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“(…) Non sappiamo se Marc Augé (Poitiers, 2 settembre 1935 – 24 luglio 2023), prima di chiudere definitivamente gli occhi, lui che li aveva tenuti ben aperti tutta la vita per decrittare il mondo, abbia avuto modo di riflettere sull’ennesima esplosione di violenza nelle banlieue francesi di tre settimane fa. Si era dedicato con passione al tema e ogni volta che capitava d’incontrarlo non mancava di ribadire un concetto che lo ossessionava. E che chiamava in causa, soprattutto, il sistema educativo: «Ci sono state crepe in quel sistema che non ci sarebbero dovute essere. Tutti sono andati a scuola ma alcuni lo hanno fatto male, si sono persi, fuorviati. C’è stata una tendenza a lasciare che i fratelli maggiori si occupassero dei più piccoli». Era il risultato di una frattura risalente agli anni Settanta, «quando è cominciato il fenomeno della disoccupazione di massa. I quartieri simbolo della modernizzazione operaia sono diventati rifugi per persone declassate. E se si trattava di magrebini sono diventati simbolo di sconfitta. Un problema che si è riflesso nelle famiglie e ha provocato tensioni, a volte disprezzo da parte dei figli verso i genitori». (…)” (GIGI RIVA, dal quotidiano DOMANI del 26/7/2023) – Quali sono gli errori da non ripetere, anche in base all’esperienza francese? «Quando negli Anni 70 in Francia abbiamo accolto i figli dei migranti economici, originari soprattutto del Nord Africa, non abbiamo capito l’ampiezza del compito che ci aspettava. Questi bambini sono andati a scuola, ma per formarli ci sarebbe voluta una mobilitazione eccezionale. Invece si è pensato che la loro presenza fosse temporanea. Questi giovani si sono sentiti accettati solo in apparenza: erano francesi certo, ma di serie B. È stata una politica incompleta e poco coraggiosa». (Laura Aguzzi, da “La Stampa” del 13/5/2016)
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COSÌ MARC AUGÉ CI HA COSTRETTO A GUARDARCI ALLO SPECCHIO
di GIGI RIVA – scrittore, dal quotidiano DOMANI del 26/7/2023
– È stato l’antropologo della post-modernità e ha scoperto lati di noi che cerchiamo di ignorare – Ha applicato alla società occidentale i metodi di indagine usati in genere per le tribù esotiche – È diventato celebre per la definizione di non-luoghi, applicata a tutte quelle realtà cittadine che non posseggono un’anima –
Non sappiamo se Marc Augé (Poitiers, 2 settembre 1935 – 24 luglio 2023), prima di chiudere definitivamente gli occhi, lui che li aveva tenuti ben aperti tutta la vita per decrittare il mondo, abbia avuto modo di riflettere sull’ennesima esplosione di violenza nelle banlieue francesi di tre settimane fa. Si era dedicato con passione al tema e ogni volta che capitava d’incontrarlo non mancava di ribadire un concetto che lo ossessionava.
E che chiamava in causa, soprattutto, il sistema educativo: «Ci sono state crepe in quel sistema che non ci sarebbero dovute essere. Tutti sono andati a scuola ma alcuni lo hanno fatto male, si sono persi, fuorviati. C’è stata una tendenza a lasciare che i fratelli maggiori si occupassero dei più piccoli».
Tornare in Europa
Era il risultato di una frattura risalente agli anni Settanta, «quando è cominciato il fenomeno della disoccupazione di massa. I quartieri simbolo della modernizzazione operaia sono diventati rifugi per persone declassate. E se si trattava di magrebini sono diventati simbolo di sconfitta. Un problema che si è riflesso nelle famiglie e ha provocato tensioni, a volte disprezzo da parte dei figli verso i genitori».
