MARC AUGÉ e lo studio della nostra TRIBÙ quotidiana – Una nuova ANTROPOLOGIA con suoi neologismi: SURMODERNITÀ…, o NONLUOGHI: spazi estranianti senza storia (metrò, autogrill, centri commerciali, aeroporti…; ma anche CAMPI PROFUGHI: zone di transito divenute stabili per i poveri in fuga del pianeta e rifiutati dal mondo ricco)

MARC AUGÉ (foto da https://www.open.online/)   –   MARC AUGÉ, direttore dell’EHESS (École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi) e noto per le sue importanti ricerche etnografiche è morto all’età di 87 anni. L’annuncio della scomparsa è stato dato da Romain Huret, presidente dell’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, dove Augé ha svolto tutta la carriera accademica e che ha diretto dal 1985 al 1995. Nato a Poitiers, dopo aver contribuito allo sviluppo delle discipline africanistiche ha riportato i frutti teorici elaborati in quell’esperienza dando il via a un’antropologia dei mondi contemporanei attenta alla dimensione rituale del quotidiano e della modernità.

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(FRANCIA, luglio 2023, violenza e saccheggi nelle BANLIEU: Nanterre, Parigi…. Qui sopra è a Marsiglia – foto da www.adnkronos.com/)

“(…) Non sappiamo se Marc Augé (Poitiers, 2 settembre 1935 – 24 luglio 2023), prima di chiudere definitivamente gli occhi, lui che li aveva tenuti ben aperti tutta la vita per decrittare il mondo, abbia avuto modo di riflettere sull’ennesima esplosione di violenza nelle banlieue francesi di tre settimane fa. Si era dedicato con passione al tema e ogni volta che capitava d’incontrarlo non mancava di ribadire un concetto che lo ossessionava.   E che chiamava in causa, soprattutto, il sistema educativo: «Ci sono state crepe in quel sistema che non ci sarebbero dovute essere. Tutti sono andati a scuola ma alcuni lo hanno fatto male, si sono persi, fuorviati. C’è stata una tendenza a lasciare che i fratelli maggiori si occupassero dei più piccoli».   Era il risultato di una frattura risalente agli anni Settanta, «quando è cominciato il fenomeno della disoccupazione di massa. I quartieri simbolo della modernizzazione operaia sono diventati rifugi per persone declassate. E se si trattava di magrebini sono diventati simbolo di sconfitta. Un problema che si è riflesso nelle famiglie e ha provocato tensioni, a volte disprezzo da parte dei figli verso i genitori». (…)” (GIGI RIVA, dal quotidiano DOMANI del 26/7/2023)   –   Quali sono gli errori da non ripetere, anche in base all’esperienza francese? «Quando negli Anni 70 in Francia abbiamo accolto i figli dei migranti economici, originari soprattutto del Nord Africa, non abbiamo capito l’ampiezza del compito che ci aspettava. Questi bambini sono andati a scuola, ma per formarli ci sarebbe voluta una mobilitazione eccezionale. Invece si è pensato che la loro presenza fosse temporanea. Questi giovani si sono sentiti accettati solo in apparenza: erano francesi certo, ma di serie B. È stata una politica incompleta e poco coraggiosa». (Laura Aguzzi, da “La Stampa” del 13/5/2016)

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COSÌ MARC AUGÉ CI HA COSTRETTO A GUARDARCI ALLO SPECCHIO

di GIGI RIVA – scrittore, dal quotidiano DOMANI del 26/7/2023

– È stato l’antropologo della post-modernità e ha scoperto lati di noi che cerchiamo di ignorare – Ha applicato alla società occidentale i metodi di indagine usati in genere per le tribù esotiche – È diventato celebre per la definizione di non-luoghi, applicata a tutte quelle realtà cittadine che non posseggono un’anima –

   Non sappiamo se Marc Augé (Poitiers, 2 settembre 1935 – 24 luglio 2023), prima di chiudere definitivamente gli occhi, lui che li aveva tenuti ben aperti tutta la vita per decrittare il mondo, abbia avuto modo di riflettere sull’ennesima esplosione di violenza nelle banlieue francesi di tre settimane fa. Si era dedicato con passione al tema e ogni volta che capitava d’incontrarlo non mancava di ribadire un concetto che lo ossessionava.

   E che chiamava in causa, soprattutto, il sistema educativo: «Ci sono state crepe in quel sistema che non ci sarebbero dovute essere. Tutti sono andati a scuola ma alcuni lo hanno fatto male, si sono persi, fuorviati. C’è stata una tendenza a lasciare che i fratelli maggiori si occupassero dei più piccoli».

Tornare in Europa

Era il risultato di una frattura risalente agli anni Settanta, «quando è cominciato il fenomeno della disoccupazione di massa. I quartieri simbolo della modernizzazione operaia sono diventati rifugi per persone declassate. E se si trattava di magrebini sono diventati simbolo di sconfitta. Un problema che si è riflesso nelle famiglie e ha provocato tensioni, a volte disprezzo da parte dei figli verso i genitori».

   La scuola, la famiglia. Erano questi àmbiti il terreno d’indagine sotto casa del grande antropologo che ha ribaltato i cliché della sua professione. I comportamenti degli umani si possono e si devono studiare dappertutto, non solo andando alla ricerca degli usi e costumi di qualche tribù esotica.

   Certo era stato in Africa, Costa d’Avorio e Togo soprattutto, o in America Latina, ma aveva capito che gli stessi metodi usati in terre lontane potevano essere straordinariamente utili per indagare la “surmodernità”, le aree evolute dell’Europa metropolitana.

Genio del paganesimo

Compresa la Francia, ovviamente, la terra d’origine che lo aveva issato fino al prestigioso ruolo di direttore dell’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales (Ehess), la Spagna e l’Italia, paesi cugini che ha amato e spesso frequentato. Non accontentandosi di rimanere stretto nel suo ambito ma dilatando il suo sapere all’etnologia, la filosofia, la scrittura.

   Un intellettuale a tutto tondo la cui opera, se non era politica nel senso stretto, era strutturata “politicamente”. Avendo come sostrato quell’idea forte della laicità maturata, per opposizione, proprio studiando le religioni. Non per caso una delle prime opere che lo ha reso famoso ha per titolo Genio del paganesimo (1982, chiara citazione per contrasto al Genio del cristianesimo di Chateaubriand), in cui evidenzia come il paganesimo non oppone lo spirito al corpo né la fede al sapere e postula una continuità tra ordine biologico e ordine sociale.

Non-luoghi

Lo sbocco di tante riflessioni si sostanzia nel 1986 con Un etnologo nel metrò, un viaggio nel sottosuolo dove Marc Augé indaga gli individui che frequentano il fitto reticolo parigino come fossero indigeni della post-modernità, ne svela le solitudini, li mette in relazione con i nomi delle fermate che alludono a passati stratificati, storici o geografici che siano.

   E l’acme della sua produzione sfocia nel 1992 con Non-luoghi, introduzione a una antropologia della surmodernità, l’invenzione di un neologismo che entrerà nei vocabolari dopo essere entrato nel linguaggio comune. Centri commerciali, aeroporti, autostrade, sale d’aspetto, ascensori, sono gli spazi che hanno la prerogativa di non essere identitari, relazionali o storici e sono in antitesi con i luoghi antropologici.

   I non-luoghi sono la rappresentazione fisica dell’epoca in cui viviamo caratterizzata dalla precarietà assoluta e dall’individualismo. Sono prodotti usa e getta, di puro consumo, che nessuno abita e che tutti sfruttano. Zone di transito come il loro opposto, i campi profughi che non simboleggiano il benessere della società opulenta ma l’impossibilità per i migranti di conservare i luoghi d’origine e di raggiungere una meta dove costruire una nuova identità impossibile.

Non-tempo

Nell’evoluzione perenne di un uomo onnivoro, ghiotto di ogni conoscenza, il passo successivo riguarda il tempo. Proprio Che fine ha fatto il futuro? Dai non-luoghi al non-tempo (2008) è il titolo che segna l’ingresso in una dimensione più filosofica.

   Viviamo il presente in una maniera così ingombrante che il qui ed ora si è ingoiato il passato, la precarietà con la sua mancanza di prospettive ha annullato il futuro. E, biologicamente, l’allungarsi delle prospettive di vita, e di una vita in buona salute, ha cancellato la vecchiaia tanto che senza indugi esclama: «La vecchiaia non esiste».

   E, addirittura, in un’intervista a Libération: «Più passa il tempo più ho la sensazione che la morte non esista». Nonostante chi lo ha frequentato ultimamente ha potuto notare le offese degli anni sul suo incedere claudicante.

La bicicletta

C’era, in Marc Augé, un ottimismo di fondo, un dolce abbandonarsi, ad esempio, ai piaceri della buona tavola, una volontà ferrea di gustarsi ogni momento ed ogni occasione.

   Una convinzione profonda nella capacità delle persone di potersi reinventare, simboleggiata, ad esempio, da un oggetto di uso comune. Il bello della bicicletta (2008), secondo lui trasvolata da “mito maturo” a utopia ecologista e democratica.

   I ciclisti come portatori di un nuovo umanesimo che annulla le differenze di classe, induce all’uguaglianza, riconduce l’esistenza delle nostre città a ritmi più sostenibili. L’andamento lento della pedalata è la cadenza sulla riscoperta dei luoghi, antidoto contro i non-luoghi e, in definitiva, anche il sogno di un avvenire più conforme a ciò per cui (anche) siamo nati: la contemplazione.

   Per tutto questo mancherà Marc Augé, certo analista impietoso delle storture della contemporaneità, fustigatore delle disuguaglianze, grillo parlante delle nostre aberrazioni. Ma sempre con lo sconfinato sorriso sulle labbra di chi in fondo conserva una speranza nel genere umano. (GIGI RIVA, dal quotidiano DOMANI)

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(NONLUOGHI, ed. Eleuthera 2009) – Nel 1992 Marc Augé, all’epoca studioso già affermato e direttore a Parigi di uno dei più prestigiosi istituti di ricerca in scienze sociali al mondo (l’École des Hautes Études en Sciences Sociales, EHESS), pubblicò un libro che conteneva già nel titolo l’espressione non-lieux, poi tradotta letteralmente un anno dopo nella prima edizione italiana del libro: Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, di cui seguirono diverse ristampe (la più recente nel 2018). (da https://www.ilpost.it/ 25/7/2023)

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(Marc Augé, la surmodernità, da https://slideplayer.it/)   –   Marc Augè: “la surmodernità”
è definita come modernità portata all’eccesso dovuto alla trasformazione accelerata di tre elementi: 1-TEMPO ≠ principio di intelligibilità. Eccesso di eventi. Accelerazione della storia. 2-SPAZIO restringimento del pianeta (esplorazione e globalizzazione). Sovrabbondanza spaziale (aumento riferimenti immaginifici). Produzione di nonluoghi. 3-INDIVIDUO produzione individuale di senso. Percezione della storia. Problema del senso del presente. (da https://slideplayer.it/ )

Surmodernità: un neologismo da lui coniato in riferimento ai fenomeni sociali, intellettuali ed economici tipici dello sviluppo delle società occidentali alla fine del Novecento, in particolare il superamento della fase postindustriale e la diffusione della globalizzazione. E attribuì a questa nuova fase della modernità la caratteristica dell’“eccesso”: eccesso di avvenimenti che gli storici faticano a interpretare; eccesso di spazi facilmente raggiungibili o fruibili, in cui si moltiplicano i nonluoghi; ed eccesso di ego, cioè la tendenza delle persone a interpretare le informazioni a livello individuale e non sulla base di un significato definito a livello di gruppo. (da https://www.ilpost.it/ 25/7/2023)

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MARC AUGÉ: “LE MIE PERIFERIE NON SONO UN CONCETTO GEOGRAFICO”

Laura Aguzzi, da “La Stampa” del 13/5/2016

   C’è un grande malinteso nel concetto di periferia. Ce lo racconta Marc Augé, (…): «L’errore più comune è applicare una categoria geografia a un problema sociale ed economico. L’idea di periferia esclude quella di centro, ma è un concetto sbagliato. Prendiamo Parigi: ci sono dei quartieri che sono periferici solo in base al tipo di popolazione che vi abita. O la stessa Molenbeek, l’area di Bruxelles divenuta snodo del terrorismo internazionale: non è un quartiere estraneo alla città. Piuttosto alla società».

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Quali sono gli errori da non ripetere, anche in base all’esperienza francese?

«Quando negli Anni 70 in Francia abbiamo accolto i figli dei migranti economici, originari soprattutto del Nord Africa, non abbiamo capito l’ampiezza del compito che ci aspettava. Questi bambini sono andati a scuola, ma per formarli ci sarebbe voluta una mobilitazione eccezionale. Invece si è pensato che la loro presenza fosse temporanea. Questi giovani si sono sentiti accettati solo in apparenza: erano francesi certo, ma di serie B. È stata una politica incompleta e poco coraggiosa». (…..)

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(GRECIA, Lesbo, il CAMPO PROFUGHI di MOIRA, un inferno senza fine – foto da www.repubblica.it)   –   I non-luoghi sono la rappresentazione fisica dell’epoca in cui viviamo caratterizzata dalla precarietà assoluta e dall’individualismo. Sono prodotti usa e getta, di puro consumo, che nessuno abita e che tutti sfruttano. Zone di transito come il loro opposto, I CAMPI PROFUGHI che non simboleggiano il benessere della società opulenta ma l’impossibilità per i migranti di conservare i luoghi d’origine e di raggiungere una meta dove costruire una nuova identità impossibile. (…)” (GIGI RIVA, dal quotidiano DOMANI del 26/7/2023)

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(AEREOPORTI, foto da https://www.ilpost.it/)

nonluoghi sono quegli spazi contrapposti ai luoghi antropologici, quindi tutti quegli spazi che hanno la prerogativa di non essere identitari, relazionali e storici. Sono tutti quegli ambiti adibiti alla circolazione, al consumo e alla comunicazione. Agli occhi dell’autore, questi nonluoghi sono spazi della provvisorietà e del passaggio, spazi attraverso cui non si possono decifrare né relazioni sociali, né storie condivise, né segni di appartenenza collettiva. I nonluoghi sono prodotti della società della surmodernità, incapace di integrare in sé i luoghi storici confinandoli e banalizzandoli in posizioni limitate e circoscritte alla stregua di “curiosità” o di “oggetti interessanti”. I nonluoghi sono incentrati solamente sul presente e sono altamente rappresentativi della nostra epoca, che è caratterizzata dalla precarietà assoluta, dalla provvisorietà, dal transito e dal passaggio e da un individualismo solitario. Le persone transitano nei nonluoghi ma nessuno vi abita. In altre parole, sono tutto il contrario della città storica nella quale le regole di residenza, la divisione in quartieri, delimitava lo spazio e permettevano di cogliere nelle loro linee essenziali le relazioni tra gli abitanti.

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LA PAROLA A MARC AUGÉ
di Sara Capogrossi, da http://www.caffeeuropa.it/ del 24/5/2002
   Docente alla Ecole des Hautes Etudes di Parigi, a conclusione di una prolungata “vacanza” romana in veste di visiting professor presso la cattedra di Marcello Massenzio – storico delle religioni all’Università di Tor Vergata – Marc Augé è stato ospite alla Società geografica italiana, per un’intervista collettiva sui rapporti tra antropologia e geografia e sul possibile dialogo tra le due discipline. Un invito, quello dei geografi italiani, che sembra una risposta al provocatorio tema dei “non-luoghi”, introdotto dall’antropologo francese nel suo libro più famoso e dibattuto: Nonluoghi, per l’appunto (vedi Caffè Europa 151 ). Un testo straordinariamente intenso, che rischia però di oscurare il lavoro del suo stesso autore e di indurre a fraintendimenti.
   Per capire a fondo il significato di quest’opera occorre situarla nel giusto contesto, insiste Massenzio, moderatore dell’incontro, presentando l’ospite francese. Augé nasce, infatti, come etnologo africanista e per lunghi anni studia sul campo società diverse dalle nostre, e perciò tanto più difficili da penetrare. Frutto di queste ricerche sono opere quali Il genio del paganesimo (Bollati e Boringhieri) e Il senso del male, in cui si approfondisce la differenza tra male e malattia. Solo più tardi lo studioso volta lo sguardo dalle società esotiche per dirigerlo sulla nostra realtà: cambia l’oggetto di studio, dunque, e quindi cambia l’approccio; eppure c’è continuità nel suo lavoro.

   Innanzitutto, l’antropologo è interessato alla produzione simbolica del senso, quale che sia l’ambito nel quale si muove. Inoltre, Augé studia la trasformazione della nostra realtà, il farsi altro della nostra società, e soltanto chi, come lui, è abituato a decodificare l’altrui può capire il farsi altro dell’identico, i nostri cambiamenti. Un nuovo modo di pensare il tempo, che ci porta a riflettere sulla fine della storia, sull’incapacità di darsi una prospettiva.

   Sul farsi altro dello spazio, che ci porta ai non-luoghi. E i geografi si sentono giustamente chiamati in causa dall’evocazione di spazi in cui la geografia non avrebbe senso di essere: a questo nodo si riferisce, per l’appunto, la prima domanda rivolta ad Augé da Armando Montanari, direttore della Home of Geography: “Qual è il rapporto tra l’antropologo Augé e la geografia? Noi sappiamo che qualche decennio fa ha compiuto studi in Africa con colleghi francesi. Nelle sue opere ho trovato citate molte discipline: urbanistica, architettura, e così via. Negli ultimi lavori, però, ho riscontrato poca attenzione nei confronti della geografia come scienza. Ritiene che insieme ai non-luoghi non ci sia neppure una geografia?”
   “Quando ho fatto le mie ricerche sul campo, in Africa“, risponde Augé, “certamente la collaborazione con i geografi era non solo necessaria, ma indispensabile, perché entrambi, geografi e antropologi, non possono non prendere coscienza dell’importanza primaria dell’organizzazione dello spazio, di come le varie culture africane mettano in opera il senso dello spazio. Fondamentale per lo studio delle civiltà africane è capire le regole di residenza, che non sono arbitrarie, ma estremamente rigide e perciò è necessario percepire i fondamenti dell’organizzazione sociale, nonché capire la divisione precisa dello spazio. Dunque, gli anni Sessanta e Settanta sono stati all’insegna di una collaborazione forte fra geografia e antropologia. Poi c’è stato un cambiamento di prospettiva.”
   “Il discorso dei non-luoghi certamente ha a che fare con lo spazio – è una banalità – però decolla da questo concetto, perché essi hanno a che fare con la nuova sensibilità culturale che va sotto il nome di surmodernité e quindi attengono più al simbolico immaginario che alla geografia propriamente detta. Immaginario, simbolico, percezione dell’altro sono domande proprie dell’antropologia. Ma la collaborazione non è finita. Nello studiare i “filamenti urbani” ho dovuto ripristinare rapporti stretti con la geografia.”
   “Per quanto riguarda il turismo, esso è un argomento centrale della geografia e interessa lo studio della surmodernité, ma il turismo che osservo io è altra cosa, perché è un turismo che si rifà all’idea di consumo. Il turismo visto come consumo del paesaggio, consumo dell’altro e quindi come simbolizzazione dell’altro per arrivare al consumo. E in questo senso mi sono un po’ distaccato da quell’accoppiata formidabile che c’era prima tra antropologia e geografia.”
   Claudio Minca dell’Università di Venezia, domanda invece ad Augé: “Per noi geografi il luogo è un concetto sul quale abbiamo riflettuto da sempre e da sempre abbiamo pensato di avere una sorta di privilegio su questo soggetto. Quelli che lei cita come non-luoghi (parchi tematici, aeroporti, ecc.) sono spazi in cui molte persone lavorano, si incontrano, socializzano. Nel momento stesso in cui assegniamo identità a questi spazi, come possiamo considerarli non-luoghi?
   Risponde Augé: “Io non ho mai voluto fare una lista dogmatica o manichea di luoghi, da una parte, e non-luoghi dall’altra. Ho trattato questi termini come coppie di opposti (luoghi/non-luoghi), una concettualizzazione che permette di aggredire la realtà. Certamente è bene avere le idee chiare: la divisione è ideale. Nei luoghi i segni dell’identità collettiva, della socializzazione, del patrimonio culturale comune sono chiaramente visibili, perché fissati nello spazio. I non-luoghi, per assurdo, possono aiutare a capire i segni che contraddistinguono i luoghi, proprio perché se ne evidenzia l’assenza.”
   Chiede ancora Minca: “Secondo lei il nuovo rapporto tra spazio privato e pubblico ha cambiato i concetti di normalità all’interno dello spazio pubblico e di devianza dalla stessa?
   Risponde Augé: “La tendenza dominante è tesa a privatizzare i luoghi sociali. Nelle città sudamericane (come Caracas, per esempio), i centri urbani sono diventati spazi interdetti a chi non fa parte della borghesia danarosa. Sono cittadelle fortificate, intorno alle quali c’è una serie di costruzioni miserabili, tipo favelas. Uno spazio segnato da un’antinomia radicale pubblico/privato, che rimanda a un’altra caratteristica della surmodernité: la discriminante povertà/ricchezza è sempre più estrema, i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. È finita l’utopia marxiana dell’egualitarismo. Lo spazio pubblico non è solo spazio condiviso (per esempio una piazza come piazza Navona, a Roma), lo spazio pubblico è quello in cui si forma l’opinione pubblica, che nella surmodernité è su scala planetaria. Tutto ci interessa, ma non c’è un luogo ove si formi l’opinione pubblica su scala mondiale. Da qui il tentativo dei movimenti di protesta (più o meno ingenuo, più o meno riuscito) per creare spazi dove formare un’opinione pubblica all’altezza dei tempi.
   L’ultima domanda è di Armando Montanari: “Come ha risolto il dilemma del ‘paradosso etnografico’: la contraddizione che vede l’etnografo lavorare sul campo e partecipare alla cultura, al linguaggio oggetto di esame, provare empatia, e poi, necessariamente, assumere un distacco critico, per elaborare il frutto dei propri studi?
   “Io sono piuttosto critico nei confronti dell’antropologia postmoderna americana“, dice Augé, “impegnata a criticare i testi di antropologia. Stimo, invece, quella di stampo britannico, Edward Evans Prichard, in particolare, è stato un autorevole modello. Come ci insegna questo autore, onestamente si deve distinguere ciò che appartiene all’indagine dall’interpretazione. In questo modo si può anche prendere le distanze da un’interpretazione che non si ritiene più valida, ma si può sempre riprendere e riutilizzare il materiale raccolto, che è privo di considerazioni personali. I problemi, le domande che l’etnologo rivolge all’altro sul campo (all’estraneo) non sono diverse da quelle che ci si pone quando si riflette su se stessi ed è questo che non ha capito l’antropologia postmoderna“.

