Al Parlamento europeo è stata approvata la NATURE RESTORATION LAW (il vincolo agli Stati del ripristino degli ecosistemi) – La divisione tra favorevoli e contrari, mostra che la QUESTIONE AMBIENTALE sarà la priorità alle elezioni europee del 2024 – (? ma è poi vero che un ambiente sano e biodiverso sia contro gli interessi degli agricoltori??)

(Il Parlamento europeo vota la NATURE RESTORATION LAW, foto da https://tg24.sky.it/) – Mercoledì 12 luglio gli europarlamentari, nella plenaria del Parlamento Ue, hanno approvato la Nature Restoration Law, la legge per il ripristino della natura. Si tratta di un provvedimento, proposto dalla Commissione europea, molto contestato. Il via libera è passato con 336 voti favorevoli, 300 voti contrari e 13 astenuti. La Plenaria del Parlamento europeo poco prima aveva respinto la proposta di reiezione della legge. LaNATURE RESTORATION LAW prevede di istituire obiettivi giuridicamente vincolanti per gli Stati membri per il ripristino degli ecosistemi. Si serve dello strumento legislativo per ripristinare ecosistemifluviali, forestali, urbani e agricolidegradati e per fermare la perdita di biodiversità.

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(Il MANIFESTO per la NATURE RESTORATION LAW – tratto da www.wwf.it/) – Il MANIFESTO è stato sottoscritto, in una grande iniziativa, da oltre 150 organizzazioni italiane di livello nazionale e territoriale, e da un gran numero di accademici, ricercatori e personalità della scienza e della cultura.   –   La Nature Restoration Law – si legge nel Manifesto – è la più grande occasione per rigenerare la natura d’Europa e garantire sostenibilità, futuro e benessere ai suoi cittadini. Ripristinare almeno il 20% del territorio terrestre e marino dell’Unione europea e gli ecosistemi in sofferenza o andati persi; impedirne l’ulteriore deterioramento; rinaturalizzare i corsi fluviali abbattendo le barriere artificiali dove creano più danni che benefici; reinserire elementi naturali negli agroecosistemi, per un’agricoltura più sana e ricca di biodiversità, in special modo di insetti impollinatori e uccelli; promuovere una maggiore strutturazione delle foreste per migliorarne la qualità; favorire un’opera di greening delle città, spesso troppo grigie e povere di natura: sono solo alcuni degli obiettivi che la Nature Restoration Law si pone e che potrà concretamente perseguire negli Stati membri dell’Unione, Italia compresa”.

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CHE COS’È LA NATURE RESTORATION LAW

   La proposta di legge sul ripristino degli ambienti naturali fa parte del cosiddetto “Pacchetto natura”, approvato il 22 giugno 2022, che prevede di istituire obiettivi giuridicamente vincolanti per gli Stati membri, con il fine di ripristinare entro il 2030 almeno il 20 per cento delle superfici terrestri e marine dell’Unione, il 15 per cento dei fiumi nella loro lunghezza e la realizzazione, sempre entro la stessa data, di elementi paesaggistici ad alta biodiversità su almeno il 10 per cento della superficie agricola utilizzata.

   Un grande progetto di riqualificazione degli ambienti naturali che non riguarderà solo le aree protette, ma tutti gli ecosistemi, compresi i terreni agricoli e le aree urbane. “La legge europea sul ripristino degli habitat naturali rappresenta la punta di lancia di uno dei tre assi dello European Green Deal (ndr: gli altri due già approvati sono: la Legge sul Clima e il divieto dei nuovi veicoli benzina e diesel), lo sforzo senza precedenti di reinventare l’economia europea attorno alla transizione energetica, la salvaguardia della biodiversità e il passaggio a un’economia circolare”, ha detto Ariel Burner, direttore di Birdlife International. “Rappresenta la messa in pratica dello storico accordo internazionale raggiunto alla fine del 2022 a Montreal, nel quadro della Convenzione sulla biodiversità”.

   Secondo l’ultima valutazione dell’Agenzia europea dell’ambiente (Eea) sullo “Stato della natura nell’UE 2020”, l’81 per cento degli habitat protetti, il 39 per cento delle specie di uccelli protetti e il 63 per cento delle altre specie si trovano in un cattivo stato di conservazione. Le cause vanno ricercate nelle continue pressioni antropiche sui sistemi naturali, quali l’agricoltura intensiva, il consumo di suolo, l’inquinamento, la silvicoltura non sostenibile e il cambiamento climatico.

   E il punto della proposta di legge poggia su queste fondamenta, ovvero sul fatto che ecosistemi sani forniscono alimenti e sicurezza alimentare, acqua pulita, pozzi di assorbimento del carbonio e protezione dalle catastrofi naturali provocate dalla crisi climatica.

   Nel 2022 lo stesso IPCC (l’Intergovernmental Panel on Climate Change, IPCC, è il principale organismo internazionale per la valutazione dei cambiamenti climatici, e fa parte dell’ONU; ndr) sottolineava come l’Europa stesse già registrando un aumento degli eventi meteorologici e climatici estremi, a causa del costante e insostenibile sfruttamento dei sistemi naturali e umani oltre la loro capacità di adattamento, determinando già conseguenze irreversibili.

   Ripristinare gli ecosistemi degradati infatti è una delle soluzioni fondamentali proposte dai membri delle Nazioni Unite per mitigare gli impatti dei cambiamenti climatici, in particolare attraverso la ricostituzione di zone umide, fiumi, foreste ed ecosistemi agricoli degradati.

(da https://www.nationalgeographic.it/, Rudi Bressa, 20/6/2023)

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“La Nature Restoration Law va approvata, è indispensabile per il nostro benessere”: nella foto Manifestazione a favore (prima dell’approvazione) il 12 luglio scorso dei giovani ambientalisti fuori dal Parlamento europeo (foto da https://roccarainola.net/)

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(Schema GREEN DEAL EUROPEO, fonte Commissione Europea) – Il GREEN DEAL, almeno nelle intenzioni della UE, intende essere una STRATEGIA DI FORTE RILANCIO economico dell’Unione tutta imperniata sulla piena TRANSIZIONE VERSO LA GREEN ECONOMY. Un vero e proprio piano di azione che, attraverso più di 100 punti, intende innescare UN’ECONOMIA MODERNA, efficiente sotto il profilo delle risorse, competitiva e, soprattutto, NEUTRALE DAL PUNTO DI VISTA DELLE EMISSIONI DI GAS SERRA.   Il GREEN DEAL EUROPEO INTERESSA TUTTI I SETTORI DELL’ECONOMIA: i trasporti, l’energia, l’agricoltura, l’edilizia e settori industriali quali l’acciaio, il cemento, i prodotti tessili, le sostanze chimiche, le ICT (ndr: cioè le Information and Communication Technologies, le tecnologie riguardanti i sistemi integrati di telecomunicazione: linee di comunicazione cablate e senza fili, i computer, le tecnologie audio-video e relativi software, etc.). SI TRATTA DI UN’AMBIZIOSA STRATEGIA che mira a trasformare l’UE in una società giusta e prospera, per il benessere dei cittadini e del pianeta, e che propone di cambiare abitudini e stili di tutti, da quelli di vita a quelli produttivi. (da http://www.pianetapsr.it/)

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COS’È LA LEGGE SUL RIPRISTINO DELLA NATURA: LA NATURE RESTORATION LAW APPROVATA DAL PARLAMENTO UE CRITICATA DAGLI AGRICOLTORI

di Antonio Lamorte – 13/7/2023, da L’UNITÀ, https://www.unita.it/

– La proposta non impone la creazione di nuove aree protette in UE né blocca la costruzione di nuove infrastrutture per l’energia rinnovabile. Agricoltori allarmati, destra spaccata –

   La Nature Restoration Law è stata approvata mercoledì 12 luglio (2023) dagli europarlamentari nel corso della plenaria del Parlamento dell’Unione Europea. La base del testo votata si avvicinava all’accordo raggiunto lo scorso giugno in Consiglio Affari Ambiente. Il via libera è stato accolto da un lungo applauso e seguito dal voto favorevole che rinvia la proposta di regolamento alla Commissione Ambiente. La legge però è molto contestata e controversa: è appoggiata dalle associazioni ambientaliste ma è criticata dagli agricoltori. Anche il governo italiano è molto critico su alcuni aspetti del cosiddetto “Green Deal” europeo.  La prossima tappa prevede negoziati con il Consiglio Ue sul testo definitivo della legge, che sarà concordata anche con la Commissione Europea. Il cosiddetto trilogo.

   È stata approvata con 336 voti favorevoli, 300 voti contrari e 13 astenuti. La proposta ha spaccato il Partito Popolare. Il testo è stato approvato con diversi emendamenti presentati da Renew. La Restoration Law è uno dei capisaldi del pacchetto clima della Commissione von der Leyen e si inserisce nella strategia sulla biodiversità per il 2030, anche in osservanza agli impegni internazionali presi dall’Ue come quelli indicati nel quadro globale sulla biodiversità della Nazioni Unite di Kunming Montreal. Prevede di istituire obiettivi giuridicamente vincolanti per gli Stati membri per il ripristino degli ecosistemi. Si serve dello strumento legislativo per ripristinare ecosistemi – fluviali, forestali, urbani e agricoli – degradati e per fermare la perdita di biodiversità.

   Alcuni degli obiettivi, da raggiungere entro il 2030: ripristino di almeno il 20% delle superfici terrestri e marine dell’Unione e il 15% dei fiumi nella loro lunghezza; realizzazione di elementi paesaggistici ad alta biodiversità su almeno il 10% della superficie agricola utilizzata. La legge punta a recuperare tutti gli ecosistemi che necessitano di azioni di ripristino entro il 2050. Altri obiettivi: ridurre le barriere che limitano la connettività dei fiumi, aumentare gli stock di carbonio migliorando la gestione forestale, diminuire l’uso di pesticidi, rendere più sostenibile la pesca, aumentare il verde urbano, diversificare le aree coltivate per favorire farfalle, insetti impollinatori e uccelli, combattere l’uso indiscriminato di fertilizzanti e monocolture intensive.

   È altissima però la preoccupazione negli ambienti degli agricoltori, allertati dalla possibilità che la legge possa ridurre nettamente gli spazi destinati alle attività agricole. Un disappunto esplicitato da Pekka Pekkonen, segretario generale del Copa-Cogeca, il sindacato degli agricoltori e delle cooperative agricole europee: “Ridurremmo di fatto la nostra capacità di produrre cibo e saremmo più esposti alle importazioni che noi e tante Ong e organizzazioni considerano rischiose. Vogliamo produrre cibo per i cittadini europei e questa legislazione minaccia seriamente questo obiettivo del nostro settore“.

   Il commissario europeo all’ambiente Virginijus Sinkevičius ha assicurato in un’intervista a Politico.eu che “la legislazione è una minaccia” e che “la realtà sta raccontando una storia diversa”, ovvero che i raccolti degli agricoltori sono danneggiati dai cambiamenti climatici. I Popolari, come si accennava, si sono spaccati. Manfred Weber, presidente e capogruppo del Ppe, ha esortato il vicepresidente della Commissione Frans Timmermans a ritirare la bozza di legge perché “pericolosa per i cittadini e le imprese”. Parte dei parlamentari del Ppe ha però votato contro la linea del presidente: sono stati 21 quelli che hanno appoggiato la proposta. Contraria tutta l’estrema destra.

   César Luna, relatore del gruppo Socialisti e Democratici, ha dichiarato: “La legge sul ripristino della natura è un elemento essenziale del Green Deal europeo e segue le raccomandazioni e i pareri scientifici che sottolineano la necessita di ripristinare gli ecosistemi europei. Gli agricoltori e i pescatori ne beneficeranno e verrà garantita una terra abitabile alle generazioni future. La posizione adottata oggi invia un messaggio chiaro. Ora dobbiamo continuare a lavorare bene, difendere la nostra posizione durante i negoziati con i Paesi UE e raggiungere un accordo prima della fine del mandato di questo Parlamento per approvare il primo regolamento sul ripristino della natura nella storia dell’UE”. Secondo la Commissione la nuova legge tradurrebbe ogni euro investito in otto euro di benefici.

   “La nostra battaglia continua, senza natura non c’è futuro”, ha detto ai cronisti Greta Thunberg, l’attivista svedese che ha fatto partire i Friday For Future che si è unita al presidio in sostegno alla legge organizzato da Socialisti, Verdi e Sinistre davanti al Parlamento. “È scandaloso che si debba lottare per le briciole, questi problemi non dovrebbero neanche esistere”.

   I deputati a favore ritengono che il ripristino combatta il cambiamento climatico. La proposta inoltre non impone la creazione di nuove aree protette in UE né tantomeno blocca la costruzione di nuove infrastrutture per l’energia rinnovabile, al contrario sottolinea come questi impianti siano di interesse pubblico.

   “È stato un testa a testa ma cosi è la democrazia – ha commentato il vicepresidente della Commissione Ue, Frans Timmermans -, il Parlamento ha un posizione negoziale, ora torniamo a negoziare e andiamo avanti a convincere anche chi non è ancora convinto”. Per quanto riguarda il Green Deal, i suoi due pezzi principali sono già stati approvati: la Legge sul Clima e il divieto dei nuovi veicoli benzina e diesel. La prima vincola l’Ue a ridurre del 55% entro il 2030 le emissioni nette e di azzerarle entro il 2050 (“Fit for 55”), la seconda riguarda il divieto di vendere nuovi veicoli a benzina e diesel a partire dal 2035.

(Antonio Lamorte – 13/7/2023, da L’UNITÀ, https://www.unita.it/)

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(Nella foto la PROTESTA di alcuni AGRICOLTORI fuori dal Parlamento europeo – foto da https://tg24.sky.it/)   –   “(…) Tra le motivazioni dietro alla netta spaccatura che si è andata a creare attorno al regolamento sul ripristino della natura, uno riguarda una narrazione erronea (a cui è collegato un pensiero produttivo), che vede natura e agricoltura in contrapposizione. Chi si oppone infatti sostiene che la legge non può essere applicata nel concreto e che andrà a ledere i diritti delle categorie interessate di agricoltura e pesca, o peggio ancora che il provvedimento minerà la sicurezza e la sovranità alimentare dell’Unione. Questa visione trascura il fatto che senza un ambiente sano e biodiverso i raccolti saranno sempre più vulnerabili alle malattie e agli effetti del cambiamento climatico. Così come ignora che per tutelare la sicurezza e la sovranità alimentare non serve aumentare la produzione, ma bisogna agire sull’accessibilità del cibo, sulla riduzione dello spreco e sull’adozione di abitudini alimentari più sostenibili quali mangiare locale e stagionale o scegliere di mangiare proteine animali di qualità e in minor quantità. (…)” (Carlo Petrini, da “la Repubblica” del 13/7/2023)

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(ITALIA FRAGILE, da https://www.wwf.it/, 12/5/2023)   –   Sempre per quanto riguarda il GREEN DEAL, i suoi due pezzi principali sono già stati approvati: la Legge sul Clima e il divieto dei nuovi veicoli benzina e diesel. La prima vincola l’Ue a ridurre del 55% entro il 2030 le emissioni nette e di azzerarle entro il 2050 (“Fit for 55”), la seconda riguarda il divieto di vendere nuovi veicoli a benzina e diesel a partire dal 2035. (Antonio Lamorte – 13/7/2023, da L’UNITÀ, https://www.unita.it/)

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IL RIPRISTINO DELLA NATURA

di Carlo Petrini, da “la Repubblica” del 13/7/2023

   Seppur con una maggioranza risicata il 12 luglio al Parlamento europeo è passata la legge per il ripristino della natura. Nei giorni in cui il pianeta Terra registra le più alte temperature da quando si è iniziato a misurarle circa duecento anni fa, l’Europa ha mandato un messaggio chiaro che ci schiera dal lato giusto della lotta alla crisi climatico-ambientale: quello del pianeta.

   La legge, che ricade sotto il cappello della strategia sulla biodiversità al 2030 nell’ambito del Green Deal europeo, è lo strumento formale che consente di lavorare per mettere in sicurezza gli ecosistemi, creando i presupposti per un futuro più roseo per noi e per le generazioni che verranno. E mentre è fondamentale celebrare il traguardo (anche se su alcuni emendamenti proposti e accettati ci sarebbe da discutere), è anche giusto riflettere sulle motivazioni dietro alla netta spaccatura che si è andata a creare attorno al regolamento sul ripristino della natura.

   Ne citerò una fra tutte che mi tange direttamente e che riguarda una narrazione erronea (a cui è collegato un pensiero produttivo), che vede natura e agricoltura in contrapposizione. Chi si oppone infatti sostiene che la legge non può essere applicata nel concreto e che andrà a ledere i diritti delle categorie interessate di agricoltura e pesca, o peggio ancora che il provvedimento minerà la sicurezza e la sovranità alimentare dell’Unione.

