, Sumatra e bacino del Congo. La savana tropicale del Serrado in Brasile, un tempo estesa quanto mezza Europa, oggi è terra di coltura per biocarburanti. Le foreste dell’Africa orientale e quelle dell’Australia orientale. E infine, quelle della regione del Greater Mekong, tra Cambogia, Laos, Myanmar, Thailandia e Vietnam, che ne ha già perse un terzo, e potrebbe perderne un altro terzo entro il 2030.

………………………..

LA MAPPA DELLE FORESTE: QUANTE NE ABBIAMO PERSE E QUANTE NE SONO CRESCIUTE IN 30 ANNI

di Giacomo Talignani, da www.repubblica.it del 22/1/2022

– Negli ultimi tre decenni il 43% dei Paesi ha visto una riduzione netta della propria area forestale, mentre il 38% l’ha guadagnata. In Africa e Amazzonia i danni peggiori della deforestazione. Ma dal 2000 sono ricresciuti 59 milioni di ettari –

   Qual è lo stato delle foreste del mondo? Quante ne stiamo perdendo e dove? Altre ricrescono? E come impatta l’azione dell’uomo su alberi e piante del nostro Pianeta?

   I polmoni verdi del mondo sono un organo straordinario per permettere la vita sulla Terra e mantenere la biodiversità. Negli ultimi decenni però l’agricoltura intensiva, gli incendi, le monocolture e l’espansione delle attività umane hanno contribuito a una crescente deforestazione mettendo a rischio il fondamentale contributo delle foreste, dall’assorbimento di CO2 nella lotta al riscaldamento globale sino agli habitat per milioni di specie.

   Osservando i dati dell’ultimo rapporto Fao 2020 sullo stato delle foreste e incrociando le cifre delle più recenti ricerche scientifiche, proviamo a rispondere ad alcune delle domande più importanti per conoscere le condizioni delle foreste globali. Le foreste ricoprono oggi circa il 31% della superficie del Pianeta, pari più o meno a 4 miliardi di ettari, ovvero circa a 0,52 ettari a persona.

Quante ne stiamo perdendo

Ogni anno nel mondo spariscono in media 10 milioni di ettari di foreste (media 2015-2020). Negli ultimi trent’anni, secondo la Fao, circa 420 milioni di ettari di foresta (a partire dal 1990) sono andati perduti per diverse ragioni: in primis per la conversione da parte dell’uomo del suolo ad altri usi, come l’agricoltura intensiva, ma anche per urbanizzazione, incendi e altri fattori. Il tasso di deforestazione nell’ultimo decennio è in calo: questo vale per esempio per le foreste europeenord americane e dell’Asia, ma non per l’Africa o il Sudamerica.

Quante ne crescono

Secondo un’analisi di Trillion Trees, join venture fra Wwf e Birdlife international e Wildlife conservation society, negli ultimi 20 anni quasi 59 milioni di ettari di foreste nel mondo sono ricresciuti. Una quantità pari alla superficie dell’intera Francia e che aiuta ad assorbire l’equivalente di 5,9 miliardi di tonnellate di CO2, più di tutte le emissioni annuali degli Usa.

Dove si trovano le grandi foreste

Più della metà delle foreste del mondo si trovano in Russia, Brasile, Canada, Stati Uniti d’America, Congo e Cina. La maggior parte delle foreste (45%) sono nella fascia tropicale, seguite da quella boreale. Le due più grandi foreste pluviali al mondo sono considerate quelle dell’Amazzonia e della Repubblica Democratica del Congo. Negli ultimi 30 anni il 43% dei Paesi ha visto una riduzione netta della propria area forestale, il 38% ha invece guadagnato area forestale e il 19% non ha avuto cambiamenti. Il 30% di tutte le foreste pluviali tropicali, delle foreste subtropicali secche e delle foreste temperate delle coste oceaniche si trovano oggi all’interno di aree protette e oggi 2,05 miliardi di ettari di foreste, oltre la metà del totale, sono soggetti a programmi di gestione.

Dove crescono o diminuiscono

Secondo la Fao i 10 Paesi che in media hanno registrato la più alta perdita annua netta di superficie forestale (tra 2010 e 2020) sono stati Brasile, Repubblica democratica del Congo, Indonesia, Angola, Tanzania, Paraguay, Myanmar, Cambogia, Bolivia e Mozambico. Al contrario, i dieci con il maggiore aumento netto nello stesso periodo sono Cina, Australia, India, Cile, Vietnam, Turchia, Stati Uniti d’America, Francia, Italia e Romania.

Amazzonia e Africa

Nel mondo le emissioni prodotte dalla perdita di superficie forestale sono diminuite di circa un terzo dal 1990. Per due aree però questo andamento positivo sembra non valere. In Amazzonia, secondo l’ong Imazon, solo nell’ultimo anno sono andati distrutti 10.476 chilometri quadrati, un’area più grande del 57% rispetto all’anno precedente e la più estesa dal 2012. Il tasso annuo più alto di perdita netta di foresta negli ultimi dieci anni si osserva però in Africa: qui è stato perduto un totale di 3,9 milioni di ettari. Studi recenti raccontano che questa perdita dovuta alla deforestazione sta già contribuendo ad aumentare gli effetti del riscaldamento globale, a rafforzare l’intensità dei temporali e delle inondazioni, soprattutto nelle aree costiere.

La biodiversità

L’80% della biodiversità terrestre sulla Terra è ospitata dalle foreste. Queste contengono oltre 60mila specie diverse di alberi e ospitano l’80% delle specie di anfibi, il 75% di uccelli e il 68% di mammiferi. La maggior parte delle superfici forestali (93% del totale) è costituita da foreste che si rigenerano naturalmente, il resto da foreste piantate.

La sussistenza

Per la Fao le foreste forniscono oltre 86 milioni di “posti di lavoro verdi” e si stima che di coloro che vivono in condizioni di estrema povertà oltre il 90% dipenda dalle foreste come mezzo di sussistenza, dal cibo sino alla legna.

Come proteggerle

Per preservare le foreste e i suoi abitanti è necessario continuare ad invertire la rotta della deforestazione e per la Fao possiamo farlo attraverso “un cambiamento radicale nel modo in cui produciamo e consumiamo il cibo”. Inoltre è “necessario conservare e gestire le foreste e gli alberi con un approccio che integri il paesaggio e rimediare ai danni finora causati dagli interventi di bonifica”.

(Giacomo Talignani, da www.repubblica.it del 22/1/2022)

………………………..

DAVI KOPENAWA portavoce del popolo YANOMANI (foto da Wikipedia)

DAVI KOPENAWA, portavoce del popolo YANOMANI I momenti salienti della vita di Davi Kopenawa – Survival International

EVENTI | 5-6-7 APRILE 2024

UN GRIDO DALL’AMAZZONIA. INSIEME A DAVI KOPENAWA YANOMAMI PER UN VIAGGIO DI CONOSCENZA

Convegno sulla salvaguardia della foresta Amazzonica con Butterfly Effect Butterfly effect project in Amazzonia. Tre giorni di incontri e dialogo con il portavoce del popolo Yanomami e sciamano Davi Kopenawa

L’Associazione Il mondo di Tommaso organizza un convegno di tre giorni che si svolgerà tra la foresta del Cansiglio, il Convento San Francesco della Vigna, a Venezia, e Parco Fenderl a Vittorio Veneto TV. Un vero e proprio viaggio di conoscenza sull’importanza della salvaguardia della Foresta Amazzonica e dei suoi popoli nativi, in particolare degli Indios Yanomami. Il progetto “Butterfly Effect Butterfly effect project in Amazzonia” promosso dall’Associazione, nasce proprio in difesa degli Indios che da sempre vivono e custodiscono la più grande foresta pluviale del mondo, luogo fondamentale per la vita sulla terra. Numerosi gli ospiti che interverranno nel corso delle giornate: Davi Kopenawa, portavoce del popolo Yanomami, sciamano e noto a livello internazionale per il suo impegno in difesa dei diritti indigeni, della salvaguardia della foresta amazzonica e della tutela dell’ambiente; Carlo Zaquini missionario della Consolata in Brasile; Marco Tobon antropologo, accademia degli studi amazzonici dell’Università Nazionale Colombiana, Luca Mercalli climatologo e divulgatore scientifico, Luise Raffaele giornalista e scrittore, autore del libro “Amazzonia. viaggio al tempo della fine”; Toio de Savorgnani scrittore e ambientalista; Michele Boato Direttore dell’Ecoistituto del Veneto Alex Langer.

Tante voci diverse accomunate da una stessa consapevolezza: salvaguardare la foresta, e i suoi abitanti, è fondamentale per salvaguardare l’esistenza stessa del nostro Pianeta.

Il programma degli eventi gratuiti

📆 5 APRILE 2024

📍 Rifugio Alpino Vallorch Al Pian del Cansiglio

▶ 15:00 | Passeggiata con Davi Kopenawa Yanomami, Carlo Zacquini, Toio De Savorgnani e Marco Tobon.

▶ Concerto in foresta con Zumusic Project.

▶ 19:30 | Cena di beneficenza nel Rifugio Alpino Vallorch AL Pian del Cansiglio. (Su prenotazione)

È gradita la prenotazione: info@ilmondoditommaso.org | WhatsApp a Claudio 338 6213782 oppure Toio 346 6139393

📆 6 APRILE 2024

📍 Convento San Francesco della Vigna, Venezia

▶ 16:00 | Convegno sull’Amazzonia con Davi Kopenawa Yanomami, Carlo Zacquini, Luca Mercalli, Marco Tobon, Simone Morandini, Raffaele Luise, Toio De Savorgnani e Michele Boato

📆 7 APRILE 2024

📍 Parco Fenderl, Via San Gottardo 91, Vittorio Veneto (TV)

▶ 10:00 | Incontro con “Artigian e Contadin”

▶ 10:30 | Passeggiata con Davi Kopenawa Yanomami

▶ 11:00 | Spettacolo di burattini con Alberto de Bastiani

▶ 15:00 | Inaugurazione Murales di Ericailcane e Bastardilla

▶ 16:00 | Convegno sull’Amazzonia con Davi Kopenawa Yanomami, Marco Tobon, Paola Favero, Raffaele Luise, Toio De Savorgnani, Michele Boato

▶ 20:30 | Concerto con l’OrcheStraForte, orchestra giovanile formata da una quarantina di studenti di musica

EVENTI GRATUITI

È gradita la prenotazione: info@ilmondoditommaso.org

WhatsApp a Claudio 338 6213782 oppure Toio 346 6139393

Per ulteriori informazioni e rimanere aggiornati sui progetti dell’Associazione: ilmondoditommaso.org

……………………

…………….

(Movimento Chipko: abbracciare gli alberi per salvare le foreste dell’Himalaya e dell’India, foto ripresa da https://www.corriere.it/) – (…) Sotto la guida di due discepoli diretti di Gandhi, Mira e Sarala Bhen, e del locale Sunderlal Bahuguna, nel 1973 è nato il Movimento Chipko, che lotta contro il crescente e irrazionale sfruttamento delle risorse forestali sulle pendici dell’Himalaya e dell’India.  Un’iniziativa che è stata ispirata alla storia di Amrita Devi Bishnoi che venne decapitata insieme alle sue tre figlie per aver guidato nel 1730 la difesa pacifica di una foresta di alberi khejri, che l’allora governatore aveva ordinato di abbattere per costruire un nuovo palazzo. (…)” (REBECCA MANZI, da https://www.greenme.it/)

MOVIMENTO CHIPKO, ABBRACCIARE GLI ALBERI PER SALVARE LE FORESTE DELL’HIMALAYA E DELL’INDIA

di Rebecca Manzi, da https://www.greenme.it/, 12/1/2024

– Uno sforzo collettivo, in primis delle donne contadine, per preservare le foreste ed evitare l’abbattimento degli alberi, ispirandosi ad un episodio del 1730 –

   Sotto la guida di due discepoli diretti di Gandhi, Mira e Sarala Bhen, e del locale Sunderlal Bahuguna, nel 1973 è nato il Movimento Chipko, che lotta contro il crescente e irrazionale sfruttamento delle risorse forestali sulle pendici dell’Himalaya e dell’India.

   Un’iniziativa che è stata ispirata alla storia di Amrita Devi Bishnoi che venne decapitata insieme alle sue tre figlie per aver guidato nel 1730 la difesa pacifica di una foresta di alberi khejri, che l’allora governatore aveva ordinato di abbattere per costruire un nuovo palazzo.

   Si narra che la sua ultima frase sia stata: “Una testa mozzata è più economica di un albero abbattuto”.  Quando la notizia si diffuse, i bishnoi di diversi villaggi si recarono sul posto per manifestare contro il disboscamento.

   Uomini, donne, anziani e bambini iniziarono ad abbracciare gli alberi, ma i soldati non ebbero pietà. Tanti, tantissimi, fecero infatti la stessa fine di Amrita. Quel giorno a terra rimasero i corpi di 363 persone uccise mentre proteggevano la foresta.

GLI ESORDI DEL MOVIMENTO CHIPKO

Per far sì che il loro gesto non sia stato vano, si diede vita al Movimento Chipko che da allora si spende per salvare gli alberi pacificamente. La prima azione risale al 1973, quando un gruppo di abitanti della comunità di Mandal si recò nella foresta battendo i tamburi per proteggere 300 frassini che dovevano essere abbattuti.

   Questa volta, però, ebbero più fortuna. Gli operatori con le motoseghe, vedendo la comunità organizzata e determinata ad abbracciare gli alberi, desistettero dall’abbatterli. Proprio da qui il movimento prese il nome di Chipko, che in hindi significa “abbracciare” o “aggrapparsi”.

   Un movimento di donne e uomini, ma soprattutto di donne contadine che furono protagoniste nonostante i propri mariti lavorassero nelle segherie. Spesso si trovarono a contrastare i loro stessi compagni, ma gli ideali erano più forti di tutto.

   Inizialmente l’obiettivo del Chipko era solo la sopravvivenza delle comunità rurali, che avevano bisogno delle risorse forestali, ma a poco a poco il movimento si è evoluto e si è affermato nel corso del tempo anche grazie a fenomeni nati successivamente ma che qui ebbero i loro esordi come il femminismo o l’ambientalismo. (Rebecca Manzi, da https://www.greenme.it/, 12/1/2024)

……………………..

………………..

(Alberi abbattuti a Cortina, immagine da https://www.today.it/) – (marzo 2024) 500 larici a CORTINA abbattuti; un abbattimento programmato nel BOSCO di RONCO per fare posto alla PISTA da BOB per le Olimpiadi 2026

……………..

…………..

LE DONNE INDIGENE CI STANNO MOSTRANDO COME LOTTARE PER I DIRITTI AMBIENTALI E UMANI

di CARLOTTA SISTI, 7/2/2024, da https://www.elle.com/it/magazine/

– Le donne indigene attiviste del Sud America hanno cambiato completamente il panorama politico e non hanno intenzione di mollare –

   Il Sud America è attraversato da Continua a leggere

Lo SPOPOLAMENTO dei COMUNI periferici, e il conseguente accentramento della popolazione nelle maggiori aree urbane, denota sia la crisi di servizi (sanità, scuola, mobilità…) e opportunità dei medi-piccoli comuni, oltreché il loro isolamento politico, economico, culturale – Perché la FUSIONE dei COMUNI in CITTÀ è un PROCESSO istituzionale già in grave ritardo storico

(giovani costretti ad andarsene: lo spopolamento di tanti comuni è particolarmente dovuto alla mancanza di opportunità; foto ripresa da https://www.basilicata24.it/)

…………………………..

(CLASSIFICAZIONE DELLE AREE INTERNE – da IL SOLE 24ORE del 17/3/2024)

LE AREE INTERNE

I Comuni periferici

Le Aree Interne sono rappresentate dai Comuni italiani più periferici, in termini di accesso ai servizi essenziali (salute, istruzione, mobilità) e quindi maggiormente distanti rispetto ai centri di offerta di servizi. La classificazione delle Aree Interne è il risultato di un percorso metodologico avviato dall’ex-Agenzia per la Coesione Territoriale, all’interno della Strategia Nazionale per le Aree Interne (SNAI), che ha visto coinvolti

l’Istat, la Banca d’Italia e le Regioni. Per individuare i comuni che ricadono nelle aree interne, per prima cosa vengono definiti i Comuni “polo”, cioè le realtà territoriali che offrono contemporaneamente (da soli o insieme ai confinanti): A. un’offerta scolastica secondaria superiore completa, cioè almeno un liceo (classico o scientifico) e almeno uno fra istituto tecnico e istituto professionale; B. almeno un ospedale con capacità operative avanzate; C. una stazione ferroviaria medio-piccola con più di 2.500 passeggeri al giorno.   Maggiore è la distanza dal comune che offre simultaneamente questi tre servizi, maggiore è la connotazione periferica del comune in esame. (Carlo Marroni, da “il Sole 24ore” del 17/3/2024)

……………………………

L’INVERNO DEMOGRAFICO

L’ITALIA SPOPOLATA DEI COMUNI INTERNI: GLI ABITANTI FUGGONO, RESTANO GLI OVER 80

di Carlo Marroni, da “il Sole 24ore” del 17/3/2024

– Il 58% del Paese non ha servizi sufficienti, i residenti emigrano verso altri luoghi – Il record spetta a Basilicata, Molise, Calabria e Sardegna. A rischio Liguria e Friuli – il calo Nel 2030 i residenti italiani diminuiranno di 600mila unità e saranno tutti abitanti delle aeree più periferiche – le AREE INTERNE Nelle zone con minor dotazione di servizi abita il 22,7% della popolazione, poco più di 13 milioni di persone –

   L’Italia continua spopolarsi: sempre meno abitanti e più anziani. Il 58% del territorio è coperto da AREE INTERNE (zone non necessariamente lontane dal mare o povere) dove è residente il 23% della popolazione (12 milioni di persone). Qui la minor dotazione (di servizi) si fa sentire e i residenti fuggono. Sul posto restano sempre più over 80. L’abbandono dei territori riguarda regioni del Sud, tra cui Basilicata, Molise, Calabria, Sardegna, ma anche aree ligure, piemontesi, friulane.

