HAITI NEL CAOS: PRESSIONI PER CREARE UNA COALIZIONE CHE GUIDI VERSO NUOVE ELEZIONI
di Michela Morsa, da https://it.euronews.com/, 7/3/2024
– Il Paese è paralizzato dalla violenza delle bande armate che nel fine settimana hanno fatto evadere quasi cinquemila detenuti e protestano contro il primo ministro in carica Ariel Henry, rifugiatosi per il momento a Porto Rico –
La situazione ad Haiti è ancora critica: dopo giorni di scontri e violenze, innescate dalla liberazione da parte delle bande armate del Paese di circa cinquemila detenuti, l’isola è in gran parte paralizzata, con scuole e imprese chiuse, corpi che giacciono in strade deserte. L’aeroporto internazionale, che lunedì le gang hanno tentato di occupare, è ancora chiuso.
Da domenica vige lo stato di emergenza e mercoledì i politici hanno iniziato a confrontarsi alla ricerca di alleanze per formare una coalizione che possa trainare il Paese fuori dalla violenza della criminalità organizzata, il cui principale obiettivo è impedire il rientro del contestato primo ministro ad interim Ariel Henry.
Una nuova alleanza politica coinvolge l’ex leader ribelle Guy Philippe e l’ex candidato presidenziale e senatore Moïse Jean Charles, che mercoledì hanno dichiarato a Radio Caraïbes di aver firmato un accordo per formare un consiglio di tre persone alla guida di Haiti. Philippe, figura chiave nella ribellione del 2004 che spodestò l’ex presidente Jean-Bertrand Aristide, è ritornato ad Haiti a novembre chiedendo subito le dimissioni di Henry.
IL PRESIDENTE HENRY È SOTTO PRESSIONE NAZIONALE E INTERNAZIONALE
Le bande armate, che controllano l’80 per cento della capitale Port-au-Prince, giovedì scorso (29/2/2024, ndr) hanno iniziato a protestare contro la visita in Kenya del leader haitiano, andato a negoziare proprio l’invio di un contingente di peacekeepers sostenuti dalle Nazioni Unite nel Paese, ormai da tempo succube della violenza delle gang.
Henry è atterrato martedì a Porto Rico dopo che non gli era stato permesso di atterrare nella Repubblica Dominicana, che ha deciso di chiudere lo spazio aereo intorno ad Haiti.
Nominato primo ministro con il sostegno della comunità internazionale poco dopo l’assassinio del presidente Jovenel Moïse nel luglio 2021, ora si trova ad affrontare crescenti pressioni nazionali e internazionali per dimettersi e permettere così una transizione verso un nuovo governo, sostenuto con tutta probabilità dagli Stati Uniti.
Mercoledì è stato chiesto all’ambasciatrice statunitense alle Nazioni Unite Linda Thomas-Greenfield se Washington avesse chiesto a Henry di dimettersi. Gli Stati Uniti hanno invitato Henry ad “andare avanti in un processo politico che porterà all’’istituzione di un consiglio presidenziale di transizione che porterà alle elezioni”, ha spiegato Thomas-Greenfield.
I LEADER DELLA CARIBBEAN COMMUNITY CERCANO UNA SOLUZIONE POLITICA
Su Haiti occhi puntati anche da parte dei vicini Paesi caraibici e delle Nazioni Unite. Un funzionario caraibico ha detto ad Associated Press che i leader della Caribbean community (Caricom) hanno parlato con Henry alla fine di martedì e hanno presentato diverse soluzione politiche per porre fine alla crisi haitiana, tra cui le dimissioni del primo ministro, che ha rifiutato.
“Nonostante molti, molti incontri, non siamo stati in grado di raggiungere alcuna forma di consenso tra il governo, il settore privato, la società civile, le organizzazioni religiose”, ha detto il presidente della Guyana Irfaan Ali. Le sfide sono “aggravate dall’assenza di istituzioni chiave” come la presidenza e il parlamento, così come la violenza e la mancanza di aiuti umanitari, ha aggiunto.
L’ONU ESORTA LA COMUNITÀ INTERNAZIONALE AD AGIRE
Il portavoce delle Nazioni Unite Stephane Dujarric ha detto che l’Onu sta esortando il governo e tutti i partiti a mettere da parte le loro differenze e concordare “un percorso comune verso il ripristino delle istituzioni democratiche”. Dujarric ha sottolineato che l’organizzazione internazionale ha continuato a trattare Henry come primo ministro senza aver in alcun modo incoraggiato le sue dimissioni.