   Questa visione trascura il fatto che senza un ambiente sano e biodiverso i raccolti saranno sempre più vulnerabili alle malattie e agli effetti del cambiamento climatico. Così come ignora che per tutelare la sicurezza e la sovranità alimentare non serve aumentare la produzione, ma bisogna agire sull’accessibilità del cibo, sulla riduzione dello spreco e sull’adozione di abitudini alimentari più sostenibili quali mangiare locale e stagionale o scegliere di mangiare proteine animali di qualità e in minor quantità.

   La natura non è senz’altro funzionale all’agricoltura convenzionale che gestisce la terra come un mero input di un processo di produzione che è tanto più efficiente quanto si utilizzano impattanti pesticidi e fertilizzanti. Ma d’altronde quell’agricoltura che è ora uno dei settori più climalteranti non è più compatibile con l’attualità. C’è bisogno di dare spazio, di fare ricerca, e di accompagnare gli agricoltori nella transizione verso pratiche agricole rigenerative (come l’agroecologia), dove la natura è il primo alleato e non un acerrimo nemico.

   A chi pensa – e qui mi rivolgo anche, e soprattutto, agli attuali rappresentanti della maggioranza di governo italiano che si sono opposti all’unanimità alla legge sul ripristino della natura – che questi ragionamenti siano pura ideologia che esula dal discorso economico e di crescita del Pil dico che si sbaglia. Stando a dati forniti dalla Commissione Europea, sanare gli habitat ricchi di biodiversità dovrebbe costare a livello europeo circa 154 miliardi di euro. Mentre i benefici che ne deriverebbero in termini di servizi ecosistemici (salute del suolo, regolazione del clima, depurazione dell’acqua, produzione di cibo) si aggirerebbero intorno ai 1.860 miliardi di euro. Insomma: un investimento eccezionalmente efficiente.

   L’approvazione della legge sul ripristino della natura da sola di certo non basta, ma segna e legittima un percorso di vera transizione ecologica che rallenta un po’ lo slancio delle destre negazioniste e anti Europa.   A tal proposito mi permetto di dire che la politica, destra o sinistra che sia, deve rendersi conto che in materia ambientale è finito il tempo di ragionare per mandati politici e in previsione delle elezioni di turno.

   Dalla salubrità degli ecosistemi dipende la sopravvivenza dell’umanità. Il tempo dei trastulli che vedono nella preoccupazione ambientale un vezzo, si è protratto fin troppo a lungo, ora dobbiamo passare all’azione. Le esigenze del Pianeta devono essere trattate come prerogative inderogabili che si collocano su un piano altro, e più alto delle posizioni pericolose delle alleanze e dei partiti.

   Siccome su questo campo probabilmente si giocherà molta della campagna elettorale per le elezioni europee del prossimo anno è bene che i cittadini siano coscienti di questo. Il rischio altrimenti è di cadere in una trappola propagandista che altro non è che un pericoloso specchietto per le allodole che porterà l’homo sapiens dritto verso il baratro. (Carlo Petrini, da “la Repubblica” del 13/7/2023)

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(CAMBIAMETO CLIMATICO, foto da https://ilbolive.unipd.it/) – senza un ambiente sano e biodiverso i raccolti saranno sempre più vulnerabili alle malattie e agli effetti del cambiamento climatico

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IL REPORT WWF

BIODIVERSITÀ FRAGILE, MANEGGIARE CON CURA

da https://www.wwf.it/, 12/5/2023

– Il 68% degli ecosistemi della penisola italiana è in pericolo mentre il 30% delle specie di vertebrati e il 25% delle specie animali marine rischiano l’estinzione –

IL 68% DEGLI ECOSISTEMI ITALIANI È IN PERICOLO

Il declino degli ecosistemi nel mondo ha raggiunto le dimensioni di una vera catastrofe: gli scienziati calcolano che l’impatto del genere umano su tutte le altre forme di vita sia arrivato ad accelerare tra le 100 e le 1.000 volte il tasso di estinzione naturale delle specie, avviando la sesta estinzione di massa. Ci resta un misero 12,5% della foresta atlantica, abbiamo perso più del 50% delle barriere coralline e una vastissima porzione della foresta amazzonica (probabilmente il 20% se non di più) è stata distrutta.

   Questa crisi di natura è evidente anche in Italia, dove la biodiversità raggiunge valori elevatissimi (contiamo metà delle specie vegetali e circa 1/3 di tutte le specie animali presenti in Europa), ma che con cieca determinazione stiamo erodendo e distruggendo, mettendo a rischio la nostra stessa sicurezza e il nostro benessere.

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I SEGNALI DELLA FRAGILITÀ

Dalle Liste Rosse nazionali della flora dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN) emerge che, in Italia circa l’89% degli habitat di interesse comunitario si trova in uno stato di conservazione sfavorevole. Dei 43 habitat forestali italiani, ad esempio, 5 hanno uno stato di conservazione “criticamente minacciato” e 12 “in pericolo”.  Il 68% degli ecosistemi italiani si trova in pericolo, il 35% in pericolo critico. Il 100% degli ecosistemi è a rischio nell’ecoregione padana, il 92% in quella adriatica e l’82% in quella tirrenica.

   Il 57% dei fiumi e l’80% dei laghi si trova in uno stato ecologico non buono. E i dati sullo stato di conservazione delle specie non sono meno allarmanti: il 30% delle specie di animali vertebrati e il 25% delle specie animali marine del Mediterraneo sono a rischio estinzione.

LE MINACCE PER LA BIODIVERSITÀ E GLI EFFETTI DELLA CRISI IDRICA

Oltre alle pressioni dirette su specie, habitat ed ecosistemi, esercitate attraverso l’inesauribile richiesta di risorse naturali operata dalle società, esistono anche altre forze che agiscono indirettamente senza degradare o distruggere l’ambiente, ma ostacolando e rallentando la risoluzione dei problemi.

   Si tratta, ad esempio, della cosiddetta governance ambientale (si pensi solo alla regolamentazione dello sfruttamento della risorsa idrica), inadeguata rispetto alla complessità dei problemi ed ostacolata da investimenti limitati, nonché dalla resistenza di soggetti con interessi politici o economici a breve termine, con scarsa attenzione alla tutela della biodiversità, alle comunità più deboli ed esposte e alle generazioni future.

   Tra i fattori alla base della perdita di biodiversità c’è anche il cambiamento climatico, processo profondamente interconnesso all’estinzione delle specie. La perdita di biodiversità influenza il clima, soprattutto attraverso l’impatto sull’azoto, il carbonio e sul ciclo dell’acqua. A sua volta il cambiamento climatico influenza la biodiversità attraverso fenomeni come l’aumento della temperatura e la riduzione delle precipitazioni. Queste si manifestano ormai sempre più spesso come piogge torrenziali, causa di frane e alluvioni disastrose.

   Altro effetto della crisi climatica è l’innalzamento del livello del mare. Sono 21.500 i km quadrati di suolo italiano cementificato, mentre si calcolano oltre 1.150 km2 di suolo consumati in 15 anni, una superficie quasi corrispondente a quella di una città come Roma, mentre nel Mediterraneo le temperature stanno aumentando il 20% più velocemente rispetto alla media globale.

   Poi ci sono le specie aliene invasive, identificate da alcuni studi come la seconda principale minaccia alla biodiversità globale, che ha contribuito in modo determinate al 54% delle estinzioni delle specie animali conosciute, tramite predazione su specie autoctone o competizione per le risorse (es. cibo, luoghi di riproduzione). Attualmente, si stima che in Italia ci siano intorno a 3.000 specie aliene, con un incremento del 96% negli ultimi 30 anni.

   La perdita di natura non rappresenta solo una minaccia di per sé, ma mette a rischio sistemi che ci garantiscono la vita, primo fra tutti quello che regge l’equilibrio della crisi idrica. A causa del riscaldamento globale in atto, la disponibilità media annua di acqua si potrebbe ridurre da un minimo del 10% entro il 2030 ad un massimo del 40% entro il 2100, con picchi fino al 90% per l’Italia meridionale. Il ciclo perverso della crisi idrica provoca effetti sulla biodiversità con l’estinzione (già in atto) di molte specie, perdita delle zone umide, l’incremento di parassiti e patologie, della frequenza e intensità degli incendi forestali. Gli effetti sulle persone, oltre alla riduzione delle disponibilità di acqua, saranno l’incremento dell’erosione del suolo e la riduzione della fertilità dei terreni agricoli.

LE SOLUZIONI

Il report WWF lancia anche un appello: è necessario di intervenire in maniera concreta mettendo immediatamente in pratica la Strategia Nazionale per la Biodiversità al 2030, che prevede che almeno il 30% delle specie e degli habitat di interesse comunitario il cui stato di conservazione non è soddisfacente, lo raggiungano entro il 2030.

   La strategia prevede anche che gli ecosistemi vengano tutelati attraverso l’incremento della superficie protetta al 30% del territorio terrestre e marino e che il 30% degli ecosistemi attualmente degradati vengano ripristinati. Per ogni ambiente da tutelare il report WWF approfondisce le soluzioni da mettere in atto: dal recupero e ripristino delle zone umide, al potenziamento della rete di monitoraggio delle acque interne superficiali e sotterranee; dalla necessità di un Piano di Adattamento alla crisi climatica, promuovendo le Nature Based Solutions, alla gestione forestale; dalla drastica riduzione dell’uso dei pesticidi in agricoltura, fino all’ampliamento della superficie marina protetta.

   Oggi più che mai è importantissima l’attivazione di tutti, a partire dalla società civile, per strappare la crisi dei sistemi naturali da quel cono d’ombra che impedisce ai cittadini di capire la portata di quello che sta succedendo e alle istituzioni di agire riconoscendo alla natura la priorità che ha, di fatto, nel presente e nel futuro. (da https://www.wwf.it/, 12/5/2023)

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‘(…) “La nostra battaglia continua, senza natura non c’è futuro”, ha detto ai cronisti Greta Thunberg, l’attivista svedese che ha fatto partire i Friday For Future che si è unita al presidio in sostegno alla legge organizzato da Socialisti, Verdi e Sinistre davanti al Parlamento. (…)’ (Antonio Lamorte – 13/7/2023, da L’UNITÀ, https://www.unita.it/)

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LA (GIUSTA) VISIONE SU EUROPA E AMBIENTE

di Francesco Giavazzi, da “il Corriere della Sera” del 16/7/2023

I RISCHI, LE SCELTE – Sarà la capacità dei Paesi di comprendere e sostenere la transizione che li renderà più o meno competitivi –

   L’ambiente, e in particolare le politiche per rallentare il riscaldamento della terra, saranno il tema centrale della campagna elettorale per il voto del Parlamento europeo che si terrà dal 6 al 9 giugno del prossimo anno. Vediamo perché. Continua a leggere

LA NUOVA DIGA nel Porto di Genova all’inizio della costruzione: MAGAOPERA mai realizzata con espresse perplessità di tenuta (su un progetto dichiarato impeccabile) – Ma ne usufruirà Genova per aumentare i traffici delle navi portacontainer rispetto ai porti del nord Europa? Reggerà una competizione nazionalista e poco collaborativa?

Nella foto: IL PORTO DI GENOVA (autorità portuale del Mar Ligure Occidentale) da www.ilpost.it/ – 10/5/2023 – NUOVA DIGA DI GENOVA: il Tar annulla l’aggiudicazione a Webuild dell’appalto da un miliardo, ma l’opera va avanti – Accolto il ricorso del consorzio Eteria. Bocciata la procedura di Autorità Portuale ma i lavori resteranno a Salini perché finanziati dal Pnrr. Si apre la partita per un maxi risarcimento all’impresa illegittimamente esclusa

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(IL PROGETTO DELLA NUOVA DIGA DI GENOVA, immagine dai costruttori WEBUILD, ripresa da www.ilpost.it/) – La FASE A di costruzione delle diga foranea nel porto di Genova, quella appena iniziata, e che dovrà concludersi entro novembre 2026 (lo impone il Pnrr), servirà a creare oltre 4 chilometri di barriera che, già così, consentirà l’ingresso delle grandi navi portacontainer di ultima generazione — “DIGA FORANEA”: significa che è la prima protezione dal mare per le navi che entrano nel porto – “(…) Complessivamente sarà lunga circa 6,2 chilometri. Sarà costruita per far entrare in porto enormi navi portacontainer, le più grandi mai costruite, lunghe oltre 400 metri, larghe 62 e con un carico di oltre 24mila TEU, acronimo di twenty-foot equivalent unit, lo standard minimo di un container (teu: unità di misura pari a un container da 20 piedi, NDR). La diga attuale dista 550 metri dalla costa, mentre quella nuova sarà costruita a una distanza di 800 metri per permettere anche alle navi più grandi di ruotare su loro stesse in caso di manovra. (…)” (da “IL POST.IT”, 4/5/2023, https://www.ilpost.it/)

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PARTITI I LAVORI DELLA NUOVA DIGA DI GENOVA, OPERA PNRR DA UN MILIARDO

– Via alla prima gettata di ghiaia. È il progetto più complesso e imponente tra quelli finanziati col Fondo complementare –

di Raoul de Forcade, da “Il Sole 24ore” del 4/5/2023 – https://www.ilsole24ore.com/

   La posa della “prima pietra” della nuova diga foranea di Genova, che in questo caso si è concretizzata con una gettata di ghiaia sul fondo marino, dalla nave Maria Vittoria Z, ormeggiata 500 metri al largo del porto di Genova-Sampierdarena, è avvenuta alle 12,50 precise di giovedì 4 maggio 2023.

   Un evento cui hanno dato avvio, premendo un pulsante rosso da palazzo San Giorgio, sede dell’Autorità di sistema portuale (Adsp) di Genova e Savona, il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini, insieme al viceministro Edoardo Rixi, ai vertici delle istituzioni genovesi e liguri, al commissario per l’opera, Paolo Emilio Signorini (presidente anche dell’Adsp) e a Pietro Salini, ad di Webuild, società che, in consorzio con Fincantieri Infrastructure, Fincosit e Sidra, ha vinto l’appalto (del valore di 850 milioni).

   Con questa cerimonia si aprono i lavori dell’opera più complessa e mastodontica tra quelle finanziate (in parte) grazie al Piano nazionale di ripresa e resilienza. Dei 950 milioni complessivi necessari a costruire il primo e più importante tratto della diga (Fase A), infatti, 500 arrivano dal Fondo complementare al Pnrr; circa 100 milioni dal ministero delle Infrastrutture; 300 milioni dall’Adsp, di cui 280 circa con un prestito Bei (Banca Europea Investimenti, NDR); 57 milioni dalla Regione Liguria. (Raoul de Forcade, da “Il Sole 24ore” del 4/5/2023 – https://www.ilsole24ore.com/)

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(nella foto: la MSC GÜLSÜN, una delle più grandi navi portacontainer del mondo, con una capacità di 23.000 TEU – foto da www.lastampa.it/) – Il trasporto marittimo continua a rappresentare il principale “veicolo” dello sviluppo del commercio internazionale: il 90% delle merci, infatti, viaggia via mare. I trasporti marittimi e la logistica valgono circa il 12% del PIL globale

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Raoul de Forcade, da “Il Sole 24ore” del 4/5/2023 – https://www.ilsole24ore.com/:

Salvini: «Opera per lo sviluppo del Paese»

«Quest’opera – ha detto Salvini – contribuirà allo sviluppo del Paese. I critici dicono che mai è stata fatta prima una diga cosi ma l’Italia è il Paese dove si osa, dove si crea con gli ingegneri migliori al mondo. Ingegneri che portano sapienza italiana nel mondo ma troppo spesso non qui in Italia. Invece oggi costruiamo anche qui».

   La diga è il più grande intervento mai realizzato per il potenziamento della portualità italiana, e fa parte del sistema integrato di interventi che stanno ridisegnando l’accessibilità marittima, stradale e ferroviaria del porto di Genova e della Liguria: TERZO VALICO e PARCHI FERROVIARI, COLLEGAMENTI DIRETTI con l’AUTOSTRADA, POTENZIAMENTO delle BANCHINE, SVILUPPO delle RIPARAZIONI NAVALI, e COLD IRONING (ndr: il “cold ironing” è il sistema che consente il collegamento elettrico delle navi alla banchina permettendo di spegnere i generatori ausiliari a combustibile fossile al fine di alimentare i propri servizi di bordo: tale processo permette così di azzerare l’inquinamento acustico nelle aree urbane circostanti e ridurre le emissioni di CO2, NOe polveri sottili, sfruttando l’energia elettrica immessa in rete tramite gli impianti di produzione da fonti rinnovabili installati su tutto il territorio; NDR).