   Il primo pensiero va all’immagine di un piccolo agglomerato di case, magari attorno a un vecchio campanile, più o meno in alta collina. L’Italia dei piccoli borghi, con al massimo una bottega. Ma le “aree interne” sono anche altre, e mai si penserebbe che sono tali – per assenza di specifici servizi – città come la splendida Matera o addirittura località costiere, come Termoli. Interna quindi non significa lontano dal mare. E neppure povera, come l’immaginario vorrebbe, visto che ci sono luoghi come Cernobbio.

   L’Italia vede la parte principale del suo territorio, oltre il 58%, coperta da comuni definiti “AREE INTERNE”, dove è residente (non è detto che ci viva) meno di un quarto della popolazione, esattamente il 22,7 per cento, poco più di 13 milioni di persone.

   Per chiarire il concetto: le aree interne sono i comuni italiani più periferici, in termini di accesso ai servizi essenziali (salute, istruzione, mobilità). Per definire quali ricadono nelle aree interne, per prima cosa vengono definiti i COMUNI “POLO”, cioè realtà che offrono contemporaneamente (da soli o insieme ai confinanti): 1) un’offerta scolastica secondaria superiore articolata (cioè almeno un liceo – scientifico o classico – e almeno uno tra istituto tecnico e professionale), 2) almeno un ospedale avanzato, 3) una stazione ferroviaria media con almeno 2.500 passeggeri al giorno.

   Per la sua conformazione del territorio l’Italia, attraversata per larga parte da catene montuose o dalla dorsale appenninica, è innervata di centri minori – classificati dall’Istat in COMUNI INTERMEDI, PERIFERICI e ULTRAPERIFERICI – che, in molti casi, sono in grado di garantire ai residenti soltanto una limitata accessibilità ai servizi essenziali.

   La regione con la maggiore percentuale di comuni in forte spopolamento (tasso di crescita continuo negativo, inferiore al -4 per mille annuo) è la Basilicata (68,7%, 90 comuni su 131), seguita a breve distanza dal Molise (60,3%, 82 comuni su 136) e dalla Calabria (58,4%, 236 comuni su 404). All’opposto, le regioni con la percentuale maggiore di comuni in forte crescita sono il Trentino-Alto Adige/Südtirol e l’Emilia-Romagna, entrambe con il 50% dei comuni in crescita, cioè oltre il 4 per mille annuo (141 comuni su 282 in Trentino e 164 su 328 in Emilia-Romagna), con il caso della Liguria, con circa il 29% dei comuni in forte spopolamento (68 comuni su 234).

   Questo per quanto riguarda i numeri principali, che mettono bene in evidenza come per l’Italia sia essenziale comprendere il problema – e su questo c’è un grosso impegno dell’Università del Molise, che dal 2016 ha costituito il Centro di Ricerca per le Aree Interne e gli Appennini (ArIA). Come mostrano i ricercatori di ArIA Carlo Lallo, Emilio Cameli e Federico Benassi la questione è nel contempo sociale, di sviluppo economico, di rappresentanza politica e di tenuta del territorio.

   Un dato quindi va subito ben chiarito: non sono aree deserte, visto che spesso comprendono città molto abitate. Il tema è quello dei servizi, la cui assenza accentua via via nel tempo un processo di spopolamento, o comunque di impoverimento, vista la migrazione di giovani e l’innalzamento progressivo dell’età media. Non c’è una soluzione unica proprio per la varietà presente, ma per tutti serve una presenza delle istituzioni – dicono gli esperti – con soluzioni che possano attingere anche all’esperienza recente, su tutte il Covid e l’operatività a distanza, sia lavorativa che didattica. Infatti la sfida è portare una struttura digitale dove questa è assente o debole, permettendo magari di aggregare offerte di servizi in aree limitrofe.

   Comunque il tema dello spopolamento non è solo territoriale, visto che l’Italia perde un milione di abitanti ogni 3-4 anni, e in più molti residenti in piccoli centri in realtà lo sono solo nominalmente (spesso per motivi fiscali) ma in realtà vivono in centri maggiori. Se la previsione da ora al 2030 è di un calo di popolazione italiana di circa 600mila persone, queste saranno concentrate soprattutto nelle aree interne: le stime parlano di un calo del 4,2 per mille, rispetto all’1,6 dei maggiori centri abitanti. Poi c’è l’età: nel 19,8% dei comuni italiani (1565 su 7904) gli anziani con più di ottanta anni segnano una forte presenza, tra un decimo ed un terzo dell’intera popolazione. La Regione con il più alto numero di comuni con forte presenza anziana è il Molise (51,5%, 70 comuni su 136), seguita dalla Liguria (50,4%, 118 comuni su 234) e dall’Abruzzo (40%, 122 comuni su 305).

   Come visto le Aree Interne – si rileva in un focus dell’Istat – risultano presenti soprattutto nelle regioni del Mezzogiorno dove complessivamente il 67,4% dei Comuni rientra nelle Aree interne, con picchi in Basilicata Sicilia, Molise e Sardegna dove tali percentuali superano il 70%. Al Centro Italia il peso relativo di queste aree è molto più contenuto e arriva, con 532 Comuni, al 54,8% del totale. Qui la distribuzione regionale appare molto più equilibrata rispetto alle altre ripartizioni ed è compresa tra il 46,3% delle Marche e il 60,1% della Toscana. Nel Nord-ovest e nel Nord-est la quota di Comuni che rientrano nelle Aree Interne si riduce ulteriormente, 33,7%e 41,4% rispettivamente.

   Rispetto all’altimetria i comuni interni montani rappresentano il 48,9% del totale, nelle aree collinari sono presenti 1.625 (42,4%), con significative presenze in Sardegna (218 Comuni), Sicilia (198 Comuni) e Campania (173); quelli localizzati in pianura sono appena 335 (8,7%).

   La distribuzione dei Comuni secondo le altre caratteristiche fisiche conferma il quadro appena descritto: l’84,5% dei Comuni si colloca lontano dal mare (Comune non costiero), per il 79,9% si tratta di Comuni definiti “rurali” secondo la classificazione europea del grado di urbanizzazione. La bassa densità abitativa è la caratteristica maggiormente evidente, ma non mancano le eccezioni. Si tratta di otto comuni con oltre 50mila residenti: il caso più eclatante è quello di Gela in Sicilia (più di 72mila abitanti), classificato come Periferico perché manca di una stazione ferroviaria almeno di tipo Silver. Per le medesime ragioni il comune di Altamura in Puglia è classificato come Intermedio (quasi 70mila abitanti), mentre Vittoria in Sicilia, che ha poco più di 62mila residenti, è classificato come Intermedio per l’assenza di ospedali avanzati e stazioni ferroviarie come requisito. Anche alcuni capoluoghi sono classificati tra le Aree Interne, oltre Matera (quasi 60mila abitanti), risultano Nuoro ed Enna, per la mancanza di una stazione ferroviaria, e Isernia per l’assenza di un ospedale con servizio “Dea” (ndr: Dipartimento di Emergenza Urgenza e Accettazione).

(CARLO MARRONI, da “il Sole 24ore” del 17/3/2024)

……………………….

(Numero di Comuni per regione, tabella tratta da https://www.lentepubblica.it/)

……………………..

(MAPPA DELLO SPOPOLAMENTO PER REGIONI, da “il Sole 24ore” del 17/3/2024) (CLICCARE SULL’IMMAGINE PER INGRANDIRLA)

LO SPOPOLAMENTO

Basilicata al record

La regione con la maggiore percentuale di comuni in forte spopolamento (tasso di crescita continuo negativo, inferiore al -4 per mille annuo) è la Basilicata (68,7%, 90 comuni su 131), seguita a breve distanza dal Molise (60,3%, 82 comuni su 136) e dalla Calabria (58,4%, 236 comuni su 404). All’opposto, le regioni con la percentuale maggiore di comuni in forte crescita sono il Trentino-Alto Adige/Südtirol e l’EmiliaRomagna, entrambe con il 50% dei comuni in forte crescita, cioè oltre il 4 per mille annuo (141 comuni su 282 in Trentino e 164 su 328 in Emilia-Romagna).

   La polarizzazione Nord in crescita/Sud in spopolamento è evidente: la prima regione del Nord nella classifica è la Liguria, al 10° posto, con circa il 29% dei comuni in forte spopolamento (68 comuni su 234). Al tempo stesso, nessuna regione italiana è esente da fenomeni di spopolamento in almeno una parte dei propri comuni.

Trentino a due velocità

Ad esempio, in Trentino-Alto Adige/Südtirol il 4,6% dei comuni segna comunque una forte diminuzione della popolazione (13 comuni su 282), ed in Emilia-Romagna la percentuale dei comuni in forte contrazione demografica arriva al 17,7% (58 comuni su 328).

   Simmetricamente, anche in Basilicata, Molise e Calabria sono presenti comuni in forte crescita: il 3,1% (4 comuni su 13) in Basilicata, il 9,6% (13 comuni su 136) in Molise e il 7,4% (30 comuni su 404) in Calabria.

(Carlo Marroni, da “il Sole 24ore” del 17/3/2024)

INVECCHIAMENTO

Il peso degli over 80

Nel 19,8% dei comuni italiani (1565 su 7904) gli anziani con più di ottanta anni segnano una forte presenza, tra un decimo ed un terzo dell’intera popolazione. La Regione con il più alto numero di comuni con forte presenza anziana è il Molise (51,5%, 70 comuni su 136), seguita dalla Liguria (50,4%, 118 comuni su 234) e dall’Abruzzo (40%, 122 comuni su 305).   All’opposto, in Trentino-Alto Adige/Südtirol ed in Veneto il numero di comuni con una forte presenza anziana non superano il 5% (sono infatti solo l’1,4% in Trentino ed il 4,1% in Veneto).   In Trentino-Alto Adige in particolare, quasi la metà di comuni sono caratterizzati da una struttura molto più giovane del collettivo nazionale. Il 48.9% dei comuni trentini e altoatesini, 138 comuni su 282, segnano infatti una presenza di ultraottantenni inferiore al 6,4%.

(Carlo Marroni, da “il Sole 24ore” del 17/3/2024)

…………………………

L’ITALIA DEI PICCOLI COMUNI TRA CRISI, SPOPOLAMENTO E VOGLIA DI RISCATTO

di Francesca Liani, 24/1/2024, da https://www.lentepubblica.it/

L’Italia rimane un Paese di piccoli Comuni anche se dal 2000 ci sono 205 Comuni in meno.

   È stato recentemente presentato uno studio della Fondazione Think Tank Nord Est, laboratorio di idee, proposte e animatore del dibattito sullo sviluppo del territorio compreso tra le province di Venezia, Treviso, Udine e Pordenone, che ha analizzato il fenomeno della riduzione progressiva del numero dei Comuni italiani alla luce dei dati Istat.

   Dal report si apprende che a partire dal 22 gennaio 2024, il numero dei Comuni in Italia è sceso a 7.896. Quello della diminuzione dei Comuni è stato un processo lento ma inesorabile cominciato all’inizio degli anni Duemila. Nel 2001 infatti, l’Italia esprimeva il numero massimo dei Comuni pari a 8.101 ma da allora c’è stata una diminuzione di 205 unità. Un processo analogo a quello di molti altri Paesi europei ma  più diluito nel tempo: infatti, tra 2006 e 2023, mentre in Italia il calo è stato solamente del 2,5%, in Grecia la riduzione è stata del 68%, nei Paesi Bassi del 25%, in Germania del 13%, in Austria dell’11% e in Francia del 5%. Oggi l’Italia è il quarto Paese europeo per numero di Comuni, dietro a Francia, Germania e Spagna.

L’ITALIA, UN PAESE DI PICCOLI COMUNI TRA CRISI, SPOPOLAMENTO E VOGLIA DI RISCATTO

Nonostante la riduzione del numero di Comuni, l’Italia si presenta ancora come un Paese di piccoli Comuni; il 70% ha meno di 5.000 abitanti (5.521), mentre il 25,5% hanno addirittura meno di 1.000 abitanti (2.012). I piccoli Comuni si trovano soprattutto nelle aree alpine ed appenniniche, ma sono presenti anche nelle basse pianure del Nord e in alcune aree del Meridione.

   Il numero maggiore di Comuni italiani è concentrato nel Nord del Paese: il 19% si trova in Lombardia e quasi il 15% in Piemonte; in queste due regioni ci sono più di 1.000 Enti con meno di 5 mila abitanti. In Valle d’Aosta, capoluogo a parte, tutti i Comuni sono di piccola dimensione, ma una percentuale molto significativa di piccoli Municipi si registra anche in Molise (94,1%), Piemonte (88,6%), Trentino Alto Adige (85,8%), Sardegna (83,8%), Abruzzo (83%) e Basilicata (81,7%).

   Questi Comuni sono attraversati da fenomeni socio-economici e demografici molto simili  ossia: invecchiamento della popolazione, disoccupazione, progressivo abbandono e spopolamento, crisi della natalità.

   In particolare lo spopolamento dovuto alla mancanza di opportunità vincola soprattutto gli anziani e coloro che più faticano a trovare alternative. Di conseguenza, cresce in questi territori il bisogno di Stato sociale che si faccia carico non solo delle persone più fragili ma anche del cambiamento climatico e del dissesto idrogeologico che espone i piccoli Comuni delle aree interne a calamità e ad eventi estremi (piogge torrenziali, inondazioni e frane; siccità e incendi; tempeste di vento ecc.)

   Eppure, nonostante questa fragilità, i piccoli Comuni rimangono custodi di un immenso patrimonio naturale, d’arte, cultura, tradizioni, con una varietà enogastronomica che non ha uguali nel mondo, e forse proprio per le loro piccole dimensioni, sono diventati anche luoghi di sperimentazione di buone pratiche più innovative in fatto di energia, turismo (alberghi diffusi) economia verde e riciclo dei rifiuti, laboratori di accoglienza e inclusione sociale.

   Lo stesso Papa Francesco invita queste comunità a guardare le opportunità oltre i vincoli, ad impegnarsi in “pratiche sociali innovative”, nella cura del territorio in chiave sostenibile, a sperimentare nuove forme di welfare  basate su “forme di mutualità e reciprocità”.

   Nel frattempo, tuttavia, il fenomeno dell’invecchiamento e della riduzione della popolazione italiana farà sentire sempre più i suoi effetti in futuro, con riduzioni di residenti nei piccoli comuni intorno al 5% entro il 2040.

LE STRATEGIE PER ARGINARE L’ABBANDONO DEI BORGHI

Una delle strategie messe in atto per frenare l’abbandono e lo spopolamento dei Comuni è l’accorpamento/fusione che in Veneto è ora norma nel Piano di Riordino Territoriale.

   Ma non è detto che la soluzione migliore sia la fusione. L’unione dei Comuni è una forma di associazione tra comuni confinanti che non prevede la fusione tra amministrazioni ma la gestione condivisa di alcune funzioni e servizi, mantenendo la propria autonomia negli altri aspetti. Le unioni presenti in Italia sono 540. La regione che in termini assoluti registra il maggior numero di enti è il Piemonte (116) seguito da Lombardia (75) e Sicilia (50). Le due aree con il numero minore sono l’Umbria (4) e la provincia autonoma di Trento (2).

   Sicuramente, la condivisione di progettualità a livello sovracomunale è già un passo importante che molti Comuni condividono anche per mettere a sistema l’offerta ed intercettare maggiori risorse ed investimenti sul territorio.

   Per assicurare un futuro a questa parte del Paese, Legambiente promuove dal 2004 PiccolaGrandeItalia, una campagna il cui obiettivo è tutelare l’ambiente e la qualità della vita dei cittadini che vivono in questi centri stretti fra la rarefazione dei servizi e lo spopolamento. Affinché non esistano aree deboli, ma comunità messe in condizione di funzionare al meglio e competere.

Di certo lo spirito di sopravvivenza dei piccoli Comuni d’Italia è ben temprato. Oltre l’inverno demografico, tra le rughe dei pochi anziani rimasti, in mezzo alla crisi economica che incrementa lo spopolamento, si intravede voglia di riscatto e riaffermazione.

   I 4.381 progetti presentati ad Invitalia con il bando Imprese Borghi e gli 850 da finanziabili con il bando MAECI per il  turismo delle radici, testimoniano che i piccoli Comuni non desiderano semplicemente sopravvivere ma vogliano invertire la rotta ed essere protagonisti di una nuova rinascita all’insegna della bellezza, dell’autenticità e della riscoperta delle tradizioni.

(Francesca Liani, 24/1/2024, da https://www.lentepubblica.it/)

(Mappa dei comuni in Italia con meno di 5mila abitanti, tratta da https://www.lentepubblica.it/)

………………………………….

(tabella tratta da https://www.lentepubblica.it/)

………………………

QUANDO LA GEOGRAFIA ISTITUZIONALE FRENA LO SVILUPPO DEI TERRITORI

di Dario Immordino, da “la voce.info” del 12/12/2023, https://lavoce.info/  

I bacini istituzionali si rivelano molto più piccoli di quelli utilizzati quotidianamente dalla popolazione e dalle imprese. Il riassetto istituzionale dovrebbe riguardare l’intero sistema dei poteri locali, compresa la galassia di società partecipate –

Il peso della geografia istituzionale

Il deficit di qualità istituzionale del sistema italiano certificato dal rapporto dell’Istat, dalla relazione della Commissione europea sulle politiche di coesione e da molte relazioni dei presidenti dei tribunali amministrativi dipende in certa misura dalle criticità dell’assetto istituzionale.

