Haiti, Cuba, Venezuela, Nicaragua, Ecuador, Guatemala, Honduras, El Salvador…e ora anche Messico, Argentina: per la democrazia in AMERICA LATINA o è cosa impossibile oppure, dove c’è, sono TEMPI PERICOLOSI – E poi il narcotraffico, i flussi migratori delle povere popolazioni, il petrolio… problemi e interessi che coinvolgono USA, ma anche Russia, Cina…

(HAITI, guerriglia ed esodi di massa, foto da “Il Fatto Quotidiano”) “(…) Haiti è uno dei paesi più poveri al mondo ed è da tempo alle prese con una gravissima crisi politica, sociale ed economica. Le proteste sono rivolte in particolare contro il governo del primo ministro ad interim Ariel Henry, che avrebbe dovuto organizzare nuove elezioni entro il 7 febbraio, ma non lo ha fatto sostenendo la necessità di ripristinare prima la stabilità nel paese. (…)” (da IL POST.IT https://www.ilpost.it/, 3/3/2024)
MAPPA di HAITI (ripresa da https://www.viaggiatori.net/) –  PORT AU PRINCE, 8 marzo 2024 – L’ulteriore aggravamento della crisi ad Haiti ha spinto il segretario di Stato americano Antony Blinken ad intervenire per sbloccare la paralisi politica e istituzionale, manifestando al premier haitiano Ariel Henry, bloccato a Porto Rico, e al presidente della Comunità dei Caraibi (Caricom), Irfaan Ali, “l’urgente necessità di accelerare la transizione verso un governo più ampio e inclusivo”. A Port au Prince, intanto, la situazione è totalmente fuori controllo. Il governo ha prorogato per un mese lo stato di emergenza, ma ciò non ha placato l’azione delle bande criminali. (…)” (da https://www.espansionetv.it/)

HAITI NEL CAOS: PRESSIONI PER CREARE UNA COALIZIONE CHE GUIDI VERSO NUOVE ELEZIONI

di Michela Morsa, da https://it.euronews.com/, 7/3/2024

– Il Paese è paralizzato dalla violenza delle bande armate che nel fine settimana hanno fatto evadere quasi cinquemila detenuti e protestano contro il primo ministro in carica Ariel Henry, rifugiatosi per il momento a Porto Rico –

   La situazione ad Haiti è ancora critica: dopo giorni di scontri e violenze, innescate dalla liberazione da parte delle bande armate del Paese di circa cinquemila detenuti, l’isola è in gran parte paralizzata, con scuole e imprese chiuse, corpi che giacciono in strade deserte. L’aeroporto internazionale, che lunedì le gang hanno tentato di occupare, è ancora chiuso.

   Da domenica vige lo stato di emergenza e mercoledì i politici hanno iniziato a confrontarsi alla ricerca di alleanze per formare una coalizione che possa trainare il Paese fuori dalla violenza della criminalità organizzata, il cui principale obiettivo è impedire il rientro del contestato primo ministro ad interim Ariel Henry

   Una nuova alleanza politica coinvolge l’ex leader ribelle Guy Philippe e l’ex candidato presidenziale e senatore Moïse Jean Charles, che mercoledì hanno dichiarato a Radio Caraïbes di aver firmato un accordo per formare un consiglio di tre persone alla guida di Haiti. Philippe, figura chiave nella ribellione del 2004 che spodestò l’ex presidente Jean-Bertrand Aristide, è ritornato ad Haiti a novembre chiedendo subito le dimissioni di Henry.

IL PRESIDENTE HENRY È SOTTO PRESSIONE NAZIONALE E INTERNAZIONALE

Le bande armate, che controllano l’80 per cento della capitale Port-au-Prince, giovedì scorso (29/2/2024, ndr) hanno iniziato a protestare contro la visita in Kenya del leader haitiano, andato a negoziare proprio l’invio di un contingente di peacekeepers sostenuti dalle Nazioni Unite nel Paese, ormai da tempo succube della violenza delle gang.

   Henry è atterrato martedì a Porto Rico dopo che non gli era stato permesso di atterrare nella Repubblica Dominicana, che ha deciso di chiudere lo spazio aereo intorno ad Haiti. 

   Nominato primo ministro con il sostegno della comunità internazionale poco dopo l’assassinio del presidente Jovenel Moïse nel luglio 2021, ora si trova ad affrontare crescenti pressioni nazionali e internazionali per dimettersi e permettere così una transizione verso un nuovo governo, sostenuto con tutta probabilità dagli Stati Uniti. 

   Mercoledì è stato chiesto all’ambasciatrice statunitense alle Nazioni Unite Linda Thomas-Greenfield se Washington avesse chiesto a Henry di dimettersi. Gli Stati Uniti hanno invitato Henry ad “andare avanti in un processo politico che porterà all’’istituzione di un consiglio presidenziale di transizione che porterà alle elezioni”, ha spiegato Thomas-Greenfield.

I LEADER DELLA CARIBBEAN COMMUNITY CERCANO UNA SOLUZIONE POLITICA

Su Haiti occhi puntati anche da parte dei vicini Paesi caraibici e delle Nazioni Unite. Un funzionario caraibico ha detto ad Associated Press che i leader della Caribbean community (Caricom) hanno parlato con Henry alla fine di martedì e hanno presentato diverse soluzione politiche per porre fine alla crisi haitiana, tra cui le dimissioni del primo ministro, che ha rifiutato. 

   “Nonostante molti, molti incontri, non siamo stati in grado di raggiungere alcuna forma di consenso tra il governo, il settore privato, la società civile, le organizzazioni religiose”, ha detto il presidente della Guyana Irfaan Ali. Le sfide sono “aggravate dall’assenza di istituzioni chiave” come la presidenza e il parlamento, così come la violenza e la mancanza di aiuti umanitari, ha aggiunto. 

L’ONU ESORTA LA COMUNITÀ INTERNAZIONALE AD AGIRE

Il portavoce delle Nazioni Unite Stephane Dujarric ha detto che l’Onu sta esortando il governo e tutti i partiti a mettere da parte le loro differenze e concordare “un percorso comune verso il ripristino delle istituzioni democratiche”. Dujarric ha sottolineato che l’organizzazione internazionale ha continuato a trattare Henry come primo ministro senza aver in alcun modo incoraggiato le sue dimissioni

   Il portavoce Onu ha descritto la situazione a Port-au-Prince come “estremamente fragile”. “Le infrastrutture sanitarie sono sull’orlo del collasso“, ha detto, sottolineando che gli ospedali sono sovraffollati di civili feriti e la carenza di sangue. 

   Anche l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani Volker Türk ha esortato la comunità internazionale ad agire rapidamente per evitare che il paese caraibico cada nel caos. “Chiedo ancora una volta il dispiegamento urgente e senza ulteriori ritardi della Missione internazionale di sostegno alla sicurezza ad Haiti per sostenere la polizia nazionale e portare sicurezza al popolo haitiano”, ha affermato in una nota. Türk ha detto che dall’inizio dell’anno ad Haiti sono state uccise quasi 1.200 persone. (Michela Morsa, da https://it.euronews.com/, 7/3/2024)

PORT-AU-PRINCE è posta sul golfo di Gonave, sulla costa occidentale di Hispaniola. È la capitale e città più popolosa di HAITI, nonché capoluogo dell’omonimo arrondissement e del dipartimento dell’Ovest. La popolazione della città si aggira intorno a 1 milione di abitanti (dato del 2015), mentre quella dell’area metropolitana conterebbe circa 2.600.000 abitanti (dato del 2017) (dati e immagine da WIKIPEDIA)

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(MEXICO, disordini e violenze; foto da https://www.ilpost.it/) – “IN MESSICO DUE CANDIDATI SINDACI DELLA STESSA CITTÀ SONO STATI UCCISI A DISTANZA DI POCHE ORE.  Il 26 febbraio scorso (2024) due persone che erano candidate al ruolo di sindaco della città di MARAVATIO, nello stato messicano del MICHOACÁN, sono state uccise a poche ore di distanza l’una dall’altra. Il primo è MIGUEL ÁNGEL ZAVALA, il candidato sindaco del Movimento Rigenerazione Nazionale (Morena, partito di sinistra fondato dall’attuale presidente messicano Andrés López Obrador), trovato ucciso a colpi d’arma da fuoco nella sua auto lunedì. Poche ore dopo, verso mezzanotte, la procura statale ha detto di aver trovato morto nello stesso modo anche ARMANDO PÉREZ LUNA, candidato del partito conservatore Azione Nazionale. (…)” (da https://www.ilpost.it/ 27/2/2024)

IN MESSICO DUE CANDIDATI SINDACI DELLA STESSA CITTÀ SONO STATI UCCISI A DISTANZA DI POCHE ORE

da https://www.ilpost.it/ 27/2/2024

   Il 26 febbraio scorso (2024) due persone che erano candidate al ruolo di sindaco della città di MARAVATIO, nello stato messicano del MICHOACÁN, sono state uccise a poche ore di distanza l’una dall’altra. Il primo è MIGUEL ÁNGEL ZAVALA, il candidato sindaco del Movimento Rigenerazione Nazionale (Morena, partito di sinistra fondato dall’attuale presidente messicano Andrés López Obrador), trovato ucciso a colpi d’arma da fuoco nella sua auto lunedì. Poche ore dopo, verso mezzanotte, la procura statale ha detto di aver trovato morto nello stesso modo anche ARMANDO PÉREZ LUNA, candidato del partito conservatore Azione Nazionale.

   Il leader di Azione Nazionale Marko Cortés ha detto che gli assassini «illustrano quanto sia grave il livello di violenza e mancanza di sicurezza in vista delle elezioni più importanti della storia messicana». In Messico le elezioni si terranno il 2 giugno: in un solo giorno si voterà per eleggere il presidente (che è sia il capo di stato che di governo del paese), entrambe le camere del parlamento, diversi governatori statali e i sindaci di varie città. L’ultima volta che si sono tenute le elezioni erano stati assassinati circa una trentina di candidati, e si teme che quest’anno le persone uccise saranno ancora di più.

   In Messico il numero di omicidi, compresi quelli per motivi politici, è particolarmente alto per via della forte presenza della criminalità organizzata legata al narcotraffico in varie parti del paese, soprattutto quelle più povere. Negli ultimi cinque anni ci sono stati almeno 30mila omicidi all’anno: sono 23 ogni 100mila abitanti, 40 volte più che in Italia, dove sono circa 0,5 ogni 100mila abitanti. (da https://www.ilpost.it/ 27/2/2024)

(MEXICO, REGIONS, MAP. Da https://it.wikivoyage.org/)

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PER LA DEMOCRAZIA IN AMERICA LATINA SONO TEMPI PERICOLOSI

Jorge Castañeda, da LINKIESTA MAGAZINE https://www.linkiesta.it/, 3/1/2024

   Nel 2000 in tutto il continente era rimasta una sola vera dittatura: Cuba. Poi nel giro di venti anni in molti Paesi sono andati al governo despoti, populisti, estremisti e altri cialtroni di vario tipo

   Nel corso degli ultimi quattro decenni, la maggior parte delle dittature latinoamericane del Ventesimo secolo ha lasciato il posto a un regime democratico. Nel 2000, ogni Stato della regione, con l’eccezione di Cuba, era una democrazia rappresentativa, imperfetta o esemplare che fosse. Oggi questa tendenza è in crisi.

   Dal momento che un sempre crescente numero di governi si trova ad affrontare una paralisi istituzionale, le minacce alla democrazia stanno aumentando anche nelle nazioni in cui le istituzioni sono forti e persiste un certo attaccamento al regime democratico.

   Il caso del Messico è ambiguo. Dal 2018, il presidente Andrés Manuel López Obrador, detto AMLO, ha preso di mira le commissioni elettorali, la Corte suprema e molte istituzioni autonome del Paese nonché importanti intellettuali e giornalisti che hanno avanzato critiche nei suoi confronti. E ha anche conferito un potere immenso ed enormi quantità di denaro all’esercito messicano, che oggi combatte il crimine organizzato ma costruisce anche aeroporti, filiali bancarie e trasporti pubblici e gestisce dogane e porti.

   Con poche eccezioni, finora nessuna di queste misure ha davvero intaccato la fragile e ancora immatura democrazia messicana. La grande domanda riguarda però il modo in cui AMLO affronterà le elezioni presidenziali del prossimo anno (a cui non potrà ricandidarsi, ndr), nelle quali il suo partito rimane il favorito ma che potrebbero rivelarsi più combattute del previsto. Il presidente resisterà alla tentazione di porre tutte le risorse del governo al servizio del candidato del suo partito? Rispetterà la decisione degli elettori in caso di sconfitta del suo candidato? E se invece si rifiuterà di riconoscere la vittoria di un partito dell’opposizione l’esercito si schiererà con lui?

   Il Messico non è Cuba, né il Venezuela, né il Nicaragua – tre Paesi che potrebbero essere considerati delle classiche dittature latinoamericane. Quei tre Paesi hanno dei regimi più dispotici che mai. L’uomo forte venezuelano, Nicolás Maduro, sta nuovamente reprimendo l’opposizione. Ha sciolto le autorità elettorali esistenti e le ha sostituite con delle altre ancora più inclini ai brogli. Ha continuato a tirare per le lunghe i negoziati con i leader dell’opposizione venezuelana e con l’Amministrazione Biden. E ha anche vietato alla leader dell’opposizione, María Corina Machado, di candidarsi alle elezioni presidenziali del prossimo anno, per le quali non è ancora stata fissata una data.

   In Nicaragua, all’inizio di quest’anno, il dittatore Daniel Ortega ha completamente ignorato una risoluzione approvata all’unanimità dall’Organizzazione degli Stati americani che lo esortava a cessare le violazioni dei diritti umani nel Paese. Ortega ha anche espropriato alcune proprietà appartenenti alla Chiesa e ai leader dell’opposizione, mostrando di non tollerare neppure un sussurro di dissenso. E ad agosto ha anche chiuso il principale centro di istruzione superiore del Paese, l’Universidad Centroamericana gestita dai gesuiti.

   A Cuba, invece, il secondo anniversario delle proteste di massa dell’11 luglio 2021 contro il governo è stato accolto con un’ulteriore repressione contro i dissidenti ed è fallito ogni tentativo, compreso quello di Papa Francesco, di liberare i quasi mille prigionieri politici che sono stati arrestati due anni fa. Inoltre, la catastrofica situazione economica di Cuba ha portato quasi il 4 per cento della popolazione a emigrare negli Stati Uniti e in Spagna nel corso del 2022 e del 2023.

   Ma i problemi di Cuba, del Venezuela e del Nicaragua non rappresentano i casi più gravi di arretramento della democrazia a cui si assiste in America Latina. Ci sono dei Paesi in cui la situazione è precipitata più rapidamente, come il Guatemala, l’Honduras ed El Salvador, che avevano dei regimi democratici che lasciavano già molto a desiderare. Nelle elezioni presidenziali guatemalteche di quest’anno ad alcuni rappresentanti dell’opposizione è stato impedito di candidarsi, l’annuncio dei risultati del primo turno è stato ritardato di diversi giorni e il vincitore del ballottaggio di agosto (2023, ndr), Bernardo Arévalo, ha dovuto affrontare continui ostacoli e complotti volti a intralciare il suo insediamento previsto per il gennaio 2024. Lui stesso ha dichiarato che le élite guatemalteche stanno preparando un colpo di Stato contro di lui. Non è detto che ciò avvenga, ma le macchinazioni contro il suo governo sono già iniziate da ben prima dell’inizio del suo mandato.

   In Honduras, la presidente Xiomara Castro ha applicato con la mano pesante una versione delle politiche anti-gang già messe in atto nel vicino El Salvador, una misura che ha determinato incarcerazioni di massa e anche l’arresto di alcuni familiari innocenti dei leader delle gang. Ma la cosa peggiore di tutte è il fatto che il presidente salvadoregno Nayib Bukele stia correndo per la rielezione con una chiara violazione della Costituzione del suo Paese. Bukele sta anche portando avanti il suo approccio law and order che si basa sulle incarcerazioni di massa: in un Paese con meno di sette milioni di abitanti ci sono 68.000 persone in prigione.

   Per quanto riguarda invece il pasticcio peruviano, ancora non se ne vede la fine. L’anno scorso, l’allora presidente Pedro Castillo ha cercato di sciogliere il Congresso e di governare per decreto, ma non ha mai ottenuto il sostegno dei militari al suo tentativo di colpo di Stato. E, perfino in America Latina, i colpi di Stato senza l’appoggio dell’esercito non sono mai stati una buona idea. Castillo è stato quindi rapidamente incarcerato ed è ora in attesa di processo. Nel frattempo, lo ha sostituito la sua vicepresidente, Dina Boluarte, che inizialmente ha promesso di indire le elezioni presidenziali e quelle per il rinnovo del Parlamento per il 2024 o addirittura per la fine del 2023. Ma, dal momento che mancavano gli strumenti legislativi per operare questo cambiamento, ha poi deciso di rimanere al potere fino al 2026. Migliaia di peruviani hanno protestato contro questa decisione. Le organizzazioni per i diritti umani e le Nazioni Unite hanno condannato l’uso sproporzionato della forza da parte del governo contro i manifestanti, più di cinquanta dei quali sono stati uccisi. Nel frattempo, nel Paese la disfunzionalità regna sovrana.

   La disfunzionalità affligge anche gran parte degli altri Paesi del Sud America. Negli ultimi due anni, i nuovi governi del Cile, della Colombia e del Brasile hanno promesso delle riforme sociali serie e coraggiose, manifestando un forte attaccamento al sistema democratico. Questa svolta è stata particolarmente significativa in Brasile, dove lo scorso 8 gennaio i quattro anni da incubo del governo di estrema destra di Jair Bolsonaro sono quasi sfociati in un colpo di Stato. Sono poi emersi dei dettagli che indicano come nell’assalto agli edifici governativi nella capitale Brasília ci sia stata una complicità di alte cariche dell’esercito. Il Tribunale elettorale brasiliano ha vietato a Bolsonaro di candidarsi fino al 2030, ma pare che in Brasile il distacco tra i due principali candidati sia poi stato più sottile di quanto non si pensasse inizialmente. In parte a causa del fatto di aver rischiato la sconfitta e in parte a causa di alcuni ostacoli istituzionali, il presidente Luiz Inácio Lula da Silva ha incontrato maggiori difficoltà del previsto nel mandare avanti la sua agenda economica e sociale in un Parlamento ribelle e spaccato. L’impasse non farà che rafforzare le tentazioni autoritarie dei militari e dell’estrema destra.