   La nuova diga foranea sarà realizzata in DUE FASI è costerà complessivamente circa 1,35 miliardi di euro. La FASE A, quella appena iniziata, e che dovrà concludersi entro novembre 2026 (lo impone il Pnrr), servirà a creare oltre 4 chilometri di barriera che, già così, consentirà l’ingresso delle grandi navi portacontainer di ultima generazione, superiori a 18mila teu (unità di misura pari a un container da 20 piedi) di carico; mentre la FASE B, che deve ancora essere appaltata, prevede la costruzione di un’altra tranche di murata che porterà la lunghezza della diga a 6,2 chilometri. (Raoul de Forcade, da “Il Sole 24ore” del 4/5/2023 – https://www.ilsole24ore.com/)

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(Il progetto della nuova diga foranea di Genova, immagine da https://www.dailynautica.com/) – mai è stata fatta prima una diga così – “(…) Nonostante le rassicurazioni, negli ultimi mesi sono emersi dubbi sull’opportunità di costruire una diga così grande, con proteste per l’impatto ambientale e per l’organizzazione del cantiere.   Piero Silva, professore universitario di pianificazione portuale all’università di Grenoble, consulente esterno delle prime fasi progettuali, ha scritto una lettera alla città di Genova in cui esprime dubbi sulle previsioni ottimistiche dell’autorità portuale. Lo scorso anno si dimise da consulente dopo che i suoi rilievi non vennero presi in considerazione. (da “IL POST.IT”, 4/5/2023, https://www.ilpost.it/)

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Raoul de Forcade, da “Il Sole 24ore” del 4/5/2023 – https://www.ilsole24ore.com/:

Si costruirà su fondali fino a 50 metri

Per realizzare il basamento di quest’opera – unica nel suo genere dal punto di vista ingegneristico – che poggerà su fondali fino a una profondità di 50 metri, saranno impiegati 7 milioni di tonnellate di materiale roccioso, su cui verranno posizionati 97 cassoni prefabbricati in cemento armato, larghi 35 metri, lunghi 67 metri e alti fino a 33 metri (come un palazzo di 10 piani).

   Questa infrastruttura marittima, spiegano i tecnici dell’Adsp (Autorità di sistema portuale), è studiata anche per proteggere i bacini e le strutture portuali dai cambiamenti climatici: un vero argine al mare. E il materiale proveniente dalla demolizione della vecchia diga sarà quasi tutto riutilizzato, in un’ottica di economia circolare, riducendo gli impatti ambientali della costruzione.

   La costruzione della nuova diga, come si è accennato, consentirà l’accesso al porto in sicurezza anche alle moderne navi definite ultra large, che oggi subiscono limitazioni per il ridotto spazio di manovra nel bacino storico realizzato a fine anni ’30. Una volta ultimata, il porto avrà un bacino di evoluzione di 800 metri e sarà possibile differenziare il traffico merci da quello passeggeri e crocieristico.

Crescita dei traffici tra il 22 e il 30%

Questo, ha sottolineato Signorini, consentirà al porto di Genova di essere competitivo con i maggiori hub europei e attestarsi sempre più in alto fra quelli del Mediterraneo. Il commissario e presidente dell’Adsp stima che la nuova diga assicurerà una crescita progressiva annua dei traffici commerciali «tra il 22% e il 30% dal 2027 al 2030, anno in cui sarà ultimata anche la Fase B». L’Adsp calcola il beneficio economico in 4,2 miliardi, in termini di maggiori introiti da traffico container, di diritti e tasse portuali.

   Mentre, sempre secondo Signorini, ammontano a un miliardo gli investimenti che potranno partire sulle banchine, da parte dei privati, grazie al traino dell’opera. Msc, ad esempio, ha confermato il patron dell’azienda, Gianluigi Aponte, investirà 280 milioni per il potenziamento di calata Bettolo e anche le banchine occupate dal Hapag Lloyd e dal gruppo Spinelli dovranno essere adeguate alla nuova diga. La costruzione dell’opera, infine, impiegherà, circa mille persone e numerose imprese del territorio.

Con la diga, logistica Nord Ovest più competitiva

Sul fronte delle istituzioni locali, il governatore ligure, Giovanni Toti, ha detto che «questa diga fa sì che la logistica del Nord Ovest diventi davvero competitiva in Europa e lasciatemi dire che, insieme ai cassoni, oggi affondiamo una politica che troppo spesso distrugge e non costruisce».

   Mentre il sindaco di Genova, Marco Bucci, ha chiosato: «Avere la diga vuol dire avere più acqua, quindi anche più terra su cui dare ricaduta economica e occupazionale sulla città. Come nei secoli passati, quando Genova si allarga sul mare, genera una ricaduta sulla città stessa. Questo è il concetto chiave della giornata di oggi».

   Salini, parlando a nome dei costruttori, e rispondendo a chi ha chiesto se il consorzio riuscirà davvero a finire in tre anni i lavori, ha affermato: «Certo che ce la faremo. Ce la metteremo tutta. Ci mettiamo tutta la nostra buona volontà per realizzare la diga. Questo sforzo lo facciamo per il Paese. Il ponte di Genova lo abbiamo fatto noi: pensavate che sarebbe stato pronto? Forse no; e invece lo è stato. Noi quando ci proviamo, ci proviamo».

   Impegnato sull’opera è anche il gruppo Rina. «Il ruolo che l’azienda ha nella realizzazione della diga – spiega l’ad del Rina, Ugo Salerno – è lo stesso che l’azienda ha avuto anche nella ricostruzione del ponte di Genova, cioè quello di project manager e direzione lavori nonché la parte legata alla regia dell’esecuzione dell’operazione. Un ruolo che sappiamo svolgere e a cui guardiamo con grandissimo senso di responsabilità, come per tutte le infrastrutture. Questa però è speciale, perché è molto importante per la città e molto complessa da eseguire. La seguiremo con straordinaria attenzione». (Raoul de Forcade, da “Il Sole 24ore” del 4/5/2023 – https://www.ilsole24ore.com/)

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Vedi il video che spiega bene (di Geopop.it):

Nuova diga foranea di Genova, la più profonda d’Europa: a cosa serve e come sarà costruita (geopop.it)

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(tracciato terzo valico ferroviario, lungo 53 km di cui il 70 per cento in galleria, la nuova linea interessa 14 Comuni nelle province di Genova e Alessandria) – Da https://www.fsitaliane.it/:  La nuova linea ferroviaria Terzo Valico è in primo luogo finalizzata a migliorare i collegamenti del sistema portuale ligure con le principali linee ferroviarie del Nord Italia e con il resto d’Europa, in coerenza con le strategie annunciate nel Libro Bianco dei Trasporti dell’UE: trasferire entro il 2030 il 30% del traffico merci, oltre i 300 km, dalla strada al ferro, e il 50% entro il 2050, con vantaggi per l’ambiente, la sicurezza e l’economia.

Parte fondamentale del Core Corridor TEN-T Reno-Alpi – il più importante asse europeo di collegamento nord a sud su cui si muove il maggior volume di merci trasportate in Europa, attraversando i Paesi a maggior vocazione industriale (Paesi Bassi, Belgio, Germania, Svizzera e Italia), il Mediterraneo con il Mare del Nord, i porti dell’Alto Tirreno con quelli del Nord Europa – il Terzo Valico consentirà di superare gli attuali ostacoli allo sviluppo del trasporto ferroviario tra Genova, Milano e Torino.

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(supply chain, immagine ripresa da https://www.insidemarketing.it/) – per SUPPLY CHAIN s’intende un sistema di organizzazioni, persone, attività, informazioni e risorse coinvolte nel processo atto a trasferire o fornire un prodotto o un servizio dal fornitore al cliente

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DALLA PANDEMIA ALLA GUERRA IN UCRAINA: DUE ANNI DI STRAVOLGIMENTI DELLE CATENE DEL VALORE

da https://www.ispionline.it/ ottobre 2022

   Gli ultimi tre anni hanno messo a dura prova l’economia mondiale: la pandemia prima, e la guerra in Ucraina poi, hanno messo sotto pressione le supply chains di tutto il mondo (e in particolare quelle collegate con Cina e Asia) (ndr: per supply chain s’intende un sistema di organizzazioni, persone, attività, informazioni e risorse coinvolte nel processo atto a trasferire o fornire un prodotto o un servizio dal fornitore al cliente, NDR), mettendo a nudo gli elementi di vulnerabilità della globalizzazione: un sistema giunto ad un tale livello di interdipendenza da poter essere messo in difficoltà da problemi di carattere regionale o locale. Il settore della logistica e dei trasporti, vera “spina dorsale” di questo sistema basato sul criterio della massima efficienza (che si concretizzava nel just in time e nella minimizzazione delle scorte), ha subito un forte stress la cui cartina di tornasole è stato l’aumento significativo dei costi dei noli dei containers trasportati via mare, così come dei tempi di consegna delle merci. Fattori che si sono tradotti nell’aumento, da marzo 2020, dei costi di spedizione di un container sulle rotte transoceaniche globali con gravi conseguenze anche con riferimento al fenomeno inflazionistico.

(vedi tutto lo STUDIO su: studio_conftrasporto.pdf (ispionline.it) )

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(La rete portuale del Mediterraneo, da LIMES, Carta di Laura Canali del 2020, https://www.limesonline.com/)

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L’OPERA PIÙ COSTOSA DEL PNRR

LA NUOVA “DIGA FORANEA” DI GENOVA COSTA 1,3 MILIARDI DI EURO E IL SUO CANTIERE È ENORME, COSÌ COME IL SUO IMPATTO SULLA CITTÀ

da “IL POST.IT”, 4/5/2023, https://www.ilpost.it/

   Giovedì 5 maggio 2023 è stato versato il primo carico di ghiaia della nuova diga del porto di Genova, l’opera più imponente e costosa del PNRR, il piano nazionale di ripresa e resilienza con cui il governo italiano intende spendere i finanziamenti europei del Recovery Fund. In questo caso sarà finanziata con una parte del cosiddetto fondo complementare, cioè una quota di soldi garantiti dall’Italia per completare i finanziamenti europei.

   Come spesso accade in queste occasioni, è stata più che altro una cerimonia simbolica: l’operazione ha mosso a distanza la gru di una nave che ha versato un carico di ghiaia in mare. Considerata la grandezza dell’opera e i costi, finora la preparazione del progetto è stata veloce e tra le istituzioni c’è un certo ottimismo sulla possibilità di finire i lavori entro il 2026.

   La diga viene spesso chiamata “diga foranea”: significa che è la prima protezione dal mare per le navi che entrano nel porto. Se ne discute da quasi un decennio, anche se il primo atto formale risale al 2018, quando il progetto rientrò nel cosiddetto decreto Genova approvato dal governo in seguito al crollo del ponte Morandi.

   Complessivamente sarà lunga circa 6,2 chilometri. Sarà costruita per far entrare in porto enormi navi portacontainer, le più grandi mai costruite, lunghe oltre 400 metri, larghe 62 e con un carico di oltre 24mila TEU, acronimo di twenty-foot equivalent unit, lo standard minimo di un container. La diga attuale dista 550 metri dalla costa, mentre quella nuova sarà costruita a una distanza di 800 metri per permettere anche alle navi più grandi di ruotare su loro stesse in caso di manovra. Due ingressi dedicati e separati consentiranno di tenere distinte le rotte del traffico merci da quelle di traghetti e navi da crociera.

   Secondo le stime dell’autorità portuale la diga è un’opera necessaria per lo sviluppo e la competitività del porto, che altrimenti andrebbe incontro a un calo annuo del 6,8 per cento del traffico container. Dal porto di Genova passano ogni anno 66 milioni di tonnellate di merci, circa il 33 per cento del traffico container nazionale. Tutti i più grandi operatori mondiali come MSC, Maersk, Cosco, CMA CGM, Evergreen, Hyundai Merchant Marine, Hapag-Lloyd offrono servizi nel porto di Genova, così come i maggiori operatori di terminal portuali come Spinelli, Messina, Gavio, Grimaldi e alcune compagnie petrolifere come Eni ed Esso.

   Quando l’opera sarà conclusa, l’autorità prevede di arrivare a gestire tra i 5 e i 6 milioni di TEU all’anno, con un beneficio economico sul lungo periodo pari a 4,2 miliardi di euro in maggiori introiti da traffico di container, diritti e tasse portuali. Secondo le previsioni Genova avrebbe un vantaggio competitivo anche nei confronti del porto di Rotterdam, nei Paesi Bassi, il primo scalo mercantile europeo, soprattutto per gli scambi con i porti del Sud Est asiatico come Singapore e Shanghai in Cina e Yokohama in Giappone.

   Anche l’investimento pubblico è notevole. In totale la diga costerà 1,3 miliardi di euro, se le stime saranno rispettate. La prima fase del cantiere da finire entro il 2026 costerà 950 milioni di euro, di cui 500 milioni stanziati dal fondo complementare del PNRR finanziato con risorse nazionali, 100 milioni di euro dal fondo per le infrastrutture portuali, 264 milioni dalla banca europea degli investimenti (BEI) e i rimanenti 86 milioni di euro dall’autorità portuale e dalle amministrazioni locali. «La diga porterà tantissimi investimenti pubblici e privati», ha detto il sindaco di Genova Marco Bucci.

   I lavori saranno complessi perché verranno fatti senza interrompere il traffico portuale: si dovrà costruire un basamento fatto di roccia a 50 metri di profondità, utilizzando in totale 7 milioni di tonnellate di materiale. Sul basamento verranno poi posizionati cassoni in cemento armato alti 33 metri, larghi 35 e lunghi 67. I cassoni saranno poi riempiti con materiale di risulta ricavato in parte dalla demolizione della vecchia diga e in parte dallo scavo del fondale.

   L’appalto per la costruzione è stato vinto da un consorzio di imprese guidato da Webuild e a cui partecipano anche Fincantieri Infrastructure Opere Marittime, Fincosit e Sidra. Webuild ha costruito anche il nuovo ponte San Giorgio. Saranno circa mille le persone impegnate nei cantieri, tra assunzioni dirette e indirette. Andrea Tafaria, segretario del sindacato Filca Cisl della Liguria, ha detto che la diga è «un’occasione preziosissima: garantirà al settore edile una massa salari di 180 milioni di euro, oltre 6 milioni e mezzo di ore lavorate, ricadute occupazionali e ci permetterà di avviare percorsi formativi in tutti gli ambiti».

   Webuild assicura che saranno rispettati «i più stringenti criteri di sostenibilità». La costruzione, infatti, si basa sul riuso dei vecchi materiali, in particolare l’utilizzo di quasi tutto il materiale proveniente dalla demolizione della vecchia diga per ridurre l’impatto ambientale nella fase di costruzione, le operazioni di trasporto e il consumo di carburante.

   Nonostante le rassicurazioni, comunque, negli ultimi mesi sono emersi dubbi sull’opportunità di costruire una diga così grande, con proteste per l’impatto ambientale e per l’organizzazione del cantiere.

   Piero Silva, professore universitario di pianificazione portuale all’università di Grenoble, consulente esterno delle prime fasi progettuali, ha scritto una lettera alla città di Genova in cui esprime dubbi sulle previsioni ottimistiche dell’autorità portuale. Lo scorso anno si dimise da consulente dopo che i suoi rilievi non vennero presi in considerazione.

   Nella lettera pubblicata due giorni fa, Silva ribadisce le sue critiche. La diga, dice, è un progetto assolutamente sovradimensionato se paragonato ai modesti obiettivi in termini di traffico container. Inoltre avrà costi e tempi spropositati, ben superiori alle promesse fatte. Silva sostiene inoltre che il progetto abbia «un rischio tecnico altissimo, prevedendo la diga su uno spesso strato limoargilloso inconsistente, a profondità dove la consolidazione di tale strato indispensabile è considerata dagli esperti impossibile». Per Silva il disegno della diga causerà problemi legati alla sicurezza della navigazione perché la rotta di ingresso e uscita delle navi dal porto non è parallela, un difetto che in caso di brutto tempo potrebbe causare un impatto tra le navi e la diga stessa.

   Negli ultimi mesi diverse associazioni ambientaliste hanno protestato per la mancanza di indagini geologiche preliminari in vista del cantiere e soprattutto per l’impatto ambientale dei lavori in mare. Secondo dati diffusi dal ministero dell’Ambiente, il cantiere causerà un’emissione di gas serra pari a circa 401mila tonnellate di CO2. «L’equivalente dell’attività di un anno della ex centrale a carbone in porto», ha detto Selena Candia, consigliera regionale della lista Sansa, all’opposizione. «E in questi numeri non vengono contabilizzati l’esercizio e il traffico ulteriore».

   Alcuni comitati locali si sono opposti alla concentrazione dei lavori di preparazione dei cassoni della diga in un cantiere portuale nel quartiere di Prà. Secondo questi comitati i lavori avrebbero un impatto notevole sul traffico della zona, sull’inquinamento e sul paesaggio, perché i cassoni sono alti 33 metri. Nelle ultime settimane si sono riuniti più volte per chiedere alle istituzioni di trovare soluzioni alternative. Una decisione non è ancora stata presa, ma il vice ministro delle Infrastrutture Edoardo Rixi ha detto che è impensabile concentrare tutta l’attività di preparazione nella zona portuale di Prà. Tra le ipotesi c’è lo spostamento di una parte del cantiere a Vado Ligure. (da “IL POST.IT”, 4/5/2023, https://www.ilpost.it/)

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LA SIGNORA DELLE MERCI – Breve storia della logistica,di CESARE ALEMANNI (LUISS University Press, maggio 2023, euro 16,00, pagine 200)

LA SIGNORA DELLE MERCI

Breve storia della logistica

da https://www.iltascabile.com/

Cesare Alemanni è giornalista, scrittore e curatore di contenuti. Si interessa di sistemi globali e dell’interazione tra tecnologia, economia e geopolitica. Nel 2023 ha pubblicato La signora delle merci (LUISS University Press), un libro sulla storia della logistica e il suo ruolo nei meccanismi della globalizzazione.