   In una situazione ideale dal punto di vista dell’efficienza, la dimensione demografica del governo locale è strutturata in modo da rispecchiare le caratteristiche socioeconomiche territoriali e da consentire lo sfruttamento di economie di scala (le prestazioni vengono prodotte al minore costo unitario possibile) e la massima coincidenza tra utilizzatori e finanziatori dell’offerta territoriale di prestazioni pubbliche. In queste condizioni, tutti i servizi vengono erogati secondo adeguati standard qualitativi e quantitativi, poiché raggiungono la soglia minima di domanda sufficiente, i cittadini sono in grado di esercitare il massimo controllo sull’operato dei propri amministratori.

   Invece i sistemi locali del lavoro dimostrano inequivocabilmente che i bacini istituzionali non rispecchiano l’assetto e le esigenze della mobilità, del lavoro, della società, della produzione e il sistema di relazioni economiche e sociali, poiché si rivelano molto più piccoli di quelli utilizzati quotidianamente dalla popolazione e dalle imprese.

   Di fatto, la realtà istituzionale, definita dai confini amministrativi, non coincide con quella vissuta da cittadini e imprese, delineata dai flussi di pendolarismo, dalla geografia delle attività produttive, delle residenze e dei luoghi di lavoro. Le relazioni socio-economiche sono fluide e in continua evoluzione e richiedono flessibilità e capacità di adattamento da parte delle politiche pubbliche e degli assetti istituzionali, mentre i confini amministrativi producono rigidità, frazionamento istituzionale e criticità decisionali.

   I piccoli enti non raggiungono la dimensione minima necessaria a conseguire economie di scala e di scopo nella produzione dei servizi, ad abbattere i costi fissi di erogazione delle prestazioni e a garantire lo svolgimento efficiente delle funzioni di loro competenza. Finiscono così per sostenere oneri elevati per fornire a cittadini e imprese servizi inadeguati. Non a caso gli ultimi rapporti della Corte dei conti certificano che sempre più enti locali non sono in grado di offrire prestazioni pubbliche adeguate agli standard qualitativi e quantitativi prescritti e di garantire i diritti essenziali dei cittadini.

   In alcune realtà territoriali, peraltro, la ridotta dimensione demografica si accompagna alla presenza di altri fattori critici: bassa densità abitativa e caratteristiche morfologiche sfavorevoli del territorio, che comportano una lievitazione dei costi di esercizio di alcune funzioni (trasporto pubblico, istruzione, sanità e assistenza), presenza di “motori economici” deboli, progressivo spopolamento dei piccoli comuni, scarsa presenza della popolazione giovanile e forte incidenza di quella anziana, che rende necessaria l’attivazione di servizi assistenziali che gli enti più piccoli difficilmente riescono a sostenere, a causa delle scarse risorse disponibili e degli elevati costi di gestione (distribuiti tra un numero di utenti ridotto che non consente di raggiungere risultati di economicità ed efficacia).

   La competizione nazionale e internazionale, ma anche l’articolato strumentario di target e milestone del Piano nazionale di ripresa e resilienza e delle politiche di coesione, impongono servizi altamente qualificati nel campo della ricerca e dell’innovazione, delle grandi infrastrutture di trasporto e comunicazione, settori che contribuiscono all’attrattività dei territori e richiedono in genere una soglia di domanda elevata per poter essere economicamente sostenibili.

   Sottodimensionamento e frammentazione istituzionale, invece, impongono una barriera burocratica in territori molto integrati dal punto di vista funzionale, ostacolano l’innovazione, escludono i sistemi territoriali da segmenti economici in crescita, perché li rendono inadeguati alle trasformazioni dei flussi turistici e dei settori industriali governati dalle piattaforme elettroniche globali e degli altri fenomeni che condizionano il mercato immobiliare, il tessuto commerciale e produttivo, le esigenze e consuetudini sociali.

   Queste criticità dell’assetto istituzionale comportano non solo marginalizzazione e maggiori oneri economici per il sistema produttivo (con conseguente perdita di competitività), ma anche costi ambientali e sociali sempre più pesanti, che gravano soprattutto sui residenti e sugli utenti dei servizi pubblici (congestione da traffico, inquinamento).

   In più, l’estrema frammentazione della realtà istituzionale implica la moltiplicazione dei centri di programmazione e di spesa e la frantumazione delle politiche di sviluppo territoriale in una infinità di misure e interventi che assorbono risorse pubbliche senza produrre adeguate prestazioni.

Come riorganizzare l’assetto degli enti locali

Il percorso riformatore innescato dal Pnrr costituisce l’occasione per riorganizzare l’assetto degli enti locali incentrandolo sul criterio della funzionalità, cioè sull’esistenza di esigenze e caratteristiche comuni a più territori, secondo un approccio che consenta di utilizzare in modo strategico le risorse e le potenzialità di ogni contesto, di valorizzarne il potenziale competitivo (capitale infrastrutturale, naturale, produttivo, cognitivo, sociale e relazionale), di attivare sinergie, di strutturare nuove efficienti politiche territoriali e di programmazione (dalla pianificazione strategica alla progettazione partecipata); di individuare limiti di soglia o sostenibilità.

   L’obiettivo dovrebbe essere strutturare un sistema di governo locale calibrato sulla base delle specificità territoriali come la compenetrazione urbanistica, la condivisione di servizi culturali e scolastici, lo sviluppo urbano ed economico e le prospettive potenziali di crescita (logistica e portualità, industria ed energia, turismo e servizi d’area vasta) e in grado di favorire la gestione e il consumo razionale e sostenibile del suolo e degli spazi urbani, oltre che di altri beni collettivi come welfare, sanità, ricerca e formazione, acqua, energia, la connessione delle reti urbane e infrastrutturali.

   Il sistema di governo locale deve essere incentrato sul potenziamento delle filiere (scuola-formazione-politiche per l’impiego, pianificazione-paesaggio-tutela ambiente e così via) e della dimensione di area vasta, attraverso la riorganizzazione degli enti intermedi e la promozione di forme associative e di cooperazione e di spazi di concertazione tra gli enti e i soggetti operanti nel territorio, al fine di contenere il consumo di suolo, organizzare la mobilità e i flussi di pendolari e di merci, gestire i servizi su scala adeguata, pianificare gli insediamenti produttivi e di servizio, gestire le politiche ambientali, programmare lo sviluppo locale, l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, le reti infrastrutturali.

   Bisogna dunque riconfigurare la dimensione istituzionale del governo locale, ma per conseguire gli impegnativi obiettivi di efficienza imposti dal Pnrr e dalle politiche europee, l’accrescimento dimensionale degli enti locali deve essere accompagnato da una riconfigurazione qualitativa delle politiche territoriali, calibrata in ragione delle caratteristiche demografiche e strutturali delle singole funzioni e dei diversi contesti territoriali, della diffusione delle infrastrutture e dei servizi, della densità amministrativa e demografica, della diffusione dell’attività manifatturiera, turistica, del lavoro, e della ricchezza, in modo da individuare la dimensione appropriata degli interventi di sviluppo territoriale e di coesione sociale, della pianificazione e dell’allocazione delle risorse.

   Qualunque riassetto istituzionale, per rivelarsi efficace, dovrebbe riguardare l’intero sistema dei poteri locali, le strutture periferiche statali e regionali e la vasta galassia di società partecipate, enti e organismi strumentali, agenzie, soggetti d’ambito, unioni, Gal, convenzioni, distretti, consorzi. Ciò consentirebbe di garantire l’effettiva corrispondenza tra costi delle funzioni e risorse, di salvaguardare l’autonomia territoriale e al contempo di offrire ai cittadini e alle imprese un livello adeguato di servizi e prestazioni senza gravare troppo sulle tasche dei contribuenti, razionalizzando il vasto apparato di enti e società regionali che la Corte dei conti ha definito “fuori controllo” ed eliminando duplicazioni e sovrapposizioni di competenze che appesantiscono l’azione pubblica e ne incrementano i costi annacquando le responsabilità.

(Dario Immordino, da “la voce.info” del 12/12/2023, https://lavoce.info/)

……………………………

(tabella ripresa da https://www.lentepubblica.it/) (CLICCARE SULL’IMMAGINE PER INGRANDIRLA) – Progetti pilota per la rigenerazione culturale, sociale ed economica di Borghi a rischio di abbandono o abbandonati, sostenuti dal Ministero della Cultura con fondi del PNRR (M1C3 Turismo e Cultura 4.0 misura 2 Rigenerazione di piccoli siti culturali, patrimonio culturale religioso e rurale)
(RECOARO TERME, qui parte del BORGO STORICO, comune con un illustre passato termale e turistico, ora in grave crisi di abbandono; foto ripresa da https://www.confcommerciovicenza.info/)

…………………………………

(RIPRENDIAMO QUI una parte di un post qui pubblicato, in questo blog “Geograficamente”, dove formulavamo alcune PROPOSTE PER RIVITALIZZARE I PAESI ABBANDONATI o in corso di abbandono. Siccome ci sembrano idee e proposte ancora valide da realizzarsi, le riproponiamo qui di seguito):

(…..)  Un fenomeno tangibile, visibile, l’abbandono e la desertificazione di paesi specie di montagna o lontani da centri urbani significativi, frutto dell’incedere della storia nei territori, dove ogni luogo (fatto di natura, artificio umano, accadimenti storici) può essere oggettivamente destinato all’abbandono. Ma la cosa non è rassicurante (l’oggettività):la rassegnazione all’abbandono denota incapacità di trasformarsi, un declino culturale, economico, ambientale, sociale, urbano….

Tentiamo, nell’individuare in questo post geografie dei luoghi, cause dell’abbandono, effetti, di dare spunti per un ritorno alla vita di paesi ora desolatamente vuoti di giovani, bambini (spesso ci sono solo pochi anziani…), senza persone che ci vivono, lavorano, vivono.

LE CAUSE DELL’ABBANDONO

   I motivi di spopolamento sono molteplici. I vecchi alpeggi, ad esempio, sono stati abbandonati con il boom economico del secondo dopoguerra, preferendo ad essi condizioni di vita migliori, più comode, andando a lavorare in fabbrica o emigrando in altri Paesi. Ci sono borghi abbandonati perché troppo isolati; altri perché distrutti da continui terremoti, frane e alluvioni (forse questa è la causa principale dell’abbandono: si va a costruire in zona più sicura il “nuovo paese”, a volte ragionevolmente e con buone riuscite urbanistiche, la maggior parte creando degli obbrobri…). Ma non da meno ci sono in primis, come motivo dell’abbandono, ragioni economiche, come nel caso dei villaggi minerari in Sardegna, oppure nella Alpi e nella catena appenninica per l’insostenibilità di una vita magra, fatta di privazioni non più sopportabili nell’era dell’inizio del benessere economico dagli anni 60 del secolo scorso.

LE PROPOSTE DI RIPOPOLAMENTO (OLTRE ALLE FONDAMENTALI “SANITÀ, SCUOLA, MOBILITÀ”)

1- Innanzitutto noi crediamo a una vera nuova riorganizzazione istituzionale dei territori, coinvolgendoli tutti in AREE METROPOLITANE (se non piace questo termine per zone e paesi di montagna, chiamiamoli AGROPOLITANI o quant’altro di simile e più accattivante…). Non può essere che il “sistema-Paese” (nazione) pensi di potenziare e investire risorse e innovazione solo in 15 Aree-Città (metropolitane) (più o meno corrispondenti ai maggiori nuclei urbani che ci sono adesso), tralasciando il ruolo di tutto il resto del territorio nazionale. Continua a leggere

Il MOLISE che vuole ritornare negli ABRUZZI: ipotesi (necessaria) di due regioni accorpate in una (com’era in origine) – Ma costi, efficienza dei servizi, identità territoriale, dialogo allargato geopolitico, mostrano la necessità di MACROREGIONI che interessino tutte le attuali regioni, in un processo federalista (oltre e per ogni tipo di autonomia)

(Foto da https://www.open.online/) – Dopo un divorzio durato 60 anni il MOLISE vorrebbe tornare negli ABRUZZI. Infatti la minuscola regione fino al 1963 si chiamava proprio «Abruzzi e Molise»

…………………….

COM’ERA fino al 1963 e COM’È oggi (mappe riprese da “il Corriere della Sera” del 11/3/2024)

IL MOLISE? ESISTE, MA SI PUÒ ACCORPARE ALL’ABRUZZO. ECCO IL REFERENDUM PER FARE «A PEZZI» LA REGIONE PIÙ BISTRATTATA D’ITALIA

di Diego Messini, da https://www.open.online/, 1/2/2024

– Presentata la raccolta firme per chiedere che la provincia di Isernia sia accorpata alla regione confinante. «Se ci riusciamo il Molise crollerà» –

   Unire il Molise all’Abruzzo, un pezzetto alla volta. È l’idea dei promotori di un referendum popolare presentato il primo febbraio scorso, che si propone, per ora, di accorpare la provincia di Isernia alla Regione confinante. «Il percorso per accorpare direttamente il Molise all’Abruzzo – ha spiegato all’Ansa il presidente del Comitato, Antonio Libero Bucci – richiede due passaggi molto complicati: una modifica di natura costituzionale e l’approvazione dei Consigli regionali delle regioni coinvolte. Quindi abbiamo cercato un percorso alternativo, ovvero chiedere l’accorpamento di enti locali con la regione confinante, nel nostro caso della Provincia di Isernia con l’Abruzzo». In questo modo si evita di dover far approvare dal Parlamento una legge di rango costituzionale. Ne basterebbe una ordinaria.

   «Prima, però, è necessario un referendum indetto dall’ente locale in questione per il quale il nostro Comitato ha avviato una petizione popolare. Sono necessarie, secondo lo Statuto della Provincia di Isernia, 5000 firme per richiederlo», ha spiegato ancora Bucci. E se il piano andasse in porto? Se davvero la provincia di Isernia dovesse passare all’Abruzzo, è la tesi dei proponenti del referendum, a quel punto «il Molise non potrà restare in piedi come Regione con una sola provincia, quella di Campobasso.

A quel punto si procederà con una legge di natura costituzionale per eliminare la regione Molise», assicura Bucci. Ma per quale ragioni i dieci proponenti e chi li sostiene vuole proprio “disfarsi” della Regione più piccola d’Italia? Le ragioni, viene spiegato, «attengono alle aspettative dei cittadini i quali, in Molise, non hanno più un servizio sanitario efficiente, dei collegamenti infrastrutturali al passo con i tempi, hanno difficoltà in ogni servizio erogato e pagano tasse altissime. Ciò produce l’inarrestabile spopolamento». (Diego Messini, da https://www.open.online/, 1/2/2024)

…………………………..

(CARTA del MOLISE ripresa da https://futuromolise.com/)

L’autonomia del Molise è un fallimento, a Isernia ne sono convinti e vogliono un referendum. E l’inchiesta del Corsera fa rumore

E IL MOLISE ORA PENSA AL RICONGIUNGIMENTO

di MILENA GABANELLI e FRANCESCO TORTORA, da “il Corriere della Sera” del 11/3/2023

– E’ appena partita la raccolta firme per tornare in Abbruzzo. La Regione si era staccata nel 1963 dopo lunghe battaglie: 60 anni più tardi è un territorio spopolato e pieno di debiti –

   Dopo un divorzio durato 60 anni il Molise vorrebbe tornare negli Abruzzi. Infatti la minuscola regione fino al 1963 si chiamava proprio «Abruzzi e Molise». Qualche anno fa addirittura la Bbc, incuriosita dall’hashtag «il Molise non esiste», inviò un reporter alla scoperta della «regione che non c’è» e narrò di una separazione che aveva confinato questo territorio impervio e struggente all’invisibilità. In un’area sempre più disabitata e sommersa dai debiti, oggi una parte della popolazione si sta dando da fare per fondersi con la comunità abruzzese. Ma perché il piccolo Molise è riuscito a diventare una Regione, status negato ad aree più estese e popolate come la Romagna e il Salento?

La Costituente e la legge del 1963

Già nel 1947, durante l’Assemblea costituente, viene proposta la creazione della regione Molise, un’area prevalentemente montano-collinare di 4.460 km² con appena 418 mila abitanti. La richiesta è bocciata perché si riconoscono solo le regioni storiche, ma i costituenti stabiliscono anche la condizione per costituire nuove regioni: la presenza di almeno 1 milione di residenti (art 132). I fautori dell’autonomia però non demordono e riescono a inserire nelle disposizioni transitorie una deroga che congela il limite demografico ai primi anni della Repubblica. Così, dopo un acceso dibattito parlamentare, nel 1963 arriva la legge costituzionale che sancisce la nascita del Molise. La nuova regione è definita da Alberto Cavallari in un reportage dell’epoca sul Corriere della Sera «una provincia cenerentola, eternamente seconda, rimasta in fondo alla serie B dei Paesi sottosviluppati». Per tutti gli anni ‘60 l’ente è composto dal solo capoluogo Campobasso. Nel 1970, quando le regioni entrano effettivamente in funzione, si aggiunge la provincia di Isernia.