Il portavoce Onu ha descritto la situazione a Port-au-Prince come “estremamente fragile”. “Le infrastrutture sanitarie sono sull’orlo del collasso“, ha detto, sottolineando che gli ospedali sono sovraffollati di civili feriti e la carenza di sangue.
Anche l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani Volker Türk ha esortato la comunità internazionale ad agire rapidamente per evitare che il paese caraibico cada nel caos. “Chiedo ancora una volta il dispiegamento urgente e senza ulteriori ritardi della Missione internazionale di sostegno alla sicurezza ad Haiti per sostenere la polizia nazionale e portare sicurezza al popolo haitiano”, ha affermato in una nota. Türk ha detto che dall’inizio dell’anno ad Haiti sono state uccise quasi 1.200 persone. (Michela Morsa, da https://it.euronews.com/, 7/3/2024)
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IN MESSICO DUE CANDIDATI SINDACI DELLA STESSA CITTÀ SONO STATI UCCISI A DISTANZA DI POCHE ORE
da https://www.ilpost.it/ 27/2/2024
Il 26 febbraio scorso (2024) due persone che erano candidate al ruolo di sindaco della città di MARAVATIO, nello stato messicano del MICHOACÁN, sono state uccise a poche ore di distanza l’una dall’altra. Il primo è MIGUEL ÁNGEL ZAVALA, il candidato sindaco del Movimento Rigenerazione Nazionale (Morena, partito di sinistra fondato dall’attuale presidente messicano Andrés López Obrador), trovato ucciso a colpi d’arma da fuoco nella sua auto lunedì. Poche ore dopo, verso mezzanotte, la procura statale ha detto di aver trovato morto nello stesso modo anche ARMANDO PÉREZ LUNA, candidato del partito conservatore Azione Nazionale.
Il leader di Azione Nazionale Marko Cortés ha detto che gli assassini «illustrano quanto sia grave il livello di violenza e mancanza di sicurezza in vista delle elezioni più importanti della storia messicana». In Messico le elezioni si terranno il 2 giugno: in un solo giorno si voterà per eleggere il presidente (che è sia il capo di stato che di governo del paese), entrambe le camere del parlamento, diversi governatori statali e i sindaci di varie città. L’ultima volta che si sono tenute le elezioni erano stati assassinati circa una trentina di candidati, e si teme che quest’anno le persone uccise saranno ancora di più.
In Messico il numero di omicidi, compresi quelli per motivi politici, è particolarmente alto per via della forte presenza della criminalità organizzata legata al narcotraffico in varie parti del paese, soprattutto quelle più povere. Negli ultimi cinque anni ci sono stati almeno 30mila omicidi all’anno: sono 23 ogni 100mila abitanti, 40 volte più che in Italia, dove sono circa 0,5 ogni 100mila abitanti. (da https://www.ilpost.it/ 27/2/2024)
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PER LA DEMOCRAZIA IN AMERICA LATINA SONO TEMPI PERICOLOSI
Jorge Castañeda, da LINKIESTA MAGAZINE https://www.linkiesta.it/, 3/1/2024
Nel 2000 in tutto il continente era rimasta una sola vera dittatura: Cuba. Poi nel giro di venti anni in molti Paesi sono andati al governo despoti, populisti, estremisti e altri cialtroni di vario tipo
Nel corso degli ultimi quattro decenni, la maggior parte delle dittature latinoamericane del Ventesimo secolo ha lasciato il posto a un regime democratico. Nel 2000, ogni Stato della regione, con l’eccezione di Cuba, era una democrazia rappresentativa, imperfetta o esemplare che fosse. Oggi questa tendenza è in crisi.
Dal momento che un sempre crescente numero di governi si trova ad affrontare una paralisi istituzionale, le minacce alla democrazia stanno aumentando anche nelle nazioni in cui le istituzioni sono forti e persiste un certo attaccamento al regime democratico.