– Dopo la fine della Guerra Fredda (…), dal punto di vista dei paesi occidentali più avanzati (…), vi è un’apertura di un ampio spazio di azione, ed esportazione di capitali e produzioni (…). Programma che, quantomeno dal punto di vista industriale e produttivo, difficilmente sarebbe stato possibile senza l’intervento della logistica. La cui capacità di imporre forme di “command & control”, di natura operativa, concettuale e “socio-territoriale”, a questo nuovo spazio e di organizzarne, coordinarne e fluidificarne i flussi di materiali è una componente decisiva nel passaggio dalla carta alla pratica, del modello economico del neoliberismo. Gli elementi decisivi in tal senso sono soprattutto due: l’incremento della capacità di calcolo, previsione, progettazione e gestione di sistemi complessi ed entropici, che è figlio dell’avanzare delle tecnologie informatiche (oltre che dell’esperienza logistica bellica), e lo sviluppo di un sistema di trasporto estremamente fluido e del tutto anfibio: la containerizzazione, ovvero il linguaggio materiale, il medium-messaggio in cui “parla” l’epoca della globalizzazione –

Sebbene aspiri alla semplificazione e alla sintesi, la logistica dimora nella complessità e nella molteplicità.” –

– “Le filiere sono la vera ragione, invisibile agli occhi, della stupefacente rapidità e del ridotto costo del progresso tecnologico e informatico di questo nostro primo scorcio di XXI secolo.” –

Filiere che, di recente, sono diventate la faglia di frattura e conflittualità “sospesa” più calda del pianeta (chiedere a Taiwan). A dimostrazione dell’ingenuità di coloro che, negli anni Novanta, in proposito dei processi d’integrazione industriale e finanziaria, parlavano dell’avvento utopico di un “mondo piatto” e post-politico, le filiere e la logistica hanno in realtà creato una mappa globale fatti di inediti punti di accumulo tensivo, in cui gli snodi e la rarefatta geoeconomia delle supply chain contano più delle specificità geografiche o delle contrapposizioni ideologiche. –

– …Ricapitolando lo sviluppo della FEITORIA (stazione commerciale, magazzino europeo in territorio straniero, NDR) di MACAO, un mandarino cinese del Seicento ce ne restituisce i sedimenti di uso (“all’inizio hanno messo un porto, col tempo hanno costruito magazzini e infine hanno eretto torri militari e bastioni per difendersi al loro interno”) e ci ricorda come nello sviluppo di qualunque ecosistema logistico, la “ragion pura” del trasporto conviva con “la ragion pratica” dell’amministrazione e della difesa.  

   Fino a marzo 2020 termini come “supply chain”, “filiere”, “catene del valore” circolavano solo tra specialisti. Negli ultimi tempi le cose sono cambiate. Il covid, la guerra in Ucraina e le tensioni sino-americane hanno messo alla prova i sistemi di produzione-distribuzione da cui dipende l’economia contemporanea. Gli effetti sono noti: l’inflazione che sta erodendo il nostro potere di acquisto ha origine dallo sfibrarsi delle catene di approvvigionamento, ancor prima che dalla crisi energetica. 

   Per questo motivo, ve ne sarete accorti, di recente si parla di supply chain anche al bar. Il dibattito, tuttavia, si è mantenuto sulla superficie delle cose. Non ci si è per esempio chiesti cosa, col tempo, abbia reso le filiere tanto fragili e conduttive per gli shock operativi ed economici. Quali siano i loro presupposti.  Quali strumenti, in condizioni normali, ne garantiscano il funzionamento. L’interesse per i problemi delle “supply chain” non si è tradotto in pari curiosità per i temi della logistica. È curioso. La logistica non è solo responsabile del funzionamento delle filiere, è la ragione della loro stessa esistenza. Essa è molto più di un collante materiale delle supply chain e del loro Continua a leggere

PONTE SULLO STRETTO: sogno o incubo? La GRANDE OPERA porterà progresso alla Sicilia e al Sud d’Italia: realtà? vero sviluppo? spreco di risorse? falso obiettivo (e le auspicate autostrade del mare per le merci? il traffico aereo per i passeggeri? i traghetti veloci?) – Con contesti ambientali, progettistici, finanziari assai difficili

(Il Ponte sullo Stretto, come ipotesi di realizzazione, immagine da https://www.fanpage.it/) – Il governo ha approvato il decreto sul Ponte sullo Stretto, che unirà Calabria e Sicilia. Sarà l’infrastruttura sostenuta da cavi più lunga al mondo, con i suoi 3,2 km. Il progetto prevede piloni alti fino a 400 metri e 60,4 metri di larghezza dell’impalcato. Sei le corsie stradali, tre per ogni senso di marcia. Transiteranno 6mila veicoli l’ora. Due i binari per i collegamenti ferroviari, con il passaggio di 200 treni al giorno. Oltre 7 miliardi di euro i costi stimati dell’opera, cinque anni per la realizzazione. (17/3/2023, da Corriere.it)

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(Il progetto per come dovrebbe apparire il ponte sullo Stretto, immagine da https://masterx.iulm.it/)

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PONTE SULLO STRETTO: LA GRANDE INCOMPIUTA D’ITALIA

di IVAN TORNEO, 16/3/2023, da https://masterx.iulm.it/

   Via libera al Decreto per il Ponte sullo Stretto di Messina. Il Consiglio dei Ministri del 16 marzo ha approvato un testo che consente il riavvio del percorso di progettazione e realizzazione del collegamento tra la Sicilia e il resto del Continente. Non è la prima volta che si avviano progetti per la realizzazione dell’opera italiana più attesa di sempre. Si spera che sia l’ultima.

Ecco cosa c’è da sapere sulla travagliata storia del Ponte sullo Stretto.

NASCE IL NUOVO PROGETTO

Rinasce la Società Stretto di Messina, stavolta con una nuova e più moderna governance. È prevista una cospicua partecipazione del Mef e del Mit, a conferma dell’importanza che il governo attribuisce alla possibilità di un collegamento tra Calabria e Sicilia.

   Si ricomincia dal progetto definitivo approvato nel 2011. Esso verrà aggiornato ai nuovi standard tecnici, di sicurezza e ambientali. Con i suoi 3,2 chilometri, si tratterà del ponte strallato più lungo al mondo.

   «È una giornata storica non solo per la Sicilia e la Calabria ma per tutta l’Italia», ha dichiarato il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini. «Dopo 50 anni di chiacchiere questo Consiglio dei ministri approva il Ponte che unisce la Sicilia al resto dell’Italia e all’Europa», ha aggiunto Salvini in un messaggio video al termine del Consiglio dei Ministri. Si tratta di uno dei tanti ambiziosi piani del governo per il Paese. (IVAN TORNEO, 16/3/2023, da https://masterx.iulm.it/)

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“Il Ponte sullo Stretto riceve il via libera dal Consiglio dei Ministri. Con i suoi 3.2 Km sarà l’infrastruttura sostenuta da cavi più lunga al mondo. Se ci abbiamo messo oltre 50 anni ad approvarlo quanti anni saranno necessari per realizzarlo?” Gabriel Debach (17/3/2023) (Immagine e testo da https://twitter.com/GabrielDebach/)

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IL PONTE SULLO STRETTO NELLA STORIA

Sembra quasi assurdo, ma l’unico Ponte sullo Stretto mai realizzato risale all’epoca dei romani. Si trattava di un ponte di barche e botti, secondo la testimonianza di Plinio il Vecchio e Strabone. Il console Lucio Cecilio Metello nel 251 a.C. lo fece costruire per trasportare dalla Sicilia i 140 elefanti da guerra sottratti ai cartaginesi nella battaglia di Palermo.

   Nel 1840 anche il sovrano del Regno delle Due Sicilie, Ferdinando II di Borbone, immaginò la realizzazione del ponte. Il re incaricò un gruppo di architetti e ingegneri dell’epoca di fornirgli idee e progetti concreti per l’edificazione dell’opera. Dopo averne constatata la fattibilità – ben due secoli fa – si racconta che il sovrano preferì rinunciare a causa dei costi dell’opera, insostenibili per le casse del Regno. (IVAN TORNEO, 16/3/2023, da https://masterx.iulm.it/)

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Lo studio dell’ingegner Marco Peroni, secondo il quale il Ponte di Messina resisterebbe senza problemi ai venti e ai sismi. Qualche dubbio sul percorso ferroviario (da https://www.tempostretto.it/)

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REGNO D’ITALIA E PROGETTI MODERNI

Il primo ad esplorare la fattibilità di un collegamento per l’isola nel Regno d’Italia fu il ministro dei Lavori pubblici del governo La Marmora, Stefano Jacini, nel 1866, pochi anni dopo l’unificazione. Da lì inizia la storia infinita di progetti, idee e tentativi di costruzione mai realizzati.

   Ma i primi progetti davvero contemporanei nascono nel 1968. In quell’anno l’Anas indice un concorso d’idee internazionale, il cosiddetto Progetto 80. Tra i vincitori c’è l’ingegnere Sergio Musmeci, che ipotizza un ponte con due piloni alti 600 metri sulla terraferma, per evitare di dover lavorare sul peculiare fondo marino dello stretto: instabile e a forma di “V”. La più grande difficoltà logistica per la realizzazione del ponte. Lo stesso Musmeci non lo considera fattibile. All’epoca non esistevano ancora materiali adatti a garantire la sicurezza per sostenere quei 3 km. Troppe vibrazioni legate al vento, troppa instabilità sul fondale. (IVAN TORNEO, 16/3/2023, da https://masterx.iulm.it/)

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(La nave traghetto Rosalia nello stretto di Messina, foto da WIKIPEDIA) – Attraversiamo lo Stretto di Messina – Reportage sul traghettamento – GeoMagazine.it
(Attraversiamo lo Stretto di Messina – Reportage sul traghettamento – GeoMagazine.it – YouTube )

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QUANTO È COSTATO “NON FARE” IL PONTE

Tra il 1981 e il 1997 l’Italia investe 135 miliardi di lire per ulteriori studi sulla fattibilità. Su progetto a campata unica con Pietro Lunardi ministro delle Infrastrutture, nel 2003, viene aperto un primo cantiere in cui si fa un buco grande come un campo da calcio e profondo 60 metri, utile all’ancoraggio dei cavi. Secondo la Corte dei Conti, Il conto in euro a questo punto è già salito a oltre 130 milioni.

   La Società Stretto di Messina – oggi ricostituita – finisce per essere controllata nel 2007 all’81,84% da Anas e partecipata da Rete ferroviaria italiana (Rfi), Regione Calabria e Sicilia. Con il ritorno a Palazzo Chigi di Prodi il progetto frena, per ripartire due anni dopo con il Berlusconi IV. La questione continua ad animare il dibattito pubblico, tra chi la considera un’opera essenziale e simbolica, e chi parla di altre priorità per la Sicilia. Nel mezzo tutti coloro che temono la struttura sia ancora logisticamente infattibile.

   Nel bilancio del 2013 emerge un debito per gli impianti pari a 1,3 miliardi. Finora di questa somma lo Stato ha versato solo 20 milioni, ma c’è una causa ancora in corso che dovrebbe arrivare a sentenza nel 2023. Ma la cifra è rimasta il simbolo di quanto possa costare sul serio il Ponte: 1,3 miliardi per i soli impianti preparatori.

   Tirando le somme, il conto complessivo di tutti i progetti d’avviamento per l’edificazione del Ponte sullo Stretto di Messina dovrebbe essere di circa 1,2 miliardiIl costo del Ponte per questo nuovo progetto, invece, si aggira intorno ai 6-7 miliardi di euro. (IVAN TORNEO, 16/3/2023, da https://masterx.iulm.it/)

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(foto aerea dello Stretto, da https://www.themapreport.com/) – “(…) Nel 2021 Kyoto Club, Legambiente e Wwf hanno firmato un controdossier per contestare le conclusioni di un gruppo di lavoro incaricato dal governo Conte. Agli esperti era stato chiesto di valutare le possibili alternative per l’attraversamento stabile dello stretto di Messina e la missione è proseguita sotto il governo Draghi. I firmatari del controdossier hanno però contestato l’essenza stessa dei quesiti: secondo loro, agli esperti non sono state chieste le alternative migliori al ponte in termini di costi di realizzazione e manutenzione, tempi, prestazioni, effetti sociali e territoriali, o impatti sulle diverse componenti ambientali, ma solo le alternative tecniche per realizzarlo e basta.   Le tre sigle hanno chiarito che in quel tratto di mare si registra una delle più alte concentrazioni di biodiversità al mondo e che lo stretto rappresenta un importantissimo luogo di transito per l’avifauna. Nel controdossier si ricorda che nel 2005 la Commissione europea si era detta pronta ad aprire una procedura d’infrazione contro l’Italia per violazione della direttiva comunitaria uccelli proprio in relazione al progetto del ponte a unica campata.  Kyoto Club, Legambiente e Wwf hanno anche risvegliato la memoria di uno dei più grandi rimossi storici dell’area, e cioè che la Calabria meridionale (tutta l’area di Reggio Calabria) e la Sicilia Orientale (area del messinese), sono comprese nella zona sismica 1, nel più alto rischio di pericolosità. Rischio che diventò realtà in uno dei terremoti più feroci della storia europea – magnitudo 7,1 – che nel 1908 rase al suolo la città di Messina cambiandone per sempre i connotati e uccidendo 80 mila persone. (…)” (da “IL PONTE SULLO STRETTO SAREBBE UN’ASTRONAVE NEL DESERTO,di Rosa Maria Di Natale, 30/1/2023, da  https://www.internazionale.it/essenziale/)

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QUALI SONO GLI OSTACOLI DEL PONTE SULLO STRETTO?

di Giuseppe Cutano, da https://www.geomagazine.it/, 19/3/2023

   Come un ritornello si torna a parlare di Ponte sullo Stretto. Già i romani si posero il problema di collegare la Sicilia al resto del Continente e loro lo fecero unendo tante barche per fare spostare degli elefanti catturati durante le guerre puniche. Successivamente furono i Borbone a metà ‘800 e si proseguì con l’Unità d’Italia in questa impresa di progettare un collegamento stabile sullo Stretto di Messina.

   Le soluzioni proposte furono tantissime, ma negli ultimi due secoli non si è mai concretizzato nulla. Il sisma del 1908, uno dei più forti della storia d’Italia che causò anche un grande maremoto con 80.000 vittime, fu un elemento che raffreddò gli entusiasmi.

   Di certo l’importante faglia che attraversa lo Stretto fa sì che le due coste si allontanino di qualche mm ogni anno e non è problema da poco. A causa di questa faglia, ne avevamo già parlato su GeoMagazine.it, c’è l’impossibilità di una soluzione via tunnel. La geologia della Manica, al quale spesso si fa erroneamente riferimento, non è minimamente paragonabile alla nostra. Fra tutte le soluzioni quello di un ponte a campata unica sembra quella più realisticamente realizzabile. Piloni dentro le acque dello Stretto non possono essere costruiti per ovvie questioni di profondità (circa 250 m). Ovviamente per fare il progetto si è scelto il tratto più corto dello stretto e la campata sarebbe pari a 3,3 km fra Cannitello, vicino a Villa San Giovanni in Calabria, e i Laghi Ganzirri a punta Peloro sul lato di Messina. 

   Del progetto ponte ne abbiamo parlato in più occasioni e abbiamo anche provato a percorrere lo Stretto con le condizioni attuali e ne abbiamo fatto un reportage.

   Andiamo ora ad analizzare quali ad oggi sono le condizioni oggettivamente ostative per la realizzazione di un attraversamento stabile dello Stretto.

DIFFICOLTA’ TECNICHE

Stando al progetto definitivo, la soluzione a campata unica, è comunque non semplice perché sarebbe comunque il ponte a campata unico più lungo al mondo. Non esistono ponti con tali estensioni. Sentiamo poi anche spesso dire “Ma all’estero fanno anche cose più complesse“, ma dobbiamo rispondere che lo Stretto è una unicità al mondo e dal punto di vista tecnico non è mai stata realizzata nessuna opera simile. Nemmeno in Giappone o nel Nord Europa. Per reggere tutto questo peso e questa “sospensione” sono necessarie due notevoli torri in calcestruzzo alte quasi 400 m (382 m per la precisione).

   Il ponte sarà corredato di cavi d’acciaio per reggere l’impalcato. Dunque le torri terranno i cavi dove verrà appoggiato il piano di transito (doppio binario + 6 corsie stradali). Questo ponte, in gergo tecnico, viene chiamato “ponte strallato”. Queste importanti dimensioni dovranno garantire stabilità durante sismi importanti e anche con il vento. 