   A causa di un quadro istituzionale abbastanza eccezionale (al presidente è consentito un solo mandato di quattro anni), il capo di Stato cileno, Gabriel Boric, sta diventando un’anatra zoppa. Di recente la sua attività di governo è stata funestata da sconfitte elettorali, dal rifiuto da parte del Congresso dei suoi piani di riforma fiscale, da uno scandalo di corruzione nel ministero della Casa, dalle dimissioni di Giorgio Jackson, che era il suo più stretto collaboratore, e da una gestione degli affari esteri ondivaga ancorché improntata a sani principi. Purtroppo, il fatto che Boric venga prematuramente percepito come un’anatra zoppa lascia campo libero alla candidatura di José Antonio Kast, un esponente dell’estrema destra, che ha già perso contro Boric nel 2021 ma rimane uno dei candidati più accreditati in vista delle elezioni presidenziali del 2025. Nel frattempo, sul Cile, che è uno dei Paesi più sicuri dell’America Latina, si è abbattuta l’isterica convinzione che ci sia bisogno di un atteggiamento più law and order e di questi sentimenti beneficiano Kast e i suoi ammiratori.

   La situazione della Colombia assomiglia a quella del Cile, in quanto Gustavo Petro – un promettente presidente di centrosinistra che sembrava avere una chiara maggioranza in Parlamento e un serio programma di riforme fiscali, sanitarie, pensionistiche e del lavoro – si è improvvisamente trovato in una condizione di paralisi politica. Ha ricevuto attacchi da tutte le parti e in Parlamento non può più contare su un sostegno sufficiente.

   Per anni, i sondaggi condotti in America Latina a livello sovranazionale avevano mostrato una diminuzione nell’apprezzamento del sistema democratico da parte dei cittadini. Questo sentimento era attribuibile alle difficili condizioni economiche, alla repressione delle richieste sociali dopo la pandemia e alla presenza di grandi divisioni all’interno dei governi. Sta soprattutto ai latinoamericani controllare che non ci siano ulteriori smottamenti della democrazia nella regione, ma anche gli Stati Uniti hanno un ruolo da giocare.

   Lo hanno fatto in Brasile, dove l’Amministrazione Biden e in particolare il Dipartimento della Difesa hanno contribuito a convincere i militari brasiliani a respingere le richieste di un colpo di Stato. In Messico, invece, l’ambasciatore americano, Ken Salazar, sostiene quasi tutto ciò che López Obrador fa o proclama, comportandosi più come un rappresentante di AMLO presso il governo di Washington che non il contrario.   Per quello che riguarda invece casi chiaramente cronici, come quelli del Nicaragua, di El Salvador, del Venezuela e di Cuba, dove tutto è stato provato e nulla ha funzionato, gli Stati Uniti si comportano con ben poco entusiasmo.

   Quali che siano gli interessi che Washington ha nella regione – il controllo del traffico di droga, i flussi migratori, il petrolio – l’arretramento della democrazia in America Latina ha in tutti questi casi un effetto molto negativo. Il presidente Biden non può fermare da solo questa deriva, ma può aiutare a contenerla. Per ora, però, non sta facendo quasi niente.

(Jorge Castañeda, da LINKIESTA MAGAZINE https://www.linkiesta.it/, 3/1/2024)

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(Dettagli della carta di Laura Canali su LE ROTTE DEL NARCOTRAFFICO: Le direttrici dei traffici di droga dall’America Latina agli Stati Uniti – 2019, da LIMES https://limesonline.com/)

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QUALI SONO I PAESI DELL’AMERICA LATINA PIÙ PERICOLOSI AL MONDO?

da https://it.eseuro.com/internazionale/ 1/3/2024

   Venezuela e Haiti Secondo National Geographic, sono posizionati come i paesi dell’America Latina con il rischio più elevato per i viaggiatori nel 2024. Venezuela si trova al secondo posto, dopo l’Afghanistan, soprattutto a causa della profonda crisi economica che attraversa da più di 10 anni. Tra gli altri motivi per considerarlo pericoloso, ci sono “gli abusi dei diritti umani, la mancanza di assistenza medica di base, i fallimenti delle infrastrutture, la criminalità e il traffico di droga; sono alcuni dei fattori di rischio in un Paese che è nella morsa della crisi politica da più di un decennio.”, dice la rivista.

   Haiti dal canto suo, occupa il posto 4 sulla lista ed è dovuto alla loro “situazione di insicurezza e povertà cronica, aggravata dai disastri naturali e dalla violenza delle bande. Il primo ministro Ariel Henry ha chiesto aiuto internazionale per combattere questa situazione alla fine dello scorso anno”, si legge nella nota del National Geographic. Sia i paesi centroamericani che quelli sudamericani figurano anche nella lista dei paesi più pericolosi del mondo nel 2023.

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   Oltre al Venezuela e ad Haiti, Honduras, El Salvador e alcune aree della Colombia e del Messico, come Tamaulipas, Colima, Guerrero, Michoacán, Sinaloa e Sinaloa, presentano rischi considerevoli. Questi luoghi, segnati dalla violenza e dalla criminalità organizzata, richiedono ulteriori precauzioni da parte dei viaggiatori. (da https://it.eseuro.com/internazionale/ 1/3/2024)

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(America Centrale, mappa da https://www.mondolatino.it/)

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FLOP PER LE RIFORME A CUBA, SALE L’INFLAZIONE E CROLLA IL PESO

da ANSA, 3/3/2024

– L’isola affronta la peggiore crisi economica in sessanta anni –

   Le misure economiche introdotte dal governo di Cuba nel tentativo di contenere l’inflazione e dare slancio all’economia sempre più in crisi hanno ottenuto finora l’effetto contrario.

   Da quando il ‘pacchetto economico’ è entrato in vigore, il primo marzo, ha causato infatti un rapido e generalizzato aumento dei prezzi e il crollo della valuta nazionale, con il dollaro che passa di mano alla cifra record di 314 pesos e l’euro a 320.

   Le misure adottate dal governo comprendono l’aumento di oltre il 500% del prezzo del carburante, delle tariffe per i servizi di base – tra cui l’energia elettrica – e dei biglietti per i trasporti a lunga percorrenza. Il governo ha disposto inoltre l’eliminazione del sussidio al paniere alimentare di base.
    La riforma arriva in un momento di profonda crisi per Cuba, che affronta la peggiore recessione economica in sessant’anni, caratterizzata dalla contrazione del pil del 2% (2023), dal tasso di inflazione (a dicembre dello scorso anno) al 30% annuo e da una grave svalutazione della peso. Il risultato a Cuba è che l’88% della popolazione vive in condizione di povertà. Il salario minimo sull’isola è inferiore a 7,5 dollari, il salario medio mensile raggiunge a malapena i 15 dollari e le pensioni minime non superano i 5 dollari al mese. Redditi insufficienti rispetto al costo della vita tanto che nei giorni scorsi il governo è stato costretto per la prima volta nella storia a chiedere aiuto al Programma alimentare mondiale (Pam) dell’Onu per l’impossibilità di garantire il latte per i bambini fino a sette anni.  In precedenza le autorità avevano annunciato di avere scorte necessarie per garantire la produzione di pane solo fino alla fine del mese.
    La crisi economica, la mancanza di cibo e l’incertezza sul futuro del Paese hanno causato negli ultimi due anni il più grande esodo dall’isola dalla rivoluzione castrista del 1959.
    Tra il 2022 e il 2023 almeno 533.000 cubani – circa il 5% della popolazione – hanno lasciato l’isola per gli Stati Uniti; 37.000 hanno chiesto rifugio in Messico, e 22.000 hanno scelto l’Uruguay; oltre a quelli che si sono trasferiti illegalmente in molti Paesi dell’America latina e in Europa, soprattutto in Spagna. (da ANSA, 3/3/2024)

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(MAPPA AMERICA LATINA, ripresa da https://iari.site/) – Con l’espressione America Latina si intende comunemente la parte dell’America composta dagli Stati che furono colonizzati da nazioni  quali Spagna, Portogallo e Francia, in cui si parlano per eredità culturale lingue neolatine, quali lo spagnolo, il portoghese e il francese. L’America Latina così definita comprende dunque il Messico, il Centroamerica e il Sudamerica. (da Wikipedia)

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SULL’ORLO DEL BARATRO: L’AMERICA LATINA TRA GUERRA, RESISTENZE ED ESTALLIDOS

di Christian Peverieri, da https://www.globalproject.info/it/, 1/2/2024

– «Con la crisi si amministra la paura e con la paura, come sappiamo dai tempi di Machiavelli, si esercita il potere». –

   In tutto il mondo la guerra è sempre più l’elemento costitutivo di questa nuova fase di riassestamento del capitalismo. Dall’Ucraina a Gaza a tutte le altre guerre dimenticate o “normalizzate”, la popolazione mondiale si sta assuefacendo a uno stato emergenziale – di crisi e di guerra permanente -dove le vittime civili perdono anche la doverosa compassione umana diventando freddi numeri statistici a cui nessuno sembra farci più caso. Anche in America Latina lo status di guerra ha invaso la vita pubblica pur con modalità differenti e meno plateali delle guerre sopra citate, ma mantenendo uguali gli effetti devastanti sulla popolazione e i territori e i benefici sempre più eccezionali per il capitalismo.

   A differenza del mondo occidentale dove quasi sempre lo status di guerra è accompagnato dalla retorica dello scontro di civiltà o di difesa dello Stato-Nazione, in America Latina il nemico è interno.

   Nemico interno che il più delle volte è quella stessa criminalità organizzata a cui lo Stato ha regalato potere e impunità attraverso la “dichiarazione di guerra”, l’emanazione di politiche economiche neoliberiste che producono impoverimento e miseria tra la popolazione e la repressione delle forme di resistenza e autonomia presenti in tutto il continente. Nemico interno è però anche quella parte significativa della popolazione emarginata, impoverita, vulnerabile, soggettività e minoranze che chiedono e lottano per i diritti e per la difesa dei territori e che smascherano le disuguaglianze crescenti e le enormi contraddizioni del capitalismo e dei suoi alfieri.

   A complicare il quadro lo scontro tra la Cina e gli Stati Uniti per il controllo politico ed economico della regione e la crisi irreversibile delle democrazie, travolte da corruzione e collusione e dove la sottile linea che separa lo Stato o le multinazionali dalle organizzazioni criminali diventa sempre più invisibile al punto da non scorgere più la differenza tra le attività legali e quelle illegali.

IL CASO ECUADOR: LA GUERRA “INVENTATA”.

Il 2024 si è aperto con l’acuirsi della crisi sociale e politica in Ecuador. L’ondata di violenza che Continua a leggere

INDONESIA, terzo paese popoloso al mondo, con un passato dittatoriale, ha votato come presidente PRABOWO SUBIANTO ex comandante delle forze speciali con il dittatore Suharto: primo segnale di un 2024 difficile nelle tante elezioni nel mondo? – Indonesia, la cui capitale JAKARTA sprofonda inghiottita dal mare (e nascerà NUSANTARA)

(PRABOWO SUBIANTO, nuovo probabile presidente dell’Indonesia, e il suo giovane vicepresidente Gibran Rakabuming Raka, figlio del finora presidente Joko Widodo, foto da https://www.ilsole24ore.com/)
 
L’attuale ministro della difesa Prabowo Subianto, un ex generale ai tempi della dittatura, si è proclamato il 14 febbraio vincitore delle elezioni presidenziali già al primo turno, dopo che le prime proiezioni lo davano in netto vantaggio.
“È la vittoria di tutti gli indonesiani”, ha affermato l’ex generale nel corso di un discorso pronunciato a Jakarta in presenza del candidato vicepresidente Gibran Rakabuming Raka, figlio maggiore dell’attuale presidente Joko Widodo.
Secondo le prime proiezioni, Subianto, il grande favorito della vigilia, ha ottenuto più del 55 per cento dei voti, precedendo Anies Baswedan, ex governatore di Jakarta, e Ganjar Pranowo, ex governatore della provincia di Java Centrale. (dalla rivista INTERNAZIONALE, 14/2/2024)

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INDONESIA: senza rivali PRABOWO SUBIANTO, ex sodale del dittatore Suharto

di Samuele Finetti, da “il Corriere della Sera” del 14/2/2024

   Ha perso la prima volta. Ha perso la seconda. La terza (a men colpi di scena) sarà quella buona. Perché JOKOWI WIDODO, che lo ha sconfitto nel 2014 e nel 2019, non poteva candidarsi e, per di più, sta dalla sua parte. Così l’ascesa di Prabowo Subianto alla presidenza dell’Indonesia sembra non avere ostacoli.

   E per questo enorme Paese (è la terza democrazia al mondo: 280 milioni di abitanti quasi tutti musulmani, la metà ha meno di 30 anni) può essere un ritorno al passato. Perché se WIDODO è un ex commerciante di mobili cresciuto in una baracca, il 72enne Subianco è il rampollo di una delle più importanti famiglie dell’Indonesia autoritaria che SUHARTO guidò per 32 anni (dal 1966 al 1998): fu a lungo il capo delle forze speciali dell’esercito e sposò una delle figlie del dittatore.

   Sperava di diventare presidente già nel 1998, quando il regime giunse al capolinea, ma non ebbe fortuna. Forse perché quel regime lo aveva difeso fino alla fine, mandando i suoi soldati a zittire con la violenza le proteste in piazza: lui stesso ha ammesso di aver fatto rapire decine di studenti, poi scomparsi nel nulla. Perciò si inflisse un lungo esilio volontario in Giordania, prima di ritornare in patria per provarci di nuovo.

   Finora gli è sempre andata male. L’ultima volta cinque anni fa, quando arrivò a contestare davanti alla Corte Costituzionale la vittoria di Widodo, salvo poi diventarne ministro della Difesa. Proprio il legame nato allora con il presidente, che non può correre per un terzo mandato, ne ha fatto il grande favorito. Widodo gode di un consenso senza pari nel mondo democratico, oltre l’80 per cento; e se è vero che non ha mai sostenuto esplicitamente Subianto, ha spinto suo figlio Gibran Rakabuming ad affiancarlo nel ticket come vice presidente. Gibran non avrebbe potuto candidarsi perché troppo giovane, ma la Corte, guidata dal cognato di Widodo, ha annullato il divieto in extremis.

   Nell’elezione di Subianto molti vedono lo spettro degli anni della dittatura. In campagna elettorale l’ex militare ha abbandonato i toni nazionalistici adottati in passato, presentandosi come un “nonno dalla faccia da bimbo” pronto a servire il Paese. Ma non ha risparmiato le critiche alle istituzioni, affermando di voler ripristinare la Costituzione del 1945, che non contemplava l’elezione diretta del presidente. Un suo sostenitore ha persino condiviso sui social un video con un falso Suharto (ricreato con l’IA) che invita di stare dalla parte di Subianto.

   Ma gran parte di chi è andato a votare pare non farci troppo caso. Del resto, metà di loro è cresciuto nell’Indonesia del nuovo secolo, senza avere idea di cosa fosse quella di Suharto e del suo clan.

(Samuele Finetti, da “il Corriere della Sera” del 14/2/2024)

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(INDONESIA, nell’immagine tutta la parte bianca dei territori segnati, mappa da https://it.wikipedia.org/) – “(…) L’Indonesia è uno stato che sulla carta si può in gran parte sovrapporre ai confini del sud-est asiatico marittimo. E’ il più grande stato arcipelagico del mondo, comprende oltre 17mila isole tra l’Oceano Indiano e il Pacifico per oltre 5000 chilometri, poco meno della distanza tra Roma e Delhi. (…)” (Massimo Morello, da https://www.ilfoglio.it/)

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(Più di 205 milioni di elettori nelle 17.000 isole e nei tre fusi orari dell’Indonesia hanno potuto votare nelle elezioni di un giorno più grandi e complesse del mondo, foto da https://bbc.com/)

LE ELEZIONI IN INDONESIA DEL 14 FEBBRAIO

di Massimo Morello, da https://www.ilfoglio.it/, 14/2/2024

– Oltre 200 milioni di elettori sono andati alle urne per eleggere il presidente, il vicepresidente e i loro rappresentanti a ogni livello politico e amministrativo di quello che è il quarto paese al mondo per popolazione, il più grande stato arcipelago del mondo –

   NUSANTARA è un termine sanscrito poi Malay che rappresenta un grande regno marino. Un regno esistito solo in una geografia che raggruppava coste e isole unite dai traffici, dalle rotte dei mercanti, dai porti, dalle tradizioni marittime. E’ stato anche definito il “Sud-est asiatico marittimo”. Nusantara è il nome della futura capitale indonesiana. Un’immensa cattedrale sorta deforestando un’immensa parte del Kalimantan, il Borneo Indonesiano. Nusantara dovrebbe essere ufficialmente inaugurata il 17 agosto di quest’anno, in coincidenza del giorno della proclamazione dell’indipendenza nel 1945 (dal dominio coloniale degli Olandesi, NDR).

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   L’Indonesia, dunque, è uno stato che sulla carta si può in gran parte sovrapporre ai confini del sud-est asiatico marittimo. E’ il più grande stato arcipelagico del mondo, comprende oltre 17mila isole tra l’Oceano Indiano e il Pacifico per oltre 5000 chilometri, poco meno della distanza tra Roma e Delhi. Geopoliticamente controlla i più critici chokepoint (“choke points”: colli di bottiglia, passaggi di mare stretti e obbligati in cui le navi devono passare per potersi spostare tra mari e oceani diversi; chi li controlla, controlla il commercio globale, NDR) tra i due oceani, dallo stretto di Malacca, a quello di Torres, delimita le linee strategiche di un’ipotetica guerra nel Pacifico occidentale, segna il confine meridionale del Mar della Cina del Sud. L’importanza geopolitica attuale, dunque, è quasi maggiore rispetto al periodo della guerra fredda, quando i primi due presidenti governarono da dittatori col sostegno dei militari: Sukarno spostando l’Indonesia nel fronte antimperialista e comunista, Suharto in quello occidentale e anticomunista caratterizzato da un periodo di stragi di massa.