(Sara Capogrossi, da http://www.caffeeuropa.it/ del 24/5/2002)

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(UN ETNOLOGO NEL METRÒ, Elèuthera – É il saggio (del 1986) in cui sdogana la ricerca etnografica fatta a casa propria, dimostrando che si può studiare l’altro osservandolo in metro) 

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STRANIERO A ME STESSO tutte le mie vite di etnologo, Bollati Boringhieri – È il suo libro autobiografico in cui confessa il grande dispiacere di non aver partecipato al Sessantotto francese, a Parigi – Badate, non è un’autobiografia, avverte Marc Augé in apertura del libro. Almeno non nel senso tradizionale. In effetti, queste pagine gremite di immagini che riaffiorano, di incontri decisivi, di paesaggi perduti, di eventi della Grande Storia spesso colti di scorcio, affidano il loro ritmo sottotraccia a una incalzante variazione sull’idea di luogo. Quello dell’etnologo Augé, innanzi tutto, che si identifica con lo sradicamento, col non essere mai al proprio posto. La sua itineranza si consuma perlopiù in Africa, nella regione lagunare della Costa d’Avorio e nel Togo del Sud, e in America Latina…

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(MARC AUGÉ, foto da https://torino.corriere.it/)

“LE MIE PERIFERIE NON SONO UN CONCETTO GEOGRAFICO” C’è un grande malinteso nel concetto di periferia. Ce lo racconta Marc Augé, antropologo francese, teorico dei non-luoghi (…) «L’errore più comune è applicare una categoria geografica a un problema sociale ed economico. L’idea di periferia esclude quella di centro, ma è un concetto sbagliato. Prendiamo Parigi: ci sono dei quartieri che sono periferici solo in base al tipo di popolazione che vi abita. O la stessa Molenbeek, l’area di Bruxelles divenuta snodo del terrorismo internazionale: non è un quartiere estraneo alla città. Piuttosto alla società». (Laura Aguzzi, da “La Stampa” del 13/5/2016)

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MARC AUGÉ: UN NONLUOGO TUTTO PER SÉ

di MARCO AIME, da “La Stampa” del 25/7/2023

– Il filosofo francese è scomparso a 87 anni. Ha rivoluzionato il metodo di osservazione dell’uomo L’antropologia era lo sguardo dell’Occidente sull’altro: lui ha portato l’etnografia in casa, in metro, tra vicini – I suoi anni in Africa sono stati fondamentali per le intuizioni sul paganesimo e il sacro – “Più passa il tempo e più ho la sensazione che la morte non esista”, diceva Marc Augé al quotidiano francese Libération, in un’intervista del 2021 –

   Ci piaceva scherzare sul fatto che avevamo lo stesso nome e il cognome di quattro lettere, con la A iniziale e la E finale. Eravamo diventati amici, Continua a leggere

La CRISI CLIMATICA e la NEGAZIONE di essa: il mondo precipita nel disastro ambientale e poco nulla si fa (o, peggio, c’è il dileggio e la negazione) –  I 5 grandi temi legati alla sfida ambientale: lotta alle povertà; lotta alle disuguaglianze; transizione energetica; parità di genere; produzione di cibo sana per l’ambiente e per l’umanità

IL NEGAZIONISMO AMBIENTALE PORTATO AVANTI DA ALCUNI QUOTIDIANI ITALIANI (immagine tratta da https://www.climalteranti.it/)

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(nell’immagine: LA CRISI CLIMATICA AFFAMA IL MONDO: RAPPORTO OXFAM) — Secondo il rapporto “Hunger in a heating World – How the climate crisis is fuelling hunger in an already hungry world” pubblicato da OXFAM, «In soli 6 anni il numero di persone colpite dalla fame è più che raddoppiato nei 10 Paesi che hanno registrato il maggior numero di eventi climatici estremi: erano 21 milioni nel 2016, oggi sono 48 milioni, 18 milioni dei quali realmente sull’orlo della carestia.   Siccità, desertificazione, cicloni e alluvioni sempre più frequenti stanno mettendo a rischio milioni di vite nei contesti più vulnerabili del pianeta. Per far fronte alle crisi umanitarie che ne conseguono servono 49 miliardi di dollariossia la cifra richiesta dalle Nazioni Unite nell’appello per il 2022: un ammontare equivalente ai profitti realizzati in meno di 18 giorni dalle grandi aziende energetiche dei combustibili fossili».
   I 10 Paesi al mondo più colpiti da eventi climatici estremi negli ultimi 20 anni sono Somalia, Haiti, Gibuti, Kenya, Niger, Afghanistan, Guatemala, Madagascar, Burkina Faso e Zimbabwe.
   Stati che, pur pagando il prezzo più alto del cambiamento climatico, messi assieme sono responsabili di appena lo 0,13% delle emissioni globali di CO2 in atmosfera, mentre i Paesi del G20 ne producono il 76,60%. (…) (da https://greenreport.it/, 19/9/2022)

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UNA TERRA PER TUTTI, L’ULTIMO RAPPORTO DEL CLUB DI ROMA: ABBIAMO POCO PIÙ DI SEI ANNI PER EVITARE IL BARATRO

di Silvia Zamboni, Europa Verde, vicepresidente Assemblea legislativa Emilia Romagna, 6/4/2023, da https://www.ilfattoquotidiano.it/

Una Terra per tutti – l’ultimo rapporto al Club di Roma, uscito cinquant’anni dopo il primo, rivoluzionario, The Limits to Growth – è una raccolta di contributi di autorevoli scienziati, economisti ed esperti di ecologia. Andrebbe diffuso ai quattro angoli del Pianeta per creare consapevolezza sulle devastazioni che infliggiamo alla Terra a causa del modello oggi prevalente di produrre e consumare. Un modello fallimentare anche sul piano sociale e all’origine di inaccettabili disuguaglianze dentro i singoli popoli, e tra i diversi popoli.

   E se anche è vero che questi rapporti appartengono ormai a un genere consolidato di pubblicazioni, ciò che rende unico Una Terra per tutti, oltre alle diverse competenze complementari di autori ed autrici, è l’inedita exit strategy dall’emergenza climatica e sociale che delinea.

   Per Europa Verde ho contribuito alla conoscenza del volume organizzando una presentazione a Bologna, alla quale hanno portato il proprio contributo il professor Vincenzo Balzani, professore emerito dell’Università di Bologna, fondatore di Energia per l’Italia e membro del comitato scientifico di Europa Verde, e Gianfranco Bologna, direttore scientifico e Senior Advisor del Wwf Italia e segretario generale della Fondazione Aurelio Peccei, che rappresenta il Club di Roma in Italia. I loro interventi hanno confermato che Una terra per tutti è lo studio più completo sulla necessità di cambiare l’attuale sistema economico e sociale: da un capitalismo di “rapina” per pochi a una prosperità equilibrata che non lasci indietro nessuno.

   Il cambiamento da mettere in campo è declinato dal rapporto in cinque grandi sfide: lotta alle povertà; lotta alle disuguaglianze per ridurre la crescente forbice tra chi ha tanto e chi ha niente; transizione energetica verso un sistema elettrico alimentato da fonti rinnovabili; parità di genere ed empowerment delle donne; cambiamento del sistema alimentare per una produzione di cibo sana per l’ambiente e per l’uomo.

   Quello che si propone è dunque un radicale cambio di paradigma perché, se per economia intendiamo il bene delle persone e dell’ambiente, l’attuale modello è con tutta evidenza diseconomico. Come aveva già evidenziato il pioneristico The Limits to Growth – che sovvertiva il dogma della crescita illimitata alla base dell’idea novecentesca di economia – in un Pianeta finito le risorse non rinnovabili sono finite. E come tali vanno gestite, se vogliamo garantire una vita dignitosa per tutti ed evitare il collasso ecosistemico del Pianeta.

   L’importanza di questo rapporto è ben sintetizzata dalle parole di Vanessa Nakate, la nota attivista africana, fondatrice del movimento Rise Up, che forse ricorderete assieme a Greta Thunberg in uno dei tanti inconcludenti vertici globali sul clima. Ha scritto Vanessa: “Le idee esplorate in questo libro dovrebbero essere discusse in tutti i parlamenti del mondo. Dobbiamo cambiare le nostre economie in modo da cominciare ad anteporre le persone al profitto e abbiamo bisogno che i ricchi, gli inquinatori, paghino la loro parte per i danni che la crisi climatica sta scatenando sulle comunità povere in tutto il mondo. È ormai giunto il momento di creare un mondo più giusto e equo per tutti”.

   La grande tragedia odierna è che, in risposta all’accelerazione della crisi climatica e agli allarmi lanciati dagli scienziati sulle conseguenze, anche sociali, del riscaldamento globale, a prevalere sono una sostanziale inazione della politica (vedi le Conferenze Onu sul clima dopo quella di Parigi) e l’inerzia del “continuare a fare come si è sempre fatto”. Mentre Una terra per tutti ci dice chiaramente che il decennio 2020-2030 è l’ultima occasione che abbiamo per invertire la rotta prima che il cambiamento climatico sfugga dal nostro controllo. Ce lo dice anche il climate clock, l’orologio climatico che, grazie a Europa Verde, è stato caricato sulla home page del sito dell’Assemblea legislativa Emilia-Romagna e che presto apparirà su un display all’ingresso degli uffici regionali: abbiamo poco più di sei anni per evitare il baratro.

   Infine, una nota a margine. Il titolo del primo rapporto al Club di Roma è stato tradotto maldestramente con I limiti dello sviluppo (mentre il titolo corretto era “I limiti alla crescita”) implicando, in una lettura altrettanto sbagliata, che si volesse bloccare un democratico accesso generalizzato al benessere. Mentre quel testo evidenziava che, a quel passo di consumo di risorse non rinnovabili e di incremento demografico, l’economia sarebbe collassata per esaurimento delle risorse naturali disponibili.

Mi sono spesso chiesta se vengano (anche) da lì le critiche agli ecologisti di essere dei radical chic. Sta di fatto che già in quel primo rapporto erano chiare le contraddizioni di un sistema che ci ha portato a poco più di sei anni di distanza dal punto di non ritorno. Scrive in proposito Bill McKibben, autore di The End of Nature e di Eaarth: “Se nel 1972 avessimo prestato attenzione a The Limits to Growth non saremmo nella situazione in cui ci troviamo oggi. Ciò che resta di questo decennio potrebbe essere la nostra ultima opportunità di procedere, almeno in parte, nel modo giusto”.

Più che dibattere sulle parole, sarebbe stato più utile guardare la luna e non il dito. Abbiamo sei anni per recuperare. (Silvia Zamboni, 6/4/2023, da https://www.ilfattoquotidiano.it/)

(Il rapporto UNA TERRA PER TUTTI) — UNA TERRA PER TUTTI – Il più autorevole progetto internazionale per il nostro futuro, a cura di Jørgen Randers, Johan Rockström, Sandrine Dixson-Declève, Owen Gaffney, Jayati Ghosh, Per Espen Stoknes (novembre 2022, Edizioni Ambiente, pagg. 276, euro 25) – Una Terra per tutti è un antidoto alla perdita di speranza. Un insieme di indicazioni chiare verso un futuro migliore di quello prospettato oggi. Utilizzando i più avanzati software di simulazione e modellizzazione, gli autori esplorano le politiche in grado di portare il massimo beneficio al maggior numero di persone

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(THE LIMITS TO GROWTH) — Il rapporto del Club di Roma, uscito nel 1972, il primo, rivoluzionario, The Limits to Growth (i limiti della crescita) – Cinquant’anni fa un libro ci metteva in guardia sulle possibili derive della crescita. The Limits to Growth – in italiano I limiti dello sviluppo – parlava chiaro: l’umanità si stava spingendo verso un punto di non ritorno (“Il titolo del primo rapporto al Club di Roma è stato tradotto maldestramente con I limiti dello sviluppo, mentre il titolo corretto era “I limiti alla crescita”, implicando, in una lettura altrettanto sbagliata, che si volesse bloccare un democratico accesso generalizzato al benessere. Mentre quel testo evidenziava che, a quel passo di consumo di risorse non rinnovabili e di incremento demografico, l’economia sarebbe collassata per esaurimento delle risorse naturali disponibili” – Silvia Zamboni, 6/4/2023, da “Il Fatto Quotidiano”) (nell’immagine qui sopra: la copertina della versione inglese del Rapporto)

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AVANZA L’ONDA DEL NEGAZIONISMO CLIMATICO, ANCHE IN EUROPA

di Gianni Silvestrini, da https://www.qualenergia.it/, 6/6/2023

Negazionismo climatico e opposizione alle politiche energetiche verdi saranno al centro dei programmi di molti partiti di destra nelle elezioni europee del 2024. Uno snodo fondamentale per le strategie di questo decennio.

   Dopo due leader come Trump e Bolsonaro che hanno negato la pericolosità dell’emergenza climatica, rallentando di fatto la transizione ambientale, l’attenzione è ora puntata sulla vecchia Europa, riferimento negli ultimi trent’anni per le politiche ambientali.

   Gli equilibri che si definiranno dopo le elezioni europee del 2024 influenzeranno infatti notevolmente le politiche di questo decennio.

   Ma le sicurezze del passato sono incrinate dall’emergere di forze di estrema destra che, oltre alle note posizioni sul fronte sociale, pensiamo ai migranti, stanno sempre più definendosi come negazioniste climatiche.

   In Germania l’AFD negli ultimi sondaggi ha sfiorato il 20% ponendosi come terza forza politica e superando i Verdi. Le sue posizioni rispecchiano quelle di altri partiti di destra, contrari alle trasformazioni verso la mobilità elettrica e le rinnovabili.

   Tonia Mastrobuoni scrive su Repubblica: “l’ideologo della Nuova destra tedesca, Goetz Kubitschek, trait d’union tra l’Afd e i movimenti giovanili neonazisti come gli Identitari, spiega che la destra non considerava più i comunisti e i socialisti come principali avversari politici, bensì i verdi: “Un nemico antropologico.

   Alza la testa anche l’estrema destra spagnola che si era già opposta alla legge sul cambiamento climatico. E i neonazisti svedesi in forte crescita appoggiano il nuovo governo di destra puntando, oltre al solito blocco dell’immigrazione, al contrasto delle fonti rinnovabili.

   E potremmo continuare evidenziando gli spostamenti che stanno avvenendo in vari paesi, Italia inclusa.

   Insomma, si configurano posizioni politiche che rappresentano un chiaro attacco alla scienza. Sempre più spesso, infatti, vengono messe in discussione e sbeffeggiate le posizioni degli esperti climatici dell’IPCC di tutte le discipline e di tutti i paesi, consolidatesi negli ultimi decenni.

   Che sia in atto un riscaldamento del pianeta viene accettato, ma vengono negate clamorosamente le responsabilità dell’uomo, il ruolo combustibili fossili…

   Durante la pandemia di Covid una rumorosa minoranza criticava le posizioni di medici e ricercatori rifiutando di vaccinarsi, ma la gran maggioranza ha invece fatto il vaccino. Sul clima, malgrado l’aumento dei fenomeni estremi, cresce in maniera impressionante lo scetticismo. Secondo un recente sondaggio condotto dall’Università di Chicago la quota di coloro che ritengono fondamentale la responsabilità dell’uomo nei cambiamenti climatici è crollata negli Usa dal 60%, registrato solo cinque anni fa, al 49%.

   E secondo un recente sondaggio IPSOS, relativo a due terzi della popolazione mondiale, quasi quattro persone su dieci credono che il cambiamento climatico sia dovuto principalmente a cause naturali.

   Rimane il fatto che “puoi dire che la forza di gravità non è vera, ma se ti butti da una scogliera, precipiti”, come ricordano gli studenti e docenti dell’Ohio State University che lottano contro un disegno di legge che limiterebbe le discussioni sulle politiche climatiche.

   L’avanzata del negazionismo climatico fa capire l’importanza delle elezioni europee del 2024. La critica alle politiche climatiche sarà infatti al centro dei programmi, in particolare da parte di coloro che vogliono minare il riferimento rappresentato dall’Unione europea.

   È bene ricordare, ad esempio, che se le rinnovabili stanno espandendosi in maniera clamorosa nel mondo è anche grazie alle politiche assunte dall’Europa dopo la firma del Protocollo di Kyoto nel 1997.  Ed è interessante il fatto che la decisione di Bruxelles sul passaggio dal 2035 alla vendita di sole auto elettriche, sia stato rapidamente replicata dalla California e da altri sei Stati degli Usa.

   In questo contesto difficile, dovremo evidenziare con forza i vantaggi occupazionali e sociali della rivoluzione energetico-climatica, ponendoci anche i problemi connessi con la transizione, come per le industrie della componentistica dell’auto.

   Ma fortunatamente l’accelerazione in atto delle tecnologie green difficilmente si fermerà, come ci ricorda la notizia che probabilmente la Cina riuscirà a raggiungere con dieci anni di anticipo i suoi obiettivi di decarbonizzazione.

   E la stessa Iea ha alzato la stima per il 2023 a 440 GW rinnovabili, cioè il doppio di quanto installato globalmente nel 2019. (Gianni Silvestrini)

(Articolo tratto dall’editoriale della rivista bimestrale QualEnergia n.2/2023) 

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(Nell’immagine: CLIMATE CHANGE, la mappa con i sedici punti di non ritorno, da “Il Sole 24ore” del 3/1/2023) — (da https://www.infodata.ilsole24ore.com/ del 3/1/2023) Uno studio pubblicato in questi giorni sulla rivista scientifica Science ha identificato 16 punti di non ritorno che potranno verificarsi con un innalzamento delle temperature sopra 1,5°C. I Climate tipping points sono punti di svolta nella crisi climatica, superati i quali le conseguenze sono irreversibili, con un pericoloso impatto sull’umanità. Lo studio è basato sulla revisione di oltre 200 articoli scientifici a partire dal 2008 ed è coordinato da David Armstrong McKay dell’Università britannica di Exeter. La tesi è che anche rispettando l’accordo di Parigi che chiedeva di limitare il riscaldamento globale sotto i 2°C si rischia di assistere al superamento di numerosi punti di non ritorno.
Nella mappa in alto è indicata la posizioni dei punti di non ritorno nella criosfera (blu), nella biosfera (verde) e nell’oceano/atmosfera (arancione) e i livelli di riscaldamento globale ai quali verranno probabilmente attivati.  Il colore degli indicatori esprime la stima della soglia centrale di riscaldamento globale inferiore a 2°C, ovvero all’interno dell’intervallo dell’accordo di Parigi (arancione chiaro, cerchi); tra 2 e 4°C, cioè accessibile con le attuali policy (arancione, rombi); e 4°C e oltre (rosso, triangoli).