Il caso del Messico è ambiguo. Dal 2018, il presidente Andrés Manuel López Obrador, detto AMLO, ha preso di mira le commissioni elettorali, la Corte suprema e molte istituzioni autonome del Paese nonché importanti intellettuali e giornalisti che hanno avanzato critiche nei suoi confronti. E ha anche conferito un potere immenso ed enormi quantità di denaro all’esercito messicano, che oggi combatte il crimine organizzato ma costruisce anche aeroporti, filiali bancarie e trasporti pubblici e gestisce dogane e porti.
Con poche eccezioni, finora nessuna di queste misure ha davvero intaccato la fragile e ancora immatura democrazia messicana. La grande domanda riguarda però il modo in cui AMLO affronterà le elezioni presidenziali del prossimo anno (a cui non potrà ricandidarsi, ndr), nelle quali il suo partito rimane il favorito ma che potrebbero rivelarsi più combattute del previsto. Il presidente resisterà alla tentazione di porre tutte le risorse del governo al servizio del candidato del suo partito? Rispetterà la decisione degli elettori in caso di sconfitta del suo candidato? E se invece si rifiuterà di riconoscere la vittoria di un partito dell’opposizione l’esercito si schiererà con lui?
Il Messico non è Cuba, né il Venezuela, né il Nicaragua – tre Paesi che potrebbero essere considerati delle classiche dittature latinoamericane. Quei tre Paesi hanno dei regimi più dispotici che mai. L’uomo forte venezuelano, Nicolás Maduro, sta nuovamente reprimendo l’opposizione. Ha sciolto le autorità elettorali esistenti e le ha sostituite con delle altre ancora più inclini ai brogli. Ha continuato a tirare per le lunghe i negoziati con i leader dell’opposizione venezuelana e con l’Amministrazione Biden. E ha anche vietato alla leader dell’opposizione, María Corina Machado, di candidarsi alle elezioni presidenziali del prossimo anno, per le quali non è ancora stata fissata una data.
In Nicaragua, all’inizio di quest’anno, il dittatore Daniel Ortega ha completamente ignorato una risoluzione approvata all’unanimità dall’Organizzazione degli Stati americani che lo esortava a cessare le violazioni dei diritti umani nel Paese. Ortega ha anche espropriato alcune proprietà appartenenti alla Chiesa e ai leader dell’opposizione, mostrando di non tollerare neppure un sussurro di dissenso. E ad agosto ha anche chiuso il principale centro di istruzione superiore del Paese, l’Universidad Centroamericana gestita dai gesuiti.
A Cuba, invece, il secondo anniversario delle proteste di massa dell’11 luglio 2021 contro il governo è stato accolto con un’ulteriore repressione contro i dissidenti ed è fallito ogni tentativo, compreso quello di Papa Francesco, di liberare i quasi mille prigionieri politici che sono stati arrestati due anni fa. Inoltre, la catastrofica situazione economica di Cuba ha portato quasi il 4 per cento della popolazione a emigrare negli Stati Uniti e in Spagna nel corso del 2022 e del 2023.
Ma i problemi di Cuba, del Venezuela e del Nicaragua non rappresentano i casi più gravi di arretramento della democrazia a cui si assiste in America Latina. Ci sono dei Paesi in cui la situazione è precipitata più rapidamente, come il Guatemala, l’Honduras ed El Salvador, che avevano dei regimi democratici che lasciavano già molto a desiderare. Nelle elezioni presidenziali guatemalteche di quest’anno ad alcuni rappresentanti dell’opposizione è stato impedito di candidarsi, l’annuncio dei risultati del primo turno è stato ritardato di diversi giorni e il vincitore del ballottaggio di agosto (2023, ndr), Bernardo Arévalo, ha dovuto affrontare continui ostacoli e complotti volti a intralciare il suo insediamento previsto per il gennaio 2024. Lui stesso ha dichiarato che le élite guatemalteche stanno preparando un colpo di Stato contro di lui. Non è detto che ciò avvenga, ma le macchinazioni contro il suo governo sono già iniziate da ben prima dell’inizio del suo mandato.
In Honduras, la presidente Xiomara Castro ha applicato con la mano pesante una versione delle politiche anti-gang già messe in atto nel vicino El Salvador, una misura che ha determinato incarcerazioni di massa e anche l’arresto di alcuni familiari innocenti dei leader delle gang. Ma la cosa peggiore di tutte è il fatto che il presidente salvadoregno Nayib Bukele stia correndo per la rielezione con una chiara violazione della Costituzione del suo Paese. Bukele sta anche portando avanti il suo approccio law and order che si basa sulle incarcerazioni di massa: in un Paese con meno di sette milioni di abitanti ci sono 68.000 persone in prigione.