   A definire l’importanza di queste elezioni sono altre due definizioni, un po’ enfatiche, più relative che reali.   L’Indonesia, infatti è definita la terza democrazia al mondo in ordine di grandezza (dopo India e Usa) e la più grande nazione musulmana moderata. L’elezione del 14, dunque, viene considerata un test dell’integrità di queste definizioni. Quindi, sempre in termini di relativismo, del conseguente effetto contagio sulle altre nazioni dell’Asean (ASEAN: Association of Southeast Asian Nations. L’Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico, fondata nel 1967 e composta da dieci Stati membri, è la più importante organizzazione intergovernativa del Sud-Est asiatico, NDR)

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   Se il finora presidente Jokowi Widodo, più conosciuto come Jokowi, avesse potuto ricandidarsi, molto probabilmente sarebbe stato rieletto, forte di un consenso popolare del 75 per cento. La maggioranza degli indonesiani ha apprezzato la sua politica economica, che sembrava coniugare crescita economica (stabile al 5 per cento annuo circa), sviluppo delle infrastrutture e welfare. Ma poiché non è stato possibile un terzo mandato, Jokowi ha adottato una politica sempre più diffusa in sud-est asiatico, in Thailandia come nelle Filippine: quella dinastica. Ha candidato alla carica di vicepresidente suo figlio Gibran Rakabuming Raka, 36 anni. Alla carica di presidente, in questa “macchinazione machiavellica”, è candidato Prabowo Subianto, ex acerrimo rivale di Jokowi, che lo ha sconfitto nelle due precedenti elezioni, ora convertito a suo ammiratore numero uno.

   Secondo Andreas Harsono di Human Rights Watch in Indonesia, questo rappresenta “il maggior rischio per la democrazia dai tempi di Suharto”, il dittatore che ha governato dal 1965 al ’98. Prabowo, infatti, è un ex generale nonché genero di Suharto, noto per le sue attività di repressione degli indipendentisti a Timor Est e a Papua e per il suo scarso rispetto dei diritti umani.   

   La possibilità di un ritorno all’autocrazia dinastica non sembra disturbare troppo gli indonesiani (…..).

   Non si sa se l’Indonesia abbia assimilato le virtù della democrazia. Sicuramente sembra averne preso molti dei vizi. (Massimo Morello, da “IL FOGLIO”)

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(SUD-EST ASIATICO, mappa da https://pt.wikivoyage.org/)

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(L’importanza dello Stretto di Malacca tra Indonesia e Malesia, mappa da https://it.wikipedia.org/) – L’Indonesia

L’Indonesia “(…) geopoliticamente controlla i più critici chokepoint (“choke points”: colli di bottiglia, passaggi di mare stretti e obbligati in cui le navi devono passare per potersi spostare tra mari e oceani diversi; chi li controlla, controlla il commercio globale, NDR) tra i due oceani, dallo Stretto di Malacca, a quello di Torres, delimita le linee strategiche di un’ipotetica guerra nel Pacifico occidentale, segna il confine meridionale del Mar della Cina del Sud. (…)” (Massimo Morello, da https://www.ilfoglio.it/)

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PRABOWO SUBIANTO SULLA BUONA STRADA PER VINCERE LA CORSA PRESIDENZIALE IN INDONESIA – PRIMI RISULTATI

di Simon Fraser e Jonathan Head, da https://www.bbc.com/, 14/2/2024

Londra e Jakarta

   Il ministro della Difesa indonesiano Prabowo Subianto è sulla buona strada per diventare il prossimo presidente del paese dopo che i primi risultati hanno mostrato che ha avuto più della metà dei voti espressi al primo turno. “Questa vittoria è una vittoria per tutti gli indonesiani”, ha detto ai sostenitori esultanti, poche ore dopo la chiusura dei seggi.

   I primi sondaggi hanno mostrato che il temuto ex generale ha ottenuto oltre il 57% dei voti, evitando il ballottaggio. I risultati completi del più grande voto di un solo giorno del mondo non sono attesi per settimane. Ma i campioni elettorali approvati dallo stato indonesiano – i cosiddetti “conteggi rapidi” eseguiti entro poche ore dal voto – sono stati relativamente accurati negli anni precedenti.

   Prabowo, 72 anni, è una figura polarizzante la cui popolarità ha suscitato timori che l’Indonesia rischi di scivolare di nuovo verso il suo passato autoritario. Ex comandante delle forze speciali sotto il dittatore generale Suharto, e suo genero, è stato perseguitato da accuse di violazioni dei diritti umani.

   È stato accolto da una folla di sostenitori festanti in un’arena al coperto a Jakarta poco dopo la chiusura dei seggi e ha avvertito i sostenitori esultanti di non essere arroganti. “Anche se dobbiamo essere grati, non dobbiamo essere arroganti, non euforici, rimanere umili; questa vittoria deve essere una vittoria per tutto il popolo indonesiano“, ha detto Prabowo, che guida la Coalizione Indonesia avanzata. Ha anche menzionato i nomi degli ex presidenti, inclusa una nota di gratitudine al presidente uscente Joko Widodo, di cui ha promesso di portare avanti le politiche.

   Questo è il terzo tentativo elettorale che fa: si è candidato nelle ultime due elezioni senza successo contro Widodo, che rimane molto popolare. Tuttavia, l’uomo noto come “Jokowi” deve ora dimettersi dopo due mandati di cinque anni.

   Molti elettori si sono detti delusi dalle loro opzioni di voto. “La difficoltà di queste elezioni è che nessuna delle scelte è chiara sui programmi, quindi la sfida per noi elettori è quella di scegliere l’opzione meno peggiore“, ha detto alla BBC un uomo d’affari nel centro di Giacarta. Ma un altro elettore, che attualmente vive in Germania, ha detto che “l’Indonesia ha davvero bisogno di una figura forte“, sostenendo l’idea che l’ex generale ottenga la carica. “Prabowo potrebbe essere un buon presidente“, ha detto.

   Più di 205 milioni di elettori nelle 17.000 isole e nei tre fusi orari dell’Indonesia hanno potuto votare nelle elezioni di un giorno più grandi e complesse del mondo.

Prabowo ha affrontato due ex governatori provinciali, Ganjar Pranowo e Anies Baswedan. In tarda serata, ora locale, i conteggi rapidi li hanno mostrati molto indietro rispetto a lui, rispettivamente con il 17% e il 25%.

Prabowo Subianto ha condotto una campagna sui social media intelligente e ottimista che ha completamente rimodellato la sua immagine, da soldato dalla parlantina dura, a quella di un anziano statista avuncolare, un po’ comico.

   Si è dimostrato molto efficace, in particolare tra i giovani indonesiani che hanno poca conoscenza del controverso passato di Prabowo. Come membro e poi comandante delle forze speciali d’élite indonesiane è stato accusato di gravi violazioni dei diritti umani durante l’occupazione di Timor Est e di aver ordinato il rapimento e la tortura di attivisti studenteschi negli ultimi giorni del regime di Suharto negli anni ’90.

   Nega le accuse e non è stato condannato per nulla. È stato aiutato nelle elezioni dal sostegno di Widodo, che è stato criticato quando suo figlio maggiore, Gibran Rakabuming Raka, si è unito a Prabowo come compagno di corsa. Ci sono stati applausi da parte dei tifosi quando la coppia è entrata nell’arena mercoledì sera. Prabowo ha ricordato loro che devono ancora attendere i risultati ufficiali della commissione elettorale.

   Ma ha detto alla folla festante: “Siamo grati per i rapidi risultati del conteggio. Tutti i calcoli, tutti i sondaggisti, compresi quelli dalla parte dei nostri rivali, hanno mostrato una vittoria di Prabowo-Gibran in un solo turno”.

   Data l’entità del vantaggio iniziale di Prabowo, ci sono stati pochi segnali di ottimismo da parte dei suoi avversari. Anies Baswedan, il suo sfidante più vicino, ha detto che ha intenzione di continuare il suo movimento per il cambiamento e ha sottolineato che il conteggio dei voti non è finito. “Aspetteremo il risultato ufficiale e lo rispetteremo”, ha detto ai giornalisti il leader della Coalizione per il cambiamento per l’unità (KPP) ed ex governatore di Jakarta nel quartier generale della sua campagna.

   Ganjar Pranowo, il cui Partito Democratico Indonesiano di Lotta (PDI-P) ha sostenuto le corse elettorali di Widodo, era stato indicato come suo successore fin dall’inizio, prima che quest’ultimo prendesse le distanze dalla campagna del suo partito. Ganjar non si vedeva da nessuna parte quando la BBC Indonesian ha visitato il suo quartier generale nel centro di Jakarta. “Ganjar se n’è andato, dicendo solo che voleva tornare a casa. Non so dove sia”, ha detto un giornalista.

   Anche dopo 10 anni al potere, il presidente uscente Widodo ha un alto indice di gradimento nella più grande economia del sud-est asiatico, grazie al suo stile di leadership informale e ai suoi progetti infrastrutturali. Ma è stato accusato di aver indebolito le istituzioni democratiche indonesiane e aver abusato del suo potere nella sua alleanza con Prabowo.

   Per molti indonesiani, la vittoria di Prabowo segna una nuova e preoccupante direzione per la loro giovane democrazia.

(Simon Fraser e Jonathan Head, da https://www.bbc.com/, 14/2/2024)

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(Un muro costiero a Giacarta, foto ripresa da https://www.wired.it/) – “(…) Diversi studi hanno concluso che il nord di Giacarta è il settore della città più colpito, in conseguenza della sua vicinanza al Mar di Giava. Gli esperti dicono che quest’area sprofonda fino a 25 centimetri ogni anno. In questo settore della città, gli abitanti devono la loro sopravvivenza unicamente a un muro alto cinque metri che si snoda lungo la costa, l’unico muro che protegge la città dall’oceano. (…)” (Christian Garavaglia –Meteored Argentina-, da https://www.ilmeteo.net/, 5/8/2023)

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(La città di Giacarta è al 40 per cento sotto il livello del mare; un dato che potrebbe salire al 95 per cento entro il 2050. Foto dal sito https://www.ilmeteo.net/)

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PERCHÉ LE ELEZIONI IN INDONESIA POSSONO SPOSTARE GLI EQUILIBRI IN ASIA

di Lorenzo Lamperti, 14/2/2024, da https://www.wired.it/

– Principale economia della regione, attrae l’interesse di Cina e Stati Uniti per le sue grandi riserve di nichel. Ma il favorito è un generale accusato di crimini di guerra –

   Nell’anno più elettorale di sempre, dopo Taiwan e prima dell’India, si è votato anche in un altro cruciale snodo degli equilibri asiatici: l’Indonesia. (…..)

   Il voto è osservato con attenzione da Cina e Stati Uniti, anche per la rilevanza economica dell’Indonesia, che possiede immense riserve di nichel. Si tratta di una risorsa fondamentale per lo sviluppo dei veicoli di nuova generazione. Ma l’esito delle elezioni darà indicazioni rilevanti anche sullo scacchiere internazionale, visto il ruolo sempre più rilevante che Giacarta ricopre all’interno del cosiddetto “Sud globale”, di cui si definisce portavoce in seno al G20. Ma le ragioni per cui il voto è importante sono diverse.

I NUMERI

L’Indonesia è il quarto Paese più popoloso al mondo ed è la più grande democrazia con maggioranza musulmana. Anche i numeri riflettono bene questi elementi: sono 204,8 milioni gli indonesiani che hanno diritto al voto, con età minima fissata a 17 anni. Nella sola isola di Giava, dove si trova la capitale Jakarta, è di 115,4 milioni il numero di elettori registrati. Oltre alla presidenza, sono in palio ben 20.616 posti tra parlamento nazionale e consigli provinciali. In corsa ci sono addirittura 258.602 candidati per le varie posizioni.

   I seggi per la Camera bassa del parlamento sono 580, con 18 partiti che si battono per le elezioni legislative. Tra i candidati ci sono anche degli “impresentabili”, visto che sono almeno 56 quelli con varie condanne per frode. Il candidato alla presidenza Prabowo Subianto, al terzo tentativo, è stato in passato addirittura accusato di crimini contro l’umanità. L’attenzione degli indonesiani per queste elezioni sembra alta. I quattro dibattiti televisivi tra i candidati alla presidenza sono stati seguiti in media da 94 milioni di telespettatori. Gli ultimi comizi di sabato 10 febbraio sono stati seguiti da centinaia di migliaia di elettori. Da domenica è iniziato il periodo di silenzio elettorale, anche se gli ultimi sondaggi davano Prabowo in vantaggio su tutti i rivali. I seggi resteranno aperti per sei ore e già nella serata di mercoledì si dovrebbero avere i primi risultati.

   Per vincere al primo turno, Prabowo deve superare il 50% dei voti. Qualora si fermasse al di sotto, sarebbe necessario un ballottaggio tra i primi due qualificati, da svolgere il 26 giugno. In ogni caso, il nuovo presidente entrerà in carica il prossimo 20 ottobre. Prima di allora, Widodo vorrebbe lasciare in eredità lo spostamento della capitale dalla congestionata Jakarta a Nusantara, nel Borneo.

IL FAVORITO

Sarebbe sembrato impossibile fino a qualche anno fa, eppure è successo. Widodo ha deciso prima di “normalizzare” il suo più grande oppositore, Prabowo Subianto, nominandolo ministro della Difesa nel suo secondo mandato. E poi ha incredibilmente deciso di appoggiarne la candidatura alla sua successione, dando addirittura il via libera al ticket con suo figlio per la vicepresidenza. La storia di Prabowo è tutt’altro che priva di ombre. Congedato dalle forze armate per presunte violazioni dei diritti umani, esiliato in Giordania e in passato bandito dagli Stati Uniti, l’ex comandante delle forze speciali ha provato a operare una ambigua trasformazione da quando è stato nominato ministro della Difesa nel 2019.

Proveniente da una famiglia indonesiana d’élite e un tempo genero del presidente dittatore Suharto, Prabowo è accusato di essere coinvolto nel rapimento di studenti attivisti nel 1998 e in violazioni dei diritti umani in Papua e a Timor Est. Prabowo ha sempre negato ogni responsabilità e i sondaggi suggeriscono che il suo rebranding sta funzionando. Lui si è gettato sui social media, cercando di attrarre voti dai giovani, il segmento di popolazione più corteggiato dai vari candidati, visto che più della metà degli elettori indonesiani ha meno di 40 anni.

   I suoi 9 milioni di follower su Instagram possono vedere immagini del suo lavoro quotidiano, dei suoi gatti, ma anche ritratti artistici in bianco e nero e fotografie di famiglia d’epoca. Su TikTok si è anche cimentato in passi di danza goffi, ma efficaci. Nella campagna Prabowo ha provato a mostrarsi più moderato e più morbido, per far dimenticare il suo passato che peraltro buona parte dell’elettorato più giovane nemmeno conosce. Nelle precedenti tornate elettorali era invece emerso con maggiore chiarezza il suo volto nazionalista e filo islamista.

   Altamente strategica la scelta del figlio di Widodo, Gibran Rakabuming Raka, come suo vice. Gibran ha solo 36 anni e teoricamente non avrebbe potuto candidarsi secondo la legge indonesiana. A pochi mesi dal voto, però, la Corte suprema ha rimosso il vincolo dei 40 anni per candidarsi a presidenza e vicepresidenza. Una decisione contestata e a dir poco controversa che spiana la strada al nuovo rampollo della dinastia Widodo.

GLI SFIDANTI

I principali rivali di Prabowo sono due. Il primo è Ganjar Pranowo, un nome molto diverso per la sua estraneità all’establishment politico e militare. Sulla carta sembrava proprio lui l’erede designato di Widodo, con cui condivide le origine umili e l’etichettò di “uomo del popolo”. Figlio di un poliziotto e cresciuto nel negozietto gestito dalla famiglia, Ganjar si è trovato però orfano del sostegno del presidente uscente, elemento che gli complica non poco i piani visto che la sua visione politica è in molti punti affine a quella di Widodo.

   Apprezzato durante i due mandati da governatore di Giava centrale, si è impegnato a creare 17 milioni di nuovi posti di lavoro, a espandere l’assistenza sociale e ad aumentare l’accesso all’istruzione superiore per i poveri. Già in passato ha costruito il suo consenso proprio grazie a politiche che hanno ridotto i tassi di interesse sui micro-prestiti. Ha inoltre aiutato gli agricoltori ad acquistare fertilizzanti e imposto ai dipendenti pubblici di devolvere il 2,5% del loro stipendio mensile a sostegno di programmi sanitari, educativi e di soccorso in caso di disastri.

   Il terzo incomodo, in realtà con indici di gradimento molto vicini a quelli di Ganjar, si chiama Anies Baswedan. Si tratta di un esponente dell’élite intellettuale indonesiana. Ex studioso Fulbright e docente universitario, aveva già cercato la candidatura presidenziale nel 2013 con il Partito democratico, fallendo. Anche lui è poi diventato un collaboratore di Widodo, scrivendone addirittura i discorsi, per poi essere nominato ministro dell’Istruzione e governatore della capitale Jakarta.

   Proprio la sua eloquenza e chiarezza espositiva gli hanno consentito di vincere i dibattiti televisivi contro i rivali, aumentando le sue quotazioni nonostante si presenti come candidato indipendente. La sua campagna ha un afflato idealistico, visto che Anies promette non solo una crescita equa tra le varie classi sociali e generazioni, ma anche la protezione della democrazia del Paese. Non a caso la sua linea è molto ostile a quella di Prabowo, presentato come una minaccia ai valori democratici. Ma qualche polemica c’è stata anche su di lui, per aver accettato l’appoggio di alcuni gruppi islamisti integralisti quando era governatore di Jakarta, ruolo in cui comunque è stato elogiato per la gestione del Covid-19. Come i rivali, sta cercando di conquistare il voto dei giovani. Nel suo caso, facendo live streaming dalla sua auto e imitando i cantanti più celebri del K-Pop, genere musicale amatissimo in Indonesia.

I TEMI

Secondo un sondaggio di settembre di Indikator Politik Indonesia, il 31% degli intervistati ha indicato il mantenimento dei prezzi dei beni di prima necessità come la questione più urgente per il prossimo presidente. Creare posti di lavoro e ridurre la disoccupazione è stato il secondo problema più citato, con gli elettori più giovani particolarmente preoccupati per la sicurezza del lavoro. I dati governativi mostrano che il tasso di disoccupazione del Paese è sceso al 5,3% lo scorso agosto rispetto al recente picco del 2020. Tuttavia, la disoccupazione tra i lavoratori più giovani è stata relativamente alta, con un 17% per i giovani tra i 20 e i 24 anni nel 2022.