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(VANESSA NAKATE, attivista per il clima) — Vanessa Nakate (nella FOTO), la nota attivista africana, fondatrice del movimento Rise Up, che forse ricorderete assieme a Greta Thunberg in uno dei tanti inconcludenti vertici globali sul clima. Ha scritto Vanessa: “(…) Dobbiamo cambiare le nostre economie in modo da cominciare ad anteporre le persone al profitto e abbiamo bisogno che i ricchi, gli inquinatori, paghino la loro parte per i danni che la crisi climatica sta scatenando sulle comunità povere in tutto il mondo. È ormai giunto il momento di creare un mondo più giusto e equo per tutti”. (Silvia Zamboni, 6/4/2023, da “Il Fatto Quotidiano”)

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LA CRISI CLIMATICA AFFAMA IL MONDO

da https://greenreport.it/, 19/9/2022

– Oxfam: nei 10 Paesi più colpiti dal cambiamento climatico sono raddoppiati gli affamati –

   Secondo il rapporto “Hunger in a heating World – How the climate crisis is fuelling hunger in an already hungry world” pubblicato da OXFAM, «In soli 6 anni il numero di persone colpite dalla fame è più che raddoppiato nei 10 Paesi che hanno registrato il maggior numero di eventi climatici estremi: erano 21 milioni nel 2016, oggi sono 48 milioni, 18 milioni dei quali realmente sull’orlo della carestia.   Siccità, desertificazione, cicloni e alluvioni sempre più frequenti stanno mettendo a rischio milioni di vite nei contesti più vulnerabili del pianeta. Per far fronte alle crisi umanitarie che ne conseguono servono 49 miliardi di dollariossia la cifra richiesta dalle Nazioni Unite nell’appello per il 2022: un ammontare equivalente ai profitti realizzati in meno di 18 giorni dalle grandi aziende energetiche dei combustibili fossili».

   I 10 Paesi al mondo più colpiti da eventi climatici estremi negli ultimi 20 anni sono Somalia, Haiti, Gibuti, Kenya, Niger, Afghanistan, Guatemala, Madagascar, Burkina Faso e Zimbabwe.

   Stati che, pur pagando il prezzo più alto del cambiamento climatico, messi assieme sono responsabili di appena lo 0,13% delle emissioni globali di CO2 in atmosfera, mentre i Paesi del G20 ne producono il 76,60%. Con i Paesi G7 che impattano da soli per quasi la metà delle emissioni globali a fronte di una capacità di risposta e adattamento nemmeno lontanamente paragonabile a quella di questi 10 paesi.

   Gli effetti più drammatici della crisi climatica si riscontrano in questo momento nei seguenti stati:

Somalia – al 172° posto su 182 paesi per la capacità di risposta alla crisi climatica – con la peggiore siccità mai registrata, una carestia già in corso nei distretti di Baidoa e Burhakaba e 1 milione di persone costrette a lasciare le proprie case per sopravvivere;

Kenya, dove la siccità ha ucciso quasi 2,5 milioni di capi di bestiame e lasciato 2,4 milioni di persone senza cibo, tra cui centinaia di migliaia di bambini;

Niger, con 2,6 milioni di persone che soffrono di fame acuta (+767% rispetto al 2016), mentre la produzione di cereali è crollata di quasi il 40% per l’impatto di alluvioni, siccità e del conflitto che attraversa il Paese;

Burkina Faso dove i livelli di fame sono cresciuti del 1350% dal 2016, con oltre 3,4 milioni di persone senza cibo a causa del conflitto in corso nel paese e del processo di desertificazione che sta bruciando campi e pascoli;

Guatemala, dove una gravissima siccità ha contribuito alla perdita di quasi l’80% del raccolto di mais e devastato le piantagioni di caffè. Mariana López, madre, che vive a Naranjo, nel Corridoio Secco del Guatemala, ha detto a Oxfam: «Non abbiamo mangiato per otto giorni e ho dovuto vendere la terra dove non cresceva più niente per la siccità».

   Il rapporto è stato pubblicato in vista dell’Assemblea generale dell’Onu e della 27esima Conferenza delle parti Unfccc e Francesco Petrelli, policy advisor per la sicurezza alimentare di Oxfam Italia, fa notare che «La crisi climatica non è più un’emergenza pronta ad esplodere, ma una realtà di portata epocale che si sta consumando sotto i nostri occhi. Il numero di eventi climatici sempre più estremi e imprevedibili è cresciuto di ben 5 volte nell’ultimo mezzo secolo. Per milioni di persone già colpite dagli effetti della guerra in Ucraina e dalle crescenti disuguaglianze, è impossibile fronteggiare i disastri climatici. Basti pensare che tra il 2010 e il 2019 i danni materiali diretti e indiretti dovuti al clima sono stati in media di 3,43 milioni di dollari al giorno. Siamo di fronte ad una tempesta perfetta che produce una crescita esponenziale della fame globale, per la quale devono essere adottate misure urgenti, radicali e non più rinviabili. Di questo passo tra il 2030 e il 2050 fino a 720 milioni di persone – ovvero 1 abitante su 11 del pianeta – rischia di ritrovarsi in condizioni di povertà estrema a causa della crisi climatica».

   Il rapporto ricorda che «L’Africa produce il 2% delle emissioni, ma entro il 2030 118 milioni di persone saranno colpite dalla crisi climatica. Una catastrofe destinata a peggiorare se le temperature medie globali supereranno i 2° C di aumento (rispetto al periodo pre-industriale), con le produzioni di cereali come miglio e sorgo che potrebbero calare fino al 25% in paesi con Kenya e Burkina Faso. Nel complessol’Africa produce appena il 2% alle emissioni globali di CO2, ma gli effetti del cambiamento climatico entro il 2030 potrebbero costringere fino a 118 milioni di persone a fare i conti con siccità, inondazioni e temperature sempre più estreme».

   Petrelli denuncia che «La fame, alimentata dal cambiamento climatico, è la riprova delle profonde disuguaglianze che attraversano il pianeta. I Paesi che hanno minori responsabilità per la crisi climatica e quasi nessuno strumento per affrontarla, ne pagano il prezzo più alto. Nell’indice globale che misura quanto i diversi paesi siano in grado di adattarsi al cambiamento climatico, quelli più colpiti sono agli ultimi posti. Paradossalmente, i leader delle nazioni più ricche, come quelle del G20 – che controllano l’80% dell’economia mondiale – continuano a difendere gli interessi delle aziende più ricche e inquinanti, spesso tra i primi sostenitori delle loro campagne politiche ed elettorali. Si stima che le aziende che producono energia dai combustibili fossili abbiano realizzato in media 2,8 miliardi di dollari al giorno di profitti negli ultimi 50 anni. È evidente quindi quanto sia urgente un cambio di paradigma per far fronte a questa immane crisi».

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   Petrelli conclude: «È necessario inoltre stanziare immediatamente le risorse richieste dalle Nazioni Unite per fronteggiare l’emergenza. Farlo è un dovere etico, non è carità. È un’assunzione di responsabilità che riguarda il nostro comune futuro. È poi evidente, che non possiamo risolvere la crisi climatica senza correggere le disuguaglianze presenti nel sistema alimentare e in quello energetico. La strada da seguire è far pagare chi inquina di più: un’addizionale di appena l’1% sui profitti annui delle multinazionali che producono energia da combustibili fossili porterebbe circa 10 miliardi di dollari di entrate per gli stati, sufficienti a colmare gli ammanchi finanziari per far fronte all’aumento della fame globale». (da https://greenreport.it/, 19/9/2022)

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(Mappa da https://www.foodandtec.com/) — Quanto sono seri i Paesi rispetto ai loro impegni climatici? Pochissimo, anzi per nulla: anche quest’anno nessuno Stato tra quelli considerati dal report Climate Change Performance Index 2023 raggiunge le performance necessarie a contrastare la crisi climatica.
L’Italia traccheggia sempre al centro della classifica al 29° posto.
Danimarca, Svezia, Cile, Marocco e India sono in testa.
Iran, Arabia Saudita e Kazakistan ultimi.
USA e Cina sono i principali responsabili delle emissioni globali, e si piazzano nelle posizioni di retroguardia.
(da https://www.foodandtec.com/ 21/11/2022)

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LA MALATTIA DEL NEGAZIONISMO

di Mario Tozzi, da “La Stampa” del 12/6/2023

– Dal fumo ai pesticidi e ora il clima: non-verità scientifiche alternative difendono il capitalismo dal 1970 ma la crisi è reale: basta ipocrisia – La loro religione è quella del mercato così nasce il livore contro gli ambientalisti – Si vuole far passare l’idea che la scienza, non sia unanime ma lo è: la causa è l’uomo –

   E’ almeno dagli anni Novanta del XX secolo che il dibattito sul cambiamento climatico all’interno della comunità degli scienziati specialisti (unico terreno di dibattito possibile nella scienza) si è concluso con la dichiarazione che l’attuale riscaldamento globale è anomalo e accelerato rispetto al passato e dipende, con una confidenza e un consenso oltre il 90%, dalle attività produttive dei sapiens. Perché allora sta affiorando un rigurgito non di dubbi (lo scetticismo è il sale della ricerca scientifica), ma di negazionismo vero e proprio che arriva a mettere in discussione il metodo stesso, riportando tutto al rango di semplice opinione? Da dove nasce? Dove vuole arrivare?

   Tutto nasce negli Usa alla fine della Guerra Fredda, quando alcuni scienziati precedentemente occupati nel programma atomico nazionale, di grande personalità e fieramente anticomunisti, si trovano progressivamente senza una occupazione specifica e con un nemico che andava piano piano scolorendo. C’era bisogno di conquistare nuove posizioni remunerate di rilievo, che trovavano nelle consulenze federali, e di un nuovo nemico, che identificavano nella salute dei sapiens e nell’ambiente. I nomi, tra i quali spiccano Frederick Seitz e Fred Singer, sono sempre quelli: li ritroviamo in tutte le storie che seguono.

   Il casus belli sono le ricerche scientifiche che, fino dagli anni Cinquanta, mettono in luce la correlazione diretta fra il cancro ai polmoni e fumo di sigaretta. E, dagli anni Settanta, anche con il fumo passivo, svincolando la malattia dalla decisione libera dell’individuo di fumare oppure no. A quel punto iniziano le battaglie legali contro le major del tabacco, che assoldano quegli scienziati per un lavoro di controinformazione pseudoscientifico avvalorato dalla loro precedente autorevolezza in altri campi. E i mezzi di comunicazione decidono colpevolmente di prestare fede ai dubbi mercanteggiati da questa lobby, trincerandosi dietro il principio di equilibrio informativo, principio che in scienza ha ragione di esistere quanto la favola di Cappuccetto Rosso: non si danno la stessa importanza e lo stesso peso informativo alla scienza certificata e a quella prezzolata e non verificata. In questo modo si intimidiscono gli organi di controllo e le vittime, che riescono a organizzarsi solo a partire dagli anni Novanta nelle prime class actions di successo: si sono guadagnati almeno 40 di profitti.

   Lo stesso accade per le piogge acide, un problema ambientale che aveva portato a bruciare letteralmente le foreste nordamericane e scandinave negli anni Settanta. In questo caso la ricerca scientifica aveva identificato nello zolfo il chiaro e solo responsabile, ma desolforare gli impianti di produzione di energia statunitensi era oneroso e avrebbe comportato una riduzione dei profitti, ragione per cui i negazionisti si sono messi all’opera per insinuare il dubbio che non fosse quello il meccanismo, tirando in ballo fenomeni particolari e, in sostanza, facendo perdere tempo alla regolamentazione del settore.

   Sul Ddt le cose sono andate peggio: ancora oggi ci sono “scienziati” che, al di fuori del campo delle riviste certificate, criticano il bando del Ddt, perché così si sarebbero condannati milioni di bambini per le malattie nei paesi poveri. Colpevoli i democratici e i radicali statunitensi, influenzati surrettiziamente dagli ambientalisti fomentati dal libro di Rachel Carson Primavera Silenziosa (1962). Nel libro si mettevano in luce i danni micidiali che i pesticidi stavano recando agli uccelli e agli altri viventi, facendo emergere che se qualcuno fosse costretto a scegliere su chi far rimanere in vita sul pianeta fra i sapiens e le api, la scelta sarebbe immediata e irrevocabile: gli ecosistemi possono fare a meno dei sapiens, ma non degli insetti. Si è poi scoperto che le zanzare si “adattano” al Ddt e che questo risultava inefficace già nelle seconde ondate di malaria susseguenti alle prime irrorazioni.

   Nel 1995 Rowland, Crutzen e Molina vincono il Nobel per la chimica per aver scoperto il meccanismo di impoverimento dell’ozono che lacerava l’atmosfera causando il cosiddetto buco dell’ozono. E attribuendone la responsabilità al cloro contenuto nei Cfc, utilizzati come propellenti nelle bombolette spray e come additivi nei refrigeratori. Per anni i negazionisti avevano tentato di impedire quel rapporto causa—effetto, per proteggere gli interessi delle corporation che fabbricavano Cfc, obbligate poi a cessare la produzione e al bando dei Cfc solo dopo anni di estenuanti trattative a Montreal (1987). Anche in questo caso la scienza certificata aveva correttamente previsto tutto, compreso il fatto che con il bando gli strappi si sarebbero ricuciti, cosa che si completerà fra il 2040 e il 2066.

   E oggi tocca al cambiamento climatico, in una guerra senza quartiere che vede protagonisti anche organi senza alcuna autorevolezza scientifica, in cui appaiono pochissimi scienziati, quasi sempre non specialisti, e molti signor nessuno (nella diramazione italiana perfino un sommelier!), approfittando dell’analfabetismo funzionale del 47% degli italiani e dell’idea, tutta giornalistica, che sulla scienza si deve discutere anche fuori dai circoli deputati. Oppure reclutando scienziati pure autorevoli, ma non specialisti, che danno la colpa del cambiamento al sole, mentre i dati Nasa dicono esattamente il contrario, oppure sostengono che è sempre stato così e l’uomo non c’entra nulla. Posizioni però sostenute non sulle riviste scientifiche peer reviewed, dove avrebbero un senso anche se scettiche, ma nelle interviste a giornalisti compiacenti che si sono occupati fino al giorno prima di cronaca nera o di costume.

   Creando così una confusione generale che è il vero obbiettivo: i negazionisti non vogliono proporre una verità scientifica alternativa, che non esiste in nessun dato, ma dimostrare che il dibattito è ancora aperto e che la scienza non è unanime. Proprio quando sono ormai anni che il consenso su le riviste scientifiche a proposito del ruolo forzante dell’uomo nel riscaldamento globale è superiore al 97%. L’obiettivo è impedire ogni forma di regolamentazione del libero mercato, vista come figlia e madre di quel comunismo che i negazionisti ancestrali volevano combattere. Ideologia pura, in base alla quale si bollano paradossalmente come ideologici gli ambientalisti “verdi fuori e rossi dentro” (espressione non a caso coniata proprio negli Usa in quegli anni ruggenti). Oggi il comunismo è scomparso, ma il nemico è diventato l’ambientalismo: per questo si alimenta un vento oscurantista che tende a ridurre tutto a opinione sulla quale è possibile discettare. E perché devo fare sacrifici o redistribuire ricchezza ai Paesi poveri, quando gli scienziati non sono nemmeno d’accordo fra loro?

   La massimizzazione dei profitti, scaricando costi sociali e ambientali, e il mercato senza regole, questa la vera religione, altro che quella di Greta o di Ultima Generazione. E non è un caso che si riscontri un vero livore contro questi ragazzi, alimentato da un’ipocrisia indecente, additando loro come nemici e alzando una cortina fumogena attorno ai veri responsabili. La crisi ambientale mette a nudo i limiti intrinseci del sistema economico capitalista che non riesce a trovare un rimedio nel libero mercato perché il capitale naturale non è infinito: se Marx avesse messo la questione ambientale nel giusto conto, le sue previsioni si sarebbero rivelate più azzeccate. Il banchetto è finito, è arrivato il conto e non serve a nulla ignorare il cameriere o additare lui come responsabile del prezzo salato. (Mario Tozzi, da “La Stampa” del 12/6/2023)

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LA CRISI CLIMATICA È UN’EMERGENZA UMANITARIA (foto da https://www.unhcr.org/)

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CAMBIAMENTO CLIMATICO E DISASTRO AMBIENTALE

di Davide Papotti, da https://www.doppiozero.com/, 1/6/2023

   La geografia è considerata di norma una disciplina che studia lo spazio, come già suggerisce la stessa etimologia della parola: “scrittura/descrizione della Terra”. Eppure, a ben pensarci, basta introdurre parole, quali quelle che stiamo leggendo ed ascoltando sempre più frequentemente nei discorsi mediatici di questi ultimi mesi, come “dinamiche territoriali”, “trasformazioni dello spazio”, “cambiamento climatico”, per comprendere come la dimensione temporale sia inevitabilmente intrecciata con l’analisi geografica.

   In un interessante volume uscito nel 2006, intitolato significativamente La geografia del tempo. Saggio di geografia culturale (Torino, Utet), il geografo Adalberto Vallega (1934-2006) esprimeva in questo modo il cuore della questione: “[…] chiederci come sia possibile cogliere il senso del tempo nel segno del luogo e, così facendo, come si possa scoprire a quali valori e a quali significati il tempo del singolo luogo conduca. In sostanza, si pone la questione del modo in cui affrontare un apparente paradosso, che consiste nel costruire una ‘geografia del tempo’, intesa come rappresentazione del tempo che connota i luoghi”.

   Le acute parole di Vallega possono essere un utile punto di partenza per svolgere qualche riflessione sulle urgenti (un altro aggettivo di natura temporale…) questioni che i tragici eventi degli ultimi mesi hanno posto con evidenza alla nostra attenzione. I fenomeni di estrema siccità, seguiti a distanza di poche settimane da inondazioni ed alluvioni, hanno provocato un cortocircuito di percezioni contrastanti: acqua in quantità insufficiente vs acqua in eccesso.

   Questa contrapposizione, evidenziata dai mass media, suggerisce implicitamente la Continua a leggere

LA NUOVA DIGA nel Porto di Genova all’inizio della costruzione: MAGAOPERA mai realizzata con espresse perplessità di tenuta (su un progetto dichiarato impeccabile) – Ma ne usufruirà Genova per aumentare i traffici delle navi portacontainer rispetto ai porti del nord Europa? Reggerà una competizione nazionalista e poco collaborativa?

Nella foto: IL PORTO DI GENOVA (autorità portuale del Mar Ligure Occidentale) da www.ilpost.it/ – 10/5/2023 – NUOVA DIGA DI GENOVA: il Tar annulla l’aggiudicazione a Webuild dell’appalto da un miliardo, ma l’opera va avanti – Accolto il ricorso del consorzio Eteria. Bocciata la procedura di Autorità Portuale ma i lavori resteranno a Salini perché finanziati dal Pnrr. Si apre la partita per un maxi risarcimento all’impresa illegittimamente esclusa

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(IL PROGETTO DELLA NUOVA DIGA DI GENOVA, immagine dai costruttori WEBUILD, ripresa da www.ilpost.it/) – La FASE A di costruzione delle diga foranea nel porto di Genova, quella appena iniziata, e che dovrà concludersi entro novembre 2026 (lo impone il Pnrr), servirà a creare oltre 4 chilometri di barriera che, già così, consentirà l’ingresso delle grandi navi portacontainer di ultima generazione — “DIGA FORANEA”: significa che è la prima protezione dal mare per le navi che entrano nel porto – “(…) Complessivamente sarà lunga circa 6,2 chilometri. Sarà costruita per far entrare in porto enormi navi portacontainer, le più grandi mai costruite, lunghe oltre 400 metri, larghe 62 e con un carico di oltre 24mila TEU, acronimo di twenty-foot equivalent unit, lo standard minimo di un container (teu: unità di misura pari a un container da 20 piedi, NDR). La diga attuale dista 550 metri dalla costa, mentre quella nuova sarà costruita a una distanza di 800 metri per permettere anche alle navi più grandi di ruotare su loro stesse in caso di manovra. (…)” (da “IL POST.IT”, 4/5/2023, https://www.ilpost.it/)

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PARTITI I LAVORI DELLA NUOVA DIGA DI GENOVA, OPERA PNRR DA UN MILIARDO

– Via alla prima gettata di ghiaia. È il progetto più complesso e imponente tra quelli finanziati col Fondo complementare –

di Raoul de Forcade, da “Il Sole 24ore” del 4/5/2023 – https://www.ilsole24ore.com/

   La posa della “prima pietra” della nuova diga foranea di Genova, che in questo caso si è concretizzata con una gettata di ghiaia sul fondo marino, dalla nave Maria Vittoria Z, ormeggiata 500 metri al largo del porto di Genova-Sampierdarena, è avvenuta alle 12,50 precise di giovedì 4 maggio 2023.

   Un evento cui hanno dato avvio, premendo un pulsante rosso da palazzo San Giorgio, sede dell’Autorità di sistema portuale (Adsp) di Genova e Savona, il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini, insieme al viceministro Edoardo Rixi, ai vertici delle istituzioni genovesi e liguri, al commissario per l’opera, Paolo Emilio Signorini (presidente anche dell’Adsp) e a Pietro Salini, ad di Webuild, società che, in consorzio con Fincantieri Infrastructure, Fincosit e Sidra, ha vinto l’appalto (del valore di 850 milioni).