Per quanto riguarda invece il pasticcio peruviano, ancora non se ne vede la fine. L’anno scorso, l’allora presidente Pedro Castillo ha cercato di sciogliere il Congresso e di governare per decreto, ma non ha mai ottenuto il sostegno dei militari al suo tentativo di colpo di Stato. E, perfino in America Latina, i colpi di Stato senza l’appoggio dell’esercito non sono mai stati una buona idea. Castillo è stato quindi rapidamente incarcerato ed è ora in attesa di processo. Nel frattempo, lo ha sostituito la sua vicepresidente, Dina Boluarte, che inizialmente ha promesso di indire le elezioni presidenziali e quelle per il rinnovo del Parlamento per il 2024 o addirittura per la fine del 2023. Ma, dal momento che mancavano gli strumenti legislativi per operare questo cambiamento, ha poi deciso di rimanere al potere fino al 2026. Migliaia di peruviani hanno protestato contro questa decisione. Le organizzazioni per i diritti umani e le Nazioni Unite hanno condannato l’uso sproporzionato della forza da parte del governo contro i manifestanti, più di cinquanta dei quali sono stati uccisi. Nel frattempo, nel Paese la disfunzionalità regna sovrana.
La disfunzionalità affligge anche gran parte degli altri Paesi del Sud America. Negli ultimi due anni, i nuovi governi del Cile, della Colombia e del Brasile hanno promesso delle riforme sociali serie e coraggiose, manifestando un forte attaccamento al sistema democratico. Questa svolta è stata particolarmente significativa in Brasile, dove lo scorso 8 gennaio i quattro anni da incubo del governo di estrema destra di Jair Bolsonaro sono quasi sfociati in un colpo di Stato. Sono poi emersi dei dettagli che indicano come nell’assalto agli edifici governativi nella capitale Brasília ci sia stata una complicità di alte cariche dell’esercito. Il Tribunale elettorale brasiliano ha vietato a Bolsonaro di candidarsi fino al 2030, ma pare che in Brasile il distacco tra i due principali candidati sia poi stato più sottile di quanto non si pensasse inizialmente. In parte a causa del fatto di aver rischiato la sconfitta e in parte a causa di alcuni ostacoli istituzionali, il presidente Luiz Inácio Lula da Silva ha incontrato maggiori difficoltà del previsto nel mandare avanti la sua agenda economica e sociale in un Parlamento ribelle e spaccato. L’impasse non farà che rafforzare le tentazioni autoritarie dei militari e dell’estrema destra.
A causa di un quadro istituzionale abbastanza eccezionale (al presidente è consentito un solo mandato di quattro anni), il capo di Stato cileno, Gabriel Boric, sta diventando un’anatra zoppa. Di recente la sua attività di governo è stata funestata da sconfitte elettorali, dal rifiuto da parte del Congresso dei suoi piani di riforma fiscale, da uno scandalo di corruzione nel ministero della Casa, dalle dimissioni di Giorgio Jackson, che era il suo più stretto collaboratore, e da una gestione degli affari esteri ondivaga ancorché improntata a sani principi. Purtroppo, il fatto che Boric venga prematuramente percepito come un’anatra zoppa lascia campo libero alla candidatura di José Antonio Kast, un esponente dell’estrema destra, che ha già perso contro Boric nel 2021 ma rimane uno dei candidati più accreditati in vista delle elezioni presidenziali del 2025. Nel frattempo, sul Cile, che è uno dei Paesi più sicuri dell’America Latina, si è abbattuta l’isterica convinzione che ci sia bisogno di un atteggiamento più law and order e di questi sentimenti beneficiano Kast e i suoi ammiratori.
La situazione della Colombia assomiglia a quella del Cile, in quanto Gustavo Petro – un promettente presidente di centrosinistra che sembrava avere una chiara maggioranza in Parlamento e un serio programma di riforme fiscali, sanitarie, pensionistiche e del lavoro – si è improvvisamente trovato in una condizione di paralisi politica. Ha ricevuto attacchi da tutte le parti e in Parlamento non può più contare su un sostegno sufficiente.