   Di fronte l’Indonesia ha ancora poco più di 15 anni di vantaggi strategici, utili a massimizzare i benefici economici. Dopo il picco tra il 2030 e il 2040, la curva demografica dovrebbe iniziare a invertirsi, avviando il calo come già altrove in Asia orientale. Da allora, sarà più difficile per l’Indonesia evitare la trappola del reddito medio e impedire che la crescita economica pro capite si arresti. Ecco uno degli altri motivi per i quali queste elezioni ono percepire come particolarmente importanti.

   Il decennio di Widodo è comunque generalmente visto come un periodo di stabilità e prosperità. Non sorprende che i candidati si siano impegnati a portare avanti la maggior parte delle sue iniziative. Tra queste, lo sviluppo dell’attività mineraria a valle per estrarre valore dalle abbondanti risorse naturali, la riduzione dell’energia prodotta dal carbone e il potenziamento delle energie rinnovabili, l’espansione del benessere sociale e la realizzazione di una nuova capitale da 32 miliardi di dollari. Sebbene i candidati abbiano sciorinato obiettivi ambiziosi di crescita fino al 7% (che gli economisti indicano come necessaria per assorbire la sua popolazione sul mercato del lavoro) e di creazione di milioni di posti di lavoro, le loro promesse elettorali sono ampiamente prive di dettagli specifici.

   Le elezioni in Indonesia daranno anche un interessante riscontro sullo stato dei diritti in Asia e in generale sulla percezione di questi temi tra gli elettori. Non sembra così strano che tanti elettori giovani sembrano apprezzare Prabowo: semplicemente non si ricordano o non “sentono” il suo controverso passato. Così come nelle Filippine gli elettori non hanno ricordato o sentito il passato di Ferdinand Marcos Junior, consegnando nel 2022 la presidenza al figlio del celebre dittatore. Per le elezioni presidenziali di Taiwan del 2028 circola già tra le opzioni quella di Chiang Wan-an, pronipote di Chiang Kai-shek.

IL NICHEL

Quando Widodo ha assunto la presidenza dell’Indonesia nel 2014, le esportazioni di nichel, il minerale fondamentale per le batterie dei veicoli elettrici, ammontavano ad appena 1 miliardo di dollari. Un decennio dopo, quella cifra è salita a 30 miliardi di dollari: è solo uno dei settori trasformati sotto il suo mandato dal boom della domanda di energia di nuova generazione. Un pacchetto di riforme approvato lo scorso anno ha peraltro alleggerito le restrizioni sugli investimenti stranieri. Esortando le aziende a lavorare il nichel a livello nazionale, Widodo ha sostenuto lo sviluppo di un’industria responsabile della metà della produzione mondiale.

   Il divieto di esportazione del minerale di nichel e della bauxite, un componente dell’alluminio, ha costretto le aziende straniere a spostare la lavorazione a terra, investendo miliardi di dollari in fonderie e impianti di produzione di batterie. La corsa al nichel ha innescato un boom nei mercati dei capitali indonesiani. Secondo la società di consulenza EY, l’anno scorso le quotazioni di produttori di nichel come Harita Nickel e Merdeka Battery hanno reso la borsa di Jakarta una delle prime cinque al mondo per volume di offerte pubbliche iniziali.

   Gli investimenti diretti esteri nell’industria mineraria e dei metalli di base hanno raggiunto i 16 miliardi di dollari nel 2022, in gran parte provenienti da aziende cinesi che dominano l’industria del nichel in Indonesia, mentre gli investimenti diretti esteri totali hanno raggiunto i 45,6 miliardi di dollari, un record. Proprio a inizio febbraio, il principale produttore cinese di auto elettriche Byd ha annunciato un investimento di 1,3 miliardi di dollari per costruire una fabbrica di veicoli elettrici in Indonesia con una capacità di 150.000 veicoli. Negli ultimi mesi, però, il flusso di investimenti ha subito un rallentamento in attesa di avere delle indicazioni sulle politiche della nuova amministrazione.
   Prabowo garantisce che proseguirà le politiche del suo ex rivale. E così fanno anche Ganjar e Anies, in particolare quando si parla di nichel e apertura agli investimenti internazionali. Anche gli Stati Uniti stanno cercando di recuperare il terreno perduto e mirano a un accordo strategico sul nichel, frenato però dalle divergenze geopolitiche, nonostante la visita alla Casa Bianca di Widodo dello scorso novembre.

LO SCACCHIERE INTERNAZIONALE

Il voto è osservato con grande attenzione anche da Cina e Stati Uniti. Con la sua politica estera non allineata, l’Indonesia è sempre un ottimo barometro per capire gli equilibri del Sud-Est asiatico. Un contesto in cui le relazioni della Cina con le Filippine sono sempre più tese, così come presentano dei problemi quelle col Vietnam. Con Jakarta, invece, il clima pare idilliaco soprattutto sul fronte commerciale. Durante i due mandati di Widodo c’è stato un aumento di oltre otto volte degli investimenti esteri cinesi.

   Lo scorso 2 ottobre, dieci anni esatti dopo il lancio della Nuova Via della Seta marittima con un discorso di Xi Jinping proprio da Jakarta, Widodo ha presenziato al lancio della nuova linea ferroviaria Giacarta-Bandung. Si tratta di uno dei progetti infrastrutturali di punta della Nuova Via della Seta. Vale a dire che è stato realizzato in larga parte con fondi cinesi. Il treno proiettile collega la capitale Giacarta all’importante centro industriale e turistico di Bandung. Velocità massima di 350 chilometri orari per una tratta lunga 142 chilometri. Lungo il percorso, sono in fase di sviluppo nuove aree commerciali. In futuro, potrebbe essere realizzato anche un prolungamento.

   In molti ritengono che una vittoria di Prabowo porterebbe l’Indonesia ancora più vicina alla Cina. Gli altri candidati alle presidenziali hanno segnalato una maggiore diffidenza nei confronti della dipendenza del Paese dalla Cina, ma secondo gli analisti è improbabile che la politica estera cambi molto a prescindere da chi vincerà. Con Prabowo, inoltre, la distanza con l’occidente su alcuni temi chiave potrebbe aumentare. Sul Medio Oriente, la posizione dell’Indonesia è già nettamente schierata contro Israele, con cui il Paese non ha nemmeno relazioni diplomatiche ufficiali.

   Widodo ha però evitato di farsi percepire come vicino alla Russia di Vladimir Putin dopo la guerra in Ucraina. Prabowo ha invece suscitato qualche perplessità lo scorso giugno, quando al forum di difesa Shangri-La di Singapore ha proposto una pace alla coreana: cessate il fuoco immediato, zona demilitarizzata di 15 chilometri da entrambi i lati con invio di forze di peacekeeping delle Nazioni Unite. E infine il punto più controverso e che più fa arrabbiare Kyiv e l’occidente: un referendum nei territori che definisce “contesi” per stabilire da che parte dovranno stare.

(Lorenzo Lamperti, 14/2/2024, da https://www.wired.it/)

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(NUSANTRA, la nuova capitale dell’INDONESIA in costruzione; foto da https://www.ilmeteo.net/) – “(…) I lavori di ‘Nusantara’ sono già iniziatiSecondo quanto riportato da El País, i lavori si stanno svolgendo in mezzo alla giungla, precisamente nella giungla del Kalimantan nel Borneo, isola che l’Indonesia condivide con Malaysia e Brunei. Se i progressi saranno mantenuti a un buon ritmo, la prima fase di costruzione potrebbe essere inaugurata entro la fine del 2024, quando terminerà il mandato del presidente.   La superficie della nuova capitale è di 2.600 chilometri quadrati, un’area simile a quella di Tokyo e quattro volte più grande di quella di Madrid. Secondo le previsioni del governo, ‘Nusantara’ sarà una città futuristica e rispettosa dell’ambiente, che vuole essere pioniera nello sviluppo dell’energia verde. (…)” (Christian Garavaglia (Meteored Argentina), da https://www.ilmeteo.net/ 5/8/2023)

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(da JAKARTA a NUSANTARA, mappa da https://www.geopop.it/) “(…) NUSANTARA è un termine sanscrito poi Malay che rappresenta un grande regno marino. Un regno esistito solo in una geografia che raggruppava coste e isole unite dai traffici, dalle rotte dei mercanti, dai porti, dalle tradizioni marittime. E’ stato anche definito il “Sud-est asiatico marittimo”. Nusantara è il nome della futura capitale indonesiana. Un’immensa cattedrale sorta deforestando un’immensa parte del Kalimantan, il Borneo Indonesiano. Nusantara dovrebbe essere ufficialmente inaugurata il 17 agosto di quest’anno, in coincidenza del giorno della proclamazione dell’indipendenza nel 1945 (dal dominio coloniale degli Olandesi, NDR). (…)” (Massimo Morello, da https://www.ilfoglio.it/)

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GIACARTA SPROFONDA DI 7,5 CENTIMETRI L’ANNO: L’INDONESIA SI PREPARA A SPOSTARE LA CAPITALE NELL’ISOLA DEL BORNEO

di Christian Garavaglia (Meteored Argentina), da https://www.ilmeteo.net/ 5/8/2023

– La città di Giacarta è al 40% sotto il livello del mare, un dato che potrebbe salire al 95% entro il 2050. I lavori di ‘Nusantara’ sono già iniziati, e la polemica è latente –

   Il parlamento indonesiano ha approvato un disegno di legge per spostare la capitale dalla città di Giacarta in una città completamente nuova da costruire nell’isola del Borneo, a 1.300 chilometri dall’attuale capitale.

   La decisione, Continua a leggere

AGRICOLTORI EUROPEI IN SOFFERENZA – Ma è una protesta condivisibile? …visti gli aiuti UE, e la assai scarsa propensione alla riconversione ecologica? (agricoltura pulita e bio; e allevamenti dignitosi per gli animali)? – Poi gli aumenti dei costi agricoli, la grande distribuzione dominante sui ricavi dei prodotti, la fatica dei campi (con il cambiamento climatico), dà loro ragione

(protesta dei trattori, foto da https://www.legambiente.it/) –
L’UE RITIRA LA PROPOSTA SULLA RIDUZIONE DELL’USO PESTICIDI DOPO LE PROTESTE DEGLI AGRICOLTORI
6/2/2024 – Marcia indietro di Ursula von der Leyen nel pieno delle proteste degli agricoltori in mezza Europa: “La Commissione ha proposto il ritiro del regolamento sui pesticidi”.
La Commissione europea proporrà il ritiro della proposta di legge sulla riduzione dell’uso di pesticidi nell’Ue dopo le proteste degli agricoltori europei. L’annuncio è stato fatto dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen.
(https://www.fanpage.it/, di Annalisa Cangemi)

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Perché protestano gli agricoltori europei (tabella da ISPI https://www.ispionline.it/)

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EUROPA: LA PROTESTA DEGLI AGRICOLTORI

La protesta degli agricoltori europei arriva a Bruxelles e costringe l’Europa a ripensare alle sue politiche per la transizione ecologica

da https://www.ispionline.it/, 2/2/2024

    La protesta degli agricoltori arriva a Bruxelles e si impone al vertice straordinario dei capi di stato e di governo europei, riuniti per discutere del nuovo pacchetto di aiuti all’Ucraina. Giovedì 1° febbraio oltre 1300 trattori hanno bloccato Place de Luxembourg, mentre i manifestanti lanciavano bottiglie e uova contro la sede del Parlamento europeo, appiccando roghi e abbattendo una statua. Anche se l’agricoltura non era all’ordine del giorno, i leader europei – che nel vertice del 1° febbraio hanno finalmente superato l’impasse sul nuovo pacchetto di aiuti da Kiev – si sono ritrovati a parlare di agevolazioni fiscali sui carburanti agricoli, limitazioni ai prodotti alimentari di importazione e sostenibilità ambientale nelle colture e negli allevamenti.

   I blocchi stradali, che hanno paralizzato la capitale belga, sono stati rimossi solo dopo che i 27 avevano promesso di rivedere le norme ambientali, ridurre la burocrazia e ripensare la parte del Green Deal relativa al comparto, chiedendo ai ministri dell’Agricoltura di presentare un piano per il 26 febbraio. In Francia, dove negli ultimi giorni gli agricoltori avevano bloccato le autostrade intorno a Parigi e in tutto il paese, il primo ministro Gabriel Attal ha annunciato una serie di misure, tra cui l’impegno a riconsiderare le limitazioni sui pesticidi e un possibile divieto di importazione per frutta e verdura trattate con insetticidi vietati dalla normativa nazionale. La Francia è il principale produttore agricolo dell’Ue e il maggior beneficiario di sussidi provenienti dalla Politica Agricola Comune (Pac), pari a quasi 60 miliardi di euro annuali.  

COSA LAMENTANO GLI AGRICOLTORI?

Nel mirino degli agricoltori, ci sono le normative nazionali e quelle dell’Unione Europeain particolare la cosiddetta ‘Farm to fork’ – parte del Green Deal che mira a rendere il blocco dei 27 climaticamente neutro entro il 2050 – e che prevede, tra le altre cose, di dimezzare i pesticidi, ridurre di un quinto l’uso di fertilizzanti, aumentare i terreni ad uso non agricolo – ad esempio lasciandolo a riposo o piantando alberi non produttivi – e raddoppiare la produzione biologica portandola al 25% di tutti i terreni agricoli dell’Ue.

   La guerra in Ucraina ha peggiorato le cose. Ad una prima fiammata dei prezzi per alcuni prodotti come il grano è seguito uno sconvolgimento dei flussi commerciali che ha provocato un eccesso di offerta e una corsa a misure protezionistiche da parte di alcuni paesi dell’Europa Orientale.

   E se le preoccupazioni variano da paese a paese – dalle proteste tedesche contro i tagli ai sussidi per il gasolio a quelle francesi contro gli accordi di libero scambio – ci sono anche lamentele comuni: una di queste riguarda l’aumento dei prezzi dell’energia e dei fattori di produzione, combinato con il crescente divario tra i margini di profitto dei produttori e quelli dei grandi colossi dell’agro-industria e delle catene di supermercati.  Non a caso, fra i bersagli delle proteste degli ultimi giorni figurano le sedi di diversi colossi agroalimentari, davanti ai quali i camionisti in sciopero hanno rovesciato grossi carichi di letame

PIÙ CIBO E PIÙ GREEN

Non sarebbe corretto, però, ridurre la battaglia degli agricoltori europei a una lotta di resistenza contro il Green Deal e le misure volte a favorire la transizione ecologica del continente. Il settore agricolo, che causa appena l’11% delle emissioni di gas serra dell’Ue, è il primo a pagare il prezzo degli eventi meteorologici estremi dovuti ai cambiamenti climatici, che negli ultimi anni hanno influenzato sempre più la produzione.

   Tanti agricoltori sono costretti a cambiare le colture a causa di periodi prolungati di siccità, mentre altri, che vorrebbero preservare quelle tradizionali, reclamano nuovi bacini e infrastrutture di raccolta dell’acqua a cui i governi non sempre danno la giusta priorità. Dal 2005 ad oggi oltre un terzo delle aziende agricole ha chiuso i battenti, in un panorama che vede sorgere sempre più colossi e in cui le realtà più piccole sono sempre meno competitive. Più in generale, oltre a sentirsi perseguitati da una burocrazia che sa poco della loro attività, molti agricoltori lamentano di sentirsi intrappolati tra due fuochi: la richiesta di produrre più di cibo a basso costo, ma rispettando al contempo il clima e l’ambiente. Sostengono che le politiche verdi per come sono concepite attualmente sono ingiuste, economicamente insostenibili e che alla fine si riveleranno autodistruttive. 

LA DESTRA CERCA DI CAVALCARE LA PROTESTA? 

Di fronte a una protesta così diffusa e massiccia, i governi nazionali corrono ai ripari: Berlino ha cancellato il taglio ai sussidi per i carburanti agricoli e Parigi ha annullato l’aumento della tassa sul diesel, e soprattutto ha promesso di fare pressione sulla Commissione per frenare l’accordo di libero scambio con il Mercosur (Mercado Común del Sur, organizzazione internazionale istituita da Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay con il Trattato di Asunción del marzo 1991, integrato dal Protocollo di Ouro Preto del dicembre 1994, in pratica allargato a quasi tutti i paesi dell’America Latina, NDR), che gli allevatori denunciano come un atto di ‘concorrenza sleale’ poiché consentirebbe un aumento delle importazioni di carne bovina, semi di soia e altri prodotti che non sono soggetti alle stringenti normative europee.

   I critici delle proteste, tuttavia, sottolineano che nonostante l’alto livello di sussidi – pari a un terzo del bilancio dell’Ue – il settore agricolo opponga una forte resistenza ad ogni forma di cambiamento strutturale. Inoltre, c’è chi lamenta l’influenza che la lobby agricola già esercita sul processo decisionale a Bruxelles e nelle capitali europee in vista delle prossime elezioni, dato che gli agricoltori ricevono sempre più sostegno dai partiti di estrema destra. Il cambiamento è significativo: mentre un tempo l’indignazione degli agricoltori trovava la sua voce nella sinistra – che prendeva di mira gli accordi di libero scambio e le multinazionali – questa volta a cercare di cavalcarla sono i partiti di destra, intenzionati a far crollare l’attuale maggioranza a Bruxelles e il suo Green Deal. 

(da https://www.ispionline.it/, 2/2/2024)

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(Agricoltori in rivolta, foto da https://www.adnkronos.com/)

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LEGAMBIENTE SULLE PROTESTE DEI TRATTORI

5 Febbraio 2024, https://www.legambiente.it/

Il Green deal non è il nemico, ma un alleato strategico del mondo agricolo e una bussola importante per il futuro dell’agricoltura nella lotta alla crisi climatica. Il vero problema è il basso reddito della maggioranza delle aziende agricole, sopraffatte da crisi economica, cambiamenti climatici e speculazioni finanziare. Serve una forte alleanza tra mondo agricolo e mondo ambientalista.

   Al Governo Meloni chiediamo subito interventi per supportare la transizione ecologica del settore ma al tempo stesso garantire il reddito: si snellisca la burocrazia, si garantisca assistenza tecnica e politiche che premiano economicamente chi punta su agroecologia e servizi ecosistemici, si incentivi lo sviluppo delle rinnovabili in ambito agricolo per ridurre i costi energetici”.