Le motivazioni della separazione

Al momento della separazione, le regioni italiane sono solo sulla carta e anche negli anni successivi hanno una limitata discrezionalità fiscale. Le motivazioni che portano alla creazione del nuovo ente sono sostanzialmente tre:
1) Identitaria-culturale. In un intervento al Senato l’esponente della Dc Giuseppe Magliano, primo firmatario della riforma costituzionale, afferma che il Molise si considera «un complesso etnico, storico, geografico e politico nettamente distinto e separato dagli Abruzzi». In realtà tutta questa differenza non c’è: salvo lungo i confini dove le inflessioni sono più napoletane o pugliesi, i molisani parlano abruzzese.
2) Logistica-amministrativa. Gli abitanti dei 136 comuni del Molise hanno difficoltà a raggiungere i 20 specifici uffici pubblici perché dislocati troppo lontano o addirittura in altre province fuori dalla regione «Abruzzi e Molise». Ad esempio, per l’esame della patente bisogna raggiungere la motorizzazione a Pescara, per il distretto militare si deve andare a Bari, per la Corte d’Appello a Napoli, i servizi erariali a Benevento e così via. Problemi, nell’Italia contadina del tempo, comuni a molti altri territori.  Sarebbe bastato modificare la giurisdizione e aprire qualche ufficio a Campobasso. Si è preferito dar vita ad una Regione. L’ironia della storia è che di quei 20 uffici, a distanza di 60 anni, solo 9 sono stati trasferiti effettivamente nel capoluogo di provincia, mentre il resto è rimasto altrove, come il comando generale dei carabinieri, che sta in Abruzzo.
3) Elettorale. Nell’articolo 57 della Costituzione è inserito il comma che prevede due senatori provenienti dal territorio. La Democrazia Cristiana, dunque, si assicura nel feudo elettorale molisano un seggio di senatore in più. Forse questa la vera ragione.

Il confronto tra Abruzzo e Molise

All’inizio degli anni Sessanta le due Regioni sono molto arretrate. L’agricoltura occupa la maggior parte della popolazione attiva, mentre l’industria è rappresentata per lo più da piccole imprese artigianali. Il tenore di vita delle due popolazioni è inferiore di un terzo rispetto alla media italiana. Con un reddito netto pro-capite di 298.121 lire, il Molise è più povero dell’Abruzzo (323.766 lire, in linea con quello dell’Italia meridionale che è di 324.977 lire). Nel 1974 la situazione è già diversa: in Molise il reddito netto raggiunge le 923.547 lire, mentre in Abruzzo diventa il più alto del Sud Italia: 1.176.068 lire, molto vicino alla media italiana (82,8%). In entrambi i territori cala drasticamente l’occupazione in agricoltura, mentre quasi uno su tre lavora nell’industria. All’inizio degli anni ’90 l’economia abruzzese si avvicina a quella nazionale (85%), mentre quella molisana migliora (76%) ma non decolla. Poi la crescita rallenta fino a vivere un brusco crollo nei primi due decenni del secolo, ma con enorme differenza fra le due Regioni: tra 2001 e 2014 il Pil dell’Abruzzo cala del 3,3%, quello molisano precipita a quasi -20%.

Il Molise oggi: crisi economica, spopolamento, carenza di servizi

Nel corso degli anni il Molise si è spopolato, e a fine 2023 i residenti sono 289.294. E’ l’unica regione italiana ad avere una popolazione inferiore rispetto al tempo dell’Unità d’Italia. Dagli ultimi dati Istat il Pil pro-capite raggiunge i 24.500 euro contro i 27 mila dell’Abruzzo, e i 32.983 della media nazionale. In Molise la crisi morde più forte: nel 2023 le chiusure delle imprese hanno superato le aperture con un saldo negativo di 188 aziende, il peggiore in Italia e in controtendenza con l’andamento nazionale dove 17 regioni su 20 registrano dati positivi. Cresce il disavanzo pubblico che a fine 2021 ha superato i 573 milioni di euro, la Sanità è commissariata da 15 anni ed ha ancora un debito di 138 milioni (qui, pag.113). Nell’ultima legge di bilancio il governo Meloni ha stanziato 40 milioni a favore della regione, vincolati alla riduzione del disavanzo.

   Per questo la giunta di centro-destra guidata da Francesco Roberti ha deciso di aumentare l’addizionale Irpef per i redditi superiori a 28 mila euro al 3,33%, l’aliquota più alta d’Italia (in Abruzzo è ferma all’1,73%).  La capacità di gettito però resta limitata, anche perché bisogna mantenere un apparato regionale che costa 30,7 milioni di euro, circa 105 euro a testa contro i 60 dell’Abruzzo (guarda qui, pag 210). In un report della «Fondazione Gazzetta Amministrativa» sulle spese per incarichi di studi e ricerca effettuati nel 2021 il Molise si classifica ultimo con 225 mila euro.

   Cronica la carenza di personale medico-sanitario: all’appello mancano 20 specialisti di medicina d’urgenza, 17 radiologi, 16 pediatri, 14 ortopedici, 12 anestesisti, 3 ginecologi, 2 oncologi e 140 infermieri. Per tamponare l’emorragia sono stati ingaggiati medici venezuelani: 8 già lavorano nei reparti degli Ospedali Cardarelli di Campobasso e San Timoteo di Termoli.

Il referendum per il ritorno al passato

Alla fine il «meglio da soli» non ha portato prosperità. Il 9 marzo è partita la raccolta firme per un referendum che mira a portare la provincia di Isernia dentro l’Abruzzo, e poi l’intero Molise. Secondo l’ex questore Gian Carlo Pozzo, uno dei promotori dell’iniziativa popolare, la Regione è gravata da un pesante debito che combatte a suon di tasse e tagli e non è più in grado di garantire ai cittadini servizi essenziali come sanità, trasporti e formazione. Si sta muovendo nella stessa direzione la provincia di Campobasso con un comitato a Montenero di Bisaccia, e iniziative anche nei comuni di Petacciato, Termoli e Campomarino.

   E il Molise è tutto qui: 80 mila abitanti nella provincia di Isernia, e poco più di 200 mila in quella di Campobasso, con enormi difficoltà a sostenere uno sviluppo in grado di camminare con le proprie gambe. Già a suo tempo i padri costituenti avevano intuito i pericoli dei territori infiammati dalle aspirazioni a diventare piccole patrie, ma con pochi abitanti e ancor meno risorse.

(MILENA GABANELLI e FRANCESCO TORTORA, da “il Corriere della Sera” del 11/3/2023)

(Spopolamento, il Molise regione più vecchia d’Italia (youtube.com) – Nella foto veduta di parte del centro storico di TERMOLI, circa 32mila abitanti nella provincia di Campobasso, il secondo comune più popoloso del Molise dopo il capoluogo Campobasso

……………………………….

…………………..

(regioni d’Italia; da Wikipedia)

MACROREGIONI AL POSTO DELLE ATTUALI REGIONI

Ancora una decina di anni fa (nel 2014) due deputati dem, Roberto Morassut e Raffaele Ranucci, avevano preso carta e penna per ridisegnare la cartina d’Italia. Ne era uscito fuori UNO STIVALE DIVISO IN DODICI AREE, OMOGENEE PER «STORIA, AREA TERRITORIALE, TRADIZIONI LINGUISTICHE E STRUTTURA ECONOMICA». Alcune sono frutto di una semplice addizione (il Triveneto con Friuli, Trentino e Veneto, oppure l’Alpina con Piemonte, Valle d’Aosta e Liguria). Altre invece mettono assieme province di Regioni diverse: il Levante “ospita” Puglia, Matera e Campobasso, mentre la Tirrenica tiene assieme Campania, Latina e Frosinone. Solo Sicilia e Sardegna manterrebbero il privilegio dello statuto speciale. (Tommaso Ciriaco, da “la Repubblica” del 23/12/2014)

PROPOSTA MACROREGIONI MORASSUT-RANUCCI, da “Il Messaggero”

L’IPOTESI DELLE 12 MACROREGIONI

1- Valle D’Aosta Piemonte Liguria

2- Regione Lombardia

3- Regione Triveneto (Veneto, Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige)

4- Regione Emilia Romagna (Emilia Romagna + Provincia Pesaro)

5- Regione Adriatica (Abruzzo + Province Macerata, Ancona, Rieti, Ascoli, Isernia)

6- Regione Appenninica (Toscana, Umbria + Provincia Viterbo)

7- Regione Sardegna

8- Regione di Roma (Capitale Roma + Provincia di Roma)

9- Regione Tirrenica (Campania + Province Latina, Frosinone)

10- Regione Sicilia

11- Regione del Ponente (Calabria + Provincia Potenza)

12- Regione del Levante (Puglia + Province Matera e Campobasso)

SIMULAZIONE – La mappa qui sopra mostra come sarebbero ridisegnate le Regioni secondo la proposta di legge (di dieci anni fa, ma ancora in auge) dei deputati del Pd Roberto Morassut e Raffaele Ranucci

…………………….

LUCIO GAMBI

Lucio Gambi (1920 – 2006) è considerato il più importante geografo italiano del ‘900, il più innovativo, in grado di aprire la geografia al contributo metodologico della ricerca storica, letteraria, sociologica, demografica.

…………………..

 

REGIONI DA CAMBIARE” (trasformare in MACROREGIONI): parte di uno scritto del 1995 di LUCIO GAMBI:

   “Con la Costituzione del 1948 le regioni non sono state disegnate ex novo in base ad una analisi delle reali situazioni del dopoguerra. Sono state chiamate «regioni» delle ripartizioni territoriali di valore non giuridico, che già esistevano dal 1864 col nome di «compartimenti»: erano destinate cioè ad inquadrare territorialmente le elaborazioni e i risultati delle inchieste e delle rilevazioni statistiche nazionali.

   Ma neanche questi «compartimenti» potevano fregiarsi di una nascita ex novo, perché in realtà erano stati per lo più costituiti con l’aggruppamento di un certo numero di province fra loro finitime, che prima dell’unificazione nazionale avevano fatto parte del medesimo Stato, e in quest’ultimo avevano ricoperto insieme uno spazio che nei secoli della romanità imperiale o in epoca comunale aveva ricevuto un nome regionale.

   I «compartimenti» del 1864 risultano quindi da uno sforzo di identificazione di quelle vecchissime regioni, la cui fama era stata ribadita e divulgata nel rinascimento da una rigogliosa tradizione di studi. Però è irrefutabile che le identificazioni regionali da cui erano nati i «compartimenti» statistici del 1864, in molte zone della penisola non avevano più alcuna presa nel 1948 quando la nuova costituzione entrò in funzione. E da quest’ultima data ad oggi il valore di quella ripartizione si è rivelato via via anche più insoddisfacente e vulnerabile.

   Uno dei nodi più gravi nella gestione dello Stato italiano ai nostri giorni sta precisamente nella istanza, non più rimandabile, di adeguare la irrazionale e quindi inceppante – diciamo antistorica – rete della sua organizzazione territoriale, agli effetti delle trasmutazioni che il paese ha sperimentato dopo l’ultima guerra”. (LUCIO GAMBI, 1995, dal saggio “L’irrazionale continuità del disegno geografico delle unità politico-amministrative”) (vedi anche lo studio di Anna Treves su “Lucio Gambi e le Regioni”): Acme-04-II-10-Treves

….

   Lo scritto, sopra riportato, del 1995 di LUCIO GAMBI (uno dei più importanti geografi del ‘900), viene a dimostrare l’inadeguatezza e l’antistoricità dell’attuale disegno territoriale dei confini delle istituzioni italiche (non solo le regioni, ma anche i comuni, e le province che ancora in qualche modo persistono…). Questo disegno dei confini territoriali va necessariamente ripensato e concretamente rivisto.

   Regioni indicate nella Costituzione del 1948 ed effettivamente nate con grandi speranze nel 1970. Speranze subito deluse. Apparati “statuali” si sono insediati, e se l’idea di avere Istituzioni più vicine al cittadino, più attente alla spese (meno sprechi degli apparati centrali) ebbene, ciò si è dimostrato ampiamente errato. Venti piccoli stati con i loro tanti consiglieri regionali, con le prebende e gli onori (e nessun onere) a loro spettanti… con burocrazie lente ed autoreferenti. A prescindere anche della paventata autonomia differenziata –che per sommi capi spieghiamo qui di seguito- per alcune di esse (il Veneto, la Lombardia, l’Emilia Romagna…).

   Tra l’altro nella Costituzione veniva sottolineato che il vero obiettivo delle Regioni era quello di legislazione, programmazione e controllo: cosa del tutto disattesa fin dall’inizio. Le Regioni si sono “accollate” buona parte della gestione di tanti servizi, con consorzi, consigli di amministrazione, altri apparati dispendiosi messi in campo. La situazione è del tutto degenerata con la riforma del titolo V della Costituzione del 2001: lo scopo era di dare allo Stato italiano una fisionomia più “federalista”, spostando i centri di spesa e di decisione dal centro al “locale”, dove di più si poteva “toccare il problema”, avvicinandosi ai cittadini.

   E’ così che la riforma del titolo V della costituzione ribaltava la filosofia del “potere” dello Stato nei confronti delle Regioni: si specificava quali erano le competenze esclusive dello Stato, lasciando alle regioni tutto il resto, di tutte quelle cose non nominate esplicitamente. Un’autonomia pertanto non solo della Sanità (che già c’era prima del 2001) ma in particolare della gestione finanziaria (con cui poter decidere liberamente come spendere i loro soldi) e organizzativa (con cui poter decidere quanti consiglieri e quanti assessori avere e quanto pagarli).

   Questa riforma dalle ottime intenzioni perché federalista (com’era stato poi fin dall’inizio l’istituzione delle Regioni) è stato un disastro: il picco di spesa incontrollata è salito, la creazione di cosiddette “società PARTECIPATE” (cioè società di servizi più o meno utili in cui le Regioni hanno percentuali di partecipazione, e che paiono più modi per gestire denari e sistemare consiglieri di amministrazione…) è salito esponenzialmente.

   Pertanto una realtà istituzionale regionale in Italia diversificata tra cinque Regioni a statuto speciale e 15 regioni a statuto ordinario; 20 Regioni che hanno raggiunto un livello di costi non più sostenibile dal bilancio nazionale. Da ciò si capisce che LE REGIONI COSÌ COME SONO NON FUNZIONANO PIÙ e rischiano di rimanere schiacciate sotto una montagna di debiti.

   Con l’attuazione dell’autonomia differenziata in corso di approvazione quest’anno (2024), sono ben 20 le materie che potranno passare integralmente a carico delle REGIONI. E altre tre materie strategiche, oggi di competenza solo centrale (l’organizzazione della giustizia di pace, le norme generali sull’istruzione, la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali), potrebbero essere decentrate se la riforma arriverà alla meta. Il punto fondamentale della legge è adesso quello della determinazione dei LEP (Livelli essenziali delle prestazioni) previsti dalla Costituzione: cioè dovrà essere stabilito il livello minimo di servizi da rendere al cittadino, che sia in maniera uniforme in tutto il territorio nazionale. Altro motivo per cui l’inadeguatezza di buona parte delle attuali Regioni, porta a prospettare la necessità di creare MACROREGIONI.

   MA NON E’ SOLO UNA QUESTIONE DI COSTI e di apparati di parassitismo… e se LE REGIONI DECIDONO DI SVOLGERE ALCUNE ALTRE FUNZIONI, È ANCHE VERO CHE LE REGIONI NON RAPPRESENTANO PIÙ LA COMPLESSITÀ DEI LORO TERRITORI: apparati politici e burocratici non sono più in grado di controllare virtuosamente lo scacchiere delle varie aree regionali. Non è un caso che regioni montane, solo esclusivamente montane, gestiscono meglio la loro territorialità potendo offrire un’unica politica specifica per quel tipo di territorio di alta quota (pur, è vero, godendo anche dello status di “regione a statuto speciale” che aiuta molto finanziariamente).

   Per fare un esempio del disordine programmatorio delle regioni vi è un’incapacità di fermare colate di cemento inutili (centri commerciali che aprono e che chiudono, e altri ne vengono aperti, su aree tolte al verde, alla fertilità agricola, e lasciando aree dismesse, abbandonate al degrado…). Territori di montagna e mezza montagna abbandonati, pianure e aree collinari devastate da forme agricole di pura speculazione. Pensiamo ai vitigni pregiati, come quelli del prosecco nel Veneto: tutti capiscono che l’odierno eccessivo sfruttamento farà sì che di qui a qualche decina d’anni quelle terre collinari non saranno più in grado di “reggere” le iper-produzioni agricole di adesso ed è probabile che saranno abbandonate al degrado, alla necessità di ricomposizioni lunghe e difficili…

   Le politiche di sviluppo del lavoro (agrario, industriale, dei servizi, del turismo…) appartengono sempre meno agli apparati regionali, che così perdono progressivamente ogni senso di programmazione con i propri territori, limitandosi a gestire e controllare innumerevoli società, consorzi di servizi come dicevamo proliferati in modo abnorme.

   In questa situazione la virtuosa fusione della cura dei territori, del loro eco-sviluppo, delle tutele dell’ambiente e della salute dei cittadini…tutto questo unito nell’Organismo regionale, in ciascuna delle venti regioni cui è suddiviso il nostro territorio… tutto questo nella realtà ha perso di ogni valore….

   Ben per cui il superamento di questa attuale suddivisione regionale in 20 mini-Stati (con apparati politici e burocrazie incredibili) non potrebbe che essere vista positivamente.

   Ecco allora che l’ipotesi delle MACROREGIONI sarebbe auspicabile (sollecitati dal micro-esempio di necessità prioritaria del Molise di ritornare assieme all’Abbruzzo.

   L’IPOTESI DI UNA NUOVA RADICALE GEOGRAFIA DELLA SUDDIVISIONE TERRITORIALE È L’UNICA AUSPICABILE e vera riforma nell’individuazione di territori che tra l’altro sono fortemente cambiati dal dopoguerra ad adesso.