La scuola, la famiglia. Erano questi àmbiti il terreno d’indagine sotto casa del grande antropologo che ha ribaltato i cliché della sua professione. I comportamenti degli umani si possono e si devono studiare dappertutto, non solo andando alla ricerca degli usi e costumi di qualche tribù esotica.
Certo era stato in Africa, Costa d’Avorio e Togo soprattutto, o in America Latina, ma aveva capito che gli stessi metodi usati in terre lontane potevano essere straordinariamente utili per indagare la “surmodernità”, le aree evolute dell’Europa metropolitana.
Genio del paganesimo
Compresa la Francia, ovviamente, la terra d’origine che lo aveva issato fino al prestigioso ruolo di direttore dell’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales (Ehess), la Spagna e l’Italia, paesi cugini che ha amato e spesso frequentato. Non accontentandosi di rimanere stretto nel suo ambito ma dilatando il suo sapere all’etnologia, la filosofia, la scrittura.
Un intellettuale a tutto tondo la cui opera, se non era politica nel senso stretto, era strutturata “politicamente”. Avendo come sostrato quell’idea forte della laicità maturata, per opposizione, proprio studiando le religioni. Non per caso una delle prime opere che lo ha reso famoso ha per titolo Genio del paganesimo (1982, chiara citazione per contrasto al Genio del cristianesimo di Chateaubriand), in cui evidenzia come il paganesimo non oppone lo spirito al corpo né la fede al sapere e postula una continuità tra ordine biologico e ordine sociale.
Non-luoghi
Lo sbocco di tante riflessioni si sostanzia nel 1986 con Un etnologo nel metrò, un viaggio nel sottosuolo dove Marc Augé indaga gli individui che frequentano il fitto reticolo parigino come fossero indigeni della post-modernità, ne svela le solitudini, li mette in relazione con i nomi delle fermate che alludono a passati stratificati, storici o geografici che siano.
E l’acme della sua produzione sfocia nel 1992 con Non-luoghi, introduzione a una antropologia della surmodernità, l’invenzione di un neologismo che entrerà nei vocabolari dopo essere entrato nel linguaggio comune. Centri commerciali, aeroporti, autostrade, sale d’aspetto, ascensori, sono gli spazi che hanno la prerogativa di non essere identitari, relazionali o storici e sono in antitesi con i luoghi antropologici.
I non-luoghi sono la rappresentazione fisica dell’epoca in cui viviamo caratterizzata dalla precarietà assoluta e dall’individualismo. Sono prodotti usa e getta, di puro consumo, che nessuno abita e che tutti sfruttano. Zone di transito come il loro opposto, i campi profughi che non simboleggiano il benessere della società opulenta ma l’impossibilità per i migranti di conservare i luoghi d’origine e di raggiungere una meta dove costruire una nuova identità impossibile.
Non-tempo
Nell’evoluzione perenne di un uomo onnivoro, ghiotto di ogni conoscenza, il passo successivo riguarda il tempo. Proprio Che fine ha fatto il futuro? Dai non-luoghi al non-tempo (2008) è il titolo che segna l’ingresso in una dimensione più filosofica.
Viviamo il presente in una maniera così ingombrante che il qui ed ora si è ingoiato il passato, la precarietà con la sua mancanza di prospettive ha annullato il futuro. E, biologicamente, l’allungarsi delle prospettive di vita, e di una vita in buona salute, ha cancellato la vecchiaia tanto che senza indugi esclama: «La vecchiaia non esiste».
E, addirittura, in un’intervista a Libération: «Più passa il tempo più ho la sensazione che la morte non esista». Nonostante chi lo ha frequentato ultimamente ha potuto notare le offese degli anni sul suo incedere claudicante.
La bicicletta
C’era, in Marc Augé, un ottimismo di fondo, un dolce abbandonarsi, ad esempio, ai piaceri della buona tavola, una volontà ferrea di gustarsi ogni momento ed ogni occasione.