   In questi giorni caldi di protesta del mondo agricolo, Legambiente risponde ai tanti agricoltori scesi per le strade d’Italia e al Governo Meloni difendendo il Green Deal europeo e indicando gli interventi chiave da mettere in campo per aiutare gli operatori agricoli in grave difficoltà dal punto di vista economico e accelerare la transizione ecologia di questo settore. L’auspicio è che si imbocchi la strada del dialogo, avendo ben chiaro che per un’agricoltura sostenibile e innovativa la bussola è rappresentata proprio dal Green Deal europeo e dal suo percorso di decarbonizzazione, senza il quale si rischia un contraccolpo economico per il settore davvero rilevante. Stando, infatti, a quanto previsto dal Piano Nazionale di Adattamento Climatico, varato a fine 2023 dal Governo Meloni, in Italia si stima una riduzione del valore della produzione agricola pari a 12,5 miliardi di euro nel 2050 in uno scenario climatico con emissioni climalteranti dimezzate al 2050 e pari a zero al 2080.

   “Il Green deal non è il nemico, ma un alleato strategico del mondo agricolo. Gli agricoltori – dichiara Stefano Ciafani presidente nazionale di Legambiente – devono essere consapevoli che dal Green deal passa il loro futuro e non la loro fine. I veri nemici sono l’emergenza climatica, chi difende le fossili e rallenta la transizione ecologica, strumentalizzando le legittime e indiscutibili ragioni di chi opera nel settore. Detto ciò, è evidente che le manifestazioni di questi giorni fanno il gioco della lobby delle fossili e dei partiti contrari alla decarbonizzazione, in vista delle elezioni europee del prossimo giugno, ma mettere in discussione le strategie Ue come la From farm to fork e la Biodiversity 2030 significa stravolgerne completamente i presupposti. Così come è una fake news dire che il Green Deal possa provocare danni economici a livello europeo e all’attività agricola italiana. Ciò che chiede l’Europa è esattamente ciò di cui l’agricoltura ha bisogno per poter sopravvivere. Occorre creare le basi per una forte alleanza tra il mondo agricolo e mondo ambientalista proprio perché gli agricoltori sono i protagonisti principali di un cambiamento in chiave ecologica dell’intero settore, ma per fare ciò occorre garantire reddito alle tante piccole e medie aziende che oggi sono sopraffatte dalla crisi economica, dagli effetti dei cambiamenti climatici e dalle speculazioni sul prezzo dei prodotti agricoli”.

   Al Governo Meloni Legambiente ricorda che quello che è mancato sino ad oggi è un chiaro supporto agli agricoltori e alla transizione ecologica di questo settore, che è sia vittima sia carnefice della crisi climatica. Per questo l’associazione chiede all’Esecutivo che si introducano interventi concreti per aiutare davvero gli agricoltori partendo dallo snellimento della burocrazia, garantendo assistenza tecnica e politiche a sostegno del reddito, incentivando l’agroecologia, premiando chi punta sui servizi ecosistemici, lo sviluppo delle rinnovabili per produrre energia utilizzando ad esempio il modello agrivoltaico o la produzione di biogas o biometano.

   “Le differenze fra quanto vengono pagati i prodotti agricoli all’origine e il prezzo finale sono fin troppo evidenti, così come la forte precarietà che sta vivendo oggi il mondo agricolo sempre più in difficoltà, ma non ha senso prendersela con le politiche ambientali europee. La transizione – dichiara Angelo Gentili, responsabile agricoltura Legambiente – non può permettersi battute di arresto. Anche solo pensare di stare alla larga da misure ambientalmente sostenibili in agricoltura significherebbe infatti sancire la fine di ogni qualsivoglia attività agricola nei prossimi decenni. La crisi climatica corre velocissima e nessun trattore per strada riuscirà a fermarla. Senza dimenticare che oggi la grande sfida è quella di realizzare un modello di agricoltura in grado di rispondere alle esigenze dei consumatori che chiedono cibo più sano e di filiera corta, capace di mettere in pratica la transizione ecologica e pensato per sostenere fortemente il reddito degli agricoltori: questa è l’unica via che ci permetterà di  dare maggiore dignità ad un comparto oggi in difficoltà con una visone che punta ad un cambiamento in chiave sostenibile dell’intero modello agroalimentare”.

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(VI NUTRIAMO MA MORIAMO: La protesta a Bruxelles degli agricoltori; foto da https://www.ispionline-it/)

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I PRIVILEGI NON SONO ETERNI

di Andrea Bonanni, da “la Repubblca” del 2/2/2024

   Gli agricoltori che hanno occupato e devastato Bruxelles, e che da giorni assediano le città d’Europa, sono spinti da difficoltà reali della loro categoria. Essi incolpano di queste difficoltà l’Europa fingendo di dimenticare che, se non esistesse l’Europa che da oltre mezzo secolo li sostiene e li finanzia con i soldi dei contribuenti, probabilmente non esisterebbero neppure loro.

   Ma il problema posto dalle ricorrenti proteste del popolo dei trattori va ben oltre la lista dei torti e delle ragioni della categoria. È ormai divenuto un enorme problema politico e, allo stesso tempo, culturale.  Vediamo innanzitutto qualche cifra per inquadrare il problema. La politica agricola europea (Pac) assorbiva fino a qualche tempo fa il cinquanta per cento del bilancio comunitario. Oggi questa percentuale è scesa al 25 per cento ma, in cifra assoluta, gli stanziamenti a favore dell’agricoltura non sono calati di molto e si collocano attorno ai 55 miliardi di euro all’anno.

   Il dato, però, è ingannevole. Infatti la tutela che l’Europa offre agli agricoltori si manifesta soprattutto nei forti dazi doganali con cui Bruxelles penalizza le importazioni provenienti dai Paesi terzi, molto più competitive, creando così un mercato artificiale che tiene in vita l’Europa verde. Una simile politica commerciale non è, evidentemente, a costo zero sia per i consumatori, che pagano più cari i prodotti, sia per le ambizioni politiche della Ue.

   Gli accordi di libero scambio con l’America latina, per esempio, che aprirebbero all’industria europea un mercato enorme, sono bloccati dall’impossibilità di dare libero accesso alle carni e ai cereali prodotti in Brasile e Argentina per non mettere fuori gioco la nostra agricoltura. La questione agricola è stata di inciampo anche nel fallito negoziato commerciale con gli Stati Uniti. E quando la Ue, per solidarietà, ha abolito i dazi sul grano ucraino a buon mercato, i contadini di Polonia, Ungheria e Romania sono insorti bloccando coi trattori le frontiere e costringendo Bruxelles a una parziale marcia indietro.

   A fronte di sovvenzioni che assorbono il 25 per cento del bilancio comunitario, il settore agricolo rappresenta l’1,4 per cento del Pil europeo. E produce il 10,5 per cento del gas a effetto serra emesso in tutta la Ue. Nel 2022 il Pil dell’Europa verde è stato di 220 miliardi, di cui circa un quarto sono fondi comunitari. Secondo le cifre della Commissione europea, il reddito pro capite degli addetti all’agricoltura in Europa è cresciuto nel 2022 dell’11 per cento. Rispetto al 2015, l’aumento è stato del 44 per cento.

   Ovviamente ci sono molte buone ragioni che hanno fatto degli agricoltori europei una categoria altamente protetta. La prima è la manutenzione del territorio, anche se le organizzazioni di categoria contestano la norma Ue che impone di lasciare a maggese il 4 per cento dei terreni per favorire la biodiversità. Un’altra ottima ragione è quella di evitare il totale spopolamento delle campagne e un eccessivo inurbamento della popolazione. Infine, soprattutto dopo la drammatica esperienza della guerra, c’era e in parte c’è ancora la preoccupazione di mantenere una «sovranità alimentare», cioè di riuscire a produrre abbastanza cibo per sfamare la popolazione senza dover dipendere da fonti esterne.

   Un altro aspetto positivo della sovranità alimentare è la possibilità di accedere a prodotti che rispettino norme qualitative, igieniche e sanitarie che gli europei si sono liberamente e sovranamente dati: niente carne agli ormoni, niente polli lavati in candeggina, limiti all’uso di pesticidi e diserbanti e anche alla produzione di cibo geneticamente modificato.

   Ma storicamente un altro e determinante motivo per cui, fin dalla sua nascita, l’Europa ha strenuamente deciso di sovvenzionare i propri agricoltori è essenzialmente politico. Questi, infatti, per oltre sessant’anni, hanno costituito il principale serbatoio elettorale del voto moderato, tradizionalmente monopolizzato dai partiti popolari e democristiani. Le campagne hanno fatto da contrappeso al voto socialmente più progressista degli agglomerati urbani. Il risultato è stato la lunga, antagonistica ma fruttuosa cooperazione tra Popolari e Socialisti che ha governato l’Europa, e la maggior parte dei suoi Stati nazionali, nell’ultimo mezzo secolo.

   Oggi, però, questo dato politico sta rapidamente cambiando. Il popolo dei trattori contesta l’Europa che lo ha nutrito e tenuto in vita per tanti anni perché si rende conto che una realtà globale e globalizzata come la Ue non potrà difendere per sempre tutti i privilegi che finora ha garantito. Si genera così l’idea, totalmente illusoria, che solo gli stati nazione possano offrire le tutele corporative che gli agricoltori reclamano in contrapposizione alle «imposizioni europee».

   Nasce da questo corto-circuito ideologico l’alleanza, oggi sempre più stretta, tra il mondo rurale e le forze della destra populista e sovranista. In Polonia, in Francia, in Italia, in Spagna, in Olanda, in Germania, il voto delle campagne alimenta l’estrema destra e la sua retorica anti-sistema che ne cavalca il malcontento.

   Ciò pone i partiti tradizionali di fronte ad un dilemma. Possono cercare di recuperare il consenso di quella frangia, minoritaria ma importante, della popolazione pagando un prezzo economico e politico sempre più alto. Oppure possono voltarle le spalle contando che il progresso selezionerà i pochi in grado di continuare a produrre con profitto grazie ad un salto qualitativo e abbandonando gli altri nella discarica della politica e della storia. Non sarà comunque una scelta facile, né indolore.

(Andrea Bonanni, da “la Repubblca” del 2/2/2024)

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(Farm to Fork, il Green Deal europeo per un’economia sostenibile, ripreso da https://www.federconsumatorier.it/)

A maggio 2020 la Commissione europea ha pubblicato la strategia “Farm to Fork” (dalla fattoria alla tavola, ndr), come parte importante dell’European Green Deal, l’ambiziosa proposta legislativa in tema di ambiente a cui ha lavorato la nuova Commissione.

CHE COS’È LA STRATEGIA “FARM TO FORK” E CHI DOVRÀ ADOTTARLA?

L’uso dei pesticidi in agricoltura contribuisce a inquinare il suolo, le acque e l’aria.
La Commissione Europea adotterà misure per:

– ridurre del 50% l’uso di pesticidi chimici e il rischio che rappresentano entro il 2030;

– ridurre del 50% l’uso dei pesticidi più pericolosi entro il 2030.

   L’eccesso di nutrienti nell’ambiente è una delle principali cause di inquinamento dell’aria, del suolo e dell’acqua e ha un impatto negativo sulla biodiversità e sul clima. La Commissione agirà per:

– ridurre almeno del 50% le perdite di nutrienti, senza che ciò comporti un deterioramento della fertilità del suolo;

– ridurre almeno del 20% l’uso di fertilizzanti entro il 2030.

 Si calcola che la resistenza antimicrobica collegata all’uso di antimicrobici nella salute umana e animale causi 33 000 vittime nell’UE ogni anno. La Commissione 

– ridurrà del 50% le vendite di sostanze antimicrobiche per gli animali di allevamento e l’acquacoltura entro il 2030.

   L’agricoltura biologica è una pratica ecologica che deve essere ulteriormente sviluppata.

Verrà rilanciato lo sviluppo delle aree dell’UE dedicate all’agricoltura biologica affinché il 25% del totale dei terreni agricoli sia dedicato all’agricoltura biologica entro il 2030.

QUALI SONO GLI OBIETTIVI PRINCIPALI DELLA STRATEGIA?

Realizzare la transizione. Scelte informate e più efficienza:

– Etichettare i prodotti alimentari per consentire ai consumatori di scegliere un’alimentazione sana e sostenibile;

– Intensificare la lotta contro gli sprechi alimentari

– Ricerca e innovazione;

– Promuovere la transizione globale.

​(tratto da priorities-2019-2024/european-green-deal/actions-being-taken-eu/farm-fork)

(ripreso da https://www.federconsumatorier.it/ )

(Farm to Fork, immagine da Unione Europea)

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QUANTO VALGONO I SUSSIDI EUROPEI ALL’AGRICOLTURA

da IL POST.IT https://www.ilpost.it/, 3/2/2024

– Tra il 2021 e il 2027 sono stati stanziati quasi 390 miliardi di euro, circa il 20 per cento di tutto il bilancio comunitario –

   Da qualche settimana sono in corso in vari paesi europei, tra cui FranciaGermania e anche Italia, estese proteste organizzate dagli agricoltori, che si sono fatti notare soprattutto perché in molte occasioni hanno bloccato strade e autostrade con trattori e altri mezzi agricoli. Giovedì c’è stata anche una grossa manifestazione vicino ai palazzi delle istituzioni europee a Bruxelles, dove intanto era in corso una seduta straordinaria del Consiglio Europeo.

   Gli agricoltori protestano per diversi motivi, che spesso hanno a che fare con la situazione politica e normativa dei vari paesi in cui vivono e lavorano. Le loro richieste sono accumunate da una critica generale nei confronti della Politica agricola comune (PAC), l’insieme di norme che regolano l’erogazione dei fondi europei per l’agricoltura, considerata eccessivamente ambientalista e poco attenta alle necessità dei lavoratori. Storicamente però il settore dell’agricoltura è sempre stato uno dei più sussidiati, e oggi buona parte delle fattorie e delle aziende agricole europee riesce a sostenersi proprio grazie ai fondi europei per l’agricoltura.

   La PAC viene aggiornata ogni cinque anni: l’ultima è entrata in vigore nel 2023, e sarà valida fino al 2027. È un pacchetto di norme molto corposo, che viene concordato durante lunghe negoziazioni tra tutti gli stati membri dell’Unione. Si basa su alcuni obiettivi fondamentali: tra gli altri garantire un reddito equo agli agricoltori, proteggere la qualità dell’alimentazione e della salute, tutelare l’ambiente e contrastare i cambiamenti climatici.

   L’ultima PAC è stata finanziata con 386,6 miliardi di euro, ossia il 31 per cento di tutto il bilancio europeo per il periodo 2021-2027, che vale più di 1.200 miliardi euro. La percentuale scende al 23,5 per cento se comprendiamo nel totale del bilancio anche i circa 800 miliardi di euro forniti dal Next Generation EU, il piano di aiuti economici per i paesi colpiti dalla pandemia, spesso chiamato Recovery Fund. Le cifre utilizzate per questi calcoli rispecchiano i prezzi vigenti ad aprile del 2023: possono variare in base all’inflazione, ma l’ordine di grandezza generale rimane questo.

   I fondi della PAC sono divisi in due pilastri fondamentali: il Fondo europeo agricolo di garanzia (FEAGA) e il Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (FEASR). Il primo ha una dotazione complessiva da 291 miliardi di euro, e il secondo di 95,5 miliardi, di cui 8 miliardi forniti dal Next Generation EU.

   Complessivamente tra il 2023 e il 2027 la maggior parte dei fondi europei per l’agricoltura sarà usata per dare dei sussidi diretti agli agricoltori: riceveranno quasi 190 miliardi di euro, il 72 per cento del totale. La parte restante sarà divisa in progetti per lo sviluppo rurale (25 per cento) e interventi in specifici settori, tra cui quelli del vino, dell’olio d’oliva e dell’apicoltura (3 per cento dei fondi).

   L’agricoltura riceverà quindi quasi un quarto dei fondi previsti dal bilancio europeo. È senza dubbio una componente molto rilevante, che però in passato era ancora più alta: all’inizio degli anni Ottanta la quota di fondi dedicata all’agricoltura era del 66 per cento, ed è poi scesa gradualmente fino a raggiungere il 38 per cento nel periodo 2014-2020 e infine al 31 per cento dell’ultimo bilancio approvato. A partire dal 1992 la quota dedicata ai contributi diretti per gli agricoltori ha cominciato ad aumentare moltissimo, a scapito degli altri settori finanziati, come i sussidi alle esportazioni o alle attività educative e promozionali, i cui finanziamenti sono stati ridotti.

   I fondi europei vanno divisi tra tutti i 27 paesi membri dell’Unione (ed erano 28 fino al gennaio del 2020, quando c’era ancora il Regno Unito). Secondo gli ultimi dati disponibili, nel 2019 la Francia ricevette la quota più alta dei fondi del FEAGA, pari al 17,3 per cento del totale, seguita da Spagna, Germania e Italia, con il 10,4 per cento. Anche dell’altro fondo, il FEASR, beneficiarono soprattutto la Francia e l’Italia, che ricevettero rispettivamente il 15 e il 10,4 per cento dei fondi.

   La maggior parte degli agricoltori che nel 2019 beneficiò dei contributi diretti ricevette meno di 5mila euro, mentre una parte – circa il 2 per cento del totale – incassò più di 50mila euro. Con la nuova PAC sono stati modificati i criteri di distribuzione dei contributi e le modalità per accedervi, inserendo nuovi vincoli per la tutela dell’ambiente: agli agricoltori che non li rispettano possono essere ridotti o anche sospesi i pagamenti.

Secondo l’Unione Europea, i sussidi sono necessari perché nella maggior parte dei casi le aziende agricole hanno redditi inferiori a quelli degli altri settori produttivi: secondo i dati della Commissione Europea, nel 2022 gli agricoltori hanno guadagnato poco più del 60 per cento del reddito medio dei dipendenti nell’Unione. È una situazione che sta migliorando, considerando per esempio che nel 2005 il reddito medio degli agricoltori era pari al 30 per cento di quello degli altri dipendenti.

   Inoltre il settore deve fare i conti con molte incertezze: i prezzi sono volatili e le normative continuano a cambiare, così come le condizioni climatiche e i vincoli per ottenere i sostegni pubblici, fattori che nel complesso rendono molto difficile fare programmi a lungo termine. Anche per questo il settore agricolo è così sussidiato.