   Con questa cerimonia si aprono i lavori dell’opera più complessa e mastodontica tra quelle finanziate (in parte) grazie al Piano nazionale di ripresa e resilienza. Dei 950 milioni complessivi necessari a costruire il primo e più importante tratto della diga (Fase A), infatti, 500 arrivano dal Fondo complementare al Pnrr; circa 100 milioni dal ministero delle Infrastrutture; 300 milioni dall’Adsp, di cui 280 circa con un prestito Bei (Banca Europea Investimenti, NDR); 57 milioni dalla Regione Liguria. (Raoul de Forcade, da “Il Sole 24ore” del 4/5/2023 – https://www.ilsole24ore.com/)

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(nella foto: la MSC GÜLSÜN, una delle più grandi navi portacontainer del mondo, con una capacità di 23.000 TEU – foto da www.lastampa.it/) – Il trasporto marittimo continua a rappresentare il principale “veicolo” dello sviluppo del commercio internazionale: il 90% delle merci, infatti, viaggia via mare. I trasporti marittimi e la logistica valgono circa il 12% del PIL globale

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Raoul de Forcade, da “Il Sole 24ore” del 4/5/2023 – https://www.ilsole24ore.com/:

Salvini: «Opera per lo sviluppo del Paese»

«Quest’opera – ha detto Salvini – contribuirà allo sviluppo del Paese. I critici dicono che mai è stata fatta prima una diga cosi ma l’Italia è il Paese dove si osa, dove si crea con gli ingegneri migliori al mondo. Ingegneri che portano sapienza italiana nel mondo ma troppo spesso non qui in Italia. Invece oggi costruiamo anche qui».

   La diga è il più grande intervento mai realizzato per il potenziamento della portualità italiana, e fa parte del sistema integrato di interventi che stanno ridisegnando l’accessibilità marittima, stradale e ferroviaria del porto di Genova e della Liguria: TERZO VALICO e PARCHI FERROVIARI, COLLEGAMENTI DIRETTI con l’AUTOSTRADA, POTENZIAMENTO delle BANCHINE, SVILUPPO delle RIPARAZIONI NAVALI, e COLD IRONING (ndr: il “cold ironing” è il sistema che consente il collegamento elettrico delle navi alla banchina permettendo di spegnere i generatori ausiliari a combustibile fossile al fine di alimentare i propri servizi di bordo: tale processo permette così di azzerare l’inquinamento acustico nelle aree urbane circostanti e ridurre le emissioni di CO2, NOe polveri sottili, sfruttando l’energia elettrica immessa in rete tramite gli impianti di produzione da fonti rinnovabili installati su tutto il territorio; NDR).

   La nuova diga foranea sarà realizzata in DUE FASI è costerà complessivamente circa 1,35 miliardi di euro. La FASE A, quella appena iniziata, e che dovrà concludersi entro novembre 2026 (lo impone il Pnrr), servirà a creare oltre 4 chilometri di barriera che, già così, consentirà l’ingresso delle grandi navi portacontainer di ultima generazione, superiori a 18mila teu (unità di misura pari a un container da 20 piedi) di carico; mentre la FASE B, che deve ancora essere appaltata, prevede la costruzione di un’altra tranche di murata che porterà la lunghezza della diga a 6,2 chilometri. (Raoul de Forcade, da “Il Sole 24ore” del 4/5/2023 – https://www.ilsole24ore.com/)

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(Il progetto della nuova diga foranea di Genova, immagine da https://www.dailynautica.com/) – mai è stata fatta prima una diga così – “(…) Nonostante le rassicurazioni, negli ultimi mesi sono emersi dubbi sull’opportunità di costruire una diga così grande, con proteste per l’impatto ambientale e per l’organizzazione del cantiere.   Piero Silva, professore universitario di pianificazione portuale all’università di Grenoble, consulente esterno delle prime fasi progettuali, ha scritto una lettera alla città di Genova in cui esprime dubbi sulle previsioni ottimistiche dell’autorità portuale. Lo scorso anno si dimise da consulente dopo che i suoi rilievi non vennero presi in considerazione. (da “IL POST.IT”, 4/5/2023, https://www.ilpost.it/)

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Raoul de Forcade, da “Il Sole 24ore” del 4/5/2023 – https://www.ilsole24ore.com/:

Si costruirà su fondali fino a 50 metri

Per realizzare il basamento di quest’opera – unica nel suo genere dal punto di vista ingegneristico – che poggerà su fondali fino a una profondità di 50 metri, saranno impiegati 7 milioni di tonnellate di materiale roccioso, su cui verranno posizionati 97 cassoni prefabbricati in cemento armato, larghi 35 metri, lunghi 67 metri e alti fino a 33 metri (come un palazzo di 10 piani).

   Questa infrastruttura marittima, spiegano i tecnici dell’Adsp (Autorità di sistema portuale), è studiata anche per proteggere i bacini e le strutture portuali dai cambiamenti climatici: un vero argine al mare. E il materiale proveniente dalla demolizione della vecchia diga sarà quasi tutto riutilizzato, in un’ottica di economia circolare, riducendo gli impatti ambientali della costruzione.

   La costruzione della nuova diga, come si è accennato, consentirà l’accesso al porto in sicurezza anche alle moderne navi definite ultra large, che oggi subiscono limitazioni per il ridotto spazio di manovra nel bacino storico realizzato a fine anni ’30. Una volta ultimata, il porto avrà un bacino di evoluzione di 800 metri e sarà possibile differenziare il traffico merci da quello passeggeri e crocieristico.

Crescita dei traffici tra il 22 e il 30%

Questo, ha sottolineato Signorini, consentirà al porto di Genova di essere competitivo con i maggiori hub europei e attestarsi sempre più in alto fra quelli del Mediterraneo. Il commissario e presidente dell’Adsp stima che la nuova diga assicurerà una crescita progressiva annua dei traffici commerciali «tra il 22% e il 30% dal 2027 al 2030, anno in cui sarà ultimata anche la Fase B». L’Adsp calcola il beneficio economico in 4,2 miliardi, in termini di maggiori introiti da traffico container, di diritti e tasse portuali.

   Mentre, sempre secondo Signorini, ammontano a un miliardo gli investimenti che potranno partire sulle banchine, da parte dei privati, grazie al traino dell’opera. Msc, ad esempio, ha confermato il patron dell’azienda, Gianluigi Aponte, investirà 280 milioni per il potenziamento di calata Bettolo e anche le banchine occupate dal Hapag Lloyd e dal gruppo Spinelli dovranno essere adeguate alla nuova diga. La costruzione dell’opera, infine, impiegherà, circa mille persone e numerose imprese del territorio.

Con la diga, logistica Nord Ovest più competitiva

Sul fronte delle istituzioni locali, il governatore ligure, Giovanni Toti, ha detto che «questa diga fa sì che la logistica del Nord Ovest diventi davvero competitiva in Europa e lasciatemi dire che, insieme ai cassoni, oggi affondiamo una politica che troppo spesso distrugge e non costruisce».

   Mentre il sindaco di Genova, Marco Bucci, ha chiosato: «Avere la diga vuol dire avere più acqua, quindi anche più terra su cui dare ricaduta economica e occupazionale sulla città. Come nei secoli passati, quando Genova si allarga sul mare, genera una ricaduta sulla città stessa. Questo è il concetto chiave della giornata di oggi».

   Salini, parlando a nome dei costruttori, e rispondendo a chi ha chiesto se il consorzio riuscirà davvero a finire in tre anni i lavori, ha affermato: «Certo che ce la faremo. Ce la metteremo tutta. Ci mettiamo tutta la nostra buona volontà per realizzare la diga. Questo sforzo lo facciamo per il Paese. Il ponte di Genova lo abbiamo fatto noi: pensavate che sarebbe stato pronto? Forse no; e invece lo è stato. Noi quando ci proviamo, ci proviamo».

   Impegnato sull’opera è anche il gruppo Rina. «Il ruolo che l’azienda ha nella realizzazione della diga – spiega l’ad del Rina, Ugo Salerno – è lo stesso che l’azienda ha avuto anche nella ricostruzione del ponte di Genova, cioè quello di project manager e direzione lavori nonché la parte legata alla regia dell’esecuzione dell’operazione. Un ruolo che sappiamo svolgere e a cui guardiamo con grandissimo senso di responsabilità, come per tutte le infrastrutture. Questa però è speciale, perché è molto importante per la città e molto complessa da eseguire. La seguiremo con straordinaria attenzione». (Raoul de Forcade, da “Il Sole 24ore” del 4/5/2023 – https://www.ilsole24ore.com/)

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Vedi il video che spiega bene (di Geopop.it):

Nuova diga foranea di Genova, la più profonda d’Europa: a cosa serve e come sarà costruita (geopop.it)

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(tracciato terzo valico ferroviario, lungo 53 km di cui il 70 per cento in galleria, la nuova linea interessa 14 Comuni nelle province di Genova e Alessandria) – Da https://www.fsitaliane.it/:  La nuova linea ferroviaria Terzo Valico è in primo luogo finalizzata a migliorare i collegamenti del sistema portuale ligure con le principali linee ferroviarie del Nord Italia e con il resto d’Europa, in coerenza con le strategie annunciate nel Libro Bianco dei Trasporti dell’UE: trasferire entro il 2030 il 30% del traffico merci, oltre i 300 km, dalla strada al ferro, e il 50% entro il 2050, con vantaggi per l’ambiente, la sicurezza e l’economia.

Parte fondamentale del Core Corridor TEN-T Reno-Alpi – il più importante asse europeo di collegamento nord a sud su cui si muove il maggior volume di merci trasportate in Europa, attraversando i Paesi a maggior vocazione industriale (Paesi Bassi, Belgio, Germania, Svizzera e Italia), il Mediterraneo con il Mare del Nord, i porti dell’Alto Tirreno con quelli del Nord Europa – il Terzo Valico consentirà di superare gli attuali ostacoli allo sviluppo del trasporto ferroviario tra Genova, Milano e Torino.

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(supply chain, immagine ripresa da https://www.insidemarketing.it/) – per SUPPLY CHAIN s’intende un sistema di organizzazioni, persone, attività, informazioni e risorse coinvolte nel processo atto a trasferire o fornire un prodotto o un servizio dal fornitore al cliente

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DALLA PANDEMIA ALLA GUERRA IN UCRAINA: DUE ANNI DI STRAVOLGIMENTI DELLE CATENE DEL VALORE

da https://www.ispionline.it/ ottobre 2022

   Gli ultimi tre anni hanno messo a dura prova l’economia mondiale: la pandemia prima, e la guerra in Ucraina poi, hanno messo sotto pressione le supply chains di tutto il mondo (e in particolare quelle collegate con Cina e Asia) (ndr: per supply chain s’intende un sistema di organizzazioni, persone, attività, informazioni e risorse coinvolte nel processo atto a trasferire o fornire un prodotto o un servizio dal fornitore al cliente, NDR), mettendo a nudo gli elementi di vulnerabilità della globalizzazione: un sistema giunto ad un tale livello di interdipendenza da poter essere messo in difficoltà da problemi di carattere regionale o locale. Il settore della logistica e dei trasporti, vera “spina dorsale” di questo sistema basato sul criterio della massima efficienza (che si concretizzava nel just in time e nella minimizzazione delle scorte), ha subito un forte stress la cui cartina di tornasole è stato l’aumento significativo dei costi dei noli dei containers trasportati via mare, così come dei tempi di consegna delle merci. Fattori che si sono tradotti nell’aumento, da marzo 2020, dei costi di spedizione di un container sulle rotte transoceaniche globali con gravi conseguenze anche con riferimento al fenomeno inflazionistico.

(vedi tutto lo STUDIO su: studio_conftrasporto.pdf (ispionline.it) )

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(La rete portuale del Mediterraneo, da LIMES, Carta di Laura Canali del 2020, https://www.limesonline.com/)

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L’OPERA PIÙ COSTOSA DEL PNRR

LA NUOVA “DIGA FORANEA” DI GENOVA COSTA 1,3 MILIARDI DI EURO E IL SUO CANTIERE È ENORME, COSÌ COME IL SUO IMPATTO SULLA CITTÀ

da “IL POST.IT”, 4/5/2023, https://www.ilpost.it/

   Giovedì 5 maggio 2023 è stato versato il primo carico di ghiaia della nuova diga del porto di Genova, l’opera più imponente e costosa del PNRR, il piano nazionale di ripresa e resilienza con cui il governo italiano intende spendere i finanziamenti europei del Recovery Fund. In questo caso sarà finanziata con una parte del cosiddetto fondo complementare, cioè una quota di soldi garantiti dall’Italia per completare i finanziamenti europei.

   Come spesso accade in queste occasioni, è stata più che altro una cerimonia simbolica: l’operazione ha mosso a distanza la gru di una nave che ha versato un carico di ghiaia in mare. Considerata la grandezza dell’opera e i costi, finora la preparazione del progetto è stata veloce e tra le istituzioni c’è un certo ottimismo sulla possibilità di finire i lavori entro il 2026.

   La diga viene spesso chiamata “diga foranea”: significa che è la prima protezione dal mare per le navi che entrano nel porto. Se ne discute da quasi un decennio, anche se il primo atto formale risale al 2018, quando il progetto rientrò nel cosiddetto decreto Genova approvato dal governo in seguito al crollo del ponte Morandi.

   Complessivamente sarà lunga circa 6,2 chilometri. Sarà costruita per far entrare in porto enormi navi portacontainer, le più grandi mai costruite, lunghe oltre 400 metri, larghe 62 e con un carico di oltre 24mila TEU, acronimo di twenty-foot equivalent unit, lo standard minimo di un container. La diga attuale dista 550 metri dalla costa, mentre quella nuova sarà costruita a una distanza di 800 metri per permettere anche alle navi più grandi di ruotare su loro stesse in caso di manovra. Due ingressi dedicati e separati consentiranno di tenere distinte le rotte del traffico merci da quelle di traghetti e navi da crociera.

   Secondo le stime dell’autorità portuale la diga è un’opera necessaria per lo sviluppo e la competitività del porto, che altrimenti andrebbe incontro a un calo annuo del 6,8 per cento del traffico container. Dal porto di Genova passano ogni anno 66 milioni di tonnellate di merci, circa il 33 per cento del traffico container nazionale. Tutti i più grandi operatori mondiali come MSC, Maersk, Cosco, CMA CGM, Evergreen, Hyundai Merchant Marine, Hapag-Lloyd offrono servizi nel porto di Genova, così come i maggiori operatori di terminal portuali come Spinelli, Messina, Gavio, Grimaldi e alcune compagnie petrolifere come Eni ed Esso.

   Quando l’opera sarà conclusa, l’autorità prevede di arrivare a gestire tra i 5 e i 6 milioni di TEU all’anno, con un beneficio economico sul lungo periodo pari a 4,2 miliardi di euro in maggiori introiti da traffico di container, diritti e tasse portuali. Secondo le previsioni Genova avrebbe un vantaggio competitivo anche nei confronti del porto di Rotterdam, nei Paesi Bassi, il primo scalo mercantile europeo, soprattutto per gli scambi con i porti del Sud Est asiatico come Singapore e Shanghai in Cina e Yokohama in Giappone.

   Anche l’investimento pubblico è notevole. In totale la diga costerà 1,3 miliardi di euro, se le stime saranno rispettate. La prima fase del cantiere da finire entro il 2026 costerà 950 milioni di euro, di cui 500 milioni stanziati dal fondo complementare del PNRR finanziato con risorse nazionali, 100 milioni di euro dal fondo per le infrastrutture portuali, 264 milioni dalla banca europea degli investimenti (BEI) e i rimanenti 86 milioni di euro dall’autorità portuale e dalle amministrazioni locali. «La diga porterà tantissimi investimenti pubblici e privati», ha detto il sindaco di Genova Marco Bucci.

   I lavori saranno complessi perché verranno fatti senza interrompere il traffico portuale: si dovrà costruire un basamento fatto di roccia a 50 metri di profondità, utilizzando in totale 7 milioni di tonnellate di materiale. Sul basamento verranno poi posizionati cassoni in cemento armato alti 33 metri, larghi 35 e lunghi 67. I cassoni saranno poi riempiti con materiale di risulta ricavato in parte dalla demolizione della vecchia diga e in parte dallo scavo del fondale.

   L’appalto per la costruzione è stato vinto da un consorzio di imprese guidato da Webuild e a cui partecipano anche Fincantieri Infrastructure Opere Marittime, Fincosit e Sidra. Webuild ha costruito anche il nuovo ponte San Giorgio. Saranno circa mille le persone impegnate nei cantieri, tra assunzioni dirette e indirette. Andrea Tafaria, segretario del sindacato Filca Cisl della Liguria, ha detto che la diga è «un’occasione preziosissima: garantirà al settore edile una massa salari di 180 milioni di euro, oltre 6 milioni e mezzo di ore lavorate, ricadute occupazionali e ci permetterà di avviare percorsi formativi in tutti gli ambiti».

   Webuild assicura che saranno rispettati «i più stringenti criteri di sostenibilità». La costruzione, infatti, si basa sul riuso dei vecchi materiali, in particolare l’utilizzo di quasi tutto il materiale proveniente dalla demolizione della vecchia diga per ridurre l’impatto ambientale nella fase di costruzione, le operazioni di trasporto e il consumo di carburante.

   Nonostante le rassicurazioni, comunque, negli ultimi mesi sono emersi dubbi sull’opportunità di costruire una diga così grande, con proteste per l’impatto ambientale e per l’organizzazione del cantiere.

   Piero Silva, professore universitario di pianificazione portuale all’università di Grenoble, consulente esterno delle prime fasi progettuali, ha scritto una lettera alla città di Genova in cui esprime dubbi sulle previsioni ottimistiche dell’autorità portuale. Lo scorso anno si dimise da consulente dopo che i suoi rilievi non vennero presi in considerazione.

   Nella lettera pubblicata due giorni fa, Silva ribadisce le sue critiche. La diga, dice, è un progetto assolutamente sovradimensionato se paragonato ai modesti obiettivi in termini di traffico container. Inoltre avrà costi e tempi spropositati, ben superiori alle promesse fatte. Silva sostiene inoltre che il progetto abbia «un rischio tecnico altissimo, prevedendo la diga su uno spesso strato limoargilloso inconsistente, a profondità dove la consolidazione di tale strato indispensabile è considerata dagli esperti impossibile». Per Silva il disegno della diga causerà problemi legati alla sicurezza della navigazione perché la rotta di ingresso e uscita delle navi dal porto non è parallela, un difetto che in caso di brutto tempo potrebbe causare un impatto tra le navi e la diga stessa.

   Negli ultimi mesi diverse associazioni ambientaliste hanno protestato per la mancanza di indagini geologiche preliminari in vista del cantiere e soprattutto per l’impatto ambientale dei lavori in mare. Secondo dati diffusi dal ministero dell’Ambiente, il cantiere causerà un’emissione di gas serra pari a circa 401mila tonnellate di CO2. «L’equivalente dell’attività di un anno della ex centrale a carbone in porto», ha detto Selena Candia, consigliera regionale della lista Sansa, all’opposizione. «E in questi numeri non vengono contabilizzati l’esercizio e il traffico ulteriore».

   Alcuni comitati locali si sono opposti alla concentrazione dei lavori di preparazione dei cassoni della diga in un cantiere portuale nel quartiere di Prà. Secondo questi comitati i lavori avrebbero un impatto notevole sul traffico della zona, sull’inquinamento e sul paesaggio, perché i cassoni sono alti 33 metri. Nelle ultime settimane si sono riuniti più volte per chiedere alle istituzioni di trovare soluzioni alternative. Una decisione non è ancora stata presa, ma il vice ministro delle Infrastrutture Edoardo Rixi ha detto che è impensabile concentrare tutta l’attività di preparazione nella zona portuale di Prà. Tra le ipotesi c’è lo spostamento di una parte del cantiere a Vado Ligure. (da “IL POST.IT”, 4/5/2023, https://www.ilpost.it/)

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LA SIGNORA DELLE MERCI – Breve storia della logistica,di CESARE ALEMANNI (LUISS University Press, maggio 2023, euro 16,00, pagine 200)

LA SIGNORA DELLE MERCI

Breve storia della logistica

da https://www.iltascabile.com/

Cesare Alemanni è giornalista, scrittore e curatore di contenuti. Si interessa di sistemi globali e dell’interazione tra tecnologia, economia e geopolitica. Nel 2023 ha pubblicato La signora delle merci (LUISS University Press), un libro sulla storia della logistica e il suo ruolo nei meccanismi della globalizzazione.