Per anni, i sondaggi condotti in America Latina a livello sovranazionale avevano mostrato una diminuzione nell’apprezzamento del sistema democratico da parte dei cittadini. Questo sentimento era attribuibile alle difficili condizioni economiche, alla repressione delle richieste sociali dopo la pandemia e alla presenza di grandi divisioni all’interno dei governi. Sta soprattutto ai latinoamericani controllare che non ci siano ulteriori smottamenti della democrazia nella regione, ma anche gli Stati Uniti hanno un ruolo da giocare.
Lo hanno fatto in Brasile, dove l’Amministrazione Biden e in particolare il Dipartimento della Difesa hanno contribuito a convincere i militari brasiliani a respingere le richieste di un colpo di Stato. In Messico, invece, l’ambasciatore americano, Ken Salazar, sostiene quasi tutto ciò che López Obrador fa o proclama, comportandosi più come un rappresentante di AMLO presso il governo di Washington che non il contrario. Per quello che riguarda invece casi chiaramente cronici, come quelli del Nicaragua, di El Salvador, del Venezuela e di Cuba, dove tutto è stato provato e nulla ha funzionato, gli Stati Uniti si comportano con ben poco entusiasmo.
Quali che siano gli interessi che Washington ha nella regione – il controllo del traffico di droga, i flussi migratori, il petrolio – l’arretramento della democrazia in America Latina ha in tutti questi casi un effetto molto negativo. Il presidente Biden non può fermare da solo questa deriva, ma può aiutare a contenerla. Per ora, però, non sta facendo quasi niente.
(Jorge Castañeda, da LINKIESTA MAGAZINE https://www.linkiesta.it/, 3/1/2024)
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QUALI SONO I PAESI DELL’AMERICA LATINA PIÙ PERICOLOSI AL MONDO?
da https://it.eseuro.com/internazionale/ 1/3/2024
Venezuela e Haiti Secondo National Geographic, sono posizionati come i paesi dell’America Latina con il rischio più elevato per i viaggiatori nel 2024. Venezuela si trova al secondo posto, dopo l’Afghanistan, soprattutto a causa della profonda crisi economica che attraversa da più di 10 anni. Tra gli altri motivi per considerarlo pericoloso, ci sono “gli abusi dei diritti umani, la mancanza di assistenza medica di base, i fallimenti delle infrastrutture, la criminalità e il traffico di droga; sono alcuni dei fattori di rischio in un Paese che è nella morsa della crisi politica da più di un decennio.”, dice la rivista.
Haiti dal canto suo, occupa il posto 4 sulla lista ed è dovuto alla loro “situazione di insicurezza e povertà cronica, aggravata dai disastri naturali e dalla violenza delle bande. Il primo ministro Ariel Henry ha chiesto aiuto internazionale per combattere questa situazione alla fine dello scorso anno”, si legge nella nota del National Geographic. Sia i paesi centroamericani che quelli sudamericani figurano anche nella lista dei paesi più pericolosi del mondo nel 2023.
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Oltre al Venezuela e ad Haiti, Honduras, El Salvador e alcune aree della Colombia e del Messico, come Tamaulipas, Colima, Guerrero, Michoacán, Sinaloa e Sinaloa, presentano rischi considerevoli. Questi luoghi, segnati dalla violenza e dalla criminalità organizzata, richiedono ulteriori precauzioni da parte dei viaggiatori. (da https://it.eseuro.com/internazionale/ 1/3/2024)
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FLOP PER LE RIFORME A CUBA, SALE L’INFLAZIONE E CROLLA IL PESO
da ANSA, 3/3/2024
– L’isola affronta la peggiore crisi economica in sessanta anni –
Le misure economiche introdotte dal governo di Cuba nel tentativo di contenere l’inflazione e dare slancio all’economia sempre più in crisi hanno ottenuto finora l’effetto contrario.
Da quando il ‘pacchetto economico’ è entrato in vigore, il primo marzo, ha causato infatti un rapido e generalizzato aumento dei prezzi e il crollo della valuta nazionale, con il dollaro che passa di mano alla cifra record di 314 pesos e l’euro a 320.