   Allo stesso tempo, però, gli agricoltori si oppongono a molti cambiamenti che l’Unione Europea sta cercando di introdurre per salvaguardare l’ambiente, e in alcuni casi avanzano richieste poco concrete o comunque molto difficili da realizzare. Tra le altre cose, in Italia chi sta partecipando alle proteste chiede il blocco delle importazioni dei prodotti agricoli da paesi con standard produttivi e sanitari meno rigidi rispetto a quelli europei, che farebbero concorrenza sleale; il divieto di vendita e produzione per i cosiddetti “cibi sintetici”; una riqualificazione della figura pubblica dell’agricoltore, che dal loro punto di vista sarebbe troppo spesso additata «come responsabile dell’inquinamento ambientale».

(IL POST.IT https://www.ilpost.it/, 3/2/2024)

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Frans Timmermans vice presidente della Commissione Europea e grande sostenitore del GREEN DEAL europeo (foto la press ripresa da https://europa.today.it/)­ – “(…) Con il piano industriale del Green Deal, presentato a febbraio 2023, l’UE si pone l’obiettivo di “zero emissions” per il 2050 e questo comporta numerosi altri impegni per gli agricoltori, come lo stop a numerosi pesticidi -e quindi la sostituzione di una serie di colture, in particolare ortofrutticole, per le quali determinati pesticidi erano di uso corrente- e l’aumento della rotazione delle colture, cioè una messa a riposo, in maniera alternata di superfici importanti dell’impresa agricola. (…)” (Elena Fattori, da https://www.huffingtonpost.it/ 29/1/2024)

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(da ISPI, sintesi della protesta a Bruxelles)

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L’AGRICOLTURA EUROPEA NON È PIÙ UN’ATTIVITÀ ECONOMICAMENTE SOSTENIBILE

di Elena Fattori, da https://www.huffingtonpost.it/ 29/1/2024

– Siamo a un bivio, l’abbinamento di tutele ambientali, sanitarie, e sociali con il libero mercato si è dimostrato inefficace –

   Gli agricoltori stanno protestando nelle piazze di tutta Europa e il motivo è molto semplice: l’agricoltura europea non è più una attività economicamente sostenibile; i costi di produzione di un prodotto agricolo non sono più coperti dal ricavo della sua vendita.

   Le decisioni di politica agricola sono competenza dell’unione europea sin dalle sue origini. Nel dopoguerra, i sei paesi fondatori dell’allora Comunità europea (Belgio, Francia, Italia, Germania, Paesi Bassi, Lussemburgo) avviarono i primi colloqui per un approccio comune all’agricoltura. L’Europa usciva dalla guerra annientata e affamata, la produzione agricola era scarsa e il reddito degli agricoltori basso rispetto ad altri settori. Era necessario riavviare la produzione alimentare in maniera sostenuta e alimentare la popolazione europea stremata dalla guerra.

   Una politica agricola comunitaria strutturata nasce nel 1962 con la PAC (politica agricola comunitaria) e ingenti stanziamenti. Viene istituito un meccanismo di controllo e sostegno dei prezzi di mercato, che fornisce agli agricoltori un prezzo garantito per i loro prodotti, introduce dazi per prodotti esteri e assicura l’intervento dello Stato in caso di calo dei prezzi di mercato.

   Gli agricoltori ricevono aiuti economici proporzionali alla quantità di prodotto. Il sistema raggiunge gli obiettivi prefissati e, in breve tempo, l’Europa diviene autosufficiente dal punto di vista della produzione alimentare. Nel corso degli anni 70 e 80 la produzione supera la domanda determinando le cosiddette eccedenze. Montagne di prodotti agricoli vengono distrutte o vendute a paesi terzi a prezzi molto bassi con ingenti spese per l’UE che deve garantire il prezzo dei prodotti agli agricoltori. Si introduce perciò il sistema delle quote: Continua a leggere

Il TEXAS contro Washington, svolgendo un’azione autonoma contro i migranti (con muri e barriere, e la promulgazione di una legge che ne criminalizza l’ingresso), appropriandosi della competenza del governo federale – La politica feroce dello Stato del sud contro i migranti, con spinte secessioniste, indipendentiste e l’auspicio dell’avvento trumpiano   

(Migranti attraversano il Rio Grande da Eagle Pass)

Il Texas si rifiuta di obbedire a un’ingiunzione disposta dall’amministrazione Biden che ha ordinato allo Stato di liberare lo SHELBY PARK, un parco sul Rio Grande all’altezza della città di Eagle Pass (comune di 26mila abitanti, a ovest, vedi la carta qui sotto, al confine tra Stati Uniti e Messico). Il “Lone Star State” (“Stato della Stella Solitaria”, simbolo una stella cinque punte dello Stato del Texas) è accusato di essersi appropriato di questo punto caldo per il passaggio dei migranti e di aver impedito alla polizia di frontiera federale di accedervi. (qui sopra: Migranti attraversano il Rio Grande da Eagle Pass, foto ripresa da https://lavocedinewyork.com/)

(RIO GRANDE il fiume divide il MEXICO dagli USA, mappa da WIKIPEDIA https://it.wikipedia.org/)

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(IL GOVERNATORE ABBOTT ha firmato simbolicamente la legge a Brownswille) – GREG ABBOTT, governatore repubblicano del TEXAS, un trumpiano che ha più volte accusato l’amministrazione guidata dal presidente democratico Joe Biden di “inazione nei confronti dell’immigrazione illegale”, ha firmato simbolicamente a BROWNSWILLE (città all’estremo sud del Texas) la legge che criminalizza l’ingresso dei migranti, davanti a una sezione del muro costruito al confine con il Messico su iniziativa dell’ex presidente Donald Trump.  La legge introduce il reato d’ingresso illegale nel Texas da un paese straniero e prevede pene fino a vent’anni di prigione in caso di recidiva”, ha affermato Abbott.

IL GOVERNATORE DEL TEXAS FIRMA UNA LEGGE CHE CRIMINALIZZA L’INGRESSO DEI MIGRANTI

da INTERNAZIONALE, 19/12/2023 https://www.internazionale.it/

   Il governatore repubblicano del Texas, Greg Abbott, ha ratificato il 18 dicembre una legge controversa che criminalizza l’ingresso dei migranti nello stato, una prerogativa che è però riservata al governo federale.

   Abbott, un trumpiano che ha più volte accusato l’amministrazione guidata dal presidente democratico Joe Biden di “inazione nei confronti dell’immigrazione illegale”, ha firmato simbolicamente la legge a Brownswille (città all’estremo sud del Texas), davanti a una sezione del muro costruito al confine con il Messico su iniziativa dell’ex presidente Donald Trump.

   “La legge introduce il reato d’ingresso illegale nel Texas da un paese straniero e prevede pene fino a vent’anni di prigione in caso di recidiva”, ha affermato Abbott.

   La legge, che entrerà in vigore a marzo, conferisce inoltre alle autorità statali il potere di arrestare i migranti e trasferirli in Messico, una prerogativa riservata al governo federale. Si preannuncia quindi un duro scontro legale con Washington, che con ogni probabilità farà ricorso contro la legge per illegittimità costituzionale.

   Il 15 novembre il governo messicano aveva reagito all’approvazione della legge “rifiutando categoricamente qualunque provvedimento autorizzi le autorità locali o statali statunitensi ad arrestare e trasferire in Messico cittadini messicani o stranieri”.

   Abbott ha affermato che circa otto milioni di persone hanno attraversato illegalmente il confine da quando Biden è entrato in carica, nel gennaio 2021.

Barriera galleggiante

Il governatore ha aggiunto che la “legge è legittima perché il Texas è stato lasciato solo ad affrontare un’ondata migratoria insostenibile”.

   Il dipartimento della giustizia ha già presentato un ricorso contro lo stato del Texas per chiedere la rimozione di una barriera galleggiante installata nel fiume Rio Grande per fermare i migranti provenienti dal Messico.

   Trump, che ha lanciato la sua campagna elettorale in vista delle presidenziali del 2024, ha promesso di fermare l’immigrazione illegale al confine meridionale degli Stati Uniti. I migranti sono soprattutto cittadini di paesi dell’America Latina in fuga dalla povertà e dalle violenze.

(da INTERNAZIONALE, 19/12/2023 https://www.internazionale.it/)

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(la posizione del Texas a sud dei 50 Stati USA, mappa da Wikipedia)

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(SHELBY PARK nel comune di EAGLE PASS nel TEXAS: particolare della RECINZIONE approntata e contestata dal governo di Washington; foto da https://dallasexpress.com/)

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QUELLO CHE STA SUCCEDENDO IN TEXAS DIMOSTRA QUANTO GLI STATI UNITI SIANO VICINI A UNA CRISI SENZA RITORNO

di Chiara Sgreccia, da L’ESPRESSO, 29/1/2024, https://lespresso.it/

– Lo scontro tra governo locale e istituzioni federali sul tema dell’immigrazione, immediatamente cavalcato da Donald Trump per scatenare la base repubblicana, crea l’ennesimo fronte di conflitto nel Paese. Che si avvicina alle Presidenziali in uno Stato di tensione crescente –

    Tentavano di attraversare illegalmente il confine che separa il Messico dagli Stati Uniti come 9.500 persone ogni giorno, secondo i dati del governo statunitense relativi a dicembre 2023. Invece sono annegati nel Rio Grande. Vicino all’ingresso dello Shelby Park, nel comune Eagle Pass, in Texas. Secondo il dipartimento per la Sicurezza nazionale, gli agenti federali di frontiera sarebbero stati avvisati dalle autorità messicane della presenza di alcune persone in difficoltà durante l’attraversamento del fiume, ma non sarebbero riusciti a intervenire perché «fisicamente bloccati» dalla Guardia Nazionale locale. Secondo il governatore texano Greg Abbott, invece, la polizia di frontiera avrebbe chiesto di intervenire quando i migranti erano già annegati.

   Così anche le circostanze che hanno portato alla morte di una donna e due bambini nella notte tra il 12 e il 13 gennaio scorsi sono rimaste schiacciate nello scontro che da tempo va avanti tra il governo federale degli Stati Uniti a quello locale del Texas per la gestione dei flussi migratori.

   Una contrapposizione che, però, è diventata una vera e propria crisi politica di rilevanza internazionale da quando il governo del Texas ha deciso di contestare la sentenza della Corte suprema statunitense che lo scorso 22 gennaio ha ordinato al repubblicano Abbott di lasciar entrare gli agenti della polizia di frontiera nell’area dello Shelby Park. Al fine di «tagliare o rimuovere» il filo spinato che delimita il parco.

   Il Procuratore generale del Texas Ken Paxton ha risposto che l’area controllata dalla Guardia Nazionale è di proprietà del Comune di Eagle Pass, non è una zona federale. E che quindi non ci sarebbero motivi per ritirare i soldati.

   Mentre Abbott ha promesso di aggiungere altro filo spinato per fermare quella che definisce «un’invasione» di migranti, sottolineando come il Texas abbia il diritto costituzionale di difendersi: «L’operazione Lone Star continua a colmare le pericolose lacune create dal rifiuto dell’amministrazione Biden di proteggere il confine», ha fatto sapere proprio il giorno in cui – lo scorso 26 gennaio – scadeva l’ultimatum dato alla Guardia nazionale texana per lasciar entrare le forze federali: «Ogni individuo arrestato e ogni grammo di droga sequestrata si sarebbero altrimenti fatti strada nelle comunità di tutto il Texas e della nazione a causa delle politiche di apertura delle frontiere del presidente Joe Biden», si legge nella nota ufficiale pubblicata sul sito dell’amministrazione texana.

   La recinzione di Shelby Park fa parte della più ampia operazione Lone Star avviata dal Texas nel 2021 per contrastare i flussi migratori illegali, attraverso (tra i vari provvedimenti) la costruzione di circa 50 chilometri di fortificazioni per barricare il confine. Un muro con il Messico tanto reclamizzato anche dall’ex presidente americano Donald Trump già durante la campagna elettorale del 2016 che, di nuovo in corsa per le presidenziali Usa del 2024, infatti, non ha avuto alcun timore nell’entrare a gamba tesa nella disputa tra l’amministrazione Biden e quella locale. A favore di quest’ultima. Invitando non solo il governatore Abbot ma anche gli Stati a inviare i militari delle loro «guardie nazionali in Texas per prevenire l’ingresso degli illegali». Per l’ex presidente Usa, «tutti dovrebbero sostenere le misure di buon senso delle autorità del Texas per proteggere la sua sicurezza, la sua sovranità e gli americani».

   A seguire l’invito di Trump sono stati quasi tutti i Paesi a guida repubblicana negli Usa: 25 su 27. Tanti sono quelli che hanno firmato una lettera per supportare il Texas nella gestione dei propri confini: «Siamo solidali con il governatore Greg Abbott, e con lo Stato del Texas nell’utilizzare ogni strumento e strategia, comprese le recinzioni di filo spinato, per proteggere il confine. Visto che l’amministrazione Biden ha abdicato ai suoi doveri costituzionali, il Texas ha ogni giustificazione legale per proteggere la sovranità dei nostri Stati e della nostra nazione», si legge nella lettera. A dimostrazione di quanto sia alta la tensione tra le due autorità che ha portato a uno stallo sulla gestione dei flussi migratori. E di quanto il pericolo di una crisi interna negli Stati Uniti sia concreto.

(Chiara Sgreccia, da L’ESPRESSO, 29/1/2024, https://lespresso.it/)

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(Mappa del TEXAS, da https://www.nationsonline.org/)

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(Le boe al confine tra Texas e Messico per fermare i migranti, foto da https://www.ilpost.it/)

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TEXAS, CHIUSI I CONFINI CON IL FILO SPINATO. SCONTRO CON IL GOVERNO FEDERALE SULL’IMMIGRAZIONE

di Paola Mascioli, da https://tg.la7.it/, 27/1/2024

– Il protagonista è il governatore Greg Abbott, repubblicano e trumpiano di ferro –

   Cinquanta chilometri di confine con Messico sono al centro dello scontro tra Texas e il Governo federale.
Una questione da campagna elettorale che per Trump è un ottimo argomento per attaccare Biden per le politiche sull’emigrazione. Il protagonista è il governatore Greg Abbott, repubblicano e trumpiano di ferro. Dopo aver firmato il mese scorso una legge che equipara a un crimine l’ingresso dei migranti in Texas, dopo aver fatto mettere le barriere galleggianti nel Rio Grande, sta sfidando la Casa Bianca e la Corte Suprema con quei 50 chilometri di filo spinato. Lo aveva fatto installare per bloccare i disperati in arrivo dal sud.

ABBOT RILANCIA

La Corte ha bocciato la barriera e ne ha imposto la rimozione. Ma Abbott ha rilanciato: non solo non intende toglierla ma ha spedito la guardia nazionale e le milizie private a pattugliare le frontiere. Lo ha fatto invocando la necessaria difesa dall’invasione e attivando un articolo della Costituzione che gli consente di dichiarare la legge marziale. A dargli man forte è arrivato Trump. Quando sarò di nuovo presidente, non mi scontrerò con i governatori ma fin dal primo giorno, mano nella mano con Abbott, sigilleremo i confini e deporteremo tutti i migranti. Non poteva mancare il popolo dell’ex presidente, con bandiere, pick up e camion si è diretto verso sud per bloccare le strade. Immagini che ricordano quelle del 6 gennaio di tre anni fa.

LA SOLIDARIETÀ AD ABBOTT

I governatori repubblicani fedeli a Trump che hanno espresso solidarietà ad Abbott promettendo l’invio della guardia nazionale in caso di bisogno. Insomma, una sfida a Biden e alle istituzioni federali, mentre sono in corso le primarie che Trump al momento sembra destinato a vincere nonostante le grane giudiziarie. La guerra ai migranti dei suoi governatori allontana per qualche ora l’attenzione dalla recente condanna per le ripetute diffamazioni e il risarcimento di oltre 83 milioni di dollari alla scrittrice Jean Carrol che lo aveva già denunciato, e fatto condannare lo scorso anno.

LA CAMPAGNA ELETTORALE

La questione immigrazione inciderà pesantemente sulla campagna elettorale, basti ricordare che al congresso i 61 miliardi per aiuti militari all’Ucraina sono stati bloccati dai repubblicani proprio perché in cambio vogliono misure molto più stringenti contro i migranti. E i negoziati in corso, che darebbero a Biden il potere di chiudere le frontiere, sono stati bocciati proprio da Trump.

(Paola Mascioli, da https://tg.la7.it/, 27/1/2024)

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(Le barriere installate dal Texas al confine con il Messico, foto da https://www.tgcom24.mediaset.it/)

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(Filo spinato tra Texas e Messico: è scontro tra il governo federale e il governatore Abbott; foto da https://www.ildubbio.news.it/) – “Il Texas continuerà a installare filo spinato e altre barriere fisiche lungo il confine con il Messico, malgrado il recente pronunciamento della Corte Suprema che ha autorizzato l’amministrazione del presidente Joe Biden a smantellare le barriere unilateralmente installate dallo Stato della stella solitaria”. Lo ha dichiarato il vicegovernatore del Texas, Dan Patrick, confermando il braccio di ferro in corso tra lo Stato di confine, che ha ricevuto l’appoggio di altri 25 Stati Usa a guida repubblicana, e il governo federale. (30/1/2024, da https://www.tgcom24.mediaset.it/)

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LA CRIMINALIZZAZIONE DELLE MIGRAZIONI. IL CASO DEL TEXAS

di Nancy Nguyen, da https://openmigration.org/, 27/1/2024

– Da anni, ormai, le politiche di frontiera statunitensi tentano di arginare il flusso di persone migranti provenienti dall’America centrale con metodi coercitivi, come arresti, detenzioni e l’uso di dispositivi (barriere o boe) per impedire alle persone di entrare nel Paese. Ora, queste politiche potrebbero peggiorare ulteriormente per via di due proposte di legge recentemente approvate in Texas. Ce ne parla NANCY NGUYEN –

   Contrariamente al quadro punitivo ampiamente riconosciuto all’interno del sistema di immigrazione statunitense, entrare negli Stati Uniti senza autorizzazione non è sempre stato considerato un atto criminale.  Prima della fine del XIX secolo, negli Stati Uniti non esistevano restrizioni formali sull’immigrazione. Sebbene le autorità avessero il potere di deportare gli immigrati che non utilizzavano un punto di ingresso ufficiale, non potevano detenerli e perseguirli per un reato federale. Tuttavia, un cambiamento significativo si verificò nel 1929 con l’entrata in vigore della Sezione 1325, che segnò il primo caso di criminalizzazione dell’immigrazione priva di documenti lungo il confine tra Stati Uniti e Messico.