– Dopo la fine della Guerra Fredda (…), dal punto di vista dei paesi occidentali più avanzati (…), vi è un’apertura di un ampio spazio di azione, ed esportazione di capitali e produzioni (…). Programma che, quantomeno dal punto di vista industriale e produttivo, difficilmente sarebbe stato possibile senza l’intervento della logistica. La cui capacità di imporre forme di “command & control”, di natura operativa, concettuale e “socio-territoriale”, a questo nuovo spazio e di organizzarne, coordinarne e fluidificarne i flussi di materiali è una componente decisiva nel passaggio dalla carta alla pratica, del modello economico del neoliberismo. Gli elementi decisivi in tal senso sono soprattutto due: l’incremento della capacità di calcolo, previsione, progettazione e gestione di sistemi complessi ed entropici, che è figlio dell’avanzare delle tecnologie informatiche (oltre che dell’esperienza logistica bellica), e lo sviluppo di un sistema di trasporto estremamente fluido e del tutto anfibio: la containerizzazione, ovvero il linguaggio materiale, il medium-messaggio in cui “parla” l’epoca della globalizzazione –

Sebbene aspiri alla semplificazione e alla sintesi, la logistica dimora nella complessità e nella molteplicità.” –

– “Le filiere sono la vera ragione, invisibile agli occhi, della stupefacente rapidità e del ridotto costo del progresso tecnologico e informatico di questo nostro primo scorcio di XXI secolo.” –

Filiere che, di recente, sono diventate la faglia di frattura e conflittualità “sospesa” più calda del pianeta (chiedere a Taiwan). A dimostrazione dell’ingenuità di coloro che, negli anni Novanta, in proposito dei processi d’integrazione industriale e finanziaria, parlavano dell’avvento utopico di un “mondo piatto” e post-politico, le filiere e la logistica hanno in realtà creato una mappa globale fatti di inediti punti di accumulo tensivo, in cui gli snodi e la rarefatta geoeconomia delle supply chain contano più delle specificità geografiche o delle contrapposizioni ideologiche. –

– …Ricapitolando lo sviluppo della FEITORIA (stazione commerciale, magazzino europeo in territorio straniero, NDR) di MACAO, un mandarino cinese del Seicento ce ne restituisce i sedimenti di uso (“all’inizio hanno messo un porto, col tempo hanno costruito magazzini e infine hanno eretto torri militari e bastioni per difendersi al loro interno”) e ci ricorda come nello sviluppo di qualunque ecosistema logistico, la “ragion pura” del trasporto conviva con “la ragion pratica” dell’amministrazione e della difesa.  

   Fino a marzo 2020 termini come “supply chain”, “filiere”, “catene del valore” circolavano solo tra specialisti. Negli ultimi tempi le cose sono cambiate. Il covid, la guerra in Ucraina e le tensioni sino-americane hanno messo alla prova i sistemi di produzione-distribuzione da cui dipende l’economia contemporanea. Gli effetti sono noti: l’inflazione che sta erodendo il nostro potere di acquisto ha origine dallo sfibrarsi delle catene di approvvigionamento, ancor prima che dalla crisi energetica. 

   Per questo motivo, ve ne sarete accorti, di recente si parla di supply chain anche al bar. Il dibattito, tuttavia, si è mantenuto sulla superficie delle cose. Non ci si è per esempio chiesti cosa, col tempo, abbia reso le filiere tanto fragili e conduttive per gli shock operativi ed economici. Quali siano i loro presupposti.  Quali strumenti, in condizioni normali, ne garantiscano il funzionamento. L’interesse per i problemi delle “supply chain” non si è tradotto in pari curiosità per i temi della logistica. È curioso. La logistica non è solo responsabile del funzionamento delle filiere, è la ragione della loro stessa esistenza. Essa è molto più di un collante materiale delle supply chain e del loro Continua a leggere

IL RACCONTO DI NATALE 2022 per i nostri affezionati 25 lettori: dal libro WORKS di VITALIANO TREVISAN, mirabile opera letteraria che racconta lo spirito (assai discutibile) degli ultimi decenni del Nordest italiano; attraverso i LAVORI svolti dallo scrittore (persona, intellettuale, che ci mancherà molto) (Buon Natale)

Il 7 gennaio 2022 è morto lo scrittore Vitaliano Trevisan (nella foto). Aveva 62 anni. Scrittore, attore, drammaturgo, sceneggiatore, aveva esordito nella letteratura con il romanzo I quindicimila passi (pubblicato nel 2022). Il suo libro più recente è Works (Einaudi, 2016), rieditato con un’ampia, lunga e coinvolgente appendice nel 2022. Nato a Sandrigo, vicino Vicenza, nel 1960, era arrivato tardi alla scrittura, svolgendo prima vari mestieri, dall’operaio al gelataio, al geometra, esperienze poi da lui raccontate in Works. In questo testo autobiografico, che si fa ritratto di una generazione cresciuta nel nord est, Trevisan racconta anche l’impossibilità di allontanarsi dalla propria storia e dalla propria educazione, da quella vicenda di famiglia che è sempre, scrive, “una storia di soldi”.

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Works. Edizione ampliata, di Vitaliano Trevisan (2022, Einaudi Stile libero, pagg 704, euro 22)

    Proponiamo qui di seguito quattro pagine (sulle 700) del (magnifico) libro WORKS di VITALIANO TREVISAN (editore “Einaudi, Stile libero”, 22 euro), scrittore scomparso nel gennaio scorso (2022); libro pubblicato per la prima volta nel 2016, e integrato nell’ultima versione del 2022 con un’ampia appendice di una quarantina di pagine dal titolo: “Dove tutto ebbe inizio, un testamento letterario”. (una lettura, “Works”, coinvolgente di un mondo personale, esistenziale, pubblico, quello veneto, descritto da Vitaliano in modo mirabile, ricordando le sua tantissime attività lavorative). Ve ne proponiamo qui uno (dei suoi lavori) tratto dal libro:

Polli e condoni: un intermezzo pubblico (di Vitaliano Trevisan, da “Works”)

   “Quasi dimenticavo, in mezzo a tutto questo, l’incarico da geometra novantista (allora si chiamavano così i precari assunti dalle pubbliche amministrazioni, con contratto di tre mesi) per i comuni di Nanto e Castegnero, che condividevano l’ufficio tecnico, incarico conferitomi per intercessione del mio amico e datore di lavoro, che era amico del geometra comunale dei comuni succitati, il quale un giorno gli aveva chiesto se non conoscesse qualcuno, possibilmente con un minimo di esperienza, cui quel lavoro di tre mesi avrebbe fatto comodo, essendo in arrivo un condono edilizio – forse uno dei primi della serie -, che avrebbe di sicuro intasato il suo ufficio, così come si prevedeva avrebbe intasato gli uffici di tutti i comuni del resto d’Italia.

   Ed eccomi così, per tre mesi, geometra condonatore. Lavoro piuttosto facile in verità, che consisteva nel ritirare e protocollare le domande di condono presentate direttamente dai proprietari, o dal loro professionista di fiducia, verificarne, quando nel caso sul campo, la veridicità dei dati, valutare la tipologia e l’entità dell’abuso e, rientrante quest’ultimo nei canoni del condono, calcolare infine, tramite apposite tabelle, l’esborso necessario a sanarlo. Tutto qui.

(Ritengo doveroso annotare, di passaggio, che le pratiche presentate direttamente dai privati, erano nella quasi totalità dei casi redatte sottobanco da geometri comunali di comuni limitrofi, che poi reciprocamente se le approvavano. Tutto più o meno alla luce del sole, ovviamente. Funzionava nel modo seguente: di solito, per evitare conflitti di interesse -ah!-, ci si scambiava territorio, per così dire, cioè io, geometra comunale che sto a Bolzano Vicentino, eseguo sottobanco i condoni del limitrofo comune di Bressanvido, e lascio che il geometra comunale di Bressanvido esegua i suoi nel mio territorio; poi io faccio passare i suoi, lui i miei, e tutti siamo contenti, geometri comunali e committenti, che ben volentieri pagano in nero la metà di quello che pagherebbero a un professionista. Si dette però anche il caso di molti geometri comunali tanto sfacciati, da ritenere di non dover sottostare nemmeno a questa regola diciamo così di buon gusto, che redigevano domande di condono relative al territorio di loro competenza, che poi loro stessi si sarebbero trovati a dover approvare. Il geometra comunale di X, per esempio, mio compaesano, coetaneo di mio cognato e suo amico, costruì così la sua fortuna, a forza di condoni edilizi compilati sottobanco, e approvati soprabanco. Bei tempi, signore e signori e altri generi vari, tempi in cui si poteva far fortuna così, partendo dal niente come si dice, da geometra comunale ad amministratore di una grossa ditta di raccolta e riciclaggio di rifiuti, e tutto in un paio d’anni, grazie a un’ondata di condoni ben amministrata)

   Nel giro di un paio di settimane ero così veloce a sbrigare le pratiche, che il geometra comunale K – chiamiamolo così, visto che il nome non lo ricordo; l’aspetto sì, ma sono un po’ stanco di descrivere – si premurò di mettermi sull’avviso. Sei troppo veloce, mi disse un giorno, meglio se te la prendi un po’ calma; in fondo ci sono altri due mesi no?

   Ero basito. Troppo veloce!, era la prima volta che qualcuno mi “rimproverava” perché ero troppo veloce, e non per il contrario. Ma il concetto di lavoro, nel pubblico, è affatto diverso rispetto che nel privato. Per come la vedevo io, il geometra K avrebbe potuto benissimo seguire tutte le pratiche di condono senza alcun bisogno di un aiuto, ma anche lui, che pure non si interessava di tirar su condoni per conto suo, era comunque molto preso dagli affari suoi, che al momento consistevano nella preparazione di un esame universitario – ca va sans dire studiava architettura a Venezia -, essendo il suo progetto di carriera legato al conseguimento della laurea, titolo indispensabile per salire al rango di dirigente, sempre all’interno dell’amministrazione pubblica.

   Slow down then, rallentare, far durare un giorno ciò che si potrebbe fare in mezza giornata, e visto che l’aspirante architetto geometra comunale K mi ha preso in simpatia, accompagnarlo nelle sue frequenti uscite, avendo così l’occasione di rendermi conto della cosiddetta realtà del territorio e delle sue particolarità, a partire dai comignoli, che nel paese di Castegnero si distinguono nettamente da tutti quelli della provincia e, sembra, dal resto del mondo, per una loro ridondante e specifica tipologia costruttiva, basata sul mattone facciavista. In effetti, basta farsi un giro per la parte storica del paese, per rendersi conto che, a un certo punto, doveva essere stato a Castegnero con i comignoli, un po’ come fu in Olanda con i bulbi di tulipano, e così come ad Amsterdam ci si rovinava per i bulbi, così a Castegnero per i comignoli, che ognuno voleva più alto e più ridondante di quello del vicino. Le cose più strane accadono ovunque anche a pochi chilometri da casa.

   Interessante territorio comunque, una grossa fetta di steppa cerealicola assolutamente piatta, in parte terreno di bonifica, ovviamente mussoliniana, tra i colli Berici e gli Euganei, tagliata in due dalla strada della Riviera Berica; e un’altra parte che si estendeva in quota sui colli, quelli Berici naturalmente, essendo gli Euganei sotto il dominio di Padova, eppure così vicini alla vista, che non avrei avuto difficoltà a immaginarmi Petrarca che, “solo et pensoso”, quei campi deserti andasse misurando a passi tardi e lenti, tra distese di mais e soia marca Pioneer, e allevamenti di polli, se solo all’epoca avessi letto Petrarca.

(Francesco Petrarca, Canzoniere, sonetto 35 –Einaudi, Torino 2005, uno dei preferiti dall’autore. Che a dire la verità ne ha letti solo due, grazie a una femmina intelligente e troppo sensibile che, avendo letto i suoi libri, li aveva scelti per lui. Scelta assolutamente giusta, dato che l’autore ne ha poi ricavato due racconti e un corto teatrale. Stupido!, non potevo fermarmi a “uno dei preferiti dall’autore”? Sì. Se fossi solo l’autore.)

   Restavano i campi e soia marca Pioneer e gli allevamenti di polli. Più polli che condoni in effetti, una proliferazione incontrollata di polli, e relativi pollai, edificati nel giro degli ultimi dieci anni, sparsi per tutto il territorio dei due comuni. Non a caso, l’ottanta per cento delle domande di condono che vagliavo, riguardavano pollai più o meno grandi. L’odore di pollo nell’aria stagnante di quei mesi estivi – non so dire l’anno esatto, ma solo che era piena estate -, a volte era insopportabile. Ricordo un pomeriggio caldo e afoso, uno dei primi che avrei passato in quell’ufficio del comune di Nanto, situato in un fabbricato d’angolo, all’incrocio tra la statale e la strada che porta al centro del paese, incrocio regolato da un semaforo.

   Naturalmente mi hanno assegnato la stanza peggiore, cioè quella d’angolo dell’edificio d’angolo, al primo piano, con due finestre, una sulla statale, l’altra sulla strada verso il centro, proprio sopra i semafori, così ché, quando si formavano delle code, l’aria diventava quasi irrespirabile – finestre naturalmente aperte; niente aria condizionata all’epoca. A un certo punto, oltre alla consueta puzza dei gas di scarico, si fa strada un odore nauseabondo che invade presto tutta la stanza, un odore denso e insopportabile che non riesco a identificare. Mi affaccio alla finestra, e, proprio sotto di me, ecco l’orrore: un camion fermo al semaforo, il cui cassone scoperto è ricolmo di teste, zampe e interiora di pollo, su cui ronza un esercito di mosche. Dalla parte posteriore del cassone fuoriesce sgocciolando un misto di sangue e altri umori.

   Come a ogni altro orrore, dopo quel primo shock iniziale ci feci presto l’abitudine. Si trattava di uno dei tanti camion pieno degli scarti di lavorazione del grande pollificio, situato nella frazione vicina, che impiegava circa cinquecento dipendenti, e trattava, industrialmente parlando, non so più quanti migliaia di polli al giorno, che trasportava detti scarti, cioè l’impressionante accumulazione di teste, zampe e interiora di pollo, verso un altro stabilimento, più giù verso Noventa, sempre facente capo alla stessa proprietà, dove  dette teste e zampe e interiora di pollo, opportunamente trattate e miscelate con altre sostanze, sarebbero poi diventate mangime per animali – dove si dimostra che, al presente, vale per il pollo ciò che vale per il maiale, ovvero di entrambi non si butta via niente. Ed ecco spiegata l’abnorme proliferazione di polli e pollai, perché da quando la fabbrica di polli era stata impiantata, come si usa dire da queste parti – e detto di passaggio: particolare significativo questo modo di dire che uno impianta un’attività industriale, come si scavasse un buco nel terreno e ci impiantasse dentro la sua fabbrica come si pianta un albero -, da un tipo del paese, un contadino come gli altri, che però a un certo punto doveva aver avuto una visione, perché smise di coltivare e si mise ad allevare polli in batteria, per venderli a un grande pollificio, noto a livello nazionale, e poi, avendo fatto così, in tempi bravi, un sacco di soldi, si doveva esser detto che se lo facevano loro, poteva farlo benissimo anche lui, e impiantò il pollificio con cui fece più soldi ancora. Da qui la ricaduta sul territorio, che ora andavo sanando, visto che, seguendo il suo esempio, tutti quelli che nei dintorni avevano anche solo un fazzoletto di terra, si dedicarono anche loro all’allevamento di polli in batteria, spesso come secondo lavoro, che poi vendevano direttamente al pollificio del compaesano, che nel frattempo era diventato così ricco, da potersi permettere di comprare un’intera collina, la prima uscendo dal paese, alta circa un due-trecento metri, per due chilometri di diametro, e la villa settecentesca che sorgeva sulla sua cima; villa che aveva poi fatto ristrutturare, e che ebbi modo di visitare, essendoci al suo interno più di un’opera da sanare. Ricordo bene i bagni, marmo bianco carrara e rosso asiago, lavabi anche in marmo, rubinetteria placcata oro, e tutto il peggio del meglio, e viceversa, che uno può aspettarsi da un venditore di polli diventato straricco nell’arco di poco più di vent’anni.

   Poco altro resta da dire di quell’estate da geometra condonatore, a parte forse le furiose corse in moto – Yamaha Xt 600 -, la mattina per andare, la sera per tornare, lungo la trafficatissima Riviera Berica delle ore di punta, dove mi divertivo a fare lo slalom tra auto e camion incolonnati, o a sorpassare un camion tenendo il centro strada mentre dalla parte opposta ne arrivava un altro, così da trovarmi in mezzo ai due colossi, a centoquaranta-centocinquanta all’ora, con non più di venti centimetri parte per parte, sempre ben conscio del pericolo, sempre pensando: Basterebbe un attimo e finirei stritolato. Era uno dei miei esercizi preferiti. La vulnerabilità della situazione, in quelle frazioni di secondo, anziché spaventarmi, mi dava alla testa. L’adrenalina è una droga potente.”

(VITALIANO TREVISAN, dal libro WORKS, Ed. Einaudi “Stile libero”)

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VITALIANO TREVISAN E I TRE SALTI D’EPOCA DEL MONDO DEI VINTI

di Aldo Bonomi, da “Il Sole 24ore” del 31/5/2022

– Libro tumultuoso nel suo dispiegare in una vita, la sua, tante vite minuscole che fanno racconto di una moltitudine messa al lavoro scomponendo e ricomponendo una composizione sociale: la società veneta –

   Cambia l’antico adagio gonfio di rassegnazione «si lavora per mangiare», induce a “mangiare lavori” nel mercato della flessibilità, produce angoscia quando diventa “il lavoro che ti mangia”. Sono tre salti d’epoca che diventano letteratura del profondo nel libro Works (Einaudi) che ci ha lasciato Vitaliano Trevisan nell’angoscia della «mia cazzuta vita».

   Vita così definita e raccontata in quel profondo nordest con famiglia che ti fa geometra per mangiare, il capitalismo di territorio ingordo di lavori e infine la vita nuda mangiata dai lavori. Libro tumultuoso nel suo dispiegare in una vita, la sua, tante vite minuscole che fanno racconto di una moltitudine messa al lavoro scomponendo e ricomponendo una composizione sociale: la società veneta.

   A cui sbatte in faccia «la merda dei lavori» quando si fa «marmellata di maroni» con cui definisce ciò che resta dei corpi che si sfracellano al suolo negli “incidenti sul lavoro” facendo il lattoniere e il realizzatore di capannoni proliferanti nella fabbrica diffusa. Con uno sguardo amaro che si fa dolce nel mettere assieme anche il padroncino di impresine sui tetti: tutti con dentro il mito di essere supereroi del superlavoro quando mangiare lavoro diventa l’unica identità.

   Che Vitaliano scompone e ricompone mentre gli entra dentro facendo l’operaio di gabbie per uccelli, l’apprendista muratore, il cameriere, il geometra molecolare di villette a schiera dilaganti per poi salire, si direbbe verso l’alto del terziario, in uno studio di architettura per interni, designer per un capitalismo che imparava a vestire e vendere la merce. Per poi scendere ritrovandosi venditore di mobili e poi inoltrarsi nel distretto del mobile arredo ai piani alti di una grande impresa di cucine componibili leader di filiera di un capitalismo cresciuto dove si applica la qualità totale.

   Parola magica che ti entra dentro con tanto di comandi della nuova macchina che fa andare fuori di testa quelli come Walter, mansionati solo per imputare dati. Con la storia di Walter, rincontrato anni dopo nei pressi di un centro per la salute mentale, pare dare un monito agli apologeti dello smart working che come si sa ha due facce: quella dell’algoritmo e quelli a cui dà il ritmo.

   Con la qualità totale arrivano a Vicenza anche i cacciatori di teste e Vitaliano scopre di essere una “risorsa umana”. Apre pure una partita Iva nel circuito della consulenza. Dura poco, ha bisogno d’aria aperta, sale sui tetti a fare capannoni.

   Prova anche la mobilità da disoccupazione, affacciandosi ai lavori per gli enti locali. Ci regala pagine straordinarie sulla acrofobia del tempo vuoto che prende i suoi conterranei quando gli manca il pieno del lavoro. Si inoltra nel circuito delle cooperative sociali ed è feroce con la loro autoreferenzialità da “esercito dei buoni”.

   Fa stagione nella filiera del gelato tracciata dalla storia dal Veneto alla Baviera dove oggi scorre anche la subfornitura meccatronica verso la Bmw. Filiere pesanti che necessitano di piattaforme logistiche che tocca come addetto ai magazzini. Così come annusa il distretto orafo vicentino seguendo il tentativo della moglie di rilanciare l’azienda di famiglia, regalandoci riflessioni e drammi da “familismo amorale”. Che spesso è una malattia endemica nel passaggio dell’eredità imprenditoriale.

   Da cui sfugge scegliendo di fare il portiere di notte in un albergo della città infinita fatta di villette e capannoni che collega Vicenza con Verona. Questo diviene il suo osservatorio antropologico del nordest cambiato nella sua composizione sociale che continua a cambiare segnato dai miti e dai riti della sua iperindustrializzazione diffusa. Portiere di notte per leggere e scrivere libri come questo che segna il salto d’epoca dal lavoro salariato alla proliferazione e svalutazione del lavoro.

   Porta dentro con rabbia questo mondo dei vinti nel mondo di quelli che “lavorano comunicando” facendo l’attore, il drammaturgo, il regista teatrale, il librettista, lo sceneggiatore. Saggista e scrittore con una produzione letteraria alla Bernhard, “soccombente” a Salisburgo e nell’Austria Felix come Vitaliano lo era a Vicenza e nel “Veneto Felice”, ci lascia dentro riflessioni amare e interroganti.

   A me che vado per microcosmi e per distretti, raccomanda di entrare dentro capannoni e fabbrichette prima di farne retorica, ai geometri e agli architetti-urbanisti di percorrere la città infinita veneta per vedere ciò che resta del territorio e ai giuslavoristi di leggersi Works per capire come si fa strame, lui scrive «merda», dei lavori.