 …

   DA PARTE NOSTRA CREDIAMO CHE POTREBBERO ESSERE SOLO 5 LE MACROREGIONI IN ITALIA, e cioè:

– due MACROREGIONI DEL NORD, una del NORDEST (Emilia Romagna, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige) e l’altra del NORDOVEST (Lombardia, Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria);

– poi due MACROREGIONI DEL CENTRO (la prima formata dai territori attuali di Toscana, Umbria, Marche; e la seconda da Lazio, Abruzzo, Molise, ma anche dalla Sardegna così da togliere quest’ultima dall’isolamento politico-insulare);

– e una sola possibile MACROREGIONE MERIDIONALE (formata dai territori di Campania, Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia)

   L’idea di UN’UNICA MACROREGIONE MERIDIONALE è sostenuta da chi crede che il mancato sviluppo nei decenni (nei secoli) del meridione d’Italia dipenda anche da poteri locali (regionali) non in grado di uscire da clientelismi, da rapporti indiretti con organizzazioni criminose (mafia, ndrangheta, camorra…). Azzerare le regioni meridionali, sostituendole con un’unica Macroregione, toglierebbe l’aria al malcostume amministrativo radicato, mettendo in auge un nuovo sistema in grado di distogliere mafia, camorra, ndrangheta, “sacra corona unita” etc. dai rapporti locali che ancora riescono a mantenere i gruppi criminosi… 

   E l’azzeramento degli attuali poteri regionali meridionali, con la creazione di una MACROREGIONE DEL SUD, collegata in modo naturale con le economie emergenti del Mediterraneo (dei paesi arabi della Costa nord africana, -Maghreb e Mashrek-, dei Balcani, verso il Medio-oriente…) potrebbe essere l’elemento virtuoso per un autonomo avvio di scambi culturali, economici, di sviluppo… nuovi (sull’energia, l’agroindustria, il turismo, gli scambi commerciali al centro di quello che resta nonostante tutto uno dei mari più importanti del pianeta, il Mediterraneo…). Così da poter finalmente far decollare una possibile MACROREGIONE DEL SUD verso nuovi mercati e opportunità di benessere.

   Perché la nuova visione territoriale che si verrebbe ad avere con lo scioglimento delle attuali regioni ha pure il compito di fare delle nuove macro-aree che verrebbero a creare soggetti di motore dello sviluppo economico (incentivando e sviluppando i fattori economici esistenti, la manifattura competitiva globale, l’agricoltura pulita e dei prodotti tipici da esportare ma anche per il commercio a Km0, i trasporti efficienti e sostenibili, la minor spesa e più qualità in tutti i servizi…).

   La difficile strada delle riforme concrete degli assetti territoriali geografici da sostituire (Macroregioni al posto delle Regioni; l’eliminazione totale delle Province; la creazione di Città Metropolitane in ogni luogo; il mettersi assieme di più comuni medio-piccoli per creare al loro posto CITTA’ di almeno 60.000 abitanti), tutto questo nuovo assetto territoriale trova difficoltà ad esprimersi concretamente. Ma, nei fatti dell’economia e della vita urbana delle persone, sta già avvenendo da tempo (e urge una risposta politica ed istituzionale che lo riconosca e lo aiuti a funzionare). (s.m.)

……………………………..

3 MACROREGIONI – Al deputato forzista Massimo Palmizio basterebbero TRE MACROREGIONI: 1) quella del Nord metterebbe insieme Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria, Lombardia, Veneto, Trentino-Alto Adige e Friuli–Venezia Giulia (per una popolazione complessiva di 23.376.208 ABITANTI E UNA SUPERFICIE DI 97.796 CHILOMETRI QUADRATI); 2) QUELLA DEL CENTRO accorperebbe Emilia-Romagna, Toscana, Umbria, Lazio, Marche e Sardegna (per una popolazione di 18.069.625 ABITANTI E UNA SUPERFICIE DI 104.993 CHILOMETRI QUADRATI); 3) QUELLA DEL SUD dovrebbe fondere Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia (19.236.297 ABITANTI E UNA SUPERFICIE DI 98.929 METRI QUADRATI)

……………………………..

CON LA MACROREGIONE, PER IL SUD SAREBBE TUTTA UN’ALTRA STORIA

di Michele Rutigliano, da https://www.politicainsieme.com/, 1/3/2024

   Per chi vive al Sud, ma anche per chi lo osserva da remoto, è un dato di fatto che la sua realtà sta diventando sempre più difficile. E non c’è bisogno del Rapporto Svimez, né di quello del Censis, né tantomeno delle inchieste del Sole 24 ore, per capire che se non si cambia registro, le nuove generazioni difficilmente pianteranno le tende nei paesi o nelle città che furono dei loro genitori o dei loro nonni.

   E tutto questo perché il Sud “non tira più” nelle corde professionali o sentimentali dei giovani. Viene vissuto e molto spesso percepito come un territorio fortemente limitato, nel suo sviluppo, da tanti problemi. Che non sono soltanto economici e sociali, ma che investono ormai anche il suo profilo istituzionale.

   Secondo i più pessimisti, anziché andare avanti stiamo addirittura tornando indietro. E questo perché la disoccupazione cresce, la povertà aumenta, mentre si amplia sempre più il divario tra il Sud e il Nord del Paese. Per non parlare poi della criminalità organizzata, della corruzione, della scarsa qualità dei servizi pubblici e della bassa, bassissima partecipazione civica.

   Senza nulla togliere al peso specifico delle questioni economiche e sociali, Continua a leggere

Haiti, Cuba, Venezuela, Nicaragua, Ecuador, Guatemala, Honduras, El Salvador…e ora anche Messico, Argentina: per la democrazia in AMERICA LATINA o è cosa impossibile oppure, dove c’è, sono TEMPI PERICOLOSI – E poi il narcotraffico, i flussi migratori delle povere popolazioni, il petrolio… problemi e interessi che coinvolgono USA, ma anche Russia, Cina…

(HAITI, guerriglia ed esodi di massa, foto da “Il Fatto Quotidiano”) “(…) Haiti è uno dei paesi più poveri al mondo ed è da tempo alle prese con una gravissima crisi politica, sociale ed economica. Le proteste sono rivolte in particolare contro il governo del primo ministro ad interim Ariel Henry, che avrebbe dovuto organizzare nuove elezioni entro il 7 febbraio, ma non lo ha fatto sostenendo la necessità di ripristinare prima la stabilità nel paese. (…)” (da IL POST.IT https://www.ilpost.it/, 3/3/2024)
MAPPA di HAITI (ripresa da https://www.viaggiatori.net/) –  PORT AU PRINCE, 8 marzo 2024 – L’ulteriore aggravamento della crisi ad Haiti ha spinto il segretario di Stato americano Antony Blinken ad intervenire per sbloccare la paralisi politica e istituzionale, manifestando al premier haitiano Ariel Henry, bloccato a Porto Rico, e al presidente della Comunità dei Caraibi (Caricom), Irfaan Ali, “l’urgente necessità di accelerare la transizione verso un governo più ampio e inclusivo”. A Port au Prince, intanto, la situazione è totalmente fuori controllo. Il governo ha prorogato per un mese lo stato di emergenza, ma ciò non ha placato l’azione delle bande criminali. (…)” (da https://www.espansionetv.it/)

HAITI NEL CAOS: PRESSIONI PER CREARE UNA COALIZIONE CHE GUIDI VERSO NUOVE ELEZIONI

di Michela Morsa, da https://it.euronews.com/, 7/3/2024

– Il Paese è paralizzato dalla violenza delle bande armate che nel fine settimana hanno fatto evadere quasi cinquemila detenuti e protestano contro il primo ministro in carica Ariel Henry, rifugiatosi per il momento a Porto Rico –

   La situazione ad Haiti è ancora critica: dopo giorni di scontri e violenze, innescate dalla liberazione da parte delle bande armate del Paese di circa cinquemila detenuti, l’isola è in gran parte paralizzata, con scuole e imprese chiuse, corpi che giacciono in strade deserte. L’aeroporto internazionale, che lunedì le gang hanno tentato di occupare, è ancora chiuso.

   Da domenica vige lo stato di emergenza e mercoledì i politici hanno iniziato a confrontarsi alla ricerca di alleanze per formare una coalizione che possa trainare il Paese fuori dalla violenza della criminalità organizzata, il cui principale obiettivo è impedire il rientro del contestato primo ministro ad interim Ariel Henry

   Una nuova alleanza politica coinvolge l’ex leader ribelle Guy Philippe e l’ex candidato presidenziale e senatore Moïse Jean Charles, che mercoledì hanno dichiarato a Radio Caraïbes di aver firmato un accordo per formare un consiglio di tre persone alla guida di Haiti. Philippe, figura chiave nella ribellione del 2004 che spodestò l’ex presidente Jean-Bertrand Aristide, è ritornato ad Haiti a novembre chiedendo subito le dimissioni di Henry.

IL PRESIDENTE HENRY È SOTTO PRESSIONE NAZIONALE E INTERNAZIONALE

Le bande armate, che controllano l’80 per cento della capitale Port-au-Prince, giovedì scorso (29/2/2024, ndr) hanno iniziato a protestare contro la visita in Kenya del leader haitiano, andato a negoziare proprio l’invio di un contingente di peacekeepers sostenuti dalle Nazioni Unite nel Paese, ormai da tempo succube della violenza delle gang.

   Henry è atterrato martedì a Porto Rico dopo che non gli era stato permesso di atterrare nella Repubblica Dominicana, che ha deciso di chiudere lo spazio aereo intorno ad Haiti. 

   Nominato primo ministro con il sostegno della comunità internazionale poco dopo l’assassinio del presidente Jovenel Moïse nel luglio 2021, ora si trova ad affrontare crescenti pressioni nazionali e internazionali per dimettersi e permettere così una transizione verso un nuovo governo, sostenuto con tutta probabilità dagli Stati Uniti. 

   Mercoledì è stato chiesto all’ambasciatrice statunitense alle Nazioni Unite Linda Thomas-Greenfield se Washington avesse chiesto a Henry di dimettersi. Gli Stati Uniti hanno invitato Henry ad “andare avanti in un processo politico che porterà all’’istituzione di un consiglio presidenziale di transizione che porterà alle elezioni”, ha spiegato Thomas-Greenfield.

I LEADER DELLA CARIBBEAN COMMUNITY CERCANO UNA SOLUZIONE POLITICA

Su Haiti occhi puntati anche da parte dei vicini Paesi caraibici e delle Nazioni Unite. Un funzionario caraibico ha detto ad Associated Press che i leader della Caribbean community (Caricom) hanno parlato con Henry alla fine di martedì e hanno presentato diverse soluzione politiche per porre fine alla crisi haitiana, tra cui le dimissioni del primo ministro, che ha rifiutato. 

   “Nonostante molti, molti incontri, non siamo stati in grado di raggiungere alcuna forma di consenso tra il governo, il settore privato, la società civile, le organizzazioni religiose”, ha detto il presidente della Guyana Irfaan Ali. Le sfide sono “aggravate dall’assenza di istituzioni chiave” come la presidenza e il parlamento, così come la violenza e la mancanza di aiuti umanitari, ha aggiunto. 

L’ONU ESORTA LA COMUNITÀ INTERNAZIONALE AD AGIRE

Il portavoce delle Nazioni Unite Stephane Dujarric ha detto che l’Onu sta esortando il governo e tutti i partiti a mettere da parte le loro differenze e concordare “un percorso comune verso il ripristino delle istituzioni democratiche”. Dujarric ha sottolineato che l’organizzazione internazionale ha continuato a trattare Henry come primo ministro senza aver in alcun modo incoraggiato le sue dimissioni

   Il portavoce Onu ha descritto la situazione a Port-au-Prince come “estremamente fragile”. “Le infrastrutture sanitarie sono sull’orlo del collasso“, ha detto, sottolineando che gli ospedali sono sovraffollati di civili feriti e la carenza di sangue. 

   Anche l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani Volker Türk ha esortato la comunità internazionale ad agire rapidamente per evitare che il paese caraibico cada nel caos. “Chiedo ancora una volta il dispiegamento urgente e senza ulteriori ritardi della Missione internazionale di sostegno alla sicurezza ad Haiti per sostenere la polizia nazionale e portare sicurezza al popolo haitiano”, ha affermato in una nota. Türk ha detto che dall’inizio dell’anno ad Haiti sono state uccise quasi 1.200 persone. (Michela Morsa, da https://it.euronews.com/, 7/3/2024)

PORT-AU-PRINCE è posta sul golfo di Gonave, sulla costa occidentale di Hispaniola. È la capitale e città più popolosa di HAITI, nonché capoluogo dell’omonimo arrondissement e del dipartimento dell’Ovest. La popolazione della città si aggira intorno a 1 milione di abitanti (dato del 2015), mentre quella dell’area metropolitana conterebbe circa 2.600.000 abitanti (dato del 2017) (dati e immagine da WIKIPEDIA)

…………………………..

(MEXICO, disordini e violenze; foto da https://www.ilpost.it/) – “IN MESSICO DUE CANDIDATI SINDACI DELLA STESSA CITTÀ SONO STATI UCCISI A DISTANZA DI POCHE ORE.  Il 26 febbraio scorso (2024) due persone che erano candidate al ruolo di sindaco della città di MARAVATIO, nello stato messicano del MICHOACÁN, sono state uccise a poche ore di distanza l’una dall’altra. Il primo è MIGUEL ÁNGEL ZAVALA, il candidato sindaco del Movimento Rigenerazione Nazionale (Morena, partito di sinistra fondato dall’attuale presidente messicano Andrés López Obrador), trovato ucciso a colpi d’arma da fuoco nella sua auto lunedì. Poche ore dopo, verso mezzanotte, la procura statale ha detto di aver trovato morto nello stesso modo anche ARMANDO PÉREZ LUNA, candidato del partito conservatore Azione Nazionale. (…)” (da https://www.ilpost.it/ 27/2/2024)

IN MESSICO DUE CANDIDATI SINDACI DELLA STESSA CITTÀ SONO STATI UCCISI A DISTANZA DI POCHE ORE

da https://www.ilpost.it/ 27/2/2024

   Il 26 febbraio scorso (2024) due persone che erano candidate al ruolo di sindaco della città di MARAVATIO, nello stato messicano del MICHOACÁN, sono state uccise a poche ore di distanza l’una dall’altra. Il primo è MIGUEL ÁNGEL ZAVALA, il candidato sindaco del Movimento Rigenerazione Nazionale (Morena, partito di sinistra fondato dall’attuale presidente messicano Andrés López Obrador), trovato ucciso a colpi d’arma da fuoco nella sua auto lunedì. Poche ore dopo, verso mezzanotte, la procura statale ha detto di aver trovato morto nello stesso modo anche ARMANDO PÉREZ LUNA, candidato del partito conservatore Azione Nazionale.

   Il leader di Azione Nazionale Marko Cortés ha detto che gli assassini «illustrano quanto sia grave il livello di violenza e mancanza di sicurezza in vista delle elezioni più importanti della storia messicana». In Messico le elezioni si terranno il 2 giugno: in un solo giorno si voterà per eleggere il presidente (che è sia il capo di stato che di governo del paese), entrambe le camere del parlamento, diversi governatori statali e i sindaci di varie città. L’ultima volta che si sono tenute le elezioni erano stati assassinati circa una trentina di candidati, e si teme che quest’anno le persone uccise saranno ancora di più.

   In Messico il numero di omicidi, compresi quelli per motivi politici, è particolarmente alto per via della forte presenza della criminalità organizzata legata al narcotraffico in varie parti del paese, soprattutto quelle più povere. Negli ultimi cinque anni ci sono stati almeno 30mila omicidi all’anno: sono 23 ogni 100mila abitanti, 40 volte più che in Italia, dove sono circa 0,5 ogni 100mila abitanti. (da https://www.ilpost.it/ 27/2/2024)

(MEXICO, REGIONS, MAP. Da https://it.wikivoyage.org/)

…………………..

PER LA DEMOCRAZIA IN AMERICA LATINA SONO TEMPI PERICOLOSI

Jorge Castañeda, da LINKIESTA MAGAZINE https://www.linkiesta.it/, 3/1/2024

   Nel 2000 in tutto il continente era rimasta una sola vera dittatura: Cuba. Poi nel giro di venti anni in molti Paesi sono andati al governo despoti, populisti, estremisti e altri cialtroni di vario tipo

   Nel corso degli ultimi quattro decenni, la maggior parte delle dittature latinoamericane del Ventesimo secolo ha lasciato il posto a un regime democratico. Nel 2000, ogni Stato della regione, con l’eccezione di Cuba, era una democrazia rappresentativa, imperfetta o esemplare che fosse. Oggi questa tendenza è in crisi.

   Dal momento che un sempre crescente numero di governi si trova ad affrontare una paralisi istituzionale, le minacce alla democrazia stanno aumentando anche nelle nazioni in cui le istituzioni sono forti e persiste un certo attaccamento al regime democratico.

   Il caso del Messico è ambiguo. Dal 2018, il presidente Andrés Manuel López Obrador, detto AMLO, ha preso di mira le commissioni elettorali, la Corte suprema e molte istituzioni autonome del Paese nonché importanti intellettuali e giornalisti che hanno avanzato critiche nei suoi confronti. E ha anche conferito un potere immenso ed enormi quantità di denaro all’esercito messicano, che oggi combatte il crimine organizzato ma costruisce anche aeroporti, filiali bancarie e trasporti pubblici e gestisce dogane e porti.