   I miti dell’Odissea di Scilla e Cariddi ci possono far immaginare le condizioni dello Stretto. Il vento qui è spesso presente e sostenuto anche perché lo stretto stesso crea l’”effetto Venturi”. La sezione orografica, stringendosi, fa si che il vento aumenti la sua velocità. Dunque dal punto di vista tecnico è una vera e propria scommessa. I tecnici hanno testato i modellini in scala nelle gallerie del vento con risultati positivi, ma il collaudo definitivo si avrà solo a lavori finiti. 

   Anche dal punto di vista realizzativo l’opera non è semplice per la costruzione di queste alte torri e per l’ampia profondità delle fondamenta che devono essere scavate in una geologia molto complessa come quella dell’area dello Stretto. Inoltre gli accessi andranno modificati e ingenti lavori sono previsti per km all’interno dei due lati soprattutto, sul lato siciliano.

   In Calabria l’ammodernamento della autostrada A3, oggi A2, aveva già previsto dei lavori propedeutici. Lato ferroviario è ancora tutto da pensare a da fare e le modifiche dei tracciati, visto che i treni non possono affrontare cambi di pendenza immediati come le rampe di accesso stradale, saranno importanti e si propagheranno all’interno per molti km.

   Dunque i tempi per realizzare il ponte e le opere accessorie, nel progetto del 2003 erano pari a 11 anni, oggi si legge di 7, ma saranno con molta probabilità molto più lunghi anche per la realizzazione di tutte le opere propedeutiche agli accessi soprattutto ferroviari. Per onestà intellettuale basti pensare che per pochi km di Metro a Roma sono trascorsi anche decenni. 

DIFFICOLTA’ AMBIENTALI

Forse non tutti sanno che lo Stretto di Messina è una area protetta riconosciuta a livello europeo. E tutte le opere realizzate all’interno delle aree protette denominate SIC e ZPS della Rete Natura 2000 devono essere approvate a seguito di una Valutazione di Incidenza Ambientale.

   Questa valutazione si preoccupa di analizzare tutti gli effetti in ogni fase del progetto sulla flora e sulla fauna. Nel 2013 la commissione del Ministero diede parere negativo. Spesso, dal punto di vista ambientale, viene però detto che il ponte sarebbe migliorativo in termini di emissioni, perché toglierebbe le navi dallo Stretto che ad oggi sono a combustione.

   Certo che se oggi pensiamo a navi completamente elettriche e ricaricate con rinnovabili questo beneficio in termini di emissioni verrebbe meno. Dunque con degli scenari odierni una valutazione di impatto ambientale andrebbe certamente rivista. Della soluzione di elettrificazione delle navi ne abbiamo parlato in un articolo recentemente.

   Ci sono strumenti però che ha in mano l’esecutivo che come nel caso dell’Aeroporto di Malpensa, ritenuta ai tempi opera strategica, possono andare in deroga a queste analisi ambientali, ma nel 2023 sarebbero certo una forzatura visti i chiari problemi ambientali che stiamo vivendo. Dunque siamo disposti a sacrificare uno dei luoghi di maggior pregio del nostro Paese per questa opera? A voi la risposta.

DIFFICOLTA’ SOCIO-ECONOMICHE

Ad oggi la stima dei costi è pari a 7 miliardi di euro, che in un opera così complessa non è difficile pensare che possa lievitare. La cifra è molto importante, ma non sarà finanziata dall’Unione Europea che non la ritiene una opera prioritaria. Di certo chi si attende che il transito sarà gratuito come l’autostrada A2 oppure a prezzo calmierato si sbaglia.

   Già oggi transitare nei tunnel alpini ha dei costi proibitivi, ma lo è in tutti i ponti europei importanti del Nord Europa. Non è utopia pensare che il transito possa costare oltre i 50 euro. Nonostante queste alte tariffe sembra che non sarà facile rendere l’opera profittevole e il grosso dei costi ricadrà sulla collettività. Facciamo due calcoli “della serva”. Oggi transitano all’anno circa 2 milioni di mezzi sullo Stretto.

   Con il costo che abbiamo ipotizzato avremmo ricavi per 100 milioni l’anno. Senza contare tasse e costi di gestione, con questi numeri, il ponte si ripagherebbe in 70 anni. Per avere i conti in ordine quale azienda finanzierebbe un progetto con un rientro così lungo? I benefici coprono davvero questa cifra ingente? Lo Stato può permetterselo in tempi di crisi economica?

   Nel calcolo precedente abbiamo trascurato i costi di gestione che saranno molto ingenti per via delle notevoli manutenzioni che si dovranno fare. L’ambiente costiero con l’acqua salmastra rende l’aria molto aggressiva per i materiali in acciaio e dunque sarà importante una continua manutenzione e con costi di esercizio annuali importanti.

   Dal punto di vista sociale, essendo evidente la precarietà generale che affligge due regioni come la Calabria e la Sicilia, sprovviste di linee ad alta velocità, con infrastrutture fortemente obsolete e carenti, con una sanità in evidente agonia, è lecito porsi diverse domande. La popolazione locale è disposta ad accettare che i soldi vengano dirottati su questa opera a discapito di altri investimenti importanti per il Sud?

   L’opera dal punto di vista meramente tecnico è sicuramente affascinante e sfidante, i record affascinano tutti, ma certo è che non si può mettere la testa sotto la sabbia trascurando quale sia il contesto. Un quadro molto delicato dal punto di vista ambientale e unico al mondo, tanto che come dicevamo vi sono state istituite diverse aree protette. Inoltre il contesto sociale è molto fragile e i benefici non sembrerebbero essere giustificati per una opera costosa e complessa.

   Viene davvero difficile pensare che questa opera possa spostare le regioni dell’estremo Sud dall’ultime posizioni in Europa per qualità della vita e benessere con un ponte. Qualcuno dirà che non si investe al Sud in favore del Nord e per queste ragioni che il Ponte è mai stato realizzato, ma il Sud invece potrebbe guidare la sua rinascita con progetti più ampi e strutturali.

   Non possiamo poi non rimarcare il fatto che in questi anni, in attesa del fantomatico “ponte”, è stato fatto poco per migliorare la situazione degli attraversamenti. Il nostro reportage parla chiaro. Sicuramente con cifre nettamente inferiori e con tempi rapidi il miglioramento dell’attraversamento poteva essere sicuramente ottimizzato in maniera considerevole.

   Ovviamente se il ponte diviene uno strumento politico diventa difficile giudicare l’opera di per se che però ha oggettivi problemi di varia natura. Chi oggi è all’esecutivo, visti i tempi di realizzazione, non sarà più responsabile un domani durante la costruzione e la messa in esercizio. Di certo, senza sapere ne leggere ne scrivere, se in tutti questi anni l’opera non è mai stata realizzata le difficoltà forse ci sono davvero. (GIUSEPPE CUTANO, da https://www.geomagazine.it/, 19/3/2023)

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(…) Rilanciare i collegamenti – (il controdossier ambientalista contro la costruzione del Ponte) le associazioni Kyoto Club, Legambiente e Wwf sono state durissime: secondo loro la relazione degli esperti incaricati dal ministero delle infrastrutture e della mobilità sostenibile, non è un’analisi comparativa di tutte le possibili alternative al ponte e non fornisce neppure un quadro di insieme sufficiente per la redazione di un documento di fattibilità per altri progetti. Al contrario, tratta le altre possibilità “come se si trattasse di far atterrare un’astronave in un deserto”. Tra i firmatari del controdossier c’è anche MARIA ROSA VITTADINI (nella foto qui sopra), docente emerita dell’università di Venezia, già direttrice generale per la valutazione d’impatto ambientale (Via) del ministero dell’ambiente e presidente della commissione tecnica Via e valutazione ambientale strategica (Vas). “Oggi non esistono le infrastrutture di collegamento che dovrebbero allargare i benefici del ponte al territorio; ci basta questo per dire che manca un quadro di ragionevolezza delle previsioni”, spiega. “Il ponte a tre campate non è fattibile per motivi biologici perché l’impianto dei pilastri che devono sostenerle, si infilerebbe in strutture biomorfologiche in movimento, non affidabili. Può darsi che optino per questa soluzione, ma manca il progetto preliminare e il percorso dovrebbe ripartire daccapo. Il ponte a campata unica è invece di per sé troppo instabile e costoso, nonché lontano dai centri dove converge il traffico”. (…) (da “IL PONTE SULLO STRETTO SAREBBE UN’ASTRONAVE NEL DESERTO,di Rosa Maria Di Natale, 30/1/2023, da  https://www.internazionale.it/essenziale/)

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LA STORIA INFINITA DEL PONTE SULLO STRETTO*

di Carlo Scarpa, 17/03/2023, da https://lavoce.info/

*Articolo pubblicato originariamente il 24 gennaio 2023

   Quasi a ogni cambio di governo l’idea del Ponte sullo stretto di Messina viene riesumata o accantonata. Andrebbe presa una decisione definitiva. Ed è una decisione politica, perché sotto il profilo economico è difficile valutare se l’opera conviene o meno

   “Salvo intese” il Ponte sullo Stretto si farà. Ovvero: se non ci ripensiamo, andiamo avanti. Pur con questa formula bizzarra, il Governo ha comunque deciso di fare un altro passo avanti. Il vero punto interrogativo è se dietro questa formula politicamente tiepida vi sia una volontà politica effettiva. Perché il progetto sembra ormai inarrestabile.

   Si tratterà di capire se per aggiornare il progetto basta un anno e mezzo o se servirà una proroga. Ma è un dettaglio. Anche perché si sta lavorando alla Alta Velocità fino a Reggio Calabria, si investono miliardi per le ferrovie siciliane. Il Ponte rischia di essere un dettaglio. Fin quando i soldi non finiscano.

   Il tema del Ponte sullo stretto di Messina torna periodicamente alla ribalta e conviene quindi capirne le origini e il senso. L’idea è secolare, il progetto supera i cinquanta anni. Con un dibattito infinito tra chi lo considera un sogno, chi un incubo.

   Nel dicembre 1971 viene approvata la legge 1158/1971 “Collegamento viario e ferroviario fra la Sicilia ed il continente”, che prevede la costituzione di una Spa incaricata “dello studio, della progettazione e della costruzione, nonché dell’esercizio del solo collegamento viario” (la ferrovia, era affidata alle ferrovie dello stato). La Stretto di Messina Spa doveva essere istituita a cura di Anas, delle regioni Calabria e Sicilia, ciò che è avvenuto solo nel 1981. Dopo alcuni riassetti, dal 2013 la società è in liquidazione.

   La liquidazione di un’impresa non è cosa semplice e spesso ci vogliono anni per chiudere effettivamente tutte le partite in corso (crediti, debiti, contenziosi legali e così via). Ma dieci anni sono comunque tanti e riflettono il fatto che sulla scena politica si sono confrontate diverse posizioni, con il susseguirsi di varie fasi di stop and go. Così la Spa è ancora lì, pronta a riprendere le operazioni alla bisogna.

L’iter del progetto e i costi

Il progetto preliminare del ponte fu approvato dal Cipe il 1° agosto 2003, pur con alcune prescrizioni e raccomandazioni. La stima dei costi al 2006 era di poco meno di 4 miliardi di euro (tra progettazione ed esecuzione), somma determinata dopo regolare gara con un general contractor (un’Ati – associazione temporanea di imprese – capitanata da Impregilo, oggi parte di Webuild).

   Il contratto non fu però approvato dal governo Prodi nel 2006, mentre fu invece confermato dal governo Berlusconi nel 2008, con il conseguente aggiornamento del piano economico e finanziario, il rifinanziamento dell’intera operazione e l’introduzione di una serie di condizioni che nel 2016 la Corte dei conti definiva “in favore delle parti private”. Dati i ritardi per i lavori, il contractor cominciò ad avanzare pretese (tecnicamente “riserve”) che condussero a una transazione conclusa nell’ottobre 2009; all’epoca il costo complessivo (inclusi oneri finanziari, a quanto si capisce) risultava pari a 6,3 miliardi. Il progetto definitivo è poi stato approvato nel luglio 2011 da un nuovo governo Berlusconi, sulla base del preliminare del 2003.

   Purtroppo (per il ponte), quattro mesi dopo, il governo cambiò e il successivo esecutivo Monti espresse forti dubbi sul progetto, di fatto annunciandone l’affossamento. Per limitare i danni da pagare ai privati nel caso di mancata esecuzione fu approvato uno specifico decreto (il Dl 187 del 2012), che però non ha impedito il successivo contenzioso, né la liquidazione della società.

   Cosa abbiamo già pagato? La Corte dei conti al 2013 quantificava i costi già sostenuti in oltre 300 milioni (di allora). Purtroppo, è facile prevedere come le analisi e i progetti effettuati siano ormai obsoleti. Nessuno costruirebbe oggi qualcosa di importante sulla base di analisi di venti anni fa, su una situazione di fatto che potrebbe essere cambiata. Quindi, se anche si ripartisse, è facile pensare che si dovrebbe riiniziare più o meno da zero, come si intuisce anche da quanto scriveva nel 2021 il Gruppo di lavoro del ministero delle Infrastrutture.

   Ma non basta. Sono ancora pendenti i pesanti contenziosi con le imprese che si sono aggiudicate il progetto. Qualcuno ha già conteggiato le richieste tra i costi del progetto, anche se la questione sarà definita al termine di un procedimento assai intricato. Se poi si decidesse davvero di costruire il Ponte, è possibile che i contenziosi vengano in qualche modo composti all’interno del nuovo progetto.

   Quanto ai costi futuri (ed eventuali) per costruire il Ponte, un conto serio aggiornato non è pubblicamente disponibile, e soprattutto andrebbe rivisto insieme al progetto, considerando i costi attuali delle costruzioni, che sono esplosi. Sul sito di Webuild si parla di un costo complessivo di oltre 7 miliardi; a me pare ottimistico, ma vedremo… Nel frattempo, a gennaio 2022, il ministero ha avviato un nuovo progetto di fattibilità; con quali ulteriori costi, non so dire.

   Occorre poi considerare i rischi. Secondo un recente studio congiunto italo-tedesco, quello sismico si conferma elevato. Ovviamente, ci sarebbero anche significativi rischi ambientali, come per qualunque opera di queste dimensioni. Tutti temi da considerare seriamente, ma che difficilmente bloccherebbero il progetto, se i benefici ci fossero davvero.

Servirebbe? E quali sarebbero i benefici?

Quali potrebbero essere, allora, i benefici? Questa è la vera domanda. E la risposta è tutt’altro che semplice. Fin quando un’opera non viene completata, alcuni costi si materializzano, mentre i benefici sono solo aspettative. E anche i costi futuri sono molto più prevedibili dei benefici. Ciò premesso, l’unica analisi costi-benefici proposta (non dai proponenti – sarebbe chiedere troppo?) conduce a risultati negativi, con costi superiori ai benefici attesi, che sono computati considerando il risparmio nei tempi di trasporto.

   Basta questo? Con tutta la simpatia per queste analisi, dobbiamo però ammettere che con un progetto che cambierebbe radicalmente e strutturalmente il territorio, per arrivare a una risposta definitiva occorrerebbe poco meno di una sfera magica, e anche l’analisi costi-benefici aiuta fino a un certo punto. Perché molti parametri fatichiamo a valutarli.

   È vero che il risparmio di tempo tra un ponte e i traghetti attuali non sarebbe colossale. Ma come valutiamo la flessibilità garantita dal non dipendere dai traghetti? Si è al sicuro da mare grosso, guasti, disorganizzazione dei porti, scioperi. Non si dipende dagli orari dei traghetti. Sotto questo profilo, la Sicilia quasi cesserebbe di essere un’isola. Qual è il valore di questo e a quanto traffico condurrebbe?   Francamente, non lo so, e temo nessuno riesca veramente a prevederlo.

   I sostenitori del progetto sottolineano poi come connettere un’isola al continente abbia una valenza politica importantissima di tutela della continuità territoriale. Se si concorda che la vicinanza non la si misura in chilometri, ma in tempi di percorrenza e nella loro prevedibilità, allora il ponte avvicina. Quanto pesa questo fattore? È evidente come diverse persone possano avere sensibilità differenti, ma archiviare la questione come irrilevante sarebbe superficiale.

   La risposta sulla desiderabilità di questa opera passa quindi attraverso questioni alle quali non credo esistano risposte univoche. È una di quelle opere, in cui si deve riaffermare il primato della Politica (con la “P” maiuscola), sperando che la decisione ultima giunga all’esito di un dibattito aperto, rigoroso, informato e senza pregiudizi.