   Ne ha anche per i creativi e gli eventologi che vestono merce e organizzano festival di impresa. Sarà per questo che quest’anno al festival “Vicenza città impresa” hanno organizzato una serata nel Teatro Olimpico in ricordo del soccombente Vitaliano Trevisan. Al festival abitualmente si celebrano momenti dedicati alla letteratura di impresa. Vitaliano ci lascia un messaggio. Dedichiamo tempo e spazio alla questione aspra e interrogante dei lavori. (Aldo Bonomi, da “Il Sole 24ore” del 31/5/2022)

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I suoi primi racconti (le antologie Un mondo meraviglioso e Trio senza pianoforte/oscillazioni) risalgono alla fine degli anni Novanta, mentre con I quindicimila passi nel 2002 ha esordito nel romanzo: prendendo a pretesto l’ossessione del protagonista nel contare e annotare i passi dei suoi tragitti, il libro prende di mira l’educazione cattolica e le ipocrisie della provincia italiana. Con quel libro ha vinto il Campiello Europa e il Premio Lo Straniero. Da lì, la sua carriera di autore ha decollato e negli anni Duemila. Trevisan si è diviso tra la letteratura, la scrittura per il cinema e per il teatro e la recitazione. Tra gli altri suoi libri per Einaudi ricordiamo Il ponte, un crollo (2007) e Grotteschi e Arabeschi (2009). Per il teatro, Trevisan ha curato nel 2004 l’adattamento di Giulietta di Federico Fellini e scritto, tra gli altri, Il lavoro rende liberi, messo in scena nel 2005 da Toni Servillo. I suoi monologhi Oscillazioni e Solo RH sono stati pubblicati da Einaudi nel volume Due monologhi (2009)

Ha lavorato anche per il cinema – con Matteo Garrone in Primo Amore (2004), come attore e come co-sceneggiatore, e con Gianclaudio Cappai in Senza lasciare traccia (2016) e in tv (tra le altre, nella serie RIS).

E’ morto suicida il 7 gennaio 2022.

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RADIOTRE: trasmissione “Le meraviglie” – Ex Canapificio Roi di Cavazzale raccontato da VITALIANO TREVISAN:

https://www.raiplaysound.it/audio/2022/01/Le-meraviglie-del-15012022-db0a7367-e120-4565-8b04-cea1cba27eee.html

Ex Canapificio Roi di Cavazzale raccontato da Vitaliano Trevisan

Una puntata originariamente in onda nel giugno 2017, in omaggio allo scrittore vicentino recentemente scomparso. Una lunga passeggiata attraverso Cavazzale ad inquadrare la storia di una grande fabbrica abbandonata che ha segnato il destino sociale e politico del paese. Vitaliano Trevisan ci porta a condividere la storia di un ex canapificio nel vicentino. Una importante struttura dismessa, rende possibile un discorso sul carattere di un territorio molto legato al tessile. Il modello di sviluppo imprenditoriale era quello sociale: nei primi del novecento la famiglia Roi edificava le case per gli operai costruendo nel 1929 un teatro sede di una filodrammatica. Nello stabilimento lavoravano soprattutto donne tra le quali la madre di Vitaliano Trevisan. Dalla fine della seconda guerra mondiale inizia una lunga crisi del settore della canapa che ha portato nel 1957 alla fine della avventura della famiglia Roi.

15 Gen 2022

CANAPIFICIO ROI di Cavazzale (foto storica da https://www.equilibrium-bioedilizia.it/)

Il Canapificio Roi di Cavazzale (VI) fu tra le poche realtà industriali italiane dell’800 dove si svolgeva l’intero ciclo della lavorazione della canapa. All’interno del canapificio venivano realizzati prodotti di ogni genere esportati anche all’estero, dal filo per le reti da pesca, ai tessuti per le lenzuola, alle vele delle navi e molto altro. Una realtà industriale quella del Canapificio Roi che ha profondamente inciso sulla realtà economica e sociale vicentina, arrivando a impiegare nel 1940 fino a 1200 operai, di cui il 75% erano donne. (da https://www.equilibrium-bioedilizia.it/ )

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CRESPADORO, Vicenza, località CAMPODALBERO, Contarda MOLINO, doveva viveva Vitaliano Trevisan nell’ultima parte della sua vita (foto da “Il Mattino di Padova”)

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DOVE TUTTO EBBE INIZIO (stralcio iniziale dell’APPENDICE al libro WORKS di VITALIANO TREVISAN)

   “Mi accade, di tanto in tanto, di non riuscire a dormire. Meglio lasciare il letto subito, prima che i demoni inizino con le loro insinuanti litanie. Una passeggiata notturna, lunga quanto basta perché si stanchino di aspettare. Naturalmente il paese è deserto e discretamente buio, cosa che in fondo apprezziamo, dato che non c’è niente da vedere. In questo posto, per trovarci qualcosa uno dev’esserci nato. Ma se ci è nato, com’è il caso di chi scrive, non è affatto detto che da quel qualcosa scaturiscano ricordi belli e piacevoli. In effetti, più passa il tempo, più mi rendo conto che tornare a vivere qui non è stata affatto una buona idea.

   A dire la verità non fu una scelta, ma una delle tante conseguenze della vita, sempre al di sotto delle mie possibilità, che ho scelto di condurre. No, anche a monte nessuna scelta, a meno che tenersi in equilibrio su un filo, preoccupandosi solo di non cadere in qualcosa che avesse un’apparenza di definitivo – come ad esempio sposarsi, avere dei figli eccetera – non si possa considerare tale. Da qui, uno dei principi fondamentali a cui mi sono sempre attenuto: non fare mai un mutuo per acquistare una casa.

   I mutui sono trappole mortali, fatti apposta per renderci ricattabili, per legarci mani e piedi – nel mio caso mano e penna -, a quel mondo umano che, come detto, abbiamo imparato molto presto a detestare, e sempre più abbiamo detestato e detestiamo, ma a cui, evidentemente, siamo comunque legati, visto che, nonostante tutto, non ci siamo mai veramente decisi a lasciarlo. E abbiamo ben due contratti, per altrettanti libri che, prima o poi dovremo anche scrivere, visto che abbiamo incassato anticipi già spesi – come avere due mutui, in un certo senso, e su un altro stiamo trattando. Dunque legati con un fottuto cappio intorno al collo. Se uno ci pensa, una situazione di merda. Intendo la condizione umana in generale. Ma è proprio questo il punto, che fin da bambino non sono mai riuscito a fare a meno di pensarci, arrivando sempre alla conclusione che non solo si tratta di una situazione di merda, ma di una situazione di merda senza via d’uscita; o meglio che l’unica possibile via d’uscita è prendere in mano la situazione di merda e stringere il nodo subito, senza por tempo in mezzo.

   O così, o rassegnarsi ad aspettare, con gli altri, che esso si stringa da sé, così che un giorno, in un bar che frequentiamo di sfuggita, giusto il tempo di prendere il tabacco e magari bere un caffè, tanto per rovinarci la giornata scorrendo Il Giornale di Vicenza, qualcuno dirà: È morto; e qualcun altro chiederà, De cosa?; e il primo risponderà con un’altra domanda, De cosa vuto che ‘l sia morto? e tutto sarà chiaro. Se fosse stato un infarto, o qualsiasi altra cosa, l’avrebbe detto. Ma da queste parti è più probabile che la fine arrivi in forma di domanda retorica.

   Forse dovrei smettere di fumare. Non credo che lo farò. Ho bisogno anch’io di un po’ di compagnia. Il fatto è che proprio non credevo mai che sarei arrivato a questa età, in cui la prospettiva di cui sopra, già di per sé triste, si fa ogni giorno insieme più vicina e più triste. Impreparato per i cinquanta. Impreparato anche per i quaranta. Impreparato sempre, a dire la verità, ma un tempo, l’idea che in ogni momento avrei potuto prendere l’iniziativa e farla finita, mi rendeva l’esistenza più tollerabile. In fondo, il bene più prezioso su cui l’essere umano può contare, ciò che davvero lo distingue dall’animale, è la possibilità di sottrarsi al mondo in ogni momento attraverso il suicidio. Ma perché questo pensiero possa essere di effettiva consolazione, la modalità dev’essere il più possibile estetica, e l’idea di suicidarmi ora, a cinquanta e passa anni, ha un che di ridicolo.

   Ah quegli occhi, che un tempo mi amavano in modo così incondizionato, e ora non riescono a nascondere il disgusto. Faccio di tutto per evitare il loro sguardo, ma uno deve pur farsi la barba di tanto in tanto. Ho provato a farla crescere, ma era peggio: per regolarla ero costretto a mettere gli occhiali, e quella piccola vena che mi pulsa nella tempia, vederla così nitidamente mi era insopportabile. Avrei dovuto cogliere l’occasione e stringere il cappio al momento giusto, quando ero ancora giovane, come Carlo Michelstaedter, come Sarah Kane, come Stig Dagerman – sui libri di quest’ultimo, sempre si trova scritto, e io sempre leggo, “morto suicida a trentuno anni, all’apice del successo”. Adesso è tardi. Dovrò rassegnarmi a portare in giro la carcassa difettata per il tempo che sarà.

   E poi quale successo? Nel caso di chi scrive si tratta solo di notorietà, di avere un qualche nome, cosa che induce il volgo a credervi anche ricchi, e a chiedersi come mai siate tornati a vivere in questo paese del cazzo, in una casa che ormai cade a pezzi, e a stupirsi nel vedervi viaggiare in treno in seconda classe.  Certo, avere successo è estremamente pericoloso, specie se si è giovani. Sempre pensato così. I numerosi esempi di più o meno giovani scrittori investiti da un’improvvisa ondata di successo, e a causa di ciò precocemente rincoglioniti, sia come scrittori che come persone, non ha fatto che confermare quella prima istintiva ripugnanza.

   Ma ora, giunto a un’età più che matura, penso che peggio di avere successo, e peggio anche di non averne affatto, è restare nel mezzo, ossia guadagnare notorietà, che è in sé una sorta di successo, senza però guadagnare i soldi che gli esterni, il cosiddetto volgo di cui sopra, inevitabilmente vi associano.  Pazienza, mi dico, è uno scotto da pagare. Non appena uno scrive qualcosa, e lo pubblica, deve anche accettare che chiunque abbia avuto la compiacenza di leggere, si senta anche in diritto, visto il tempo investito, di farsi a riguardo un’opinione. Tuttavia questo è del tutto normale, e non c’è nulla da aggiungere. Il problema è che chi legge non solo si fa un’opinione su ciò che ha letto (spesso senza nemmeno aver letto), ma anche, direi soprattutto, si fa un’opinione su chi ha scritto.

   Qualsiasi cosa si scriva, sembra non si possa fare a meno di andare a vedere se dietro le parole, anche le più chiare e precise, non vi siano delle altre parole, un qualche movente nascosto, una qualsiasi cosa utile a dividere il mondo in un noi e un loro – e se non si è con loro, si è contro di loro. L’atteggiamento più normale, e il più stupido, è di attribuire allo scrittore la stessa visione del mondo dei suoi personaggi, stupidità che, cipollianamente, si distribuisce equamente a prescindere che si tratti di lettori cosiddetti alti, bassi e/o medi, ammesso che una tale distinzione abbia un senso, cosa di cui voglio dubitare, e da ciò proporre la più neutra distinzione in lettori professionali e non professionali, anch’essi comunque inesorabilmente, cipollianamente accomunati in termini di percentuale di stupidità. (…..)”

(stralcio iniziale dell’APPENDICE al libro WORKS di VITALIANO TREVISAN)

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VITALIANO TREVISAN, L’IMPLACABILE BELLEZZA DI “WORKS”

di Alessandro Mezzena Lona, 7/4/2022, da https://www.arcanestorie.it/

– Un premio strega lo avrebbe meritato più di tanti altri. Lui, Vitaliano Trevisan, sarebbe andato a ritirarlo con la faccia piallata e di rappresentanza dell’altro se stesso. Quel Vitaliano Trèvisan, con l’accento spostato sulla e, che sapeva scendere a patti con teatranti, critici e editori indossando il “cappello dell’ipocrisia”. L’alieno che viveva dentro di lui, che si opponeva al suo carattere solitario e scontroso e gli sussurrava che non poteva sottrarsi sempre ai riti obbligatori della società. Che avrebbe potuto stare appartato, nel suo angolo di Veneto, pur senza negarsi frequenti apparizioni in pubblico, in tivù, nei consessi letterari che contano. Perché il mondo è pieno di artisti ribelli, di asceti sfuggenti, di contestatori irriducibili, che fanno cadere ogni loro parola, ogni gesto, come fossero forieri di altrettante verità rivelate. –

   Ma Vitaliano Trevisàn, con l’accento sulla a, non era proprio capace di smettere di camminare in direzione ostinata e contraria. Come raccontava nel suo libro “Tristissimi giardini” (Laterza, 2010), liberare di tanto Continua a leggere

SICCITÀ e DESERTIFICAZIONE: effetti più riscontrabili del CAMBIAMENTO CLIMATICO, a sua volta causato dall’aumento di Co2 – Ma siamo sicuri che tutto si risolva con nuove tecnologie (desalinizzatori, invasi d’acqua, auto elettriche contro la Co2) e non con un drastico cambiamento del modo di vita di spreco?

LA DESERTIFICAZIONE È UNO DEGLI EFFETTI PIÙ DANNOSI DEL CAMBIAMENTO CLIMATICO, perché la mancanza di acqua crea problemi di approvvigionamento idrico e insicurezza alimentare. Sempre più persone si trovano per questo costrette a migrare. (da https://www.openpolis.it/, 17/6/2022) (l’immagine è ripresa da https://www.meteoweb.eu/)

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MAPPA DELLA SICCITA’, LIVELLO DI RISCHIO; da ANSA del 22/6/2022

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Intervista di LUCA MERCALLI di FANPAGE

“SAREMO PROFUGHI CLIMATICI COME GLI ETIOPI SE NON RIDURREMO LE EMISSIONI DI CO2”

A cura di Davide Falcioni, 17/6/2022, da https://www.fanpage.it/

   L’allarme di Luca Mercalli: “Siamo già in emergenza climatica e ogni giorno che perdiamo aumenta la quantità di anidride carbonica nell’atmosfera. Dobbiamo paragonare il nostro pianeta a un malato grave, bisogna intervenire subito per curarlo. Stasera stessa, non tra un anno”.

   “Ci stiamo avvicinando sempre più alla catastrofe climatica. Dovremmo parlarne tutti i giorni, dovrebbe essere la notizia di apertura di tutti i giornali. Invece…“.

   A parlare, intervistato da Fanpage.it, il climatologo Luca Mercalli all’indomani delle ennesime disastrose notizie sul fronte ambientale: sulle Alpi non c’è più un filo di neve, i livelli dei fiumi e laghi del nord Italia sono ai minimi storici, le temperature sono significativamente più alte rispetto alla media stagionale e la siccità sta già imponendo – e siamo solo a giugno – il razionamento dell’acqua. Ci sembra grave, e lo è: eppure è niente rispetto a quello che ci attende nei prossimi anni se non invertiremo subito rotta. “Dobbiamo abbattere le emissioni di CO2, dobbiamo cominciare a farlo stasera stessa, non tra 10 anni”.

Professore, il Po è in secca, i livelli dei laghi sono ai minimi storici, sulle Alpi non c’è più neve. Perché?

Le cause dell’attuale siccità risiedono nella circolazione atmosferica generale che, a partire dallo scorso dicembre, si è bloccata in una situazione poco evolutiva. Così tutta l’Europa è sotto una struttura di alta pressione che tiene alla larga le perturbazioni ricche di umidità provenienti dagli oceani, quelle che dovrebbero portare le piogge. Lo stallo dura da sei mesi: le ondate di caldo africano non fanno altro che peggiorare la situazione idrica. Un conto è avere siccità con temperature fresche, un altro con temperature anomale, superiori di almeno tre gradi rispetto alle medie del periodo: ciò infatti genera un’ulteriore necessità di acqua per l’agricoltura, le attività industriali e quelle domestiche. Il problema è che non si vede una soluzione a breve termine.

Cosa ci attende nei prossimi mesi?

Non c’è più neve sulle Alpi quindi la disponibilità di acqua si ridurrà ulteriormente. Riguardo i prossimi mesi è difficile essere accurati: le previsioni stagionali hanno un’affidabilità modesta, ma tutto lascia pensare che questa sarà un’estate calda e senza piogge almeno fino alla fine di settembre.

E cosa dobbiamo aspettarci invece nei prossimi anni?

La crescita delle temperature sta già causando la fusione dei ghiacci della Groenlandia, dell’Antartide e delle montagne di tutto il mondo: ciò provoca l’aumento dei livelli di mari e oceani, fenomeno a cui contribuisce anche il caldo stesso incrementando il volume delle acque. Di fatto, i livelli dei mari salgono di 4 millimetri ogni anno. In un Paese con 8mila chilometri di coste come l’Italia si possono ben immaginare le conseguenze. Senza politiche di riduzione delle emissioni di Co2 tra una trentina d’anni chi vive nel Delta del Po o nella laguna veneta dovrà scappare perché avrà il mare nel salotto di casa.

Quanto tempo abbiamo per invertire la rotta?

Non ne abbiamo più, lo ripetiamo da anni. Siamo già in emergenza climatica e ogni giorno che perdiamo aumenta la quantità di anidride carbonica nell’atmosfera. Dobbiamo paragonare il nostro pianeta a un malato grave, bisogna intervenire subito per curarlo. Stasera stessa, non tra un anno. Il tempo che ci resta perché la “terapia” sia efficace è una decina d’anni: dopodiché non servirà più e i parametri fisici sceglieranno la loro strada definitiva. La temperatura media del pianeta aumenterà di oltre due gradi, limite stabilito dagli accordi di Parigi: se rimarremo sotto quella soglia le generazioni future potranno avere una vita accettabile; se la supereremo invece le conseguenze saranno catastrofiche.

Di “catastrofe” parlava mesi fa anche il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres.

Sì. Disse testualmente che l’insostenibilità del sistema energetico globale “ci avvicina sempre più alla catastrofe climatica”. Spiegò che ormai ogni minuto conta, che ogni chilo di CO2 è importante, che dobbiamo fare in fretta. Peccato che le sue parole non siano state l’apertura dei giornali di tutto il mondo. Eppure dovremmo averlo capito: quella del cambiamento climatico non è una notizia “ancillare”. È LA NOTIZIA, lo scriva in maiuscolo per favore. Dovremmo chiederci ogni giorno cosa abbiamo fatto per il clima, dovremmo dire che abbiamo un ministro della transizione ecologica impresentabile. Dovremmo chiedere al governo cosa sta facendo per il clima. La risposta è “niente”.

Saremo anche noi italiani profughi climatici, come etiopi o somali?

Sì. Lo saremo. C’è un bel libro di un autore italiano, Bruno Arpaia. Si intitola “Qualcosa là fuori”, è un romanzo, racconta l’emigrazione dei napoletani in Svezia alla fine di questo secolo per scappare dall’Italia desertificata, con tanto di scafisti sul Mar Baltico e razzisti svedesi che sparano loro addosso. È un romanzo, ma è molto realistico.

Professore, lei è anche un No Tav. Si dice che quell’opera permetterà di trasportare merci su gomma anziché su rotaia riducendo di conseguenza l’inquinamento. È così?

No. Quell’opera non serve a niente, non ha nessuna finalità ambientale come invece viene propagandato dai suoi promotori. Per realizzare i 57 chilometri di tunnel dell’alta velocità verranno emessi, da oggi al 2035, 10 milioni di tonnellate di CO2. Questo dato è stato fornito dai promotori stessi della Tav e molto probabilmente è sottostimato. Ma prendiamolo per buono e facciamo finta sia vero: quelle emissioni peggioreranno il clima. I promotori lo sanno ma dicono che si recupererà, tuttavia serviranno almeno 30 anni di servizio, quando comunque i camion saranno elettrici o a idrogeno. Dobbiamo abbattere drasticamente le emissioni subito, non tra 50 anni, né tra 30. Subito. Le emissioni dovranno essere zero nel 2050. (da https://www.fanpage.it/)

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SICCITÀ: salato il DELTA DEL PO, a rischio i bacini dell’acqua potabile (foto da “la Repubblica”)

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“(…) LE CAUSE DELL’ATTUALE SICCITÀ RISIEDONO NELLA CIRCOLAZIONE ATMOSFERICA generale che, a partire dallo scorso dicembre, si è bloccata in una situazione poco evolutiva. Così tutta l’EUROPA È SOTTO UNA STRUTTURA DI ALTA PRESSIONE CHE TIENE ALLA LARGA LE PERTURBAZIONI ricche di umidità provenienti dagli oceani, quelle che dovrebbero portare le piogge. Lo stallo dura da sei mesi: le ondate di caldo africano non fanno altro che peggiorare la situazione idrica. Un conto è avere siccità con temperature fresche, un altro con temperature anomale, superiori di almeno tre gradi rispetto alle medie del periodo: ciò infatti genera un’ulteriore necessità di acqua per l’agricoltura, le attività industriali e quelle domestiche. Il problema è che non si vede una soluzione a breve termine. Cosa ci attende nei prossimi mesi?  Non c’è più neve sulle Alpi quindi la disponibilità di acqua si ridurrà ulteriormente. Riguardo i prossimi mesi è difficile essere accurati: le previsioni stagionali hanno un’affidabilità modesta, ma tutto lascia pensare che questa sarà un’estate calda e senza piogge almeno fino alla fine di settembre. (…)” (LUCA MERCALLI, intervistato da Davide Falcioni, da da https://www.fanpage.it/ del 17/6/2022) (L’IMMAGINE QUI SOPRA, ALTA E BASSA PRESSIONE, è tratta da https://www.ecoage.it/)

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QUEI RIMEDI SBAGLIATI CONTRO LA SICCITÀ

di Mario Tozzi, da “la Stampa” del 22/6/2022

   Visto che il Gran Secco in Italia imperversa, ecco che iniziano a venire fuori le soluzioni più fantasiose per porre rimedio a una siccità come mai se ne erano registrate nell’ultimo secolo. Invece di studiare una gestione complessiva delle acque dolci durante il resto dell’anno, noi lo facciamo regolarmente e rigorosamente solo in emergenza: lo stesso atteggiamento che riserviamo al clima, alla fine delle risorse, al depauperamento della biodiversità.