   Con poche eccezioni, finora nessuna di queste misure ha davvero intaccato la fragile e ancora immatura democrazia messicana. La grande domanda riguarda però il modo in cui AMLO affronterà le elezioni presidenziali del prossimo anno (a cui non potrà ricandidarsi, ndr), nelle quali il suo partito rimane il favorito ma che potrebbero rivelarsi più combattute del previsto. Il presidente resisterà alla tentazione di porre tutte le risorse del governo al servizio del candidato del suo partito? Rispetterà la decisione degli elettori in caso di sconfitta del suo candidato? E se invece si rifiuterà di riconoscere la vittoria di un partito dell’opposizione l’esercito si schiererà con lui?

   Il Messico non è Cuba, né il Venezuela, né il Nicaragua – tre Paesi che potrebbero essere considerati delle classiche dittature latinoamericane. Quei tre Paesi hanno dei regimi più dispotici che mai. L’uomo forte venezuelano, Nicolás Maduro, sta nuovamente reprimendo l’opposizione. Ha sciolto le autorità elettorali esistenti e le ha sostituite con delle altre ancora più inclini ai brogli. Ha continuato a tirare per le lunghe i negoziati con i leader dell’opposizione venezuelana e con l’Amministrazione Biden. E ha anche vietato alla leader dell’opposizione, María Corina Machado, di candidarsi alle elezioni presidenziali del prossimo anno, per le quali non è ancora stata fissata una data.

   In Nicaragua, all’inizio di quest’anno, il dittatore Daniel Ortega ha completamente ignorato una risoluzione approvata all’unanimità dall’Organizzazione degli Stati americani che lo esortava a cessare le violazioni dei diritti umani nel Paese. Ortega ha anche espropriato alcune proprietà appartenenti alla Chiesa e ai leader dell’opposizione, mostrando di non tollerare neppure un sussurro di dissenso. E ad agosto ha anche chiuso il principale centro di istruzione superiore del Paese, l’Universidad Centroamericana gestita dai gesuiti.

   A Cuba, invece, il secondo anniversario delle proteste di massa dell’11 luglio 2021 contro il governo è stato accolto con un’ulteriore repressione contro i dissidenti ed è fallito ogni tentativo, compreso quello di Papa Francesco, di liberare i quasi mille prigionieri politici che sono stati arrestati due anni fa. Inoltre, la catastrofica situazione economica di Cuba ha portato quasi il 4 per cento della popolazione a emigrare negli Stati Uniti e in Spagna nel corso del 2022 e del 2023.

   Ma i problemi di Cuba, del Venezuela e del Nicaragua non rappresentano i casi più gravi di arretramento della democrazia a cui si assiste in America Latina. Ci sono dei Paesi in cui la situazione è precipitata più rapidamente, come il Guatemala, l’Honduras ed El Salvador, che avevano dei regimi democratici che lasciavano già molto a desiderare. Nelle elezioni presidenziali guatemalteche di quest’anno ad alcuni rappresentanti dell’opposizione è stato impedito di candidarsi, l’annuncio dei risultati del primo turno è stato ritardato di diversi giorni e il vincitore del ballottaggio di agosto (2023, ndr), Bernardo Arévalo, ha dovuto affrontare continui ostacoli e complotti volti a intralciare il suo insediamento previsto per il gennaio 2024. Lui stesso ha dichiarato che le élite guatemalteche stanno preparando un colpo di Stato contro di lui. Non è detto che ciò avvenga, ma le macchinazioni contro il suo governo sono già iniziate da ben prima dell’inizio del suo mandato.

   In Honduras, la presidente Xiomara Castro ha applicato con la mano pesante una versione delle politiche anti-gang già messe in atto nel vicino El Salvador, una misura che ha determinato incarcerazioni di massa e anche l’arresto di alcuni familiari innocenti dei leader delle gang. Ma la cosa peggiore di tutte è il fatto che il presidente salvadoregno Nayib Bukele stia correndo per la rielezione con una chiara violazione della Costituzione del suo Paese. Bukele sta anche portando avanti il suo approccio law and order che si basa sulle incarcerazioni di massa: in un Paese con meno di sette milioni di abitanti ci sono 68.000 persone in prigione.

   Per quanto riguarda invece il pasticcio peruviano, ancora non se ne vede la fine. L’anno scorso, l’allora presidente Pedro Castillo ha cercato di sciogliere il Congresso e di governare per decreto, ma non ha mai ottenuto il sostegno dei militari al suo tentativo di colpo di Stato. E, perfino in America Latina, i colpi di Stato senza l’appoggio dell’esercito non sono mai stati una buona idea. Castillo è stato quindi rapidamente incarcerato ed è ora in attesa di processo. Nel frattempo, lo ha sostituito la sua vicepresidente, Dina Boluarte, che inizialmente ha promesso di indire le elezioni presidenziali e quelle per il rinnovo del Parlamento per il 2024 o addirittura per la fine del 2023. Ma, dal momento che mancavano gli strumenti legislativi per operare questo cambiamento, ha poi deciso di rimanere al potere fino al 2026. Migliaia di peruviani hanno protestato contro questa decisione. Le organizzazioni per i diritti umani e le Nazioni Unite hanno condannato l’uso sproporzionato della forza da parte del governo contro i manifestanti, più di cinquanta dei quali sono stati uccisi. Nel frattempo, nel Paese la disfunzionalità regna sovrana.

   La disfunzionalità affligge anche gran parte degli altri Paesi del Sud America. Negli ultimi due anni, i nuovi governi del Cile, della Colombia e del Brasile hanno promesso delle riforme sociali serie e coraggiose, manifestando un forte attaccamento al sistema democratico. Questa svolta è stata particolarmente significativa in Brasile, dove lo scorso 8 gennaio i quattro anni da incubo del governo di estrema destra di Jair Bolsonaro sono quasi sfociati in un colpo di Stato. Sono poi emersi dei dettagli che indicano come nell’assalto agli edifici governativi nella capitale Brasília ci sia stata una complicità di alte cariche dell’esercito. Il Tribunale elettorale brasiliano ha vietato a Bolsonaro di candidarsi fino al 2030, ma pare che in Brasile il distacco tra i due principali candidati sia poi stato più sottile di quanto non si pensasse inizialmente. In parte a causa del fatto di aver rischiato la sconfitta e in parte a causa di alcuni ostacoli istituzionali, il presidente Luiz Inácio Lula da Silva ha incontrato maggiori difficoltà del previsto nel mandare avanti la sua agenda economica e sociale in un Parlamento ribelle e spaccato. L’impasse non farà che rafforzare le tentazioni autoritarie dei militari e dell’estrema destra.

   A causa di un quadro istituzionale abbastanza eccezionale (al presidente è consentito un solo mandato di quattro anni), il capo di Stato cileno, Gabriel Boric, sta diventando un’anatra zoppa. Di recente la sua attività di governo è stata funestata da sconfitte elettorali, dal rifiuto da parte del Congresso dei suoi piani di riforma fiscale, da uno scandalo di corruzione nel ministero della Casa, dalle dimissioni di Giorgio Jackson, che era il suo più stretto collaboratore, e da una gestione degli affari esteri ondivaga ancorché improntata a sani principi. Purtroppo, il fatto che Boric venga prematuramente percepito come un’anatra zoppa lascia campo libero alla candidatura di José Antonio Kast, un esponente dell’estrema destra, che ha già perso contro Boric nel 2021 ma rimane uno dei candidati più accreditati in vista delle elezioni presidenziali del 2025. Nel frattempo, sul Cile, che è uno dei Paesi più sicuri dell’America Latina, si è abbattuta l’isterica convinzione che ci sia bisogno di un atteggiamento più law and order e di questi sentimenti beneficiano Kast e i suoi ammiratori.

   La situazione della Colombia assomiglia a quella del Cile, in quanto Gustavo Petro – un promettente presidente di centrosinistra che sembrava avere una chiara maggioranza in Parlamento e un serio programma di riforme fiscali, sanitarie, pensionistiche e del lavoro – si è improvvisamente trovato in una condizione di paralisi politica. Ha ricevuto attacchi da tutte le parti e in Parlamento non può più contare su un sostegno sufficiente.

   Per anni, i sondaggi condotti in America Latina a livello sovranazionale avevano mostrato una diminuzione nell’apprezzamento del sistema democratico da parte dei cittadini. Questo sentimento era attribuibile alle difficili condizioni economiche, alla repressione delle richieste sociali dopo la pandemia e alla presenza di grandi divisioni all’interno dei governi. Sta soprattutto ai latinoamericani controllare che non ci siano ulteriori smottamenti della democrazia nella regione, ma anche gli Stati Uniti hanno un ruolo da giocare.

   Lo hanno fatto in Brasile, dove l’Amministrazione Biden e in particolare il Dipartimento della Difesa hanno contribuito a convincere i militari brasiliani a respingere le richieste di un colpo di Stato. In Messico, invece, l’ambasciatore americano, Ken Salazar, sostiene quasi tutto ciò che López Obrador fa o proclama, comportandosi più come un rappresentante di AMLO presso il governo di Washington che non il contrario.   Per quello che riguarda invece casi chiaramente cronici, come quelli del Nicaragua, di El Salvador, del Venezuela e di Cuba, dove tutto è stato provato e nulla ha funzionato, gli Stati Uniti si comportano con ben poco entusiasmo.

   Quali che siano gli interessi che Washington ha nella regione – il controllo del traffico di droga, i flussi migratori, il petrolio – l’arretramento della democrazia in America Latina ha in tutti questi casi un effetto molto negativo. Il presidente Biden non può fermare da solo questa deriva, ma può aiutare a contenerla. Per ora, però, non sta facendo quasi niente.

(Jorge Castañeda, da LINKIESTA MAGAZINE https://www.linkiesta.it/, 3/1/2024)

……………………….

(Dettagli della carta di Laura Canali su LE ROTTE DEL NARCOTRAFFICO: Le direttrici dei traffici di droga dall’America Latina agli Stati Uniti – 2019, da LIMES https://limesonline.com/)

……………………………..

QUALI SONO I PAESI DELL’AMERICA LATINA PIÙ PERICOLOSI AL MONDO?

da https://it.eseuro.com/internazionale/ 1/3/2024

   Venezuela e Haiti Secondo National Geographic, sono posizionati come i paesi dell’America Latina con il rischio più elevato per i viaggiatori nel 2024. Venezuela si trova al secondo posto, dopo l’Afghanistan, soprattutto a causa della profonda crisi economica che attraversa da più di 10 anni. Tra gli altri motivi per considerarlo pericoloso, ci sono “gli abusi dei diritti umani, la mancanza di assistenza medica di base, i fallimenti delle infrastrutture, la criminalità e il traffico di droga; sono alcuni dei fattori di rischio in un Paese che è nella morsa della crisi politica da più di un decennio.”, dice la rivista.

   Haiti dal canto suo, occupa il posto 4 sulla lista ed è dovuto alla loro “situazione di insicurezza e povertà cronica, aggravata dai disastri naturali e dalla violenza delle bande. Il primo ministro Ariel Henry ha chiesto aiuto internazionale per combattere questa situazione alla fine dello scorso anno”, si legge nella nota del National Geographic. Sia i paesi centroamericani che quelli sudamericani figurano anche nella lista dei paesi più pericolosi del mondo nel 2023.

(…..)

   Oltre al Venezuela e ad Haiti, Honduras, El Salvador e alcune aree della Colombia e del Messico, come Tamaulipas, Colima, Guerrero, Michoacán, Sinaloa e Sinaloa, presentano rischi considerevoli. Questi luoghi, segnati dalla violenza e dalla criminalità organizzata, richiedono ulteriori precauzioni da parte dei viaggiatori. (da https://it.eseuro.com/internazionale/ 1/3/2024)

………………………

(America Centrale, mappa da https://www.mondolatino.it/)

……………………….

FLOP PER LE RIFORME A CUBA, SALE L’INFLAZIONE E CROLLA IL PESO

da ANSA, 3/3/2024

– L’isola affronta la peggiore crisi economica in sessanta anni –

   Le misure economiche introdotte dal governo di Cuba nel tentativo di contenere l’inflazione e dare slancio all’economia sempre più in crisi hanno ottenuto finora l’effetto contrario.

   Da quando il ‘pacchetto economico’ è entrato in vigore, il primo marzo, ha causato infatti un rapido e generalizzato aumento dei prezzi e il crollo della valuta nazionale, con il dollaro che passa di mano alla cifra record di 314 pesos e l’euro a 320.

   Le misure adottate dal governo comprendono l’aumento di oltre il 500% del prezzo del carburante, delle tariffe per i servizi di base – tra cui l’energia elettrica – e dei biglietti per i trasporti a lunga percorrenza. Il governo ha disposto inoltre l’eliminazione del sussidio al paniere alimentare di base.
    La riforma arriva in un momento di profonda crisi per Cuba, che affronta la peggiore recessione economica in sessant’anni, caratterizzata dalla contrazione del pil del 2% (2023), dal tasso di inflazione (a dicembre dello scorso anno) al 30% annuo e da una grave svalutazione della peso. Il risultato a Cuba è che l’88% della popolazione vive in condizione di povertà. Il salario minimo sull’isola è inferiore a 7,5 dollari, il salario medio mensile raggiunge a malapena i 15 dollari e le pensioni minime non superano i 5 dollari al mese. Redditi insufficienti rispetto al costo della vita tanto che nei giorni scorsi il governo è stato costretto per la prima volta nella storia a chiedere aiuto al Programma alimentare mondiale (Pam) dell’Onu per l’impossibilità di garantire il latte per i bambini fino a sette anni.  In precedenza le autorità avevano annunciato di avere scorte necessarie per garantire la produzione di pane solo fino alla fine del mese.
    La crisi economica, la mancanza di cibo e l’incertezza sul futuro del Paese hanno causato negli ultimi due anni il più grande esodo dall’isola dalla rivoluzione castrista del 1959.
    Tra il 2022 e il 2023 almeno 533.000 cubani – circa il 5% della popolazione – hanno lasciato l’isola per gli Stati Uniti; 37.000 hanno chiesto rifugio in Messico, e 22.000 hanno scelto l’Uruguay; oltre a quelli che si sono trasferiti illegalmente in molti Paesi dell’America latina e in Europa, soprattutto in Spagna. (da ANSA, 3/3/2024)

………………………

(MAPPA AMERICA LATINA, ripresa da https://iari.site/) – Con l’espressione America Latina si intende comunemente la parte dell’America composta dagli Stati che furono colonizzati da nazioni  quali Spagna, Portogallo e Francia, in cui si parlano per eredità culturale lingue neolatine, quali lo spagnolo, il portoghese e il francese. L’America Latina così definita comprende dunque il Messico, il Centroamerica e il Sudamerica. (da Wikipedia)

……………………..

SULL’ORLO DEL BARATRO: L’AMERICA LATINA TRA GUERRA, RESISTENZE ED ESTALLIDOS

di Christian Peverieri, da https://www.globalproject.info/it/, 1/2/2024

– «Con la crisi si amministra la paura e con la paura, come sappiamo dai tempi di Machiavelli, si esercita il potere». –

   In tutto il mondo la guerra è sempre più l’elemento costitutivo di questa nuova fase di riassestamento del capitalismo. Dall’Ucraina a Gaza a tutte le altre guerre dimenticate o “normalizzate”, la popolazione mondiale si sta assuefacendo a uno stato emergenziale – di crisi e di guerra permanente -dove le vittime civili perdono anche la doverosa compassione umana diventando freddi numeri statistici a cui nessuno sembra farci più caso. Anche in America Latina lo status di guerra ha invaso la vita pubblica pur con modalità differenti e meno plateali delle guerre sopra citate, ma mantenendo uguali gli effetti devastanti sulla popolazione e i territori e i benefici sempre più eccezionali per il capitalismo.

   A differenza del mondo occidentale dove quasi sempre lo status di guerra è accompagnato dalla retorica dello scontro di civiltà o di difesa dello Stato-Nazione, in America Latina il nemico è interno.

   Nemico interno che il più delle volte è quella stessa criminalità organizzata a cui lo Stato ha regalato potere e impunità attraverso la “dichiarazione di guerra”, l’emanazione di politiche economiche neoliberiste che producono impoverimento e miseria tra la popolazione e la repressione delle forme di resistenza e autonomia presenti in tutto il continente. Nemico interno è però anche quella parte significativa della popolazione emarginata, impoverita, vulnerabile, soggettività e minoranze che chiedono e lottano per i diritti e per la difesa dei territori e che smascherano le disuguaglianze crescenti e le enormi contraddizioni del capitalismo e dei suoi alfieri.

   A complicare il quadro lo scontro tra la Cina e gli Stati Uniti per il controllo politico ed economico della regione e la crisi irreversibile delle democrazie, travolte da corruzione e collusione e dove la sottile linea che separa lo Stato o le multinazionali dalle organizzazioni criminali diventa sempre più invisibile al punto da non scorgere più la differenza tra le attività legali e quelle illegali.

IL CASO ECUADOR: LA GUERRA “INVENTATA”.