Le misure adottate dal governo comprendono l’aumento di oltre il 500% del prezzo del carburante, delle tariffe per i servizi di base – tra cui l’energia elettrica – e dei biglietti per i trasporti a lunga percorrenza. Il governo ha disposto inoltre l’eliminazione del sussidio al paniere alimentare di base.
La riforma arriva in un momento di profonda crisi per Cuba, che affronta la peggiore recessione economica in sessant’anni, caratterizzata dalla contrazione del pil del 2% (2023), dal tasso di inflazione (a dicembre dello scorso anno) al 30% annuo e da una grave svalutazione della peso. Il risultato a Cuba è che l’88% della popolazione vive in condizione di povertà. Il salario minimo sull’isola è inferiore a 7,5 dollari, il salario medio mensile raggiunge a malapena i 15 dollari e le pensioni minime non superano i 5 dollari al mese. Redditi insufficienti rispetto al costo della vita tanto che nei giorni scorsi il governo è stato costretto per la prima volta nella storia a chiedere aiuto al Programma alimentare mondiale (Pam) dell’Onu per l’impossibilità di garantire il latte per i bambini fino a sette anni. In precedenza le autorità avevano annunciato di avere scorte necessarie per garantire la produzione di pane solo fino alla fine del mese.
La crisi economica, la mancanza di cibo e l’incertezza sul futuro del Paese hanno causato negli ultimi due anni il più grande esodo dall’isola dalla rivoluzione castrista del 1959.
Tra il 2022 e il 2023 almeno 533.000 cubani – circa il 5% della popolazione – hanno lasciato l’isola per gli Stati Uniti; 37.000 hanno chiesto rifugio in Messico, e 22.000 hanno scelto l’Uruguay; oltre a quelli che si sono trasferiti illegalmente in molti Paesi dell’America latina e in Europa, soprattutto in Spagna. (da ANSA, 3/3/2024)
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SULL’ORLO DEL BARATRO: L’AMERICA LATINA TRA GUERRA, RESISTENZE ED ESTALLIDOS
di Christian Peverieri, da https://www.globalproject.info/it/, 1/2/2024
– «Con la crisi si amministra la paura e con la paura, come sappiamo dai tempi di Machiavelli, si esercita il potere». –
In tutto il mondo la guerra è sempre più l’elemento costitutivo di questa nuova fase di riassestamento del capitalismo. Dall’Ucraina a Gaza a tutte le altre guerre dimenticate o “normalizzate”, la popolazione mondiale si sta assuefacendo a uno stato emergenziale – di crisi e di guerra permanente -dove le vittime civili perdono anche la doverosa compassione umana diventando freddi numeri statistici a cui nessuno sembra farci più caso. Anche in America Latina lo status di guerra ha invaso la vita pubblica pur con modalità differenti e meno plateali delle guerre sopra citate, ma mantenendo uguali gli effetti devastanti sulla popolazione e i territori e i benefici sempre più eccezionali per il capitalismo.
A differenza del mondo occidentale dove quasi sempre lo status di guerra è accompagnato dalla retorica dello scontro di civiltà o di difesa dello Stato-Nazione, in America Latina il nemico è interno.
Nemico interno che il più delle volte è quella stessa criminalità organizzata a cui lo Stato ha regalato potere e impunità attraverso la “dichiarazione di guerra”, l’emanazione di politiche economiche neoliberiste che producono impoverimento e miseria tra la popolazione e la repressione delle forme di resistenza e autonomia presenti in tutto il continente. Nemico interno è però anche quella parte significativa della popolazione emarginata, impoverita, vulnerabile, soggettività e minoranze che chiedono e lottano per i diritti e per la difesa dei territori e che smascherano le disuguaglianze crescenti e le enormi contraddizioni del capitalismo e dei suoi alfieri.
A complicare il quadro lo scontro tra la Cina e gli Stati Uniti per il controllo politico ed economico della regione e la crisi irreversibile delle democrazie, travolte da corruzione e collusione e dove la sottile linea che separa lo Stato o le multinazionali dalle organizzazioni criminali diventa sempre più invisibile al punto da non scorgere più la differenza tra le attività legali e quelle illegali.
IL CASO ECUADOR: LA GUERRA “INVENTATA”.
Il 2024 si è aperto con l’acuirsi della crisi sociale e politica in Ecuador. L’ondata di violenza che Continua a leggere