   Da allora, la legislazione ha iniziato a legittimare il supporto finanziario per l’istituzione di personale, tecnologie di sorveglianza, e l’utilizzo di armi per sostenere questo apparato di crimmigration (criminalizzazione dell’immigrazione). Ora, la Customs and Border Patrol (Cbp) e l’Immigration and Customs Enforcement (Ice), le due principali agenzie statunitensi che gestiscono la migrazione, hanno l’autorità di arrestare, detenere e perquisire i migranti senza mandato.

   La rappresentazione più recente delle politiche di criminalizzazione dell’immigrazione è incarnata dal Texas, negli Stati Uniti. Nel 2021, il governatore repubblicano Greg Abbott ha lanciato l’operazione Lone Star, un’operazione multimiliardaria per la sicurezza delle frontiere guidato dallo stato che criminalizza richiedenti asilo e persone migranti. “Stiamo arrestando e incarcerando chiunque attraversi illegalmente il confine e sconfina in proprietà privata o su suolo pubblico”, ha dichiarato Abbot.

   Nell’ambito di questa operazione, il Texas ha perseguito le persone migranti per crimini di stato, incarcerato persone migranti senza accuse o diritto a un avvocato e ha aggiunto migliaia di ulteriori agenti di polizia statali del Texas e soldati della Guardia Nazionale per pattugliare il confine che divide il Texas dal Messico.

   Oltre alla criminalizzazione, questa operazione è ampiamente nota per aver contribuito a causare gravi danni e persino la morte delle persone migranti. La Guardia Nazionale e le forze dell’ordine del Texas scoraggiano le persone migranti con arresti per violazione dei limiti di confine, fili spinati e una barriera galleggiante di boe di confine chiodate larghe un metro e mezzo, ancorate al fondo del fiume nel Rio Grande. Ciò ha provocato danni ai d’oltreoceano che, in fuga dalla violenza e dalle persecuzioni nei loro paesi d’origine, cercano sicurezza in Texas solo per ritrovarsi nuovamente in pericolo per mano delle autorità statunitensi.

Ma non è tutto.

Nel dicembre 2023, l’apparato criminoso del Texas si è intensificato quando Abbott ha firmato due nuovi progetti di legge sull’immigrazione. Il disegno di legge 3 del Senato (SB3) concede al Texas 1,54 miliardi di dollari per l’impiego di ulteriori soldati e circa 80 km aggiuntivi di barriera sul confine. Il Senate Bill 4 (SB4) espande il potere dei funzionari statali del Texas consentendo loro di arrestare, incarcerare, perseguire e deportare le persone migranti che si ritiene abbiano attraversato illegalmente il confine con il Messico.

   Il professore della Cornell University ed esperto di immigrazione, Stephen Yale-Loehr, afferma che l’SB4 è “senza precedenti” e “di gran lunga il disegno di legge più anti-immigrazione che (lui) abbia visto”.

   In un’intervista radiofonica, Abbot afferma: “stiamo utilizzando ogni strumento possibile, dalla costruzione di un muro di confine all’approvazione di questa legge (…) che rende illegale per qualcuno entrare in Texas da un altro paese”. E continua: “l’unica cosa che non stiamo facendo è non sparare alle persone che attraversano il confine, perché ovviamente l’amministrazione Biden ci accuserebbe di omicidio”.

Quali sono gli effetti della Senate Bill 4 (sb4)?

La SB4 criminalizzerebbe ulteriormente azioni già ritenute illegali a livello federale. Entrare negli Stati Uniti al di fuori di un porto di ingresso autorizzato è attualmente un reato federale, generalmente trattato come questione civile nel sistema giudiziario dell’immigrazione. L’SB4 cerca di riclassificare l’immigrazione irregolare come un crimine di Stato, con sanzioni che vanno dal reato minore al crimine. Questa legislazione dovrebbe entrare in vigore a partire da marzo 2024.

   Secondo la SB4, entrare illegalmente in Texas dal Messico sarebbe considerato un reato di classe B, che prevede sanzioni fino a $ 2000 o un massimo di 6 mesi di carcere. La gravità dell’accusa aumenta fino a diventare un crimine, punibile fino a 20 anni di carcere, a seconda dei precedenti penali della persona migrante, come precedenti deportazioni o condanne per reati specifici. Inoltre, la legge conferisce ai magistrati della contea del Texas e ad alcuni giudici l’autorità di ordinare la deportazione di una persona senza giusto processo.

   La legislazione consente al giudice di ritirare le accuse se una persona migrante acconsente al ritorno volontario in Messico. Tuttavia, le persone migranti che scelgono di non tornare immediatamente in Messico sconteranno la pena e verranno successivamente scortate dalla polizia fino al porto di ingresso designato. In questa fase, potrebbero essere soggetti ad un’accusa di reato per il loro rifiuto di tornare in Messico.

   Interrogato sulla linea di condotta del Texas se il Messico rifiutasse di accettare le persone migranti deportate dallo stato, Abbott ha dichiarato: “li rimanderemo direttamente in Messico”. Dato che il governo messicano non è obbligato ad accettare persone immigrate non messicane deportate dal Texas, l’approccio di Abbott non risolve il ciclo della crisi migratoria, ma piuttosto lo perpetua. La SB4 ha il potenziale per mettere a dura prova le relazioni degli Stati Uniti con il Messico e impedire ai funzionari di far rispettare le leggi federali sull’immigrazione, comprese quelle intese a sostenere i migranti in fuga dalla violenza e dalle persecuzioni dai loro paesi d’origine.

Quali sono le implicazioni della SB4?

L’attuale strategia del Texas di criminalizzare l’immigrazione comporta varie implicazioni per il potere dello stato, poiché la SB4 mette alla prova i limiti dell’azione statale e del potere della polizia statale sul controllo delle frontiere. Gli esperti di diritto dell’immigrazione sostengono che il Texas stia oltrepassando i limiti della propria autorità, poiché le procedure di immigrazione e deportazione sono tradizionalmente cadute sotto la giurisdizione del governo federale, e non del governo statale. Pertanto, la SB4 è incostituzionale poiché l’applicazione della normativa sull’immigrazione è una responsabilità federale.

   Sebbene la Corte Suprema degli Stati Uniti abbia precedentemente stabilito che le leggi sull’immigrazione possono essere applicate solo dal governo federale, alcuni repubblicani del Texas hanno espresso la speranza che la nuova legge sarà sostenuta dall’attuale Corte Suprema degli Stati Uniti, dato che l’ex presidente Donald Trump ha nominato tre giudici conservatori durante la sua presidenza. Abbott e i sostenitori della SB4 sostengono che la legislazione è necessaria per scoraggiare gli attraversamenti illegali delle frontiere e per affrontare quelli che percepiscono come sforzi inadeguati da parte dell’amministrazione Biden nella gestione della crisi migratoria.

   Con l’avvicinarsi delle elezioni del 2024, il giudice della contea di Harris, Lina Hidalgo, ipotizza che i funzionari eletti del Texas stiano utilizzando la SB4 per “strumentalizzare l’immigrazione” e “guadagnare punti in politica”.

   La SB4 ha ricevuto resistenze nazionali e federali. Il 4 gennaio 2024, il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha intentato una causa sostenendo che la SB4 interferisce con l’autorità costituzionale del governo federale. Inoltre, l’ACLU [American Civil Liberties Union] ha intentato una causa federale cercando di bloccare la legge.

   Al di là degli aspetti legali, gli oppositori della misura hanno criticato la SB4 in quanto inutilmente punitiva e potrebbe avere come conseguenze la pratica della profilazione razziale e instillare paura nelle comunità di persone immigrate in uno stato in cui il 40% della popolazione è latina. Marisa Limón Garza, direttrice esecutiva del Las Americas Immigrant Advocacy Center in Texas, ha affermato che la SB4 potrebbe sottoporre i residenti a interrogatori, perquisizioni, sequestri e arresti ingiusti “in base a quanto sembrano ‘stranieri’ e a come si comportano”.

   Con l’avvicinarsi di una delle leggi statali anti-immigrazione più severe della storia recente degli Stati Uniti – la SB4 – è fondamentale che la comunità internazionale resti attenta.

(NANCY NGUYEN, da https://openmigration.org/, 27/1/2024)

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(GLI STATI USA con a sud il TEXAS; mappa da https://www.visitusaita.org/)

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LE VITE DEI MIGRANTI OSTAGGIO DELLA CAMPAGNA REPUBBLICANA

di Luca Celada, LOS ANGELES, da “IL MANIFESTO” https://ilmanifesto.it/, 17/1/2024

In Texas una donna e i due figli sono annegati: le truppe dello stato hanno impedito il salvataggio –

   Dalla scorsa settimana, la guardia nazionale del Texas presidia, per un tratto di alcuni chilometri, il confine col Messico a Eagle Pass, in corrispondenza della cittadina messicana di Piedras Negras. La sicurezza di confine è competenza del governo federale ma in polemica con Continua a leggere

SCENARI DI TERZA GUERRA MONDIALE? – Il moltiplicarsi di fonti di conflitto internazionale in gran parte del nostro pianeta fanno temere il sorgere di una guerra generale – In questa fase critica, necessita un maggior impegno della diplomazia mondiale per evitare una disastrosa guerra totale (e serve un’Europa unita)

(LE FORZE IN CAMPO, immagine da https://www.lastampa.it/) – “(…) Pochi giorni fa il quotidiano tedesco Bild ha rivelato un documento del ministero della Difesa tedesco che ipotizzava uno scenario da Terza guerra mondiale, delineato in tempi e movimenti, con tanto di cifre di mobilitazione militare, azioni di ‘guerra ibrida’ e sviluppo sul terreno mese dopo mese. Fino a culminare nel dispiegamento di centinaia di migliaia di soldati della Nato e nello scoppio del conflitto tra Russia e Alleanza atlantica nell’estate del 2025.  
   Inoltre da lunedì 22 gennaio (2024) sono iniziate manovre Nato nel quadrante Germania-Polonia-Baltico, vicino al corridoio di Suwalki, lo stretto passaggio terrestre polacco-lituano tra la Bielorussia e Kaliningrad, uno dei punti più deboli dell’alleanza, già evidenziato nel documento top secret di Berlino citato dalla Bild. (…)” (Monica Perosino, da “La Stampa” del 20/1/2023)

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(ESTONIA LETTONIA E LITUANIA paesi baltici, mappa da WIKIPEDIA https://it.wikipedia.org/) – “(…) Quella degli Stati baltici nei confronti della Russia di Putin non è mai stata diffidenza politica, ma paura tangibile che, prima o poi, l’Orso avrebbe cercato di riprendersi quello che considera suo. Dall’indipendenza riguadagnata nel 1991 la guerra russa di spie, attacchi ibridi e sabotaggi contro Lituania, Estonia e Lettonia non ha conosciuto tregue.  Ma ora, complici le nuove minacce del Cremlino e gli insistenti report dei Servizi tedeschi ed europei che vedono all’orizzonte anche un’escalation militare, i piccoli Stati affacciati su Russia e Bielorussia – che da anni temono di poter essere le vittime di una futura invasione di Mosca -, passano all’iniziativa decidendo di dotarsi di «strutture di difesa» comuni lungo i confini con la Russia e la sua alleata Bielorussia. Ad annunciarlo è stato il ministero della Difesa estone, secondo il quale Lituania, Lettonia ed Estonia «costruiranno strutture difensive anti-mobilità per scoraggiare e, se necessario, difendersi da minacce militari». (…)” (Monica Perosino, da “La Stampa” del 20/1/2023)

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UCRAINA, IL DOSSIER SEGRETO DELL’ESERCITO TEDESCO “PUTIN ATTACCHERÀ UN PAESE DELLA NATO NEL 2025”

Nel mirino del Cremlino Baltici, Polonia e il corridoio per Kaliningrad. La smentita di Peskov: “Una bufala”

di Jacopo Iacoboni, da “La Stampa” del 16/1/2024

Febbraio 2024. Putin potrebbe mobilitare 200 mila persone per un’offensiva di primavera in Ucraina e approfittare della distrazione dell’Occidente – Luglio 2024. Qui comincerebbe la vera offensiva alla Nato: guerra ibrida e attacchi informatici diretti ai Baltici. A ottobre, missili Iskander a Kaliningrad. – Marzo 2025. Mosca schiererebbe truppe verso i Baltici, 70 mila pronti in Bielorussia. Maggio 2025. La Nato si muoverebbe con 300 mila soldati. –

– Lituania e Polonia si sono incontrate per studiare come proteggere i confini – A novembre un report lanciava l’allarme “Servono sei anni per essere pronti” –

   Il 15 gennaio scorso a Mosca è apparso un cartellone pubblicitario elettorale con la faccia di Putin e, sotto, la scritta perturbante: «I confini della Russia non finiscono da nessuna parte». Proprio in quelle ore un documento delle forze armate tedesche, leakato alla Bild e ad altri reporter europei, mostrava che la Germania ha iniziato a prepararsi per un attacco diretto di Vladimir Putin alla Nato nell’estate del 2025. Non una previsione, ma un “worst case scenario”, il peggior scenario possibile, non più impossibile.

   Il cuore dell’attacco della Russia alla Nato sarebbe il tentativo di conquistare il “Suwalki corridor”, il corridoio Suwalki, quella striscia di terra polacca che congiunge Kaliningrad – l’exclave russa da tempo dotata, nel silenzio complice dei pacifisti e nel disinteresse, per lunghi anni, delle opinioni pubbliche europee – di missili Iskander con testate nucleari, e la Bielorussia del dittatore vassallo di Putin, Alexandr Lukashenko.

   Anche se vengono omessi i dettagli sugli spostamenti di truppe, per non compromettere la sicurezza degli eventuali movimenti, il documento spiega anche per quale motivo le intelligence polacche e lituane stiano intensificando in questi giorni gli incontri proprio sul dossier-Suwalki, come una fonte di intelligence occidentale conferma a La Stampa: il 12 gennaio il ministro degli Esteri lituano, Gabrielius Landsbergis, ha incontrato nella città di Trakai il suo omologo polacco, Radoslaw Sikorski, e la fonte ci dice che i due Paesi di frontiera della Nato stanno per sperimentare nuove forme più agili di collaborazione proprio avendo come principale oggetto la protezione del corridoio Suwalki. Il testo del Ministero della Difesa tedesco descrive come potrebbero svilupparsi gli eventi che potrebbero portare allo scoppio della guerra nell’estate del 2025.

   A febbraio 2024 la Russia avvia un’altra ondata di mobilitazione e richiama nelle forze armate altre 200 mila persone per lanciare un’offensiva di primavera in Ucraina che, a causa dell’indebolimento dell’assistenza occidentale, e delle divisioni interne all’Europa e agli Stati Uniti, ha successo e conquista alcuni importanti nuovi territori.

   Il vero e proprio attacco russo alla Nato comincerebbe a luglio 2025, in due fasi. La prima, celata, prevede guerra ibrida (nella quale in realtà già ampiamente siamo) e attacchi informatici, diretti soprattutto ai Paesi baltici, per provocare divisione e rivolta al loro interno. Mosca farebbe leva sui russi in Lettonia, Estonia e Lituania per suscitare scontri di piazza e rivolte che userà come pretesto per far scattare nella tarda estate (settembre 2024) delle «esercitazioni su larga scala Zapad-2024».

   Ai movimenti di truppe – esercitazioni che sono in realtà, sulla falsariga di quanto già avvenuto con l’Ucraina, una vera e propria preparazione alla guerra – prenderanno parte inizialmente 50 mila soldati essenzialmente in Bielorussia (diventato uno dei teatri operativi del nuovo Gruppo Wagner post Prigozhin, embeddato nel ministero della Difesa russo).

   A ottobre 2024 Mosca schiererà altri missili Iskander a Kaliningrad, e altre truppe nell’area. Prima per mettere sotto pressione il corridoio Suwalki, che collega Kaliningrad con la Bielorussia, poi, nel dicembre 2024 verrà provocato un conflitto di confine – con disordini e numerose vittime – e si cercheranno pretesti.

   La Bundeswehr ipotizza che dopo il conflitto nel corridoio di Suwalki la Russia convocherà una riunione straordinaria del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e accuserà a specchio l’Occidente di stare per attaccare in Russia.

   Nel gennaio 2025 in una riunione straordinaria del Consiglio della Nato Polonia e Paesi baltici riferiranno drammaticamente la situazione, ma faticheranno ancora a essere creduti. Nel marzo 2025 la Russia schiererà altre truppe verso i Paesi baltici (in primis Lituania), e arriverà ad avere, solo in territorio bielorusso, due divisioni corazzate e una divisione fucilieri motorizzati. In tutto, 70 mila soldati. Solo nel maggio 2025 la Nato si muoverebbe formalmente, spostando per prevenire un attacco a Suwalki circa 300 mila soldati. La Bundeswehr scrive che di questi, 30 mila sarebbero soldati tedeschi.