   Cosa succederà? Difficile fare previsioni. Dati i tempi anche solo di approvazione e avvio di opere come questa, se continuiamo ad avere un governo che vuole il Ponte, e quello successivo che lo accantona, continueremo anche ad avere costi di progettazione e di contenzioso senza fine. E nessun ponte. (Carlo Scarpa, 17/03/2023, da https://lavoce.info/)

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(AUTOSTRADE DEL MARE, immagine da https://www.logisticamente.it/) – “(…) Come sostenuto da Marco Ponti, docente di economia dei trasporti al Politecnico di Milano, e Andrea Boitani, docente di economia politica all’Università Cattolica di Milano sul sito di analisi economiche “La voce”, “Il traffico previsto per il ponte (…) anche nelle ipotesi più favorevoli, è modesto: il traffico “interurbano” di breve distanza (tra Messina e Reggio) sarebbe più rapido con un sistema di traghetti veloci; il traffico merci di lunga distanza ha nelle “autostrade del mare” un concorrente molto più economico, e il traffico passeggeri di lunga distanza viaggia già in gran parte in aereo. Al crescere del reddito (e al decrescere delle tariffe aeree, grazie all’auspicabile sviluppo della concorrenza) il traffico di superficie si ridurrà nonostante il ponte”. (da https://ifg.uniurb.it/)
“(…) In sostanza, per far viaggiare le merci su distanze superiori a 500 – 700 km (Ragusa e Milano, ad esempio, distano 1.400 km) il trasporto su gomma perde la sua convenienza a favore di altre possibilità come quelle offerte dall’alternativa multimodale. Con le autostrade del mare, come la linea già esistente Messina – Salerno, ad esempio, c’è la possibilità di imbarcare i camion sulle navi facendo riposare l’autista, senza rischio di incidenti e senza inquinamento. Per alcune realtà economiche siciliane, ad esempio il settore delle primizie che vengono prodotte nel ragusano, il ponte non avrebbe alcuna utilità, perché i prodotti ortofrutticoli di pregio devono arrivare sui mercati (come quello di Milano) in tempi rapidi. Per questo a Ragusa si sta trasformando l’ex aeroporto militare di Comiso in uno scalo merci. Discorso simile può valere per il traffico passeggeri: un milanese o un tedesco che decidono di passare le vacanze in Sicilia o devono venirci per lavoro, difficilmente sceglieranno di viaggiare in macchina o in treno se hanno la possibilità – anche grazie all’abbassamento delle tariffe che si è verificato negli ultimi anni – di prendere un aereo. (…)” (da https://ifg.uniurb.it/)

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I POSSIBILISTI (FAVOREVOLI) (con soluzioni tecniche)

“IL PROGETTO DEL PONTE DI MESSINA MODELLO PER ALTRI PONTI. MA SI PUÒ ANCORA MIGLIORARE”

da https://www.tempostretto.it/ 2/1/2023

   Il ponte sullo Stretto di Messina quando e se verrà realizzato, sarà un’opera straordinaria, frutto di decenni di ricerche e progetti, man mano modificati e migliorati per raggiungere un elevato standard di servizio e costruzione.

   Tutte le soluzioni di attraversamento sono state vagliate, ciascuna con i suoi pro e contro, e alla fine ha prevalso quella di un attraversamento aereo a una singola campata, con le torri disposte a terra sul continente e sull’isola sicula.

   Riguardo ai livelli di sicurezza, si è scelto di adottare “periodi di ritorno” estremamente elevati sia per gli stati limite di servizio (deformazione e percorribilità) – portati a duecento anni – sia per le azioni più rilevanti sul ponte (vento e sisma), di cui sono stimati duemila anni come periodo di ritorno.

   Il tracciato dell’attraversamento è stato studiato con più varianti possibili nella zona di minor distanza tra la Sicilia e il continente, valutando opzioni diverse tra Continua a leggere

La CRISI DEI PORTI e delle grandi navi portacontainer, causa la pandemia e altro, porta alle difficoltà nei commerci e reperimento della materia prime mondiali – SEGNALI di uno stravolgimento tra aree geopolitiche globali (Asia, Europa, Americhe, Africa…)? o un semplice riassetto mondiale delle strutture dei commerci?

“(…) Mercoledì 11 agosto, ha scritto il Financial Times, di fronte ai porti di tutto il mondo c’erano 353 navi portacontainer ferme in rada, cioè stazionate al largo in attesa di poter entrare in porto. 353 navi sono quasi il 7 per cento del numero totale di navi cargo al mondo (…)”(Leonardo Siligato, da “il POST.IT” del 22/8/2021, https://www.ilpost.it/) (Foto da httpsamendolasrl.it/)

   Nel mondo oberato dalla necessità di uscire, o perlomeno limitare i danni, dalla pandemia da Covid, una delle trasformazioni che stanno concretamente ed inesorabilmente accadendo (e che forse ancora non ce ne accorgiamo, ma tra poco sì) è quella del trasporto via mare di gran parte delle merci (non deperibili) che avviene in una condizione di rallentamento e porta (e porterà) a una lentezza (rispetto a prima) nell’avere merci e materie prime (e a pagare molto di più i prodotti).

   E’ una crisi durissima che sta colpendo il trasporto marittimo a livello globale: l’aumento esorbitante dei noli e dei ritardi nelle consegne di materie prime e semilavorati è provocato in primis dalla scarsità di container. Mancano i container, i prezzi per noleggiarli sono saliti a livelli mai visti, il traffico nei porti più importanti è intasato e le navi accumulano giorni di ritardo.

(CONTAINER dalla nave ai camion, foto da IL POST.IT) – “(…) Il Financial Times sostiene che quella in corso è LA PIÙ GRANDE CRISI DEL TRASPORTO MARITTIMO DA QUANDO IL CONTAINER È STATO INVENTATO, sessantacinque anni fa, e lamenta il fatto che non ci sono stati sufficienti investimenti nelle INFRASTRUTTURE, il COORDINAMENTO, la DIGITALIZZAZIONE. Ma programmare adesso investimenti del genere sarebbe assai complicato, visto che nessuno ha idea della faccia che avrà la produzione mondiale, con i tentativi di imprese e Stati di ri-allocare o almeno accorciare le catene della produzione che si sono rivelate così fragili. (…)” (Roberta Carlini, 7/9/2021, da IL BO LIVE (Università di Padova) – https://ilbolive.unipd.it/)

   In questo post geografico, attraverso articolo di grande interesse e chiarezza che abbiamo ripreso da varie fonti, poniamo la questione del commercio mondiale via mare in difficoltà.

   La causa può essere fatta risalire alla pandemia, sicuramente, che ha provocato squilibri tra domanda e offerta, tra paese e paese. Ma, per dire che il sistema è troppo in disequilibrio, che qualcosa non va nell’organizzazione del commercio mondiale (del trasporto via mare delle merci) basta ricordare un episodio di per sé limitato. Cioè la vicenda dello choc globale che c’è stato con l’incidente del Canale di Suez: l’ostruzione dal 23 al 29 marzo (2021) a causa di una portacontainer insabbiata (e che si è messa di traverso nel Canale impedendo il passaggio di altre navi), ha mandato in crisi i collegamenti di mezzo pianeta.

   Va detto che la difficoltà a far arrivare merci e materie prime (nella maggior parte dall’Asia, la Cina in particolare) fa sì, e farà sì nei prossimi mesi (e forse anni) che avremo difficoltà (tutti noi) di procurarci cose che credevamo di facile reperibilità (e, tra l’altro, i prezzi saliranno).

PECHINO ha deciso di fermare prima il terminal container di YANTIAN, nel PORTO di SHENZHEN, per più di un mese a maggio (2021), e poi un terminal container del PORTO di NINGBO-ZHOUSHAN, entrambi dopo un caso di Covid. Insieme ai prezzi aumentano i ritardi nelle consegne. (nella FOTO: porti cinesi, mappa da https://it.maps-china-cn.com/)

   E saranno le imprese di piccola e media dimensione (le piccole ditte, i negozi, le medio-piccole officine…) a essere più colpiti, essendo più dipendenti dalla filiera della fornitura e più vulnerabili in un contesto di riduzione progressiva delle scorte. E, come dicevamo, tutto questo si ripercuoterà anche sui prezzi al dettaglio dei prodotti finiti e, quindi, sulle tasche di tutti.

   Per anni si è teorizzata la fine delle scorte di magazzino: inutile tenere scorte di merci o materie prime, se quando serve, quando ti chiedono il prodotto, puoi procurartele in pochissimo tempo e magari sempre “l’ultimo modello” per certi beni (questo sistema è noto come il JUST IN TIME, “appena in tempo”, cioè della rinuncia al magazzino non necessario: ora invece delle scorte di magazzino sarebbero state utili a un reperimento alla fonte troppo lento).

“(…) Secondo i dati della società di ricerche IHS Markit, il tempo medio di attesa in rada per un approdo è più che raddoppiato dal 2019 a oggi, e anche il tempo passato dalle navi nei porti in attesa di essere scaricate e caricate è aumentato considerevolmente.   Per recuperare questi ritardi, le navi possono decidere di saltare alcuni approdi sulla loro rotta (pratica chiamata in gergo blank sailing), ma se lo fanno le consegne delle merci che dovevano essere scaricate in quei porti subiscono ritardi ancora maggiori. (…)” (Leonardo Siligato, da “il POST.IT” del 22/8/2021, https://www.ilpost.it/) (foto da https://filippolubrano.medium.com/)

   Una delle cause principali della crisi del trasporto navale delle merci è che molti porti sono inefficienti e non riescono a gestire il traffico generato dalla forte domanda di merci (attualmente stimolata dalla ripresa economica a livello mondiale); e la maggior parte di essi non è in grado di accogliere le navi più moderne, che vengono costruite sempre più grandi per generare economie di scala e ridurre i costi di trasporto. Se poi consideriamo che sulle navi cargo, quelle che trasportano i container, viaggia più dell’80 per cento del volume delle merci trasportate in tutto il mondo, si capisce che “l’ingorgo”, la difficoltà a scaricare merci nei porti, provoca inefficienze a catena, e una crisi generale.

(In blu i maggiori porti della Via della Seta cinese – mappa da The Economist) – “(…) Sulle navi cargo, quelle che trasportano i container, viaggia più dell’80 per cento del volume delle merci trasportate in tutto il mondo. Questo significa che quasi tutti i beni che compriamo (o i materiali con cui sono stati prodotti), a un certo punto del viaggio che li ha portati fino a noi sono stati trasportati in un container su una nave cargo. (…)” (Leonardo Siligato, da “il POST.IT” del 22/8/2021, https://www.ilpost.it/)

   Pertanto i problemi che si sono verificati con la pandemia sono in gran parte dovuti all’inefficienza delle strutture portuali: e negli ultimi anni, gli armatori hanno costruito navi cargo sempre più capienti con l’obiettivo di aumentare la quantità di container trasportabili in un singolo viaggio. Poi diversi armatori avevano anche approfittato del calo di traffico durante i lockdown per ristrutturare le proprie navi. Viste le difficoltà dei porti, alcuni armatori hanno così deciso di investire essi stessi nei porti, comprandone delle quote societarie. Sta così accadendo che vi è una concentrazione del traffico in mano a pochi soggetti: chi ha in mano l’offerta è un oligopolio basato su poche alleanze di grandi armatori.

I 10 MAGGIORI PORTI COMMERCIALI AL MONDO (7 su 10 sono cinesi, 9 in Asia e uno in medio Oriente, Dubai) – dati pubblicati da World Shipping Council, l’associazione di categoria mondiale che regola le spedizioni internazionali di linea
Porto di Shanghai, Cina: 42.01 milioni di TEU
Porto di Singapore: 36.60 milioni di TEU
Porto di Shenzhen, Cina: 27.74 milioni di TEU
Porto Ningbo-Zhoushan, Cina: 26.35 milioni di TEU
Guangzhou Harbor, Cina: 21.87 milioni di TEU
Porto di Busan, South Korea: 21.66 milioni di TEU
Porto di Hong Kong, China: 19.60 milioni di TEU
Porto di Qingdao, China: 18.26 milioni di TEU
Porto di Tianjin, China: 16.00 milioni di TEU
Porto Jebel Ali, Dubai: 14.95 milioni di TEU
Il traffico sostenuto dai porti commerciali viene valutato con un parametro chiamato TEU, acronimo di “Twenty-foot Equivalent Unit“: tradotto, è l’unità equivalente a venti piedi, ovvero la misura standard di volume nel trasporto dei container secondo normativa ISO, e corrisponde a circa 40 metri cubi totali. La maggior parte dei container infatti ha misure standard, con lunghezze da 20 piedi (1 TEU) e 40 piedi (2 TEU).
(da https://www.travel365.it/ )

   Il congestionamento del trasporto marittimo è dovuto poi ad altri fattori. Come le misure messe in atto ovunque per contrastare la pandemia che hanno aumentato la burocrazia e rallentato ogni operazione di scarico. In secondo luogo c’è l’aumento dei consumi. Molte persone, forzate dalla pandemia a passare più tempo a casa, hanno comprato più cose online. E poi la carenza di container nasce anche dallo squilibrio tra importazioni ed esportazioni che c’è: la Cina esporta tantissimi prodotti hi-tech (e ha bisogno di container) e adesso importa meno dall’ “estero” (dagli Usa in primis) non avendo così ricambio e disponibilità di container.

(LA RETE PORTUALE DEL MEDITERRANEO, mappa ripresa da LIMES) –  “(…) La CINA, che da tempo sta portando avanti una strategia di posizionamento commerciale-infrastrutturale in AFRICA, ha rivolto la sua attenzione sul SISTEMA PORTUALE MEDITERRANEO come NODO DI SMISTAMENTO e ramificazione in Europa delle supply chains che corrono lungo la VIA DELLA SETA, che altri non è se non una filiera di porti connessi ad aree ZES di elaborazione delle merci (Zona Economica Speciale, ZES, si intende una zona geograficamente limitata e chiaramente identificata, nella quale le aziende già operative – e quelle che si insedieranno – possono beneficiare di speciali condizioni per gli investimenti e per lo sviluppo). Tre grandi compagnie cinesi (COSCO, CMPORT, QPI) hanno già acquisito quote importanti nei porti mediterranei: dal PIREO a PORTO SAID, a TANGER MED, a AMBARLI, a HAIFA, a VALENCIA, a MARSIGLIA, a VADO. (…)” (Rosario Pavia, 3/9/2021, da ISPI, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, https://www.ispionline.it/ )

   La politica di certe aree geografiche, come la Ue, non è intervenuta granché. Si capisce. In una fase di tensione con il moloch cinese (al di là degli accordi a suo tempo stabiliti), di rapporti difficili con la Cina, si vuole e si spera in un possibile (ma aleatorio in tempi brevi) restringimento del commercio di importazione con i paesi asiatici, appunto la Cina in primis; e così convincere le imprese europee a riportare vicino casa le lavorazioni affidate ai più economici fornitori dell’Asia. Ma questa cosa è assai improbabile in tempi stretti.

   In questi anni il commercio mondiale ha messo in atto molti strumenti di facilitazione nella mobilità delle merci e materie prime: dalla standardizzazione dei container a livello internazionale, alla rete organizzativa della intermodalità (il passaggio veloce dalla nave al camion, o al treno…); selezionando tutti i prodotti non deperibili via mare (mentre a livello internazionale quelli deperibili viaggiano via aerea, per poi essere distribuiti nei territori via gomma). Ora tutto questo si dimostra inefficiente e da ridefinire.

“(…) Nella produzione, sono cambiati i consumi e la domanda, come dimostra LA CRISI DEI MICROCHIP; i BENI DI PRIMA NECESSITÀ nell’era pandemica, tutti A BASE DI ELETTRONICA, più la spinta alla produzione delle AUTO ELETTRICHE, hanno comportato una CARENZA GENERALIZZATA DI MICROCHIP, con le case automobilistiche costrette a tagliare la produzione e chiudere impianti. COME PER I PORTI, CRESCONO SIA I PREZZI CHE I TEMPI DI ATTESA. (…)” (Roberta Carlini, 7/9/2021, da IL BO LIVE (Università di Padova) – https://ilbolive.unipd.it/) (immagine tratta da https://www.italian.tech/)

   Ma ha senso allargare i porti a dismisura per accogliere navi container sempre più enormi? E le vie d’acqua, i Canali (come accade a Suez) vanno raddoppiati nella loro larghezza?…. Cioè, pensiamo, non è possibile una ridefinizione della produzione delle merci e delle materie prime che si basi su aree geo-regionali, allargate sì, ma a un livello geografico accettabile e non globale; affinché si possa superare la situazione che la crisi di un porto marino (o di un Paese) blocchi lo sviluppo e lo scorrere quotidiano della vita dell’intero pianeta? (s.m.)

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LA CRISI DEI PORTI, SPIEGATA

di Leonardo Siligato, da “il POST.IT” del 22/8/2021, https://www.ilpost.it/

– Da mesi, in tutto il mondo, mancano beni e materie prime: per un problema di porti troppo piccoli, navi troppo grandi e container lasciati nel posto sbagliato –

   Da mesi si parla della crisi che ha colpito il trasporto marittimo a livello globale: mancano i container, i prezzi per noleggiarli sono saliti a livelli mai visti, il traffico nei porti più importanti è intasato e le navi accumulano giorni di ritardo, tanto che il Financial Times l’ha definita la più grande crisi dall’inizio delle spedizioni via container. Le conseguenze principali di questa situazione sono ritardi che si ripercuotono sull’intera catena di approvvigionamento di merci, una scarsità di prodotti generalizzata e un aumento del loro prezzo, che da un lato stanno frenando la produzione di molti beni, e dall’altro stanno concorrendo a far salire l’inflazione in diversi paesi.