Una convinzione profonda nella capacità delle persone di potersi reinventare, simboleggiata, ad esempio, da un oggetto di uso comune. Il bello della bicicletta (2008), secondo lui trasvolata da “mito maturo” a utopia ecologista e democratica.
I ciclisti come portatori di un nuovo umanesimo che annulla le differenze di classe, induce all’uguaglianza, riconduce l’esistenza delle nostre città a ritmi più sostenibili. L’andamento lento della pedalata è la cadenza sulla riscoperta dei luoghi, antidoto contro i non-luoghi e, in definitiva, anche il sogno di un avvenire più conforme a ciò per cui (anche) siamo nati: la contemplazione.
Per tutto questo mancherà Marc Augé, certo analista impietoso delle storture della contemporaneità, fustigatore delle disuguaglianze, grillo parlante delle nostre aberrazioni. Ma sempre con lo sconfinato sorriso sulle labbra di chi in fondo conserva una speranza nel genere umano. (GIGI RIVA, dal quotidiano DOMANI)
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(NONLUOGHI, ed. Eleuthera 2009) – Nel 1992 Marc Augé, all’epoca studioso già affermato e direttore a Parigi di uno dei più prestigiosi istituti di ricerca in scienze sociali al mondo (l’École des Hautes Études en Sciences Sociales, EHESS), pubblicò un libro che conteneva già nel titolo l’espressione non-lieux, poi tradotta letteralmente un anno dopo nella prima edizione italiana del libro: Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, di cui seguirono diverse ristampe (la più recente nel 2018). (da https://www.ilpost.it/ 25/7/2023)
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Surmodernità: un neologismo da lui coniato in riferimento ai fenomeni sociali, intellettuali ed economici tipici dello sviluppo delle società occidentali alla fine del Novecento, in particolare il superamento della fase postindustriale e la diffusione della globalizzazione. E attribuì a questa nuova fase della modernità la caratteristica dell’“eccesso”: eccesso di avvenimenti che gli storici faticano a interpretare; eccesso di spazi facilmente raggiungibili o fruibili, in cui si moltiplicano i nonluoghi; ed eccesso di ego, cioè la tendenza delle persone a interpretare le informazioni a livello individuale e non sulla base di un significato definito a livello di gruppo. (da https://www.ilpost.it/ 25/7/2023)
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MARC AUGÉ: “LE MIE PERIFERIE NON SONO UN CONCETTO GEOGRAFICO”
Laura Aguzzi, da “La Stampa” del 13/5/2016
C’è un grande malinteso nel concetto di periferia. Ce lo racconta Marc Augé, (…): «L’errore più comune è applicare una categoria geografia a un problema sociale ed economico. L’idea di periferia esclude quella di centro, ma è un concetto sbagliato. Prendiamo Parigi: ci sono dei quartieri che sono periferici solo in base al tipo di popolazione che vi abita. O la stessa Molenbeek, l’area di Bruxelles divenuta snodo del terrorismo internazionale: non è un quartiere estraneo alla città. Piuttosto alla società».
(…)
Quali sono gli errori da non ripetere, anche in base all’esperienza francese?
«Quando negli Anni 70 in Francia abbiamo accolto i figli dei migranti economici, originari soprattutto del Nord Africa, non abbiamo capito l’ampiezza del compito che ci aspettava. Questi bambini sono andati a scuola, ma per formarli ci sarebbe voluta una mobilitazione eccezionale. Invece si è pensato che la loro presenza fosse temporanea. Questi giovani si sono sentiti accettati solo in apparenza: erano francesi certo, ma di serie B. È stata una politica incompleta e poco coraggiosa». (…..)