   Come se non ci fossero stati dati scientifici e ricercatori a ribadire gli elementi di crisi anche con un buon anticipo. A testimonianza ulteriore che: a) le emergenze ambientali nel nostro paese non esistono fino al momento in cui diventano troppo gravi, e allora si possono continuare a ignorare, tanto il problema è troppo complesso; b) non siamo assolutamente in grado di gestire le risorse, avendo sposato l’incomprensibile idea che esse siano infinite; c) perduriamo nell’ignoranza dei sistemi naturali e li riduciamo a contingenze ingegneristiche o economiche, non potendomi pronunciare su quali delle due sia quella peggiore.

   Il cambiamento climatico cambia i tempi del ciclo dell’acqua sulla Terra e diminuisce la permanenza nei fiumi, nei laghi e nelle falde sotterranee, contribuendo alla siccità più estrema, al propagarsi degli incendi e alla morte dei fiumi. Questo cambiamento, è bene ribadirlo, non è come quelli del passato e dipende dalle nostre attività produttive.

   Però l’abuso e lo spreco di acqua da parte dei sapiens procurano danni ancora più gravi, danni che non riconosciamo subito perché non avvengono tanto al rubinetto di casa (l’acqua potabile ammonta al 20% scarso dell’uso complessivo), quanto nelle campagne, negli allevamenti e nel settore industriale.

   E’ l’acqua occulta, quella contenuta in beni, servizi e merci che nessuno misura ma che cambia gli ordini di grandezza dei consumi: se a ciascuno di noi possiamo attribuire 50-60 litri al giorno per bere e lavarci, quando mettiamo insieme tutti gli usi dell’acqua, arriviamo tranquillamente a 5000 litri/persona. Al giorno.

   Ecco dov’è il problema. Tutte cifre e ragionamenti noti da tempo che, però, non hanno impedito a chi ci amministra di fare finta di nulla, sperando nel classico stellone italico e proponendo oggi, in emergenza, soluzioni come il travaso di acque dai laghi alpini al Po, la canalizzazione di acque svizzere, la desalinizzazione dell’Adriatico e magari pure del Tirreno, lo svuotamento dei bacini idroelettrici, il recupero delle acque dei distretti minerari.

   Nessuna di queste è una soluzione praticabile a breve, ma, fatto più grave, si tratta di palliativi che peggiorerebbero il complesso della situazione idrogeologica di un paese tradizionalmente ricco di acque che si è giocato un patrimonio collettivo anche sposando scelte produttive poco comprensibili se non in logiche di mero profitto, come il passaggio a colture particolarmente idrovore.

   Desalinizzare, per esempio, va bene nelle piccole isole, ma non sulla riviera adriatica: quanta energia ci vuole e quanto costa? A prezzo di quali emissioni? E dove mettiamo i residui inquinanti e le salamoie? Scambiare i fiumi per canali abbracciando improbabili travasi transalpini o padani avrebbe conseguenze ecosistemiche di cui non conosciamo la portata, quando proprio ora è prioritario conservare l’integrità di un mondo naturale che ci garantisce la qualità di quelle stesse acque. Abbiamo prosciugato le falde e i fiumi oltre ogni limite e ora vorremmo riempirli come fossimo bambini capricciosi col secchiello cui stanno per levare il mare. (Mario Tozzi, da “la Stampa” del 22/6/2022)

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– 55 milioni di persone ogni anno sono esposte a siccità e desertificazione, secondo l’Oms.
– 216 milioni di persone potrebbero essere costrette a migrare entro il 2050, a causa della siccità e degli eventi a essa connessi, secondo le stime della Banca mondiale.
L’INDICE SPEI (STANDARDIZED EVAPOTRANSPIRATION INDEX), o INDICE DI SICCITÀ MEDIA, è uno dei principali indicatori utilizzati per misurare desertificazione e siccità. Permette di quantificarne gli effetti su ecosistemi, coltivazioni e risorse idriche. Qui, è calcolato a livello annuale. Tiene conto sia delle precipitazioni che della potenziale evapotraspirazione dell’acqua e del loro contributo nella generazione di siccità. I dati si riferiscono ai cambiamenti previsti per gli anni 2040-2059 rispetto ai valori degli anni 1986-2005. I valori positivi (colore più scuro) indicano un grado sufficiente di umidità e quelli negativi (colore chiaro) una maggiore aridità. FONTE: elaborazione openpolis su dati Banca mondiale  (ultimo aggiornamento: lunedì 13 Giugno 2022) (nell’immagine qui sopra INDICE SPEI, da https://www.openpolis.it/)

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CLIMA, CONFLITTI E MIGRAZIONI (foto da https://blog.pltpuregreen.it/) “(…) Come afferma l’Unccd (United nations convention to combat desertification), la siccità ha un forte impatto ambientale, danneggiando gli ecosistemi, ma anche numerosi effetti secondari che ricadono sulle popolazioni che ci vivono. Spesso è infatti all’origine di carestie, sfollamenti e conflitti. (…)” (da https://www.openpolis.it/, 17/6/2022)

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DESERTIFICAZIONE E SICCITÀ RENDONO MOLTE AREE OSTILI ALLA VITA UMANA

da https://www.openpolis.it/ , 17/6/2022

– La desertificazione è uno degli effetti più dannosi del cambiamento climatico, perché la mancanza di acqua crea problemi di approvvigionamento idrico e insicurezza alimentare. Sempre più persone si trovano per questo costrette a migrare –

   Uno degli effetti più evidenti del cambiamento climatico è la desertificazione. Sono sempre più frequenti i periodi di siccità e molte zone della Terra stanno gradualmente diventando più aride e inospitali per molte specie tra cui la nostra.

   Alcuni dei paesi maggiormente colpiti da questi fenomeni sono tra i più poveri della Terra. Se poi consideriamo che gli eventi climatici estremi hanno anche numerosi effetti secondari, portando a conflitti e disordini sociali e politici, capiamo in che modo la desertificazione costringa moltissime persone ad abbandonare la propria abitazione, per cercare altrove una vita migliore.

La siccità, uno degli effetti più nocivi del cambiamento climatico

La mancanza di acqua è uno degli eventi climatici più frequenti e in assoluto più dannosi che il cambiamento climatico contribuisce a causare. Secondo il centro euromediterraneo sui cambiamenti climatici (Cmcc), come capacità di devastazione del territorio, delle infrastrutture e della vita animale e umana sulla Terra è seconda solo a tempeste e alluvioni.

   Come afferma l’Unccd (United nations convention to combat desertification), la siccità ha un forte impatto ambientale, danneggiando gli ecosistemi, ma anche numerosi effetti secondari che ricadono sulle popolazioni che ci vivono. Spesso è infatti all’origine di carestie, sfollamenti e conflitti.

   La siccità di per sé è un evento climatico che ciclicamente è normale si verifichi. Tuttavia, negli ultimi anni gli episodi di estrema siccità hanno vessato sempre di più la Terra, lasciando costi elevatissimi da pagare e tracce profonde, come evidenziato dall’organizzazione mondiale per la sanità (Oms). E le previsioni per il futuro prossimo, purtroppo, confermano questa tendenza.

Come si misurano siccità e desertificazione

L’aridità del suolo è un fenomeno complesso, cui contribuiscono molte cause e da cui scaturiscono molteplici effetti. Conseguentemente, sono numerosi gli indicatori ad oggi utilizzati per misurarla. I fattori che vengono presi in analisi sono principalmente: le precipitazioni, le temperature medie, l’umidità del suolo e l’impatto sulle coltivazioni. Elementi che gli indicatori rapportano tra loro con variabili gradi di complessità.

   Uno degli indicatori più diffusi è lo standardized precipitation index (Spi) che quantifica la siccità da un punto di vista meteorologico, misurando le anomalie nell’accumulo di precipitazioni, solitamente con cadenza mensile. Un avanzamento di questo indicatore è lo standardized precipitation and evapotranspiration index (Spei), che aggiunge il fattore dell’evapotraspirazione potenziale.

   Secondo la definizione fornita dall’Ispra, l’evapotraspirazione corrisponde alla quantità di acqua che si trasferisce in atmosfera per i fenomeni di traspirazione della vegetazione e di evaporazione diretta dagli specchi. Si parla di evapotraspirazione potenziale quando il contenuto d’acqua nel terreno non costituisce un fattore limitante e può variare a seconda delle caratteristiche climatiche (temperatura, vento, umidità relativa, ecc.). In sintesi, rappresenta la massima quantità di acqua che può essere trasformata in vapore dal complesso dei fattori atmosferici e dalla vegetazione di un determinato territorio.

In oltre il 70% dei paesi del mondo la siccità è in aumento

Le previsioni sulla variazione di umidità per gli anni 2040-2059 rispetto agli anni 1986-2005

Stando ai dati della Banca mondiale, l’anomalia prevista per gli anni 2040-2059 rispetto alla media del periodo 1986-2005 sarebbe nella maggior parte dei paesi del mondo caratterizzata da una notevole aridità.  Sono appena 52 su 193 gli stati in cui il dato è invece positivo, e si tratta perlopiù di piccole isole, che ospitano una porzione molto ridotta della popolazione mondiale.

   In 140 nazioni invece le previsioni anticipano una crescente aridità. Alcune zone risultano particolarmente colpite, soprattutto quelle che già oggi sono desertiche, come l’Africa settentrionale e il Medio oriente. Ma anche Asia centrale, Africa meridionale, Australia e alcune aree dell’America centrale presentano valori negativi elevati.

   A registrare una tendenza opposta, verso una maggiore umidità, sono Canada, Russia e la Scandinavia, oltre ad alcuni stati dell’Asia sud-orientale (Filippine, Cambogia, Indonesia e Tailandia) e orientale (Giappone e Corea in particolare).

Le migrazioni causate dalla siccità

La siccità è un fenomeno fortemente sottostimato, nonostante comporti numerosi effetti secondari a catena, che come accennato non si limitano al danneggiamento degli ecosistemi ma hanno un impatto profondo anche sulla vita delle comunità.

   La siccità causa insicurezza alimentare.

   Può causare infatti difficoltà di approvvigionamento idrico, danni al settore agricolo e, di conseguenza, una situazione di insicurezza alimentare. Tutto ciò contribuisce ad aggravare – soprattutto in territori già instabili – conflitti e disordini. Una caratteristica che anche l’organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) considera tipica degli eventi climatici.

   Tutto questo fa sì che molte persone siano costrette, a causa di eventi legati alla desertificazione della Terra, ad abbandonare la propria abitazione per cercare altrove condizioni di vita migliori. Come riporta l’organizzazione meteorologica mondiale, le stime realizzate dalla Banca mondiale nel 2021 anticipano che la siccità e i fattori a essa legati potrebbero portare oltre 200 milioni di persone a migrare.

   216 milioni di persone potrebbero essere costrette a migrare entro il 2050, a causa della siccità e degli eventi a essa connessi, secondo le stime della Banca mondiale.

   Da sottolineare che nella maggior parte dei casi, queste persone non arrivano a oltrepassare i confini del proprio paese. Si parla quindi di “sfollati interni”.

   Lo sfollato interno è una persona costretta o obbligata a lasciare il luogo di residenza abituale a causa di conflitti, violenze o disastri naturali, e che si è mossa all’interno dello stesso paese di provenienza.

   Alcuni dei paesi più colpiti da questi disastri naturali rientrano tra quelli più esposti al rischio di insicurezza alimentare e sono anche paesi considerati prioritari dalla cooperazione italiana.

   Si tratta di Afghanistan, Somalia, Sud Sudan, Etiopia, Kenya, Pakistan e Iraq, come abbiamo approfondito in un recente articolo su questo tema. (da https://www.openpolis.it/, 17/6/2022)

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(BRUNO ARPAIA, “QUALCOSA LÀ FUORI”, GUANDA ed., 2016, euro 16,00 – “(…) C’è un bel libro di un autore italiano, Bruno Arpaia. Si intitola “Qualcosa là fuori”, è un romanzo, racconta l’emigrazione dei napoletani in Svezia alla fine di questo secolo per scappare dall’Italia desertificata, con tanto di scafisti sul Mar Baltico e razzisti svedesi che sparano loro addosso. È un romanzo, ma è molto realistico. (…)” (LUCA MERCALLI, intervistato da Davide Falcioni, da da https://www.fanpage.it/ del 17/6/2022)

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“(…) LA CRESCITA DELLE TEMPERATURE STA GIÀ CAUSANDO LA FUSIONE DEI GHIACCI DELLA GROENLANDIA, DELL’ANTARTIDE E DELLE MONTAGNE DI TUTTO IL MONDO: ciò provoca l’AUMENTO DEI LIVELLI DI MARI E OCEANI, fenomeno a cui contribuisce anche il caldo stesso incrementando il volume delle acque. Di fatto, i livelli dei mari salgono di 4 millimetri ogni anno. In un Paese con 8mila chilometri di coste come l’Italia si possono ben immaginare le conseguenze. SENZA POLITICHE DI RIDUZIONE DELLE EMISSIONI DI CO2 tra una trentina d’anni CHI VIVE NEL DELTA DEL PO O NELLA LAGUNA VENETA DOVRÀ SCAPPARE perché avrà il mare nel salotto di casa. (…)” (LUCA MERCALLI, intervistato da Davide Falcioni, da da https://www.fanpage.it/ del 17/6/2022) (nella FOTO qui sopra: IL GHIACCIAIO DELLA MARMOLADA, ORAMAI IN ESTINZIONE)

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GHIACCIAI PERDUTI

di Enrico Martinet, da “la Stampa” del 23/6/2022

– Dal Bianco al Rosa fino alla Marmolada le alte temperature svestono le montagne cambiando il panorama e riducendo le riserve – Soltanto in Valle d’Aosta ne sono scomparsi oltre 30 in vent’anni – L’amarezza degli esperti “Facciamo da anni sempre gli stessi errori” – 23% la riduzione della riserva idrica in Valle d’Aosta rispetto alla media; 75% la percentuale di neve in meno registrata a giugno nell’arco alpino; 9 i metri di spessore persi dal ghiacciaio della Marmolada in dieci anni –

   Vesti che cadono. Anzi, fondono. E la montagna resta nuda, con rocce che paiono di un altro pianeta e morene che crescono. Ciò che è fragile, come tutto ai confini tra terra e cielo, diventa Continua a leggere

DISSIDENTI e CENSURA dell’informazione nella RUSSIA di Putin che sta aggredendo l’UCRAINA – Il regime autoritario russo esige, per poter esistere, di annullare ogni voce critica e libera (ma questo fa parte di tutte le dittature)

Monaco, 11 ottobre 2006: manifestanti attendono l’arrivo di PUTIN in visita mostrando le foto della giornalista ANNA POLITKOVSKAJA uccisa a Mosca quattro giorni prima – Nelle librerie italiane torna “La Russia di Putin”, scritto dalla Politkovskaja. Un’analisi lucida sulla sua ascesa al potere. E sulla cecità dell’Occidente

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DMITRY MURATOV, premio Nobel per la pace 2021 e direttore di NOVAJA GAZETA, autore di inchieste coraggiose, costretto a sospendere le pubblicazione (foto da “la Repubblica” del 29/3/2022)

CHIUDE NOVAYA GAZETA: A MOSCA NON C’È PIÙ SPAZIO PER UNA VOCE LIBERA

di Maria Michela D’Alessandro, da https://www.lasvolta.it/ del 29/3/2022

– Si ferma anche l’ultimo giornale indipendente rimasto in Russia. L’annuncio: sospese le pubblicazioni fino alla fine della guerra in Ucraina. La stretta del Cremlino su tutte le pubblicazioni che non si piegano alla propaganda –

   Di questo passo, così, non ne rimarrà più nessuno. Anche se in Russia Novaya Gazeta era davvero l’ultima voce libera nel mare di censura sempre più profondo da un mese a questa parte. Ieri l’annuncio, sospese le pubblicazioni fino alla fine della guerra.

   Sono bastate poche righe per spiegare la decisione: «Abbiamo ricevuto un altro avviso da Roskomnadzor (NDR: Roskomnadzor è un organo della Federazione Russa che controlla le comunicazioni, la possibilità di censurarle, la privacy e le frequenze radio) – si legge sul sito del giornale con data 28 marzo – Sospendiamo la pubblicazione online e sulla carta fino alla fine della “operazione speciale sul territorio dell’Ucraina”. Cordiali saluti, i redattori di Novaya Gazeta».

   Qualche minuto prima, la notizia di un secondo avvertimento ricevuto dall’ente statale russo che controlla i media nei confronti della redazione e del fondatore del giornale per aver menzionato una associazione riconosciuta come “agente straniero” senza farlo presente ai lettori, violando di fatto la legge. Nel Paese i media che operano in Russia, finanziati dall’estero, sono infatti costretti a registrarsi con questa dicitura, pena multe, blocco o addirittura la detenzione.

   Dalla sua entrata in vigore, il 21 novembre 2012, centinaia di organizzazioni non governative che ricevevano fondi dall’estero hanno subito una profonda riduzione delle donazioni, danni alla reputazione, intimidazioni e procedimenti giudiziari nei confronti dei loro esponenti. Dall’inizio della guerra in Ucraina, la maggior parte delle associazioni o media riconosciuti come “agenti stranieri” è stata costretta a chiudere o a lasciare il Paese (molti siti sono stati oscurati e bloccati).

   Un’ulteriore stretta è arrivata il 4 marzo con la legge che introduce pene fino a 15 anni di carcere per la diffusione di notizie ritenute false sulle azioni militari russe in Ucraina.

   Lo scorso 22 marzo Roskomnadzor aveva già inviato un avvertimento scritto alla redazione di Novaya Gazeta per non aver etichettato una ONG proprio come “agente straniero”. Tra pochi giorni l’ultimo periodico libero e indipendente russo avrebbe compiuto 29 anni dalla sua prima pubblicazione il 1° aprile 1993, due anni dopo il crollo dell’URSS: il sogno di un prodotto di informazione libero sostenuto e cofondato da Mikhail Gorbaciev e Dmitrij Muratov, premio Nobel per la Pace nel 2021 e direttore dal 1995.

   Chissà se a complicare la situazione sia stato anche il video di Muratov nel giorno dell’aggressione militare russa in Ucraina in cui esprimeva “dolore e vergogna”, o la prima pagina del giornale stampato in russo e in ucraino in segno di solidarietà con il Paese invaso. In continua collisione con il governo per il bavaglio alla libertà di stampa, Novaya Gazeta si è sempre distinto per le inchieste, gli articoli di denuncia, e la voce di dissenso.

   Ne è un esempio la morte di Anna Politkovskaja, uccisa nel giorno del 54esimo compleanno di Vladimir Putin, il 7 ottobre 2006, in un agguato di cui non è mai stato indicato il mandante. Nel giornale, c’era sempre spazio per la penna di Anna, per i suoi reportage sulla seconda guerra cecena e per le critiche contro i governi russi, così come per quelli di Anastasia Baburova, collaboratrice di Novaya Gazeta, uccisa nel 2009, a 25 anni, nel centro di Mosca per una ferita d’arma da fuoco alla testa.

   Ci ha provato fino alla fine Muratov, il giornalista che dopo aver vinto il premio Nobel per la Pace lo scorso ottobre aveva ringraziato proprio i colleghi del giornale: «Il merito è della Novaya Gazeta. Di quelli che sono morti difendendo il diritto alla libertà di parola. Dato che non sono più con noi, il Comitato del Nobel ha evidentemente deciso che lo dica io. Il merito è di Igor Domnikov, di Yuri Shchekochikhin, di Anna Stepanovna Politkovskaja, di Nastja Baburova, di Natasha Estemirova, di Stas Markelov. Ecco la verità. Questo Nobel è per loro». (di Maria Michela D’Alessandro, da https://www.lasvolta.it/ del 29/3/2022)

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KAMRAN MANAFLY (foto Istangram da Fanpage – https://www.fanpage.it/)

IN RUSSIA CHI PROTESTA CONTRO LA GUERRA PERDE IL LAVORO

di Gabriella Mazzeo, da FANPAGE https://www.fanpage.it/ 21/3/2022

– Chi esprime dissenso in Russia perde il posto di lavoro. Questo è il caso di KAMRAN MANAFLY, insegnante 28enne che su Instagram ha detto di non voler essere “uno strumento della propaganda russa”. Il giovane è stato licenziato pochi giorni dopo l’accaduto –

   Kamran Manafly ha 28 anni ed è un insegnante di geografia in Russia. Si sente un insegnante nonostante il fatto che abbia perso quel posto di lavoro pochi giorni fa dopo un post pubblicato su Instagram. L’ultima foto postata da Kamram è dell’8 marzo, pochi giorni prima che la Russia perdesse l’accesso al social network.