   Questa crisi è stata in parte causata dalla pandemia ed esacerbata da eventi avversi come l’incagliamento della nave portacontainer Ever Given nel Canale di Suez lo scorso marzo, la chiusura del porto cinese di Yantian per un focolaio di Covid-19 a maggio, e la più recente chiusura di parte di un altro porto cinese, quello di Ningbo-Zhoushan, che sta creando forti disagi da più di una settimana.

   Questi eventi non costituiscono però le uniche cause del congestionamento e hanno messo in luce problemi che esistevano già prima della pandemia: molti porti sono inefficienti e non riescono a gestire il traffico generato dalla forte domanda di merci (attualmente stimolata dalla ripresa economica a livello mondiale), e la maggior parte di essi non è in grado di accogliere le navi più moderne, che vengono costruite sempre più grandi per generare economie di scala e ridurre i costi di trasporto.

   Sulle navi cargo, quelle che trasportano i container, viaggia più dell’80 per cento del volume delle merci trasportate in tutto il mondo. Questo significa che quasi tutti i beni che compriamo (o i materiali con cui sono stati prodotti), a un certo punto del viaggio che li ha portati fino a noi sono stati trasportati in un container su una nave cargo.

   Il trasporto via mare è infatti il più conveniente per lo spostamento su tratte lunghe di grandi volumi di merci non deperibili (mentre per quelle deperibili è spesso preferibile il trasporto aereo, più rapido).

   Nei porti in cui arrivano, i container vengono caricati su camion o treni per completare il loro viaggio: un metodo logistico chiamato trasporto intermodale e basato sulla standardizzazione dei container a livello internazionale, che permette di spostarli facilmente da un mezzo a un altro in modo da rendere il processo il più veloce possibile.

   Il trasporto intermodale è un’innovazione relativamente recente: esiste da meno di settant’anni ed è stato uno dei fattori che hanno permesso il fenomeno della globalizzazione, cioè l’integrazione delle diverse economie regionali in un’unica economia globale. Se di norma l’intermodalità permette un trasporto efficiente delle merci, eventi imprevisti come una pandemia, un aumento inatteso e consistente della domanda di merci o una nave incagliata nel Canale di Suez, possono renderlo il più inefficiente dei processi: la puntualità di tutto il sistema dipende da quella delle navi e se qualcosa va storto lì, i problemi riguardano a cascata tutto il resto del processo.

   I ritardi delle navi cargo hanno interrotto le catene di approvvigionamento di tantissime imprese, con effetti particolarmente problematici su quelle che utilizzano processi produttivi che tendono a minimizzare le giacenze di magazzino affidandosi a un tipo di organizzazione chiamata “just in time” (“appena in tempo”), che prevede di rifornirsi di materie prime e semilavorati esattamente nel momento in cui sono necessari. A gestire la propria produzione in questo modo ci sono alcune delle società più grandi del mondo – come Apple, Toyota e Nike –, che negli ultimi mesi hanno perciò probabilmente dovuto fare i conti con questo problema più di altre.

   Mercoledì 11 agosto, ha scritto il Financial Times, di fronte ai porti di tutto il mondo c’erano 353 navi portacontainer ferme in rada, cioè stazionate al largo in attesa di poter entrare in porto. 353 navi sono quasi il 7 per cento del numero totale di navi cargo al mondo e questo significa che, a quella data, il sistema portuale mondiale nel suo complesso riusciva a gestire in buon ordine solo il 93 per cento delle navi cargo, il cui numero, data la domanda sempre maggiore di servizi di trasporto di merci, è destinato ad aumentare.

   Da allora, la situazione è peraltro peggiorata a causa della chiusura di uno dei terminal del porto cinese di Ningbo-Zhoushan, il terzo più trafficato al mondo, dove dall’11 agosto sono state fermate tutte le operazioni a causa dell’infezione da Covid-19 di uno dei suoi lavoratori. Il terminal chiuso gestiva circa il 20 per cento del traffico del porto, motivo per cui molte navi sono state dirottate sui vicini porti di Shanghai e Hong Kong anche se le autorità portuali hanno fatto sapere lunedì che sono riuscite a ripristinare il 90 per cento della capacità del porto. Tuttavia l’ingorgo rimane: martedì 17 agosto, secondo Bloomberg c’erano 141 navi cargo ferme davanti ai porti di Shanghai e Ningbo-Zhoushan.

   Tra i porti più congestionati dall’inizio della pandemia ci sono quello di Karachi, in Pakistan, dove il ritardo medio di una nave – calcolato come la differenza tra la data di partenza pianificata e quella effettiva – è stato di 27 giorni (con massimi di 89 giorni), quello di Fos sur Mer in Francia (16 giorni), quelli statunitensi di Charleston, Long Beach e Atlanta, dove le navi cargo hanno accumulato ritardi rispettivamente di 25, 12 e 11 giorni, quelli di Santos in Brasile e Tomakomai in Giappone, entrambi con 14 giorni di ritardo in media.

   Secondo i dati della società di ricerche IHS Markit, il tempo medio di attesa in rada per un approdo è più che raddoppiato dal 2019 a oggi, e anche il tempo passato dalle navi nei porti in attesa di essere scaricate e caricate è aumentato considerevolmente.

   Per recuperare questi ritardi, le navi possono decidere di saltare alcuni approdi sulla loro rotta (pratica chiamata in gergo blank sailing), ma se lo fanno le consegne delle merci che dovevano essere scaricate in quei porti subiscono ritardi ancora maggiori.

   Le possibilità sono infatti solo due: consegnare le merci in un porto diverso da quello inizialmente previsto e spostarle su altre imbarcazioni per completare la tratta o aspettare di tornare nel porto saltato per completare la consegna. Le rotte cargo, tuttavia, sono circolari e quando le navi arrivano all’ultimo porto del loro viaggio ripartono per il punto di partenza e ricominciano lo stesso giro: se saltano un porto durante un giro, possono tornarci solo durante il giro successivo. Intanto, anche le merci in attesa di essere spedite dal porto saltato subiranno un ritardo e dovranno aspettare di poter essere caricate sulla successiva nave che viaggia sulla stessa tratta, con un congestionamento che a cascata interessa tutti i centri di interscambio delle merci.

   Il congestionamento del trasporto marittimo è dovuto a una serie di fattori. Prima di tutto, le misure messe in atto ovunque per contrastare la pandemia hanno aumentato la burocrazia e allungato le procedure necessarie a muovere le merci. Un esempio sono i test Covid-19 a cui gli autisti dei camion si devono sottoporre per entrare nei porti, che rallentano il processo di afflusso dei container e allungano i tempi necessari a caricare le navi.

   In secondo luogo c’è l’aumento dei consumi. Molte persone, forzate dalla pandemia a passare più tempo a casa, hanno comprato più cose online, svuotando i magazzini di molte aziende. Queste, anche anticipando l’aumento dei consumi che si sarebbe poi verificato con la ripresa economica, nella seconda metà del 2020 hanno incrementato i propri ordini di materie prime e semilavorati, in modo da non rimanere a corto quando sarebbe arrivato il momento di aumentare la produzione. Tutto ciò ha fatto crescere molto repentinamente la domanda di servizi di trasporto di merci quando le restrizioni sono state allentate, senza che il sistema logistico fosse pronto ad assorbirla.

   Infatti, visto il crollo globale della produzione e dell’esportazione di merci dovuto ai lockdown, durante la prima ondata di pandemia le compagnie di trasporto avevano cancellato centinaia di viaggi. Questo aveva interrotto il normale flusso dei container vuoti, che non erano tornati nelle destinazioni in cui servivano di più.

   In particolare, quelli che avevano trasportato merci dalla Cina agli Stati Uniti erano rimasti nei depositi statunitensi, spesso collocati lontano dai porti per questioni di spazio. Gli Stati Uniti importano dalla Cina molta più merce di quanta ne esportino, e perciò c’è un flusso di container pieni che tende ad andare dalla Cina agli Stati Uniti, e uno di container vuoti che tende a seguire la rotta opposta. Quando la produzione cinese è ripresa e la domanda del trasporto di merci ha cominciato a risalire – e lo ha fatto molto in fretta –, diversi porti cinesi si sono trovati così senza container a sufficienza.

   Questo ha peraltro fatto aumentare il prezzo del noleggio dei container a livelli difficili da sostenere per gli spedizionieri: dai 1.400 dollari di marzo 2020, il prezzo medio per noleggiare un container da 40 piedi (cioè poco più di 12 metri) di lunghezza è salito a oltre 9.500 dollari, dopo aver superato i 10 mila a inizio agosto. Sulle tratte con maggior carenza di container, come quella tra la Cina e la costa orientale degli Stati Uniti, il prezzo del loro noleggio è passato da poco più di 3 mila a oltre 20 mila dollari.

   Tra l’altro, l’aumento dei prezzi di noleggio dei container sta avendo un forte impatto sull’attività dei piccoli spedizionieri (che difficilmente possono permettersi questi esborsi), nonché sul tipo di merce che può essere spedita a condizioni economicamente accettabili: un container pieno di iPhone ha un valore che giustifica la spesa, ma uno riempito di copertoni (molto più voluminosi e molto meno preziosi) potrebbe non giustificarla.  Chi guadagna da questa situazione sono i grandi armatori come l’impresa danese Maersk, l’operatore di trasporti marittimi più grande al mondo, che nei primi sei mesi del 2021 ha accumulato un profitto record di 6,5 miliardi di dollari.

   Ad aumentare la disparità tra la domanda e l’offerta di servizi di trasporto c’è stato poi un altro fattore: diversi armatori avevano approfittato del calo di traffico durante i lockdown per ristrutturare le proprie navi.  Quando la domanda è risalita, molte di queste erano ancora ferme in cantiere, il che ha aggravato la carenza della disponibilità di trasporto.

   La situazione è poi peggiorata col verificarsi di eventi avversi già citati come l’incagliamento della nave portacontainer Ever Given nel Canale di Suez a marzo e la riduzione della capacità operativa dei porti cinesi di Yantian e Ningbo-Zhoushan a causa del Covid-19. Stando a quanto riportato da Maersk, i ritardi generati dall’incagliamento dell’Ever Given si protrarranno fino all’inizio di questo autunno.

   Il porto di Yantian, uno dei più importanti al mondo, a fine maggio funzionava solo al 30 per cento della sua capacità abituale a causa di un focolaio di Covid-19 che ne aveva reso necessaria la chiusura per sei giorni, imponendo il dirottamento delle navi nei porti più vicini, e ancora a fine giugno era operativo solo al 70%.

   Tutti questi fattori non bastano però a spiegare l’attuale congestione del trasporto marittimo mondiale. Secondo il Financial Times, i problemi che si sono verificati con la pandemia sono in gran parte dovuti all’inefficienza delle strutture portuali, alla loro insufficiente capacità di stoccaggio, alla mancanza di coordinazione con gli altri attori del trasporto e all’inadeguatezza della maggior parte di esse a gestire le operazioni di carico e scarico di navi cargo che stanno diventando sempre più grandi. Questioni già note da anni, che la situazione attuale ha reso necessario affrontare.

   Negli ultimi anni, gli armatori hanno costruito navi cargo sempre più capienti con l’obiettivo di aumentare la quantità di container trasportabili in un singolo viaggio, ottenendo così economie di scala sempre maggiori che gli consentono di abbattere i costi. Le navi più grandi, di cui la Ever Given è un esempio, vengono chiamate Ultra Large Container Ship (ULCS): sono lunghe circa 400 metri e larghe una sessantina, e possono trasportare in una sola volta più di ventimila container da venti piedi di lunghezza (poco più di sei metri). Di così grandi ne esistono circa 85 al mondo, di cui 26 sono state completate solo negli ultimi due anni, mentre altre 8 sono in cantiere. Il problema è che i porti in grado di accogliere navi così grandi sono ancora molto pochi.

   Per trasformare un porto in modo da poter ospitare una nave del genere servono investimenti ingenti: vanno ampliati gli spazi di attracco, installate gru più alte, aumentata la capacità di stoccaggio, eccetera.  Questi lavori non solo richiedono mesi (per una nuova gru possono volercene 18 dall’ordinazione all’installazione), ma soprattutto tanti soldi, che i porti potrebbero non essere incentivati a spendere. Navi più grandi significano infatti meno viaggi, meno attracchi, e quindi meno incassi per i porti, le cui finanze peraltro sono state già colpite duramente dalla pandemia: le misure per contrastarla ne hanno fatto salire i costi di gestione, forzandoli a tagliare le spese e licenziare personale (il che ne ha rallentato ancor più le operazioni).

   Ecco perché, dice il Financial Times, alcuni armatori hanno deciso di investire essi stessi nei porti, comprandone delle quote societarie in modo da poterne influenzare le decisioni di investimento e ottenere trattamenti prioritari per le proprie navi.

   Questo potrebbe rendere i porti più efficienti e adeguati nel medio termine, ma al tempo stesso potrebbe dare inizio a un processo di integrazione verticale (in cui cioè un’azienda acquisisce un proprio fornitore) che porterebbe i porti nelle mani degli armatori più grandi, a discapito della concorrenza di quelli più piccoli.

   In ogni caso, questi investimenti non sembrano poter risolvere la congestione del traffico nel breve periodo. Su questo orizzonte temporale, la minaccia più grande restano le chiusure dovute a focolai di Covid-19, soprattutto in Cina, dove vigono regole molto stringenti che possono comportare, come visto, la chiusura di interi terminal per un solo caso di infezione. Perciò si teme che situazioni analoghe a quelle dei porti di Yantian e Ningbo-Zhoushan possano verificarsi in altri porti, peggiorando il problema. (Leonardo Siligato, da “il POST.IT” del 22/8/2021, https://www.ilpost.it/)

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«CRISI DEI CONTAINER, UE INERTE IL CONTO LO PAGANO LE PMI»

D’Agostino: «Vedremo il ritorno dei magazzini»

di Gianni Favero, da “Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)” del 1/9/2021

VENEZIA «Il tema di fondo è la concentrazione del traffico in mano a pochi soggetti. Si trattasse di multinazionali del web le autorità antitrust avrebbero i riflettori puntati di continuo. Siccome si parla di navi cariche di container, argomento poco attrattivo per l’opinione comune, nessuno pare voglia sollecitare provvedimenti».

   La lettura della crisi dei trasporti commerciali transoceanici è del manager veneto ZENO D’AGOSTINO, presidente dell’AUTORITÀ PORTUALE DI TRIESTE, che non usa giri di parole Continua a leggere

Le NAVI DEI VELENI del commercio globale che si incendiano o naufragano, e distruggono mari e coste incontaminate, ed economie di sussistenza (la pesca, il turismo) – Il CASO dello SRI LANKA avvelenato da plastica e acidi – Come impedire il trasporto nei mari di carburanti, prodotti chimici e ogni merce pericolosa?

IL DISASTRO DELLA NAVE “MV X-PRESS PEARL”: il paradiso dello SRI LANKA AVVELENATO DA PLASTICA E ACIDI. Le squadre di pulizia raccolgono tonnellate di plastica bruciata, pesci e tartarughe marine avvelenati dall’acido nitrico lungo le spiagge del paese, colpito dalle più grave catastrofe ecologica della sua storia. Il danno potrebbe essere accresciuto dalla fuoriuscita del carburante – (la costa devastata, foto da https://www.corriere.it/pianeta2020/)

   Una nave è in questo momento al centro delle cronache internazionali. Si tratta della portacontainer MV X-Press Pearl, battente bandiera di Singapore, che ha preso fuoco alcuni giorni fa al largo dello Sri Lanka, è affondata con la prua in un mare di venti metri di profondità, e ci sono pesantissime ripercussioni a livello ambientale.

   Perché è una portacontainer carica di prodotti chimici, e sta compromettendo (ha già compromesso?) l’integrità delle coste dello Sri Lanka, rivelandosi uno dei peggiori disastri ecologici marini che l’isola abbia conosciuto. È l’ultimo di una serie infinita di incidenti collegati con queste grandi navi che nei decenni scorsi hanno inquinato (nell’incendiarsi, nell’affondare, nella perdita di carburanti e sostanze chimiche…) i mari di mezzo mondo.