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I nonluoghi sono quegli spazi contrapposti ai luoghi antropologici, quindi tutti quegli spazi che hanno la prerogativa di non essere identitari, relazionali e storici. Sono tutti quegli ambiti adibiti alla circolazione, al consumo e alla comunicazione. Agli occhi dell’autore, questi nonluoghi sono spazi della provvisorietà e del passaggio, spazi attraverso cui non si possono decifrare né relazioni sociali, né storie condivise, né segni di appartenenza collettiva. I nonluoghi sono prodotti della società della surmodernità, incapace di integrare in sé i luoghi storici confinandoli e banalizzandoli in posizioni limitate e circoscritte alla stregua di “curiosità” o di “oggetti interessanti”. I nonluoghi sono incentrati solamente sul presente e sono altamente rappresentativi della nostra epoca, che è caratterizzata dalla precarietà assoluta, dalla provvisorietà, dal transito e dal passaggio e da un individualismo solitario. Le persone transitano nei nonluoghi ma nessuno vi abita. In altre parole, sono tutto il contrario della città storica nella quale le regole di residenza, la divisione in quartieri, delimitava lo spazio e permettevano di cogliere nelle loro linee essenziali le relazioni tra gli abitanti.
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LA PAROLA A MARC AUGÉ
di Sara Capogrossi, da http://www.caffeeuropa.it/ del 24/5/2002
Docente alla Ecole des Hautes Etudes di Parigi, a conclusione di una prolungata “vacanza” romana in veste di visiting professor presso la cattedra di Marcello Massenzio – storico delle religioni all’Università di Tor Vergata – Marc Augé è stato ospite alla Società geografica italiana, per un’intervista collettiva sui rapporti tra antropologia e geografia e sul possibile dialogo tra le due discipline. Un invito, quello dei geografi italiani, che sembra una risposta al provocatorio tema dei “non-luoghi”, introdotto dall’antropologo francese nel suo libro più famoso e dibattuto: Nonluoghi, per l’appunto (vedi Caffè Europa 151 ). Un testo straordinariamente intenso, che rischia però di oscurare il lavoro del suo stesso autore e di indurre a fraintendimenti.
Per capire a fondo il significato di quest’opera occorre situarla nel giusto contesto, insiste Massenzio, moderatore dell’incontro, presentando l’ospite francese. Augé nasce, infatti, come etnologo africanista e per lunghi anni studia sul campo società diverse dalle nostre, e perciò tanto più difficili da penetrare. Frutto di queste ricerche sono opere quali Il genio del paganesimo (Bollati e Boringhieri) e Il senso del male, in cui si approfondisce la differenza tra male e malattia. Solo più tardi lo studioso volta lo sguardo dalle società esotiche per dirigerlo sulla nostra realtà: cambia l’oggetto di studio, dunque, e quindi cambia l’approccio; eppure c’è continuità nel suo lavoro.
Innanzitutto, l’antropologo è interessato alla produzione simbolica del senso, quale che sia l’ambito nel quale si muove. Inoltre, Augé studia la trasformazione della nostra realtà, il farsi altro della nostra società, e soltanto chi, come lui, è abituato a decodificare l’altrui può capire il farsi altro dell’identico, i nostri cambiamenti. Un nuovo modo di pensare il tempo, che ci porta a riflettere sulla fine della storia, sull’incapacità di darsi una prospettiva.
Sul farsi altro dello spazio, che ci porta ai non-luoghi. E i geografi si sentono giustamente chiamati in causa dall’evocazione di spazi in cui la geografia non avrebbe senso di essere: a questo nodo si riferisce, per l’appunto, la prima domanda rivolta ad Augé da Armando Montanari, direttore della Home of Geography: “Qual è il rapporto tra l’antropologo Augé e la geografia? Noi sappiamo che qualche decennio fa ha compiuto studi in Africa con colleghi francesi. Nelle sue opere ho trovato citate molte discipline: urbanistica, architettura, e così via. Negli ultimi lavori, però, ho riscontrato poca attenzione nei confronti della geografia come scienza. Ritiene che insieme ai non-luoghi non ci sia neppure una geografia?”