   “Ho una mia opinione che chiaramente non coincide con quella dello Stato. Non voglio essere uno specchio della propaganda governativa e sono orgoglioso di non aver paura di dirlo” ha scritto l’insegnante 28enne sulla sua pagina personale a proposito della guerra in Ucraina. Il post è arrivato dopo una riunione del personale nella sua scuola al centro di Mosca.

   Durante l’incontro, l‘insegnante ha ricevuto ordine di non parlare della situazione in Ucraina agli alunni. Un invito al corpo docenti ad allinearsi su una versione comune che non distogliesse dalle informazioni fornite dal governo.

   Dopo la pubblicazione del post correlato alla foto nella piazza principale di Mosca, la scuola gli ha chiesto di fare un passo indietro. Lui ha rifiutato, però ha anche capito che non c’era margine di discussione. Non ha cancellato la didascalia: semplicemente si è dimesso dal suo ruolo. “Amo tutti gli studenti che ho e tutti quelli che ho avuto – scrive ancora su Instagram -. La mia coscienza non mi tormenta”. (Gabriella Mazzeo, da FANPAGE https://www.fanpage.it/ 21/3/2022)

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“I VERI UCRAINI SONO BUONI RUSSI” COSÌ LO ZAR RISCRIVE LA STORIA

di Anna Zafesova, da “la Stampa” del 27/3/2022

– Libri bruciati e monumenti abbattuti: ecco la cancel culture secondo il Cremlino; i testimoni: all’opera nelle zone occupate squadre speciali di censori –

   Manuali scolastici, pubblicazioni sulla politica e l’attualità, libri sui Maidan del 2004 e del 2014, e sulla guerra del Donbass, ma soprattutto libri di storia: nei territori ucraini occupati i russi starebbero operando una «pulizia culturale» metodica e spietata.

   Squadre di polizia militare, arrivate al seguito dell’esercito nelle regioni di Donetsk, Luhansk, Sumy e Chernihiv, vanno a perquisire biblioteche e a «confiscare» libri che non corrispondono ai dettami ideologici del Cremlino. I censori sono dotati di una lista di nomi da «epurare», indipendentemente dal contesto in cui vengono trattati, che vanno da Ivan Mazepa, il leader cosacco che nel Seicento sfidò la Russia, a Simon Petlyura, uno dei protagonisti del tentativo di indipendenza di Kiev del 1918, con particolare attenzione a Stepan Bandera e Roman Shukhevich, i leader collaborazionisti dell’Oun, l’organizzazione dei nazionalisti ucraini durante la Seconda guerra mondiale.

   I libri sequestrati, stando a quello che testimoni presenti nei territori occupati hanno riferito al governo di Kiev, vengono distrutti sul posto, oppure portati via in direzione sconosciuta. Un’informazione non facile da verificare, che potrebbe ovviamente anche essere prodotta dall’intelligence ucraina che ne riferisce. Già più difficili da falsificare, però, sono i numerosi video di soldati russi che prendono a martellate lapidi commemorative sugli edifici, e strappano le bandiere ucraine, come ha fatto sotto le telecamere la cantante rock russa Yulia Chicherina a Energodar, nella regione di Zaporizzhia.

   Per l’ideologia sovietica, era una bandiera «nazionalista», e la propaganda russa si rifà alla tradizione staliniana che bollava ogni menzione dell’identità ucraina come «nazionalismo», e ogni manifestazione di nazionalismo veniva equiparata al «nazismo». «La popolazione delle città che liberiamo ci accoglie in russo, ci ringrazia in russo», dice la responsabile della propaganda del Cremlino Margarita Simonyan, la creatrice della famigerata tv di regime RT.

   Gli ucraini buoni sono russi, dunque, e quando insistono a rimanere ucraini diventano «nazisti», che Simonyan definisce come «bestialmente feroci, pronti a cavare gli occhi ai bambini di altre etnie». E sul canale TV Rossia 24 un «esperto» sostiene che lo slogan «no alla guerra» usato dai dissidenti russi è «tipico del nazismo», un’altra scoperta «storica» sorprendente.

   Del resto, la storia è la materia preferita di Vladimir Putin, che negli ultimi anni si è dedicato alla stesura di saggi «storici» che fondamentalmente pescavano dall’arsenale della storiografia sovietica, e che era difficile pensare avrebbero ispirato una guerra che il capo del Cremlino ha voluto per riparare a quella che considera un’ingiustizia storica, il collasso dell’Urss.

   Non è un caso che abbia scelto come capo negoziatore Vladimir Medinsky, che da ministro della Cultura era stato un convinto produttore di falsi storici «patriottici» e ora guida la Società di storia militare. È una guerra sulla storia, e mentre Putin si lamenta che la cultura russa viene «proibita in Occidente» e si considera una vittima della cancel culture, paragonandosi a J.K. Rowling, mentre i suoi militari cancellano i manuali di storia ucraina, secondo il classico teorema di George Orwell che «chi controlla il passato controlla il presente».

   Ovviamente scegliendo dal passato solo i frammenti che corrispondono al mosaico ideologico. Uno di questi tasselli, fondamentali per il regime putiniano, potrebbe essere Kherson, unico capoluogo regionale ucraino occupato dai russi, dove girano voci su un’introduzione del rublo come moneta, e su un’imminente «adesione alla Russia» che verrebbe proclamata il 1° aprile.

   Nemmeno una «repubblica popolare» finto indipendente come quelle del Donbass, dunque, ma Russia a tutti gli effetti. Forse il Cremlino ha urgente bisogno di presentare al suo elettorato nostalgico una nuova conquista territoriale. Ma è possibile anche che Kherson occupi un posto speciale nella storiografia putiniana: fondata nel 1778 dal principe Potiomkin, è stata battezzata in onore di Khersones, l’antica colonia greca in Crimea dove, secondo una leggenda tutta da verificare, si sarebbe convertito al cristianesimo il principe Vladimir di Kiev. Il Vladimir odierno è particolarmente devoto al suo omonimo, e ha fatto erigere un’enorme e molto contestata statua che lo raffigura all’ingresso del Cremlino. Aveva già giustificato l’annessione della Crimea con il battesimo di Vladimir, ora potrebbe essere il turno del Sud ucraino. (Anna Zafesova, da “la Stampa” del 27/3/2022)

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DISSIDENTI (Rizzoli, 19 euro)

IL LIBRO

ASCOLTANDO LE VOCI LIBERE CHE I REGIMI DI MOSCA E PECHINO VORREBBERO RIDURRE AL SILENZIO

di Jacopo Iacoboni, da “La Stampa” del 29/3/2022

– Il saggio “DISSIDENTI” di GIANNI VERNETTI (Rizzoli pagg. 360 euro 19) e il racconto delle distopie del presente –

   Si sarebbe potuti essere quasi certi che Putin avrebbe invaso l’Ucraina semplicemente mettendo in fila la progressione di violenze e invasioni che la Russia ha prodotto in questi 22 anni, e la scia imponente e profetica di dissidenti che quelle violenze si sono portati dietro. La TRANSNISTRIA in Moldavia nel 1999, l’ABCAZIA e l’OSSEZIA DEL SUD in GEORGIA nel 2008, la CRIMEA e il DONBASS in Ucraina nel 2014.

   Senza contare le tecniche di bombardamento a GROZNY, in CECENIA, o la guerra ibrida condotta a colpi di avvelenamenti (Sergey Skripal e Alexey Navalny), le morti di oppositori politici o giornalisti assassinati (da Anna Politkovskaya a Boris Nemtsov, per citarne solo due), gli hackeraggi ai danni di Paesi europei e all’America (dall’Ucraina di Not Petya alle elezioni presidenziali che portarono nel 2016 alla vittoria di Donald Trump).

   Il nuovo lavoro di Gianni Vernetti compie tuttavia un’operazione rovesciata: la certezza della guerra finale e dell’invasione russa in Ucraina si sarebbe facilmente potuta ricavare osservando e studiando quelle che sono state a un tempo le vittime ma anche i personaggi più temuti dal Cremlino (e più in generale dalle dittature o delle autocrazie nel mondo, dalla Cina all’Iran al Venezuela, alla Bielorussia, la Siria, la Turchia, l’Iraq, per dirne solo alcune).

  I DISSIDENTI (Rizzoli), da Alexei Navalny a Nadia Murad, da Azar Nafisi al Dalai Lama, incontri con donne e uomini che lottano contro i regimi. Perché questi ritratti? Cosa ci insegna la storia dei totalitarismi del Novecento e qual è la lezione che possiamo cogliere oggi dalle incredibili e coraggiose storie, tra gli altri, di Andrej Sacharov, Natan Sharansky, Václav Havel, Jiří Pelikán, fino a donne come Svetlana Thikanovskaya, ormai perseguitata dal dittatore di Minsk, Alexandr Lukashenko? «La prima: i regimi, le dittature e le autocrazie non sono immutabili e possono anche cadere». La seconda: possiamo cambiare anche noi la storia, aiutare a far cadere «le satrapie», noi che in Occidente ci dimentichiamo a volte di combattere per la libertà e la democrazia, cioè i nostri valori, e che i dissidenti non sono assolutamente dei generici pacifisti.

   Ma bisogna raccontarne le storie anche per un motivo assai pratico e contemporaneo: siccome molti dei dissidenti contemporanei hanno trovato la loro voce usando, più o meno abilmente, Internet, i social network, le communities, le repressioni sanno che cancellare la dissidenza da Internet significa cancellarla dalla realtà. È quello che è stato tentato a Hong Kong dalla Cina, contro Joshua Wong. O, per fare solo un altro esempio tra i possibili, la Cina non solo fa sparire la tennista Peng Shui: la fa sparire da Internet (lei aveva denunciato sul social cinese Weibo di esser stata stuprata da Zhang Gaoli, membro del Consiglio permanente del Politburo cinese, e uno tra i più potenti di tutta la Cina).

   Controllare il passato per cancellare il presente e il futuro, parafrasando Orwell. Dissidenti è dunque, anche, una distopia. Frutto di tanti incontri dell’autore nelle capitali della dissidenza, da Vilnius (specialmente per russi e bielorussi) a Taipei o a Dharamsala, il Tibet in esilio sulle montagne indiane. Per esempio quello con l’uomo più vicino a Navalny, il capo del suo staff, Leonid Volkov, che racconta come in Russia i sondaggi reali diano i sostenitori di Navalny al secondo posto, al 20 per cento, «ma non possiamo registrare un partito, né partecipare alle elezioni nazionali per la Duma e a quelle locali, e nonostante il controllo assoluto dei mezzi d’informazione il partito di Putin raggiunge solo il 27 per cento».

   Volkov nel giugno 2021 già parla compiutamente di «crimini di guerra» di Putin (e non aveva ancora visto Mariupol, Kharkhiv, Irpin e le città ucraine rase al suolo in pieno stile Aleppo): «Da quando ha commesso crimini di guerra (l’aereo malese abbattuto, la guerra in Crimea, l’invasione del Donbasss), Putin ha scelto la via di non ritorno: non può certo immaginare per lui un sereno pensionamento in Toscana a coltivare pomodori…».

   Dove il riferimento all’Italia è dovuto al fatto, spiega Volkov, che molti dei soldi e degli asset (ville e barche comprese) degli oligarchi putiniani (ossia spesso di Putin) sono appunto da noi, nel Belpaese. Vladimir Kara Murza si è battuto più di tutti con Boris Nemtsov per far approvare la legge Magnitsky (dal nome dell’avvocato ucciso in un carcere russo dopo aver svelato una serie di schemi offshore usati da soggetti legati al Cremlino per nascondere ricchezze e asset).

   Ora dice a Vernetti che «quasi tutti i dittatori, da Mussolini a Hitler, hanno fatto affermazioni molto simili» a quelle di Putin («l’idea liberale è obsoleta»): un paragone tra il putinismo e il nazismo che risuona potente, ora che abbiamo visto le immagini della Z (wastika) del Cremlino sui carri armati in Ucraina e nella propaganda interna con l’adunata allo stadio.

   Mikhail Khodorkovsy, l’oligarca che non si piegò a Putin e si fece 10 anni in Siberia in carcere (e che il Cremlino teme ancora a tal punto da dichiarare fuorilegge le sue tre charity), ci informa che «oggi ci sono circa 4 mila prigionieri politici nelle carceri russe». E le tecniche non sono cambiate da quelle delle infami «sette carceri del Kgb», come del resto col chekista Putin c’era da aspettarsi.

   Ecco, Putin non è uno scacchista, un maestro di strategia (semmai un lottatore di judo). Il grande scacchista dissidente, Gerry Kasparov, lascia una profezia: «La Russia, anche alla luce della debolezza strutturale della propria economia, potrà essere solo uno junior partner del gigante cinese». La folle guerra all’Ucraina lo sta già dimostrando. (Jacopo Iacoboni)

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L’INVERNO STA ARRIVANDO (KASPAROV, Feltrinelli, 21 euro)

IL LIBRO

GARRY KASPAROV – L’INVERNO STA ARRIVANDO (2016)

– Una riedizione del libro tradotto in italiano nel 2016 –

   L’ascesa di Vladimir Putin, un ex colonnello del KGB, alla presidenza della Russia nel 1999, da molti è stata letta come un primo segno di allontanamento del paese dalla democrazia. In questi lunghi anni, nonostante il mondo abbia tentato di trovare un canale di comunicazione pacifico con il nuovo Presidente, Putin ha trasformato sempre più la sua presidenza in un regime e rischia di diventare una minaccia globale.

   Con il suo ampio arsenale nucleare, Putin è al centro di un assalto alla libertà politica.

   Per Garry Kasparov, niente di tutto questo è una novità. Per più di 10 anni ha criticato aspramente la politica di Putin, fino a guidare una lista pro-democrazia nelle farsesche elezioni presidenziali del 2008. Dopo aver trascorso anni a inviare le sue fosche profezie sulle reali intenzioni di Putin, come una moderna Cassandra, Kasparov ha visto realizzarsi le sue più nere aspettative: la Russia di Putin si definisce, come fanno l’Isis e Al Qaeda, a partire dalla contrapposizione con gli stati liberi del mondo.

   È come se stesse ancora combattendo una sua personale Guerra Fredda, dimenticando o smentendo le lezioni apprese da quella passata. Per evitare di essere trascinati in un altro prolungato e drammatico conflitto, Kasparov incita a una presa di posizione ferma – diplomatica, politica ed economica – contro la Russia. Se le più importanti democrazie del mondo continueranno a riconoscere e negoziare con Putin, lui manterrà la sua credibilità e consenso nel Paese. Il Presidente affronta pochi nemici interni, ormai allo stremo, quindi un’opposizione efficace deve provenire dall’estero.

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BRIGATE RUSSE (Marta Ottaviani, Ledizioni, 15 euro)

IL LIBRO

MARTA FEDERICA OTTAVIANI – BRIGATE RUSSE (2022)

   Perché negli ultimi anni abbiamo sentito parlare sempre più di troll e bot russi? Cosa sono e quale strategia nascondono questi attacchi informatici? L’avvento al potere di Vladimir Putin, nel 2000, ha aperto una nuova fase nella storia della Russia, portando il Paese a nutrire maggiori ambizioni nell’arena internazionale non più sostenibili con le vecchie strategie.

   La cosiddetta ‘Dottrina Gerasimov’, che prende il nome dal Generale che l’ha teorizzata, è il punto di partenza della guerra non convenzionale che vede come strumenti principali internet, le nuove tecnologie e i social network. Una guerra occulta, che si combatte anche in tempo di pace e che ha, fra i suoi obiettivi, la manipolazione dell’opinione pubblica e l’uso dell’informazione come arma a largo spettro.

   In questo libro Marta Ottaviani illustra come Mosca sia riuscita a influenzare alcuni grandi conflitti e appuntamenti internazionali attraverso attacchi hacker ai danni di molti Paesi europei e legioni di troll al soldo del Cremlino, che operano per accrescere la popolarità di Putin e screditare gli oppositori.  L’obiettivo è quello di far filtrare la versione dei fatti russa, ribaltando la realtà, anche attraverso una galassia di media legati a Putin e al suo cerchio magico.

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LE GUERRE DI PUTIN (Giorgio Dell’Arti – La Nave di Teseo – 13 euro)

IL LIBRO

GIORGIO DELL’ARTI – LE GUERRE DI PUTIN (2022)

Se non sai che cosa accadrà domani, perché parlare a vanvera oggi? (Vladimir Putin)
“Ho raccolto informazioni su Putin per vent’anni. Quando ha attaccato l’Ucraina, ho cominciato a scrivere questo libro che ripercorre la vita dell’ultimo autocrate russo, dal primo vagito a oggi, per mostrare come, attraverso una fitta rete di alleanze e di sostegni, palesi o occulti, e un’implacabile caccia a nemici e oppositori, è arrivato fin dove è arrivato. La tattica e i pretesti sono sempre gli stessi, e basterà rileggere le vicende relative alla Georgia o alla Crimea per rendersene conto. È cioè la storia appassionante e incredibile di una presa di potere nel paese più grande del mondo, illuminata dal racconto di centinaia di aneddoti.”
Giorgio Dell’Arti
Il libro racconta – ed è la prima volta, almeno in Italia – la vita di Putin dall’infanzia fino ad oggi, illustrandone non solo vizi, amori, ossessioni, delitti e colpi di genio, ma anche le ragioni strategiche che stanno dietro all’invasione della Georgia, ai bombardamenti in Siria, alla presa di possesso della Cirenaica. Questo col sistema di far raccontare la vicenda attraverso un dialogo, in cui l’interlocutore (cioè Dell’Arti) pone a colui che racconta (sempre Dell’Arti) le stesse domande che si fanno tutti.

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LA RUSSIA DI PUTIN (Anna Politkovskaja, Adelphi, 13 euro)

IL LIBRO

ANNA POLITKOVSKAJA – LA RUSSIA DI PUTIN (ed. italiana 2015 e 2022)

«Siamo solo un mezzo, per lui. Un mezzo per rag­giungere il potere personale. Per questo dispone di noi come vuole. Può giocare con noi, se ne ha voglia. Può distruggerci, se lo desidera. Noi non siamo niente. Lui, finito dov’è per puro caso, è il dio e il re che dobbiamo temere e venerare. La Russia ha già avuto governanti di questa risma. Ed è finita in tragedia. In un bagno di sangue. In guerre civili. Io non voglio che accada di nuovo. Per questo ce l’ho con un tipico čekista sovietico che ascende al trono di Russia incedendo tronfio sul tappeto rosso del Cremlino».

DI CHE COSA PARLA QUESTO LIBRO| Questo libro parla di un argomento che non è molto in voga in Occidente: parla di Putin senza toni ammirati. A scanso di equivoci, spiego subito perché tale ammirazione (di stampo prettamente occidentale e quanto mai relativa in Russia, dato che è sulla nostra pelle che si sta giocando la partita) faccia qui difetto. Il motivo è semplice: diventato presidente, Putin – figlio del più nefasto tra i servizi segreti del Paese – non ha saputo estirpare il tenente colonnello del kgb che vive in lui, e pertanto insiste nel voler raddrizzare i propri connazionali amanti della libertà. E la soffoca, ogni forma di libertà, come ha sempre fatto nel corso della sua precedente professione. Questo libro spiega inoltre come noi, che in Russia ci viviamo, non vogliamo che ciò accada. Non vogliamo più essere schiavi, anche se è quanto più aggrada all’Europa e all’America di oggi. Né vogliamo essere granelli di sabbia, polvere sui calzari altolocati – ma pur sempre calzari di tenente colonnello – di Vladimir Putin. Vogliamo essere liberi. Lo pretendiamo. Perché amiamo la libertà tanto quanto voi.

Questo libro, però, non è un’analisi della politica di Putin dal 2000 al 2004. Le analisi politiche le fanno i politologi. Io sono un essere umano tra i tanti, un volto nella folla di Mosca, della Cecenia, di San Pietroburgo o di qualunque altra città della Russia. Ragion per cui il mio è un libro di appunti appassionati a margine della vita come la si vive oggi in Russia. Perché per il momento non riesco a fare un passo indietro e a sezionare quanto raccolto, come è bene che sia se si vuole analizzare un fenomeno. Io vivo la vita, e scrivo di ciò che vedo (…..) (Anna Politkovskaja, uccisa dai sicari di Putin il 7 ottobre 2006)