A distanza di alcune settimane dall’incidente che nel Canale di Suez ha coinvolto la portacontainer Ever Given – fortunatamente senza vittime né danni ambientali di rilievo – e a meno di un anno dal disastro petrolifero causato alle Mauritius dal naufragio della Wakashio, una nuova nave è in questo momento al centro delle cronache internazionali. Si tratta della PORTACONTAINER MV X-PRESS PEARL, battente bandiera di Singapore, che ha preso fuoco alcuni giorni fa al largo dello SRI LANKA, con pesantissime ripercussioni a livello ambientale.  La nave era ferma a quasi dieci miglia nautiche a nord-ovest di COLOMBO, la città più grande e popolosa dello Stato asiatico, in attesa di entrare nel porto, quando a bordo è scoppiato un incendio andato avanti per giorni. L’INCENDIO sarebbe stato CAUSATO DA SOSTANZE CHIMICHE trasportate sulla nave battente bandiera di Singapore. La nave trasportava 1.486 container, comprese 25 tonnellate di ACIDO NITRICO e altri prodotti chimici. (foto: la nave che affonda, da www.corriere.it/pianeta2020/)

   Ora, che pare che ancor di più la sostenibilità ambientale sia diventata un’urgenza, ci si chiede se non bisogna fare qualcosa perché incidenti come questi, distruggano mari bellissimi, coste incontaminate, e le diffuse piccole attività (di pesca o di turismo) che paesi poveri (com’è lo Sri Lanka) possano dare da vivere a una buona parte della popolazione.

   Così che il mondo si sta ponendo il problema della sostenibilità nei sistemi di produzione e consumo, ma le leggi dell’economia prevalgono su quelle dell’ambiente: evidentemente vale ancora la pena di correre il rischio. E poi la maggior parte di prodotti che queste navi portano, li usiamo tutti noi, e più o meno consapevolmente, ne siamo edotti (siamo corresponsabili).

Mappa dello SRI LANKA (una volta si chiamava CEYLON). La nave è affondata a 9,5 miglia nautiche, cioè 18 chilometri, da KEPUNGODA, città situata tra la capitale COLOMBO e NEGOMBO (mappa di SRI LANKA CEYLON da https://3bonline.wordpress.com/)

   Da giorni le squadre di soccorso stanno tentando di ripulire le spiagge finora incontaminate, ora piene di miliardi di micro-palline di plastica, polietilene, con la chimica dell’acido nitrico che si è in parte già riversata in mare, e con il pericolo che dalla nave fuoriesca tutto il carburante che non è ancora bruciato (evidentemente inquinando l’aria di quei luoghi, per giorni e giorni).

Disastro Sri Lanka (foto da https://www.vaticannews.va/it/mondo/)

   Sarà, almeno per lungo tempo, la fine del turismo (post covid) in quelle coste dello Sri Lanka (la nave è affondata a 9,5 miglia nautiche, cioè 18 chilometri, da Kepungoda, città situata tra la capitale Colombo e Negombo). Già ora, secondo i maggiori esperti, i danni all’ecosistema marino sono incalcolabili. La pesca è sospesa in un raggio di 80 chilometri attorno alla nave e, come dicevamo. è a rischio la fragile economia della zona.

   Al momento dell’incendio la nave trasportava 1.486 container (per dire la grandezza di queste navi!), di cui la maggior parte è stata incenerita. Ottantuno container contenevano merci pericolose, incluse 25 tonnellate di acido nitrico, cosmetici e altre sostanze chimiche. Almeno il contenuto di uno dei container con l’acido nitrico si è già riversato in mare. Il restante carico era costituito da prodotti alimentari, veicoli, parti di veicoli e prodotti automobilistici, forniture di costruzione e di produzione e materie prime, granuli di polietilene e altre merci.

(La nave che affonda, foto da https://tg24.sky.it/) – AL SUO INTERNO 278 TONNELLATE DI OLIO COMBUSTIBILE, 50 TONNELLATE DI GASOLIO e 20 CONTENITORI PIENI DI OLIO LUBRIFICANTE. Nei 1.486 container a bordo, 81 dei quali classificati come “carico tossico”, ci sono anche: – lingotti di piombo, – 25 tonnellate di acido nitrico, – altri prodotti chimici e cosmetici.  Secondo l’ANSA una parte del carico è finito in mare, preoccupano LE TONNELLATE DI MICROGRANULI DI PLASTICA DA IMBALLAGGIO contenute in altri 28 container che hanno sommerso le coste dell’area oltre a disperdersi in acqua.   A rischio di sversamento in mare anche gli OLTRE 350 TONNELLATE DI CARBURANTE contenuti nei serbatoi dell’imbarcazione, aggiunge WWF che parla del “più grave disastro ambientale nella storia dello Sri Lanka”, e di “una catastrofe per la vita marina dell’Oceano Indiano”. (Antonio Mazzucca, da https://www.insic.it/)

La prima perdita di acido nitrico era avvenuta molto tempo prima, già l’11 maggio scorso, e la nave era nelle coste del Qatar, ma le è stato negato l’approdo perché le autorità portuali si ritenevano incompetenti a risolvere il problema. Pertanto questo aggrava il fatto: ci vorrebbero autorità internazionali e mezzi adatti a soccorrere navi con questi tipi di difficoltà, anziché aspettare che la cosa diventi così grave. Infatti l’acido nitrico perduto in mare sembra essere anche la causa dell’incendio che ha devastato la porta container e tutto quello che c’era (e c’è ancora) a bordo.

Il luogo dell’incendio-naufragio (Sri-Lanka-mappa da https://www.remocontro.it/)

   Esiste qualche regola internazionale per il trasporto delle merci pericolose. Ma casi come questi accaduti fanno pensare che ci si può fidare poco di queste regole, ed esistono condizioni per dire che merci pericolose non possono, non devono, viaggiare per i mari. Il fatto poi è anche che quando parliamo di merci pericolose non intendiamo solo sostanze chimiche: ma ci sono prodotti di nostro uso quotidiano che sono a tutti gli effetti “pericolosi”: come quelli contenenti batterie al litio, tra cui cellulari e i computer portatili.

Un granchio nelle palline di poliuretano fuoriuscite dalla porta-containers

   Noi speriamo che l’inquinamento delle coste dello Sri Lanka non sia irreversibile, che si possa migliorare e ripristinare: fatto è che migliaia di pesci, tartarughe, animali incolpevoli sono morti e inquinati da questa distruzione (granchi tartarughe soffocati da miliardi di micro-palline di plastica); che la flora di quei mari e quelle coste difficilmente tornerà come prima. Per dire che ancora una volta appare evidente che il nostro sistema di sviluppo globale non va bene; e che dovremmo rivedere anche tutto il commercio globale e il trasporto delle merci, anche se ci costerà nella nostra vita quotidiana. (s.m.)

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DISASTRO SRI LANKA, PER QUANTO LE LEGGI DELL’ECONOMIA PREVARRANNO SULL’AMBIENTE?

di Ferdinando Boero, vicepresidente di Marevivo (associazione ambientalista), 3/6/2021, da https://www.huffingtonpost.it/

   Il naufragio della MV X-Press Pearl, una portacontainer carica di prodotti chimici, sta compromettendo l’integrità delle coste dello Sri Lanka, rivelandosi uno dei peggiori disastri ecologici marini che l’isola abbia conosciuto. È l’ultimo di una serie infinita di incidenti collegati ai nomi delle navi, dalla Amoco-Cadiz in Bretagna, all’Exxon-Valdez in Alaska, per non parlare della Haven, a Genova.

   La lista è lunghissima. Poi ci sono gli incidenti alle piattaforme, Come la Deepwater Horizon, in Florida. Le navi che solcano gli oceani di tutto il mondo sono alla base del commercio globalizzato e sono migliaia, come anche le piattaforme estrattive. Le misure di sicurezza nella costruzione delle navi e delle piattaforme sono sempre più rigide ma, nonostante questo, gli incidenti non accennano a diminuire.

   Ogni volta l’attenzione del mondo si rivolge all’evento, ci mostra lo scempio delle coste, la vita marina aggredita dai rifiuti del progresso.

   Il mondo si sta ponendo il problema della sostenibilità nei sistemi di produzione e consumo, ma le leggi dell’economia prevalgono su quelle dell’ambiente: evidentemente vale ancora la pena di correre il rischio. Le assicurazioni pagano i danni, pare che le aziende “si possano permettere” di causare i disastri ambientali causati alle loro attività.

   L’uso di materiali altamente inquinanti, dal petrolio a prodotti chimici usati per le produzioni, a prodotti di scarto da smaltire, ci mostra quanto sia pericoloso il nostro stile di vita. Ma presto dimentichiamo. Chi ricorda la Cavtat, la nave dei veleni affondata al largo di Otranto? Ogni incidente cancella la memoria dei precedenti, e ogni volta ci indigniamo, come se fosse il primo. Fotocopiando i commenti agli eventi precedenti.

   Noi di Marevivo da sempre denunciamo questi “effetti collaterali” del cosiddetto sviluppo. Se il prezzo da pagare per l’attuale stile di vita compromette la vita stessa, forse è il caso di ripensare a come abbiamo progettato i nostri sistemi di produzione e consumo.

   L’innovazione tecnologica sarà cruciale nel disegnare la sostenibilità ambientale del futuro. Abbiamo tollerato per troppo tempo le conseguenze del progresso, come è avvenuto per decenni a Taranto. Non si tratta di casi isolati, ma di un modo di produrre che compromette l’ambiente e la salute.

   Non auspichiamo il ritorno alle navi di legno, che trasportavano anfore e statue, come quelle che, dai loro naufragi, ci restituiscono le tracce di navigazioni del passato. Come fecero i galeoni spagnoli che tornavano in patria con i loro tesori, dopo aver depredato le civiltà precolombiane.

   Gli archeologi del futuro troveranno veleni nelle navi affondate in questo momento storico. Magari anche scorie nucleari.

   Pare si voglia risolvere la crisi del Covid con un Nuovo Patto Verde, con la Transizione Ecologica. Dalle crisi nasce innovazione, si cambiano i paradigmi.

   Ci commuoviamo per le immagini di devastazione in Sri Lanka, ma le emozioni del momento devono innescare richieste di cambio di rotta. Abbiamo davvero bisogno di tutti questi veleni? Forse ora non ci sono alternative al loro uso, ma è plausibile auspicare lo sviluppo di nuovi modi di produrre, di consumare, di trasportare. La scienza dei materiali ci deve spingere in nuovi territori, dove le soluzioni non possono creare problemi più grandi dei problemi che dovrebbero risolvere.

   La scienza e la tecnologia devono essere indirizzate in questa direzione, e non possono ignorare l’ecologia ma devono, invece, essere concepite su basi ecologiche.

   Non è chiedere troppo, se si auspica un progresso che ci liberi dai veleni.

(Ferdinando Boero, vicepresidente di Marevivo, 3/6/2021, da https://www.huffingtonpost.it/)

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SRI LANKA, INCUBO MAREA NERA: ‘DISASTRO AMBIENTALE’

Semiaffondato il cargo dopo 13 giorni alla deriva tra le fiamme Continua a leggere

La SUPERSTRADA PEDEMONTANA VENETA, in funzione ora da Malo a Montebelluna, servirà alla conurbazione pedemontana vicentina-trevigiana per il predominante traffico locale? Come in origine voluto? Pare proprio di no – Un monito di “come non fare”, per le prossime opere del Recovery Fund europeo

Il tracciato della SUPERSTRADA PEDEMONTANA VENETA una volta conclusa (ora aperta da Malo a Montebelluna)

   L’apertura di uno dei tratti forse più importanti della superstrada pedemontana veneta, i 30 chilometri tra Bassano del Grappa e Montebelluna, al di là dei toni assai enfatici e tutti positivi che ci sono ad ogni inaugurazione di grande opera, buona o cattiva che sia…, questa apertura, inaugurazione, lascia perlomeno molte perplessità sulla funzionalità, l’efficacia, e il futuro utilizzo di quest’opera che è costata così tanti soldi e sacrificio territoriale.

   Viene da pensare che si poteva fare di meglio. E che adesso ci dobbiamo rassegnare ad avere un’opera non adatta a quello che era lo scopo iniziale, prioritario: cioè far circolare meglio gli abitanti della pedemontana trevigiana e vicentina, togliendo traffico alla direttrice Schiavonesca-Marosticana. Ma più avanti, nelle prossime righe, cercheremo di spiegare questa iniziale affermazione.

    Perché, prima di tutto, va detto che il momento storico attuale è importante nel nostro Paese: tra poco partiranno molti cantieri (grazie al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza e ai finanziamenti europei connessi). E si vorrebbe che la trasformazione della mobilità in Italia, infrastrutturale, logistica, geografica, avvenga con opere effettivamente utili, necessarie e, in ogni caso, che risolvano veramente le carenze per le quali sono state pensate. E cioè: 1-superare la difficoltà a muoversi da un luogo all’altro; 2-aiutare zone marginali a collegarsi economicamente ai centri; 3-non impattare sul territorio e sull’ambiente e perlomeno trovare la migliori forme di mitigazione per non danneggiare popolazioni e ambienti di pregio; 4-inquinare di meno o per niente…..

    E così la superstrada pedemontana veneta a nostro avviso può essere un esempio di come non dev’essere fatta una strada per rispettare e assolvere ai compiti che ci si aspetta da opere di così grande rilevanza. Innanzitutto va rilevato che è “superstrada” solo di nome: a detta di tutti (anche di chi la ha così voluta e costruita), nella conformazione, nella segnaletica, specie poi nei caselli… è un’autostrada; e costruita con un metodo tradizionalissimo ormai superato dai tempi, in tutto il mondo. Ci riferiamo alla sua “rigidità”, ai caselli autostradali anziché a forme automatizzate di esazione del pedaggio (bastavano dei portali e con pagamenti anche addebitabili nei telefonini degli automobilisti, o con lettura automatica della targa….) (lo spreco territoriale di costruire i caselli è enorme: far convogliare le corsie di traffico in un unico luogo richiede una grande quantità di terreni, di ettari utilizzati).

   Inoltre i caselli autostradali che ci saranno nella SPV, nei 95 chilometri quando sarà completata coi rimanenti 35 chilometri (in tutto i caselli saranno 14) mostrano che non può collegarsi con la maggior parte delle strade nord-sud di una certa importanza che la SPV incontra nel suo percorso est-ovest.

   I progetto politico originario era di fare una strada che fosse nient’altro che la “variante” all’attuale strada Schiavonesca-Marosticana: cioè in pratica si chiedeva di costruire un continuum di circonvallazioni per tutti i centri della pedemontana veneta; una “grande circonvallazione” connessa con tutte le strade provinciali e comunali di un certo interesse che la intersecavano. Ne è invece uscita un’autostrada con, come dicevamo, caselli tradizionali che niente hanno a che vedere con la viabilità locale, intercomunale; viabilità locale che risulta essere l’80% del traffico attuale. Pertanto la SPV a niente servirà al traffico da un comune all’altro.

   L’assoluta rigidità di quest’opera, ripetiamo, con i suoi caselli autostradali, è peraltro dimostrata dalla necessità di essere contornata in futuro di una sessantina di chilometri di nuove opere di adduzione (altre strade di collegamento, rotatorie, cavalcavia, sottopassi, etc…..da fare) per risolvere i problemi di viabilità che ci saranno nei comuni interessati dai caselli (e già i sindaci dei comuni temono un aumento di traffico di passaggio nei propri centri, si stanno preoccupando…). Un’opera che da opportunità per dei territori diviene una servitù di passaggio.

   Il collegamento facilitato da un comune all’altro significa che, geograficamente, la conurbazione data dall’area pedemontana trevigiana e vicentina rappresenta oramai da molto tempo di fatto un’unica area metropolitana: data da un’urbanizzazione diffusa (e molto confusa…), e con relazioni continue ed affollate tra frazioni, paesi, zone rurali, cittadine, tragitti casa-lavoro, zone industriali e produttive, uffici pubblici, terziario, servizi scolastici, strutture sanitarie…. che si intrecciano tra loro in un dialogo costante, quotidiano, e che avrebbero bisogno di una viabilità connessa da luogo a luogo, a pettine con l’esistente; e che il progetto di una “circonvallazione” variante alla strada regionale 248 aveva ben previsto nel piano di traffico regionale del 1990 (e che invece adesso, dopo più di trent’anni, ci ritroviamo con la SPV, che nulla ha a che vedere con questa necessità).

   Fallito così il progetto originario, resta un’opera che però il Veneto, i veneti, si dovranno accollare pure finanziariamente (e non solo per i pedaggi quasi il doppio delle odierne autostrade) per i prossimi 39 anni di concessione alla società che la ha realizzata e la gestirà (visti i livelli mediocri di traffico prevedibili rispetto all’impegno finanziario). Così che noi e le future generazioni ci sobbarcheremo un costo che da quello odierno di costruzione di quasi 3 miliardi, nei 39 anni di gestione privata arriverà a 12 miliardi di euro.

  Convinti poi, come siamo, che, come accade sempre con le grandi opere, brutte e/o inutili, che “ci faremo l’occhio”, ci si rassegnerà all’esistenza di questa cosa; magari ci servirà ogni tanto per andare lontano (o al nuovo centro commerciale fuori da casello!), mantenendo inalterati i disagi del traffico locale da comune a comune nella nostra quotidianità.

   Questo per dire che se grandi opere nasceranno nei prossimi mesi e anni (fino al 2026) con il Recovery Fund europeo, è auspicabile di non commettere gli errori che stanno portando alla realizzazione finale, così com’è, della superstrada pedemontana veneta. (s.m.)

Superstrada pedemontana veneta