Il 2024 si è aperto con l’acuirsi della crisi sociale e politica in Ecuador. L’ondata di violenza che Continua a leggere

INDONESIA, terzo paese popoloso al mondo, con un passato dittatoriale, ha votato come presidente PRABOWO SUBIANTO ex comandante delle forze speciali con il dittatore Suharto: primo segnale di un 2024 difficile nelle tante elezioni nel mondo? – Indonesia, la cui capitale JAKARTA sprofonda inghiottita dal mare (e nascerà NUSANTARA)

(PRABOWO SUBIANTO, nuovo probabile presidente dell’Indonesia, e il suo giovane vicepresidente Gibran Rakabuming Raka, figlio del finora presidente Joko Widodo, foto da https://www.ilsole24ore.com/)
 
L’attuale ministro della difesa Prabowo Subianto, un ex generale ai tempi della dittatura, si è proclamato il 14 febbraio vincitore delle elezioni presidenziali già al primo turno, dopo che le prime proiezioni lo davano in netto vantaggio.
“È la vittoria di tutti gli indonesiani”, ha affermato l’ex generale nel corso di un discorso pronunciato a Jakarta in presenza del candidato vicepresidente Gibran Rakabuming Raka, figlio maggiore dell’attuale presidente Joko Widodo.
Secondo le prime proiezioni, Subianto, il grande favorito della vigilia, ha ottenuto più del 55 per cento dei voti, precedendo Anies Baswedan, ex governatore di Jakarta, e Ganjar Pranowo, ex governatore della provincia di Java Centrale. (dalla rivista INTERNAZIONALE, 14/2/2024)

………….

INDONESIA: senza rivali PRABOWO SUBIANTO, ex sodale del dittatore Suharto

di Samuele Finetti, da “il Corriere della Sera” del 14/2/2024

   Ha perso la prima volta. Ha perso la seconda. La terza (a men colpi di scena) sarà quella buona. Perché JOKOWI WIDODO, che lo ha sconfitto nel 2014 e nel 2019, non poteva candidarsi e, per di più, sta dalla sua parte. Così l’ascesa di Prabowo Subianto alla presidenza dell’Indonesia sembra non avere ostacoli.

   E per questo enorme Paese (è la terza democrazia al mondo: 280 milioni di abitanti quasi tutti musulmani, la metà ha meno di 30 anni) può essere un ritorno al passato. Perché se WIDODO è un ex commerciante di mobili cresciuto in una baracca, il 72enne Subianco è il rampollo di una delle più importanti famiglie dell’Indonesia autoritaria che SUHARTO guidò per 32 anni (dal 1966 al 1998): fu a lungo il capo delle forze speciali dell’esercito e sposò una delle figlie del dittatore.

   Sperava di diventare presidente già nel 1998, quando il regime giunse al capolinea, ma non ebbe fortuna. Forse perché quel regime lo aveva difeso fino alla fine, mandando i suoi soldati a zittire con la violenza le proteste in piazza: lui stesso ha ammesso di aver fatto rapire decine di studenti, poi scomparsi nel nulla. Perciò si inflisse un lungo esilio volontario in Giordania, prima di ritornare in patria per provarci di nuovo.

   Finora gli è sempre andata male. L’ultima volta cinque anni fa, quando arrivò a contestare davanti alla Corte Costituzionale la vittoria di Widodo, salvo poi diventarne ministro della Difesa. Proprio il legame nato allora con il presidente, che non può correre per un terzo mandato, ne ha fatto il grande favorito. Widodo gode di un consenso senza pari nel mondo democratico, oltre l’80 per cento; e se è vero che non ha mai sostenuto esplicitamente Subianto, ha spinto suo figlio Gibran Rakabuming ad affiancarlo nel ticket come vice presidente. Gibran non avrebbe potuto candidarsi perché troppo giovane, ma la Corte, guidata dal cognato di Widodo, ha annullato il divieto in extremis.

   Nell’elezione di Subianto molti vedono lo spettro degli anni della dittatura. In campagna elettorale l’ex militare ha abbandonato i toni nazionalistici adottati in passato, presentandosi come un “nonno dalla faccia da bimbo” pronto a servire il Paese. Ma non ha risparmiato le critiche alle istituzioni, affermando di voler ripristinare la Costituzione del 1945, che non contemplava l’elezione diretta del presidente. Un suo sostenitore ha persino condiviso sui social un video con un falso Suharto (ricreato con l’IA) che invita di stare dalla parte di Subianto.

   Ma gran parte di chi è andato a votare pare non farci troppo caso. Del resto, metà di loro è cresciuto nell’Indonesia del nuovo secolo, senza avere idea di cosa fosse quella di Suharto e del suo clan.

(Samuele Finetti, da “il Corriere della Sera” del 14/2/2024)

…………….

(INDONESIA, nell’immagine tutta la parte bianca dei territori segnati, mappa da https://it.wikipedia.org/) – “(…) L’Indonesia è uno stato che sulla carta si può in gran parte sovrapporre ai confini del sud-est asiatico marittimo. E’ il più grande stato arcipelagico del mondo, comprende oltre 17mila isole tra l’Oceano Indiano e il Pacifico per oltre 5000 chilometri, poco meno della distanza tra Roma e Delhi. (…)” (Massimo Morello, da https://www.ilfoglio.it/)

………………….

(Più di 205 milioni di elettori nelle 17.000 isole e nei tre fusi orari dell’Indonesia hanno potuto votare nelle elezioni di un giorno più grandi e complesse del mondo, foto da https://bbc.com/)

LE ELEZIONI IN INDONESIA DEL 14 FEBBRAIO

di Massimo Morello, da https://www.ilfoglio.it/, 14/2/2024

– Oltre 200 milioni di elettori sono andati alle urne per eleggere il presidente, il vicepresidente e i loro rappresentanti a ogni livello politico e amministrativo di quello che è il quarto paese al mondo per popolazione, il più grande stato arcipelago del mondo –

   NUSANTARA è un termine sanscrito poi Malay che rappresenta un grande regno marino. Un regno esistito solo in una geografia che raggruppava coste e isole unite dai traffici, dalle rotte dei mercanti, dai porti, dalle tradizioni marittime. E’ stato anche definito il “Sud-est asiatico marittimo”. Nusantara è il nome della futura capitale indonesiana. Un’immensa cattedrale sorta deforestando un’immensa parte del Kalimantan, il Borneo Indonesiano. Nusantara dovrebbe essere ufficialmente inaugurata il 17 agosto di quest’anno, in coincidenza del giorno della proclamazione dell’indipendenza nel 1945 (dal dominio coloniale degli Olandesi, NDR).

(…..)

   L’Indonesia, dunque, è uno stato che sulla carta si può in gran parte sovrapporre ai confini del sud-est asiatico marittimo. E’ il più grande stato arcipelagico del mondo, comprende oltre 17mila isole tra l’Oceano Indiano e il Pacifico per oltre 5000 chilometri, poco meno della distanza tra Roma e Delhi. Geopoliticamente controlla i più critici chokepoint (“choke points”: colli di bottiglia, passaggi di mare stretti e obbligati in cui le navi devono passare per potersi spostare tra mari e oceani diversi; chi li controlla, controlla il commercio globale, NDR) tra i due oceani, dallo stretto di Malacca, a quello di Torres, delimita le linee strategiche di un’ipotetica guerra nel Pacifico occidentale, segna il confine meridionale del Mar della Cina del Sud. L’importanza geopolitica attuale, dunque, è quasi maggiore rispetto al periodo della guerra fredda, quando i primi due presidenti governarono da dittatori col sostegno dei militari: Sukarno spostando l’Indonesia nel fronte antimperialista e comunista, Suharto in quello occidentale e anticomunista caratterizzato da un periodo di stragi di massa.

   A definire l’importanza di queste elezioni sono altre due definizioni, un po’ enfatiche, più relative che reali.   L’Indonesia, infatti è definita la terza democrazia al mondo in ordine di grandezza (dopo India e Usa) e la più grande nazione musulmana moderata. L’elezione del 14, dunque, viene considerata un test dell’integrità di queste definizioni. Quindi, sempre in termini di relativismo, del conseguente effetto contagio sulle altre nazioni dell’Asean (ASEAN: Association of Southeast Asian Nations. L’Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico, fondata nel 1967 e composta da dieci Stati membri, è la più importante organizzazione intergovernativa del Sud-Est asiatico, NDR)

(…)

   Se il finora presidente Jokowi Widodo, più conosciuto come Jokowi, avesse potuto ricandidarsi, molto probabilmente sarebbe stato rieletto, forte di un consenso popolare del 75 per cento. La maggioranza degli indonesiani ha apprezzato la sua politica economica, che sembrava coniugare crescita economica (stabile al 5 per cento annuo circa), sviluppo delle infrastrutture e welfare. Ma poiché non è stato possibile un terzo mandato, Jokowi ha adottato una politica sempre più diffusa in sud-est asiatico, in Thailandia come nelle Filippine: quella dinastica. Ha candidato alla carica di vicepresidente suo figlio Gibran Rakabuming Raka, 36 anni. Alla carica di presidente, in questa “macchinazione machiavellica”, è candidato Prabowo Subianto, ex acerrimo rivale di Jokowi, che lo ha sconfitto nelle due precedenti elezioni, ora convertito a suo ammiratore numero uno.

   Secondo Andreas Harsono di Human Rights Watch in Indonesia, questo rappresenta “il maggior rischio per la democrazia dai tempi di Suharto”, il dittatore che ha governato dal 1965 al ’98. Prabowo, infatti, è un ex generale nonché genero di Suharto, noto per le sue attività di repressione degli indipendentisti a Timor Est e a Papua e per il suo scarso rispetto dei diritti umani.   

   La possibilità di un ritorno all’autocrazia dinastica non sembra disturbare troppo gli indonesiani (…..).

   Non si sa se l’Indonesia abbia assimilato le virtù della democrazia. Sicuramente sembra averne preso molti dei vizi. (Massimo Morello, da “IL FOGLIO”)

………………….

(SUD-EST ASIATICO, mappa da https://pt.wikivoyage.org/)

……………………………

 

(L’importanza dello Stretto di Malacca tra Indonesia e Malesia, mappa da https://it.wikipedia.org/) – L’Indonesia

L’Indonesia “(…) geopoliticamente controlla i più critici chokepoint (“choke points”: colli di bottiglia, passaggi di mare stretti e obbligati in cui le navi devono passare per potersi spostare tra mari e oceani diversi; chi li controlla, controlla il commercio globale, NDR) tra i due oceani, dallo Stretto di Malacca, a quello di Torres, delimita le linee strategiche di un’ipotetica guerra nel Pacifico occidentale, segna il confine meridionale del Mar della Cina del Sud. (…)” (Massimo Morello, da https://www.ilfoglio.it/)

…………………………

 

PRABOWO SUBIANTO SULLA BUONA STRADA PER VINCERE LA CORSA PRESIDENZIALE IN INDONESIA – PRIMI RISULTATI

di Simon Fraser e Jonathan Head, da https://www.bbc.com/, 14/2/2024

Londra e Jakarta

   Il ministro della Difesa indonesiano Prabowo Subianto è sulla buona strada per diventare il prossimo presidente del paese dopo che i primi risultati hanno mostrato che ha avuto più della metà dei voti espressi al primo turno. “Questa vittoria è una vittoria per tutti gli indonesiani”, ha detto ai sostenitori esultanti, poche ore dopo la chiusura dei seggi.

   I primi sondaggi hanno mostrato che il temuto ex generale ha ottenuto oltre il 57% dei voti, evitando il ballottaggio. I risultati completi del più grande voto di un solo giorno del mondo non sono attesi per settimane. Ma i campioni elettorali approvati dallo stato indonesiano – i cosiddetti “conteggi rapidi” eseguiti entro poche ore dal voto – sono stati relativamente accurati negli anni precedenti.

   Prabowo, 72 anni, è una figura polarizzante la cui popolarità ha suscitato timori che l’Indonesia rischi di scivolare di nuovo verso il suo passato autoritario. Ex comandante delle forze speciali sotto il dittatore generale Suharto, e suo genero, è stato perseguitato da accuse di violazioni dei diritti umani.

   È stato accolto da una folla di sostenitori festanti in un’arena al coperto a Jakarta poco dopo la chiusura dei seggi e ha avvertito i sostenitori esultanti di non essere arroganti. “Anche se dobbiamo essere grati, non dobbiamo essere arroganti, non euforici, rimanere umili; questa vittoria deve essere una vittoria per tutto il popolo indonesiano“, ha detto Prabowo, che guida la Coalizione Indonesia avanzata. Ha anche menzionato i nomi degli ex presidenti, inclusa una nota di gratitudine al presidente uscente Joko Widodo, di cui ha promesso di portare avanti le politiche.

   Questo è il terzo tentativo elettorale che fa: si è candidato nelle ultime due elezioni senza successo contro Widodo, che rimane molto popolare. Tuttavia, l’uomo noto come “Jokowi” deve ora dimettersi dopo due mandati di cinque anni.

   Molti elettori si sono detti delusi dalle loro opzioni di voto. “La difficoltà di queste elezioni è che nessuna delle scelte è chiara sui programmi, quindi la sfida per noi elettori è quella di scegliere l’opzione meno peggiore“, ha detto alla BBC un uomo d’affari nel centro di Giacarta. Ma un altro elettore, che attualmente vive in Germania, ha detto che “l’Indonesia ha davvero bisogno di una figura forte“, sostenendo l’idea che l’ex generale ottenga la carica. “Prabowo potrebbe essere un buon presidente“, ha detto.

   Più di 205 milioni di elettori nelle 17.000 isole e nei tre fusi orari dell’Indonesia hanno potuto votare nelle elezioni di un giorno più grandi e complesse del mondo.

Prabowo ha affrontato due ex governatori provinciali, Ganjar Pranowo e Anies Baswedan. In tarda serata, ora locale, i conteggi rapidi li hanno mostrati molto indietro rispetto a lui, rispettivamente con il 17% e il 25%.

Prabowo Subianto ha condotto una campagna sui social media intelligente e ottimista che ha completamente rimodellato la sua immagine, da soldato dalla parlantina dura, a quella di un anziano statista avuncolare, un po’ comico.

   Si è dimostrato molto efficace, in particolare tra i giovani indonesiani che hanno poca conoscenza del controverso passato di Prabowo. Come membro e poi comandante delle forze speciali d’élite indonesiane è stato accusato di gravi violazioni dei diritti umani durante l’occupazione di Timor Est e di aver ordinato il rapimento e la tortura di attivisti studenteschi negli ultimi giorni del regime di Suharto negli anni ’90.

   Nega le accuse e non è stato condannato per nulla. È stato aiutato nelle elezioni dal sostegno di Widodo, che è stato criticato quando suo figlio maggiore, Gibran Rakabuming Raka, si è unito a Prabowo come compagno di corsa. Ci sono stati applausi da parte dei tifosi quando la coppia è entrata nell’arena mercoledì sera. Prabowo ha ricordato loro che devono ancora attendere i risultati ufficiali della commissione elettorale.

   Ma ha detto alla folla festante: “Siamo grati per i rapidi risultati del conteggio. Tutti i calcoli, tutti i sondaggisti, compresi quelli dalla parte dei nostri rivali, hanno mostrato una vittoria di Prabowo-Gibran in un solo turno”.

   Data l’entità del vantaggio iniziale di Prabowo, ci sono stati pochi segnali di ottimismo da parte dei suoi avversari. Anies Baswedan, il suo sfidante più vicino, ha detto che ha intenzione di continuare il suo movimento per il cambiamento e ha sottolineato che il conteggio dei voti non è finito. “Aspetteremo il risultato ufficiale e lo rispetteremo”, ha detto ai giornalisti il leader della Coalizione per il cambiamento per l’unità (KPP) ed ex governatore di Jakarta nel quartier generale della sua campagna.

   Ganjar Pranowo, il cui Partito Democratico Indonesiano di Lotta (PDI-P) ha sostenuto le corse elettorali di Widodo, era stato indicato come suo successore fin dall’inizio, prima che quest’ultimo prendesse le distanze dalla campagna del suo partito. Ganjar non si vedeva da nessuna parte quando la BBC Indonesian ha visitato il suo quartier generale nel centro di Jakarta. “Ganjar se n’è andato, dicendo solo che voleva tornare a casa. Non so dove sia”, ha detto un giornalista.

   Anche dopo 10 anni al potere, il presidente uscente Widodo ha un alto indice di gradimento nella più grande economia del sud-est asiatico, grazie al suo stile di leadership informale e ai suoi progetti infrastrutturali. Ma è stato accusato di aver indebolito le istituzioni democratiche indonesiane e aver abusato del suo potere nella sua alleanza con Prabowo.

   Per molti indonesiani, la vittoria di Prabowo segna una nuova e preoccupante direzione per la loro giovane democrazia.

(Simon Fraser e Jonathan Head, da https://www.bbc.com/, 14/2/2024)

……………………..

(Un muro costiero a Giacarta, foto ripresa da https://www.wired.it/) – “(…) Diversi studi hanno concluso che il nord di Giacarta è il settore della città più colpito, in conseguenza della sua vicinanza al Mar di Giava. Gli esperti dicono che quest’area sprofonda fino a 25 centimetri ogni anno. In questo settore della città, gli abitanti devono la loro sopravvivenza unicamente a un muro alto cinque metri che si snoda lungo la costa, l’unico muro che protegge la città dall’oceano. (…)” (Christian Garavaglia –Meteored Argentina-, da https://www.ilmeteo.net/, 5/8/2023)

………………….

(La città di Giacarta è al 40 per cento sotto il livello del mare; un dato che potrebbe salire al 95 per cento entro il 2050. Foto dal sito https://www.ilmeteo.net/)

………………………

PERCHÉ LE ELEZIONI IN INDONESIA POSSONO SPOSTARE GLI EQUILIBRI IN ASIA

di Lorenzo Lamperti, 14/2/2024, da https://www.wired.it/

– Principale economia della regione, attrae l’interesse di Cina e Stati Uniti per le sue grandi riserve di nichel. Ma il favorito è un generale accusato di crimini di guerra –

   Nell’anno più elettorale di sempre, dopo Taiwan e prima dell’India, si è votato anche in un altro cruciale snodo degli equilibri asiatici: l’Indonesia. (…..)