“Quando ho fatto le mie ricerche sul campo, in Africa“, risponde Augé, “certamente la collaborazione con i geografi era non solo necessaria, ma indispensabile, perché entrambi, geografi e antropologi, non possono non prendere coscienza dell’importanza primaria dell’organizzazione dello spazio, di come le varie culture africane mettano in opera il senso dello spazio. Fondamentale per lo studio delle civiltà africane è capire le regole di residenza, che non sono arbitrarie, ma estremamente rigide e perciò è necessario percepire i fondamenti dell’organizzazione sociale, nonché capire la divisione precisa dello spazio. Dunque, gli anni Sessanta e Settanta sono stati all’insegna di una collaborazione forte fra geografia e antropologia. Poi c’è stato un cambiamento di prospettiva.”
“Il discorso dei non-luoghi certamente ha a che fare con lo spazio – è una banalità – però decolla da questo concetto, perché essi hanno a che fare con la nuova sensibilità culturale che va sotto il nome di surmodernité e quindi attengono più al simbolico immaginario che alla geografia propriamente detta. Immaginario, simbolico, percezione dell’altro sono domande proprie dell’antropologia. Ma la collaborazione non è finita. Nello studiare i “filamenti urbani” ho dovuto ripristinare rapporti stretti con la geografia.”
“Per quanto riguarda il turismo, esso è un argomento centrale della geografia e interessa lo studio della surmodernité, ma il turismo che osservo io è altra cosa, perché è un turismo che si rifà all’idea di consumo. Il turismo visto come consumo del paesaggio, consumo dell’altro e quindi come simbolizzazione dell’altro per arrivare al consumo. E in questo senso mi sono un po’ distaccato da quell’accoppiata formidabile che c’era prima tra antropologia e geografia.”
Claudio Minca dell’Università di Venezia, domanda invece ad Augé: “Per noi geografi il luogo è un concetto sul quale abbiamo riflettuto da sempre e da sempre abbiamo pensato di avere una sorta di privilegio su questo soggetto. Quelli che lei cita come non-luoghi (parchi tematici, aeroporti, ecc.) sono spazi in cui molte persone lavorano, si incontrano, socializzano. Nel momento stesso in cui assegniamo identità a questi spazi, come possiamo considerarli non-luoghi?“
Risponde Augé: “Io non ho mai voluto fare una lista dogmatica o manichea di luoghi, da una parte, e non-luoghi dall’altra. Ho trattato questi termini come coppie di opposti (luoghi/non-luoghi), una concettualizzazione che permette di aggredire la realtà. Certamente è bene avere le idee chiare: la divisione è ideale. Nei luoghi i segni dell’identità collettiva, della socializzazione, del patrimonio culturale comune sono chiaramente visibili, perché fissati nello spazio. I non-luoghi, per assurdo, possono aiutare a capire i segni che contraddistinguono i luoghi, proprio perché se ne evidenzia l’assenza.”