   Il voto è osservato con attenzione da Cina e Stati Uniti, anche per la rilevanza economica dell’Indonesia, che possiede immense riserve di nichel. Si tratta di una risorsa fondamentale per lo sviluppo dei veicoli di nuova generazione. Ma l’esito delle elezioni darà indicazioni rilevanti anche sullo scacchiere internazionale, visto il ruolo sempre più rilevante che Giacarta ricopre all’interno del cosiddetto “Sud globale”, di cui si definisce portavoce in seno al G20. Ma le ragioni per cui il voto è importante sono diverse.

I NUMERI

L’Indonesia è il quarto Paese più popoloso al mondo ed è la più grande democrazia con maggioranza musulmana. Anche i numeri riflettono bene questi elementi: sono 204,8 milioni gli indonesiani che hanno diritto al voto, con età minima fissata a 17 anni. Nella sola isola di Giava, dove si trova la capitale Jakarta, è di 115,4 milioni il numero di elettori registrati. Oltre alla presidenza, sono in palio ben 20.616 posti tra parlamento nazionale e consigli provinciali. In corsa ci sono addirittura 258.602 candidati per le varie posizioni.

   I seggi per la Camera bassa del parlamento sono 580, con 18 partiti che si battono per le elezioni legislative. Tra i candidati ci sono anche degli “impresentabili”, visto che sono almeno 56 quelli con varie condanne per frode. Il candidato alla presidenza Prabowo Subianto, al terzo tentativo, è stato in passato addirittura accusato di crimini contro l’umanità. L’attenzione degli indonesiani per queste elezioni sembra alta. I quattro dibattiti televisivi tra i candidati alla presidenza sono stati seguiti in media da 94 milioni di telespettatori. Gli ultimi comizi di sabato 10 febbraio sono stati seguiti da centinaia di migliaia di elettori. Da domenica è iniziato il periodo di silenzio elettorale, anche se gli ultimi sondaggi davano Prabowo in vantaggio su tutti i rivali. I seggi resteranno aperti per sei ore e già nella serata di mercoledì si dovrebbero avere i primi risultati.

   Per vincere al primo turno, Prabowo deve superare il 50% dei voti. Qualora si fermasse al di sotto, sarebbe necessario un ballottaggio tra i primi due qualificati, da svolgere il 26 giugno. In ogni caso, il nuovo presidente entrerà in carica il prossimo 20 ottobre. Prima di allora, Widodo vorrebbe lasciare in eredità lo spostamento della capitale dalla congestionata Jakarta a Nusantara, nel Borneo.

IL FAVORITO

Sarebbe sembrato impossibile fino a qualche anno fa, eppure è successo. Widodo ha deciso prima di “normalizzare” il suo più grande oppositore, Prabowo Subianto, nominandolo ministro della Difesa nel suo secondo mandato. E poi ha incredibilmente deciso di appoggiarne la candidatura alla sua successione, dando addirittura il via libera al ticket con suo figlio per la vicepresidenza. La storia di Prabowo è tutt’altro che priva di ombre. Congedato dalle forze armate per presunte violazioni dei diritti umani, esiliato in Giordania e in passato bandito dagli Stati Uniti, l’ex comandante delle forze speciali ha provato a operare una ambigua trasformazione da quando è stato nominato ministro della Difesa nel 2019.

Proveniente da una famiglia indonesiana d’élite e un tempo genero del presidente dittatore Suharto, Prabowo è accusato di essere coinvolto nel rapimento di studenti attivisti nel 1998 e in violazioni dei diritti umani in Papua e a Timor Est. Prabowo ha sempre negato ogni responsabilità e i sondaggi suggeriscono che il suo rebranding sta funzionando. Lui si è gettato sui social media, cercando di attrarre voti dai giovani, il segmento di popolazione più corteggiato dai vari candidati, visto che più della metà degli elettori indonesiani ha meno di 40 anni.

   I suoi 9 milioni di follower su Instagram possono vedere immagini del suo lavoro quotidiano, dei suoi gatti, ma anche ritratti artistici in bianco e nero e fotografie di famiglia d’epoca. Su TikTok si è anche cimentato in passi di danza goffi, ma efficaci. Nella campagna Prabowo ha provato a mostrarsi più moderato e più morbido, per far dimenticare il suo passato che peraltro buona parte dell’elettorato più giovane nemmeno conosce. Nelle precedenti tornate elettorali era invece emerso con maggiore chiarezza il suo volto nazionalista e filo islamista.

   Altamente strategica la scelta del figlio di Widodo, Gibran Rakabuming Raka, come suo vice. Gibran ha solo 36 anni e teoricamente non avrebbe potuto candidarsi secondo la legge indonesiana. A pochi mesi dal voto, però, la Corte suprema ha rimosso il vincolo dei 40 anni per candidarsi a presidenza e vicepresidenza. Una decisione contestata e a dir poco controversa che spiana la strada al nuovo rampollo della dinastia Widodo.

GLI SFIDANTI

I principali rivali di Prabowo sono due. Il primo è Ganjar Pranowo, un nome molto diverso per la sua estraneità all’establishment politico e militare. Sulla carta sembrava proprio lui l’erede designato di Widodo, con cui condivide le origine umili e l’etichettò di “uomo del popolo”. Figlio di un poliziotto e cresciuto nel negozietto gestito dalla famiglia, Ganjar si è trovato però orfano del sostegno del presidente uscente, elemento che gli complica non poco i piani visto che la sua visione politica è in molti punti affine a quella di Widodo.

   Apprezzato durante i due mandati da governatore di Giava centrale, si è impegnato a creare 17 milioni di nuovi posti di lavoro, a espandere l’assistenza sociale e ad aumentare l’accesso all’istruzione superiore per i poveri. Già in passato ha costruito il suo consenso proprio grazie a politiche che hanno ridotto i tassi di interesse sui micro-prestiti. Ha inoltre aiutato gli agricoltori ad acquistare fertilizzanti e imposto ai dipendenti pubblici di devolvere il 2,5% del loro stipendio mensile a sostegno di programmi sanitari, educativi e di soccorso in caso di disastri.

   Il terzo incomodo, in realtà con indici di gradimento molto vicini a quelli di Ganjar, si chiama Anies Baswedan. Si tratta di un esponente dell’élite intellettuale indonesiana. Ex studioso Fulbright e docente universitario, aveva già cercato la candidatura presidenziale nel 2013 con il Partito democratico, fallendo. Anche lui è poi diventato un collaboratore di Widodo, scrivendone addirittura i discorsi, per poi essere nominato ministro dell’Istruzione e governatore della capitale Jakarta.

   Proprio la sua eloquenza e chiarezza espositiva gli hanno consentito di vincere i dibattiti televisivi contro i rivali, aumentando le sue quotazioni nonostante si presenti come candidato indipendente. La sua campagna ha un afflato idealistico, visto che Anies promette non solo una crescita equa tra le varie classi sociali e generazioni, ma anche la protezione della democrazia del Paese. Non a caso la sua linea è molto ostile a quella di Prabowo, presentato come una minaccia ai valori democratici. Ma qualche polemica c’è stata anche su di lui, per aver accettato l’appoggio di alcuni gruppi islamisti integralisti quando era governatore di Jakarta, ruolo in cui comunque è stato elogiato per la gestione del Covid-19. Come i rivali, sta cercando di conquistare il voto dei giovani. Nel suo caso, facendo live streaming dalla sua auto e imitando i cantanti più celebri del K-Pop, genere musicale amatissimo in Indonesia.

I TEMI

Secondo un sondaggio di settembre di Indikator Politik Indonesia, il 31% degli intervistati ha indicato il mantenimento dei prezzi dei beni di prima necessità come la questione più urgente per il prossimo presidente. Creare posti di lavoro e ridurre la disoccupazione è stato il secondo problema più citato, con gli elettori più giovani particolarmente preoccupati per la sicurezza del lavoro. I dati governativi mostrano che il tasso di disoccupazione del Paese è sceso al 5,3% lo scorso agosto rispetto al recente picco del 2020. Tuttavia, la disoccupazione tra i lavoratori più giovani è stata relativamente alta, con un 17% per i giovani tra i 20 e i 24 anni nel 2022.

   Di fronte l’Indonesia ha ancora poco più di 15 anni di vantaggi strategici, utili a massimizzare i benefici economici. Dopo il picco tra il 2030 e il 2040, la curva demografica dovrebbe iniziare a invertirsi, avviando il calo come già altrove in Asia orientale. Da allora, sarà più difficile per l’Indonesia evitare la trappola del reddito medio e impedire che la crescita economica pro capite si arresti. Ecco uno degli altri motivi per i quali queste elezioni ono percepire come particolarmente importanti.

   Il decennio di Widodo è comunque generalmente visto come un periodo di stabilità e prosperità. Non sorprende che i candidati si siano impegnati a portare avanti la maggior parte delle sue iniziative. Tra queste, lo sviluppo dell’attività mineraria a valle per estrarre valore dalle abbondanti risorse naturali, la riduzione dell’energia prodotta dal carbone e il potenziamento delle energie rinnovabili, l’espansione del benessere sociale e la realizzazione di una nuova capitale da 32 miliardi di dollari. Sebbene i candidati abbiano sciorinato obiettivi ambiziosi di crescita fino al 7% (che gli economisti indicano come necessaria per assorbire la sua popolazione sul mercato del lavoro) e di creazione di milioni di posti di lavoro, le loro promesse elettorali sono ampiamente prive di dettagli specifici.

   Le elezioni in Indonesia daranno anche un interessante riscontro sullo stato dei diritti in Asia e in generale sulla percezione di questi temi tra gli elettori. Non sembra così strano che tanti elettori giovani sembrano apprezzare Prabowo: semplicemente non si ricordano o non “sentono” il suo controverso passato. Così come nelle Filippine gli elettori non hanno ricordato o sentito il passato di Ferdinand Marcos Junior, consegnando nel 2022 la presidenza al figlio del celebre dittatore. Per le elezioni presidenziali di Taiwan del 2028 circola già tra le opzioni quella di Chiang Wan-an, pronipote di Chiang Kai-shek.

IL NICHEL

Quando Widodo ha assunto la presidenza dell’Indonesia nel 2014, le esportazioni di nichel, il minerale fondamentale per le batterie dei veicoli elettrici, ammontavano ad appena 1 miliardo di dollari. Un decennio dopo, quella cifra è salita a 30 miliardi di dollari: è solo uno dei settori trasformati sotto il suo mandato dal boom della domanda di energia di nuova generazione. Un pacchetto di riforme approvato lo scorso anno ha peraltro alleggerito le restrizioni sugli investimenti stranieri. Esortando le aziende a lavorare il nichel a livello nazionale, Widodo ha sostenuto lo sviluppo di un’industria responsabile della metà della produzione mondiale.

   Il divieto di esportazione del minerale di nichel e della bauxite, un componente dell’alluminio, ha costretto le aziende straniere a spostare la lavorazione a terra, investendo miliardi di dollari in fonderie e impianti di produzione di batterie. La corsa al nichel ha innescato un boom nei mercati dei capitali indonesiani. Secondo la società di consulenza EY, l’anno scorso le quotazioni di produttori di nichel come Harita Nickel e Merdeka Battery hanno reso la borsa di Jakarta una delle prime cinque al mondo per volume di offerte pubbliche iniziali.

   Gli investimenti diretti esteri nell’industria mineraria e dei metalli di base hanno raggiunto i 16 miliardi di dollari nel 2022, in gran parte provenienti da aziende cinesi che dominano l’industria del nichel in Indonesia, mentre gli investimenti diretti esteri totali hanno raggiunto i 45,6 miliardi di dollari, un record. Proprio a inizio febbraio, il principale produttore cinese di auto elettriche Byd ha annunciato un investimento di 1,3 miliardi di dollari per costruire una fabbrica di veicoli elettrici in Indonesia con una capacità di 150.000 veicoli. Negli ultimi mesi, però, il flusso di investimenti ha subito un rallentamento in attesa di avere delle indicazioni sulle politiche della nuova amministrazione.
   Prabowo garantisce che proseguirà le politiche del suo ex rivale. E così fanno anche Ganjar e Anies, in particolare quando si parla di nichel e apertura agli investimenti internazionali. Anche gli Stati Uniti stanno cercando di recuperare il terreno perduto e mirano a un accordo strategico sul nichel, frenato però dalle divergenze geopolitiche, nonostante la visita alla Casa Bianca di Widodo dello scorso novembre.

LO SCACCHIERE INTERNAZIONALE

Il voto è osservato con grande attenzione anche da Cina e Stati Uniti. Con la sua politica estera non allineata, l’Indonesia è sempre un ottimo barometro per capire gli equilibri del Sud-Est asiatico. Un contesto in cui le relazioni della Cina con le Filippine sono sempre più tese, così come presentano dei problemi quelle col Vietnam. Con Jakarta, invece, il clima pare idilliaco soprattutto sul fronte commerciale. Durante i due mandati di Widodo c’è stato un aumento di oltre otto volte degli investimenti esteri cinesi.

   Lo scorso 2 ottobre, dieci anni esatti dopo il lancio della Nuova Via della Seta marittima con un discorso di Xi Jinping proprio da Jakarta, Widodo ha presenziato al lancio della nuova linea ferroviaria Giacarta-Bandung. Si tratta di uno dei progetti infrastrutturali di punta della Nuova Via della Seta. Vale a dire che è stato realizzato in larga parte con fondi cinesi. Il treno proiettile collega la capitale Giacarta all’importante centro industriale e turistico di Bandung. Velocità massima di 350 chilometri orari per una tratta lunga 142 chilometri. Lungo il percorso, sono in fase di sviluppo nuove aree commerciali. In futuro, potrebbe essere realizzato anche un prolungamento.

   In molti ritengono che una vittoria di Prabowo porterebbe l’Indonesia ancora più vicina alla Cina. Gli altri candidati alle presidenziali hanno segnalato una maggiore diffidenza nei confronti della dipendenza del Paese dalla Cina, ma secondo gli analisti è improbabile che la politica estera cambi molto a prescindere da chi vincerà. Con Prabowo, inoltre, la distanza con l’occidente su alcuni temi chiave potrebbe aumentare. Sul Medio Oriente, la posizione dell’Indonesia è già nettamente schierata contro Israele, con cui il Paese non ha nemmeno relazioni diplomatiche ufficiali.

   Widodo ha però evitato di farsi percepire come vicino alla Russia di Vladimir Putin dopo la guerra in Ucraina. Prabowo ha invece suscitato qualche perplessità lo scorso giugno, quando al forum di difesa Shangri-La di Singapore ha proposto una pace alla coreana: cessate il fuoco immediato, zona demilitarizzata di 15 chilometri da entrambi i lati con invio di forze di peacekeeping delle Nazioni Unite. E infine il punto più controverso e che più fa arrabbiare Kyiv e l’occidente: un referendum nei territori che definisce “contesi” per stabilire da che parte dovranno stare.

(Lorenzo Lamperti, 14/2/2024, da https://www.wired.it/)

……………………

(NUSANTRA, la nuova capitale dell’INDONESIA in costruzione; foto da https://www.ilmeteo.net/) – “(…) I lavori di ‘Nusantara’ sono già iniziatiSecondo quanto riportato da El País, i lavori si stanno svolgendo in mezzo alla giungla, precisamente nella giungla del Kalimantan nel Borneo, isola che l’Indonesia condivide con Malaysia e Brunei. Se i progressi saranno mantenuti a un buon ritmo, la prima fase di costruzione potrebbe essere inaugurata entro la fine del 2024, quando terminerà il mandato del presidente.   La superficie della nuova capitale è di 2.600 chilometri quadrati, un’area simile a quella di Tokyo e quattro volte più grande di quella di Madrid. Secondo le previsioni del governo, ‘Nusantara’ sarà una città futuristica e rispettosa dell’ambiente, che vuole essere pioniera nello sviluppo dell’energia verde. (…)” (Christian Garavaglia (Meteored Argentina), da https://www.ilmeteo.net/ 5/8/2023)

…………………………..

(da JAKARTA a NUSANTARA, mappa da https://www.geopop.it/) “(…) NUSANTARA è un termine sanscrito poi Malay che rappresenta un grande regno marino. Un regno esistito solo in una geografia che raggruppava coste e isole unite dai traffici, dalle rotte dei mercanti, dai porti, dalle tradizioni marittime. E’ stato anche definito il “Sud-est asiatico marittimo”. Nusantara è il nome della futura capitale indonesiana. Un’immensa cattedrale sorta deforestando un’immensa parte del Kalimantan, il Borneo Indonesiano. Nusantara dovrebbe essere ufficialmente inaugurata il 17 agosto di quest’anno, in coincidenza del giorno della proclamazione dell’indipendenza nel 1945 (dal dominio coloniale degli Olandesi, NDR). (…)” (Massimo Morello, da https://www.ilfoglio.it/)

………………

GIACARTA SPROFONDA DI 7,5 CENTIMETRI L’ANNO: L’INDONESIA SI PREPARA A SPOSTARE LA CAPITALE NELL’ISOLA DEL BORNEO

di Christian Garavaglia (Meteored Argentina), da https://www.ilmeteo.net/ 5/8/2023

– La città di Giacarta è al 40% sotto il livello del mare, un dato che potrebbe salire al 95% entro il 2050. I lavori di ‘Nusantara’ sono già iniziati, e la polemica è latente –

   Il parlamento indonesiano ha approvato un disegno di legge per spostare la capitale dalla città di Giacarta in una città completamente nuova da costruire nell’isola del Borneo, a 1.300 chilometri dall’attuale capitale.

   La decisione, Continua a leggere