Chiede ancora Minca: “Secondo lei il nuovo rapporto tra spazio privato e pubblico ha cambiato i concetti di normalità all’interno dello spazio pubblico e di devianza dalla stessa?“
Risponde Augé: “La tendenza dominante è tesa a privatizzare i luoghi sociali. Nelle città sudamericane (come Caracas, per esempio), i centri urbani sono diventati spazi interdetti a chi non fa parte della borghesia danarosa. Sono cittadelle fortificate, intorno alle quali c’è una serie di costruzioni miserabili, tipo favelas. Uno spazio segnato da un’antinomia radicale pubblico/privato, che rimanda a un’altra caratteristica della surmodernité: la discriminante povertà/ricchezza è sempre più estrema, i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. È finita l’utopia marxiana dell’egualitarismo. Lo spazio pubblico non è solo spazio condiviso (per esempio una piazza come piazza Navona, a Roma), lo spazio pubblico è quello in cui si forma l’opinione pubblica, che nella surmodernité è su scala planetaria. Tutto ci interessa, ma non c’è un luogo ove si formi l’opinione pubblica su scala mondiale. Da qui il tentativo dei movimenti di protesta (più o meno ingenuo, più o meno riuscito) per creare spazi dove formare un’opinione pubblica all’altezza dei tempi.“
L’ultima domanda è di Armando Montanari: “Come ha risolto il dilemma del ‘paradosso etnografico’: la contraddizione che vede l’etnografo lavorare sul campo e partecipare alla cultura, al linguaggio oggetto di esame, provare empatia, e poi, necessariamente, assumere un distacco critico, per elaborare il frutto dei propri studi?“
“Io sono piuttosto critico nei confronti dell’antropologia postmoderna americana“, dice Augé, “impegnata a criticare i testi di antropologia. Stimo, invece, quella di stampo britannico, Edward Evans Prichard, in particolare, è stato un autorevole modello. Come ci insegna questo autore, onestamente si deve distinguere ciò che appartiene all’indagine dall’interpretazione. In questo modo si può anche prendere le distanze da un’interpretazione che non si ritiene più valida, ma si può sempre riprendere e riutilizzare il materiale raccolto, che è privo di considerazioni personali. I problemi, le domande che l’etnologo rivolge all’altro sul campo (all’estraneo) non sono diverse da quelle che ci si pone quando si riflette su se stessi ed è questo che non ha capito l’antropologia postmoderna“.
(Sara Capogrossi, da http://www.caffeeuropa.it/ del 24/5/2002)
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STRANIERO A ME STESSO – tutte le mie vite di etnologo, Bollati Boringhieri – È il suo libro autobiografico in cui confessa il grande dispiacere di non aver partecipato al Sessantotto francese, a Parigi – Badate, non è un’autobiografia, avverte Marc Augé in apertura del libro. Almeno non nel senso tradizionale. In effetti, queste pagine gremite di immagini che riaffiorano, di incontri decisivi, di paesaggi perduti, di eventi della Grande Storia spesso colti di scorcio, affidano il loro ritmo sottotraccia a una incalzante variazione sull’idea di luogo. Quello dell’etnologo Augé, innanzi tutto, che si identifica con lo sradicamento, col non essere mai al proprio posto. La sua itineranza si consuma perlopiù in Africa, nella regione lagunare della Costa d’Avorio e nel Togo del Sud, e in America Latina…
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“LE MIE PERIFERIE NON SONO UN CONCETTO GEOGRAFICO” C’è un grande malinteso nel concetto di periferia. Ce lo racconta Marc Augé, antropologo francese, teorico dei non-luoghi (…) «L’errore più comune è applicare una categoria geografica a un problema sociale ed economico. L’idea di periferia esclude quella di centro, ma è un concetto sbagliato. Prendiamo Parigi: ci sono dei quartieri che sono periferici solo in base al tipo di popolazione che vi abita. O la stessa Molenbeek, l’area di Bruxelles divenuta snodo del terrorismo internazionale: non è un quartiere estraneo alla città. Piuttosto alla società». (Laura Aguzzi, da “La Stampa” del 13/5/2016)
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MARC AUGÉ: UN NONLUOGO TUTTO PER SÉ
di MARCO AIME, da “La Stampa” del 25/7/2023
– Il filosofo francese è scomparso a 87 anni. Ha rivoluzionato il metodo di osservazione dell’uomo L’antropologia era lo sguardo dell’Occidente sull’altro: lui ha portato l’etnografia in casa, in metro, tra vicini – I suoi anni in Africa sono stati fondamentali per le intuizioni sul paganesimo e il sacro – “Più passa il tempo e più ho la sensazione che la morte non esista”, diceva Marc Augé al quotidiano francese Libération, in un’intervista del 2021 –
Ci piaceva scherzare sul fatto che avevamo lo stesso nome e il cognome di quattro lettere, con la A iniziale e la E finale. Eravamo diventati amici, Continua a leggere