   Un portavoce del Ministero della Difesa tedesco, a cui la Bild ha chiesto un commento, ha solo spiegato che «considerare diversi scenari, anche se estremamente improbabili, fa parte dell’attività militare quotidiana». Ma già a novembre la Dgap (German Council on Foreign Relations) aveva pubblicato un report che sosteneva che i Paesi europei della Nato hanno solo dai sei ai dieci anni per prepararsi a una guerra con la Russia. Dmitry Peskov, il portavoce di Putin, ieri in tarda mattinata ha definito il testo «una bufala, quindi preferirei non commentare». L’ultima volta che l’ha fatto, nel gennaio 2022, due settimane dopo la Russia ha invaso l’Ucraina. (Jacopo Iacoboni, da “La Stampa” del 16/1/2024)

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(AGRESSIONE RUSSA ALL’UCRAINA, mappa da “La Stampa” del 8/9/2023) – “(…) Tutti gli indizi (o quasi) vanno in una direzione: la fine della guerra in UCRAINA non è imminente. Se è vero che Kiev non ha ottenuto con la controffensiva i risultati sperati, il sostanziale stallo in corso rappresenta un elemento che non favorisce l’inizio dei negoziati. (…)” (Mauro Evangelisti, 28/12/2023, da https://www.ilmessaggero.it/)

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MEDIO ORIENTE – L’Iran ha lanciato attacchi aerei in Pakistan, Siria e Iraq, nell’ultimo segno di una ondata di violenza che si sta diffondendo in tutto il Medio Oriente e oltre (mappa da ISPI, 17/1/2024)

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LA MAXI-ESERCITAZIONE ANTI-RUSSIA DELLA NATO CON 90MILA UOMINI E IL DOSSIER CON LO SCENARIO DA TERZA GUERRA MONDIALE

da https://www.quotidiano.net/, 18/1/2024

– “Steadfast Defender 2024 è l’esercitazione più massiccia da decenni a questa parte”. Le manovre Nato si terranno nel quadrante Germania-Polonia-Baltico, vicino al corridoio di Suwalki, lo stretto passaggio terrestre polacco-lituano tra la Bielorussia e Kaliningrad, uno dei punti più deboli dell’alleanza, già evidenziato nel documento top secret di Berlino citato dalla Bild –

Bruxelles, 18 gennaio 2024 – La Nato mostra i muscoli e manda un chiaro avvertimento a Mosca. L’Alleanza atlantica ha ufficialmente lanciato infatti una maxi esercitazione, chiamata Steadfast Defender 2024. “È l’esercitazione più massiccia da decenni a questa parte”, ha detto il Comandante supremo alleato per l’Europa, il generale Christopher Cavoli. “Steadfast Defender inizia la prossima settimana e durerà fino a maggio, con la partecipazione di 90mila soldati provenienti dagli alleati e dalla Svezia. L’alleanza dimostrerà la sua abilità di difendere l’area transatlantica con un trasferimento di truppe dal Nord America, in uno scenario di risposta a una minaccia militare” ha spiegato.

LO SCENARIO DA TERZA GUERRA MONDIALE

Pochi giorni fa Bild ha rivelato un documento del ministero della Difesa tedesco che ipotizzava uno scenario da Terza guerra mondiale, delineato in tempi e movimenti, con tanto di cifre di mobilitazione militare, azioni di ‘guerra ibrida’ e sviluppo sul terreno mese dopo mese. Fino a culminare nel dispiegamento di centinaia di migliaia di soldati della Nato e nello scoppio del conflitto tra Russia e Alleanza atlantica nell’estate del 2025.

   Una prospettiva inquietante, che il Cremlino ha bollato come “una bufala” mentre un portavoce della Difesa di Berlino si è affrettato a definire parte di “scenari estremamente improbabili” frutto dell’attività militare quotidiana, soprattutto per l’addestramento. Successivamente però un altro portavoce del ministero della Difesa tedesco ha ricordato che Berlino “prende sul serio la minaccia” rappresentata da Mosca. “Per principio non posso né confermare né smentire le notizie in merito”, ha premesso il portavoce, Mitko Mueller, rispondendo a domande durante la conferenza stampa governativa del lunedì a Berlino. “A prescindere dagli articoli che sono stati citati, prendiamo sul serio questa minaccia”, ha detto il tenente colonnello.

IL CORRIDOIO DI SUWALKI

Intanto, si sa già che le manovre Nato si terranno nel quadrante Germania-Polonia-Baltico dove si trova il corridoio di Suwalki, lo stretto passaggio terrestre polacco-lituano tra la Bielorussia e Kaliningrad tra i punti più deboli dell’alleanza rispetto ad una possibile offensiva russa. Un dettaglio non da poco se si considera che il documento top secret rivelato dalla Bild fa proprio riferimento a questo corridoio come il reale obiettivo del Cremlino.

   Dalla Nato sono arrivate parole che lasciano poco spazio alle interpretazioni: le opinioni pubbliche dei Paesi che compongono la Nato “devono capire” che non si può più dare la pace per “scontata” nei prossimi anni e che la guerra è un fenomeno che coinvolge tutta la società, che deve sostenere i militari “con uomini e mezzi”, ha detto il Presidente del Comitato militare dell’Alleanza, l’ammiraglio Rob Bauer, al termine della riunione dei capi di Stato Maggiore. Commentando la pubblicazione dei piani militari tedeschi di un possibile scontro con la Russia a est, Bauer ha detto: “Non mi pare una novità, Mosca per noi è una minaccia e proprio per questo abbiamo sviluppato contromisure”. (da https://www.quotidiano.net/, 18/1/2024)

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(MEDIO ORIENTE: alleati e nemici di Teheran, mappa da https://www.quotidiano.net/)

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IL MURO DEI BALTICI

di Monica Perosino, da “La Stampa” del 20/1/2023

– Accordo tra Estonia, Lettonia e Lituania per creare una “linea di difesa” al confine con la Russia e la Bielorussia “Temiamo un’invasione militare” – Blackout dei Gps in Polonia e Svezia: sospetti su attacchi ibridi di Mosca – Il ministro tedesco Pistorius: “Putin potrebbe attaccare un Paese Nato in 5-8 anni” –

   Quella degli Stati baltici nei confronti della Russia di Putin non è mai stata diffidenza politica, ma paura tangibile che, prima o poi, l’Orso avrebbe cercato di riprendersi quello che considera suo. Dall’indipendenza riguadagnata nel 1991 la guerra russa di spie, attacchi ibridi e sabotaggi contro Lituania, Estonia e Lettonia non ha conosciuto tregue.

   Ma ora, complici le nuove minacce del Cremlino e gli insistenti report dei Servizi tedeschi ed europei che vedono all’orizzonte anche un’escalation militare, i piccoli Stati affacciati su Russia e Bielorussia – che da anni temono di poter essere le vittime di una futura invasione di Mosca -, passano all’iniziativa decidendo di dotarsi di «strutture di difesa» comuni lungo i confini con la Russia e la sua alleata Bielorussia. Ad annunciarlo è stato il ministero della Difesa estone, secondo il quale Lituania, Lettonia ed Estonia «costruiranno strutture difensive anti-mobilità per scoraggiare e, se necessario, difendersi da minacce militari».

   Insomma, l’alleanza difensiva sostenuta finora da una capillare rete antispionaggio e valichi militarizzati o chiusi, si trasforma in un muro fisico e armato, in grado, nel caso, di fermare un’avanzata. I tre Paesi hanno inoltre concordato di sviluppare la cooperazione missilistica. L’Estonia costruirà 600 bunker lungo il confine di 294 chilometri con la Russia, con un budget iniziale di 60 milioni di euro. I dettagli sui contributi di Lituania e Lettonia alla zona di difesa comune devono ancora essere resi noti, tuttavia, il ministro della Difesa lituano Arvydas Anušauskas ha sottolineato la collaborazione in corso con gli Stati Uniti nello sviluppo delle capacità missilistiche Himars, che sarà un aspetto cruciale della strategia di difesa.

   Finora appariva plausibile – a tutti tranne ai Baltici – che Putin avesse messo gli occhi sugli Stati al confine “solo” per esercitare una pressione sul fianco Est della Nato, considerandoli il teatro perfetto per abbaiare minacce all’Occidente e dimostrare capacità offensive che, tuttavia, non avrebbero portato a un conflitto aperto. Poi, l’escalation di allusioni e avvertimenti con lo stesso Putin che, qualche giorno fa, ha incaricato il governo di trovare misure per «proteggere i diritti dei russi all’estero e di adottare misure in caso di deportazione illegale», dopo la decisione della Lettonia di richiedere ai russi e ai bielorussi un certificato di conoscenza della lingua lettone per rinnovare il permesso di soggiorno.

   A settembre Putin aveva accusato i Baltici di propaganda del nazismo. La protezione delle minoranze russe all’estero e la lotta alla “propaganda nazista” – gli stessi pretesti usati per invadere l’Ucraina – devono essere risuonati alquanto sinistri sulle sponde del Baltico. «Di recente sentiamo di nuovo minacce quasi ogni giorno dal Cremlino contro i nostri amici degli Stati baltici», aveva detto il ministro della Difesa tedesco Pistorius, «dobbiamo quindi tenere conto del fatto che Vladimir Putin potrebbe un giorno attaccare un Paese della Nato. I nostri esperti prevedono un periodo di cinque-otto anni».

   Il comandante in capo della Svezia ha esortato gli svedesi a prepararsi mentalmente alla guerra, insieme al ministro della Protezione civile, Carl-Oskar Bohlin, che ha avvertito del potenziale arrivo della guerra in Svezia. I tre Stati baltici, repubbliche dell’Urss fino al suo scioglimento nel 1991 dopo essere state annesse nel 1940 in seguito al patto Molotov-Ribbentrop tra sovietici e nazisti, sono tra i più convinti sostenitori dell’opinione che se non verrà sconfitto in Ucraina, il presidente Vladimir Putin attaccherà anche Paesi della Nato.

   A partire da questi piccoli Stati vicini ai confini della Russia e della Bielorussia. Bastano anche solo i dettagli per capire quanto il passato di oppressione sia ancora vivo: nel cuore di Riga, la bella capitale lettone, c’è un edificio che spiega molto meglio di tanti discorsi la paura nei confronti della Russia. Su un anonimo condominio, ignorato dai passanti – che ricordano fin troppo bene – si legge una targa: «Qui, durante l’occupazione sovietica il Kgb ha imprigionato, torturato, ucciso e umiliato le sue vittime».

   Manovre russe avrebbero intanto già causato problemi a Polonia e Svezia: secondo l’Isw, le interruzioni dei sistemi Gps avvenute tra dicembre e gennaio nei due Paesi potrebbero essere state causate proprio dalle esercitazioni di guerra elettronica condotte da Mosca a Kaliningrad e nel Mar Baltico.

   L’Ucraina intanto continua ad attaccare con i suoi droni infrastrutture energetiche in territorio russo. Una fonte dell’intelligence militare ha rivendicato la responsabilità di un raid su un deposito di petrolio nella regione di confine di Bryansk, dove sono andati a fuoco quattro serbatoi. (Monica Perosino, da “La Stampa” del 20/1/2023)

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(I FRONTI APERTI IN MEDIO ORIENTE, DAL MEDITERRANEO ALL’OCEANO INDIANO, mappa da www.corriere.it/)

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DA GAZA AL PAKISTAN, L’ESCALATION È GIÀ IN ATTO

da https://www.ispionline.it/, 17/1/2024

– L’Iran ha lanciato attacchi aerei in Pakistan, Siria e Iraq, nell’ultimo segno di un’ondata di violenza che si sta diffondendo in tutto il Medio Oriente e oltre –

   L’Iran entra in azione e con una serie di attacchi coordinati colpisce, in meno di 48 ore, obiettivi in Pakistan, Iraq e Siria. Il ministero degli Esteri pakistano ha accusato la Repubblica islamica di aver ucciso dei civili, colpendo alcune abitazioni nella regione frontaliera del Belucistan, “in violazione dello spazio aereo e della sovranità pakistana”. Teheran – i cui rapporti con Islamabad sono tesi da tempo a causa delle attività dei gruppi separatisti che operano sul confine – risponde che i suoi missili hanno raggiunto le basi di un gruppo militante sunnita, Jaish al-Adl (Esercito della giustizia). 

   L’attacco avviene all’indomani di due raid missilistici in Siria e Iraq, parte di una serie di rappresaglie, sulla scia del doppio attentato suicida nella città di Kerman il 3 gennaio che ha ucciso più di 80 iraniani ed è stato rivendicato dallo Stato Islamico (IS). 

   Non è chiaro se Teheran creda in un coinvolgimento di Jaish al-Adl nell’attentato o se si stia scagliando contro nemici regionali per soddisfare le richieste di vendetta interne. In uno scontro incrociato – per il momento ancora indiretto – l’esercito americano intanto è tornato a colpire i ribelli filoiraniani in Yemen, mentre Israele ha lanciato il più massiccio attacco contro i miliziani di Hezbollah nel sud del Libano. Tutti segnali inequivocabili del fatto che la temuta escalation appare sempre più una realtà nell’intera regione e oltre. 

L’INSTABILITÀ È CONTAGIOSA?

Se le rappresaglie iraniane per l’attacco di Kerman non hanno, in teoria, alcun collegamento diretto con la guerra di Gaza, arrivano in un momento in cui il conflitto sta già diffondendo instabilità lungo le coste del Mar Rosso. Gli attacchi alle imbarcazioni da parte dei ribelli Houthi – che dichiarano di agire contro gli interessi israeliani e in solidarietà con i palestinesi a Gaza – hanno portato gli Stati Uniti e i loro alleati a effettuare per la prima volta dei bombardamenti in Yemen, mirati alle posizioni Houthi.

   I raid, tuttavia, non sembrano aver placato le aggressioni: nell’ultimo attacco, ieri, una nave mercantile greca è stata colpita da un missile mentre si dirigeva verso il canale di Suez. Funzionari greci hanno detto che la Zografia, rimasta in navigazione, era partita dal Vietnam con destinazione Israele. Non sono stati segnalati feriti. L’amministrazione Biden ha annunciato l’intenzione di reinserire gli Houthi nella lista delle organizzazioni terroristiche globali. Designato come gruppo terrorista durante la presidenza di Donald Trump, il movimento sostenuto dall’Iran era stato rimosso dalla stessa lista dal presidente Joe Biden nel 2021, per consentire l’ingresso di aiuti umanitari in Yemen. 

GAZA: COSA VERRÀ DOPO?

Intanto prosegue il conflitto nella Striscia di Gaza. Nelle ultime ore le forze israeliane si sarebbero ritirate dall’area intorno al più grande ospedale della città di Khan Younis, nel sud della Striscia, dopo che il loro avvicinamento aveva scatenato il panico tra le migliaia di persone che vi si rifugiavano. Inoltre, militanti palestinesi hanno lanciato 25 razzi contro la città israeliana di Netivot e, sebbene non ci siano state vittime, l’attacco è stato utilizzato dal consiglio di guerra del primo ministro Benjamin Netanyahu per smentire le previsioni secondo cui Israele si starebbe orientando verso una campagna più mirata a Gaza.

   Mentre la guerra entra nel quarto mese, Israele ha detto poco o nulla sui suoi piani per Gaza nel dopoguerra, creando un vuoto nel quale l’estrema destra – sottolinea la CNN – ha avuto buon gioco nell’infiltrarsi promuovendo l’idea di ripristinare un controllo israeliano sul territorio, deportando la popolazione palestinese. La settimana scorsa Israele è stato accusato di genocidio dal Sudafrica alla Corte internazionale di giustizia, secondo cui la campagna militare israeliana era intesa a “portare alla distruzione” della popolazione palestinese, e che i commenti dei leader israeliani segnalano il loro “intento genocida”. Israele ha negato l’accusa definendola una distorsione del significato stesso del termine “genocidio”. 

SI RISCHIA UNO SCONTRO DIRETTO?

Gli ultimi giorni sono stati la dimostrazione di forza più diretta dell’Iran dal gennaio 2020, quando Teheran rispose all’uccisione del Generale Qassem Suleimani da parte di Washington con attacchi missilistici sulle truppe statunitensi in Iraq. Intervenendo al World Economic Forum di Davos, in Svizzera, il ministro degli Esteri iraniano Hossein Amir-Abdollahian è stato chiaro: “Se il genocidio a Gaza si ferma, ciò porterà alla fine di altre crisi e attacchi nella regione”.

   Amir-Abdollahian ha affermato di aver avuto in proposito due colloqui con il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah negli ultimi due mesi e ha aggiunto che la sicurezza marittima nel Mar Rosso, nel Golfo di Oman e nel Golfo Persico “sono importanti per l’Iran”, esportatore di petrolio, sostenendo anche che Teheran ha informazioni secondo cui yemeniti e sauditi si starebbero avvicinando a “un accordo di pace sostanziale”.

   Preoccupazione condivisa anche dall’Arabia Saudita il cui ministro degli Esteri, principe Faisal bin Farhan ha chiarito sempre da Davos che “la priorità deve essere la de-escalation nel Mar Rosso e nell’intera regione attraverso il cessate il fuoco a Gaza”. Esattamente l’opposto di quanto sta avvenendo. Dei dieci missili che hanno colpito Erbil, alcuni sono atterrati a pochi metri dal consolato americano, riflettendo il rischio che presto o tardi, uno di questi attacchi possa portare a uno scontro diretto tra Stati Uniti e Iran, che al momento tutti dicono di non volere.  

Il commento 

di Luigi Toninelli, ISPI MENA Centre 

“Per oltre tre mesi la leadership della Repubblica islamica ha smentito il proprio coinvolgimento negli attacchi effettuati da suoi alleati regionali, evitando di farsi coinvolgere in un potenziale conflitto. Ieri invece, in poche ore, l’Iran ha colpito obiettivi in Siria, Iraq e Pakistan. Se da un lato la scelta di lanciare missili in Siria consente a Teheran di colpire lo Stato islamico (IS) e provare a placare la rabbia interna dopo l’attacco terroristico avvenuto a Kerman e rivendicato da IS, diverso è il caso del Pakistan. I missili lanciati ieri sera contro posizioni del gruppo separatista beluci Jaish al-Adl, senza coordinarsi con le autorità pakistane, potrebbero esasperare le già traballanti relazioni con Islamabad e accrescere l’instabilità lungo un confine problematico”.  

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A cura della redazione di ISPI Online Publications (Responsabile Daily Focus: Alessia De Luca,  ISPI Advisor for Online Publications) 

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(“LA GUERRA A GAZA DURERÀ ANCORA A LUNGO”, dice Israele – foto da IL POST.IT, https://www.ilpost.it/)

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(Venezuela-Guyana, mappa da https://www.settimananews.it/) – In Sud America sono diversi gli scenari incandescenti. Uno in particolare sembra contenere lo stesso problema legato alla sovranità territoriale riscontrato nelle due guerre “occidentali” principali: la contesa territoriale sulla Guyana Esequiba, regione che costituisce i due terzi dello Stato della Guyana, ricca di petrolio e risorse minerarie. Un recente referendum tenutosi in Venezuela con esito positivo rivendica la sovranità su quel territorio, al centro di una disputa che dura da quasi 200 anni. Il presidente Nicolas Maduro vorrebbe annettere il territorio, mentre la Guyana si oppone con buona pace del Brasile, che confinando con entrambi, ha già aumentato i propri militari lungo le frontiere, temendo una possibile escalation e l’inizio di un conflitto armato. (di Antonella Alba, da https://www.rainews.it/, 28/12/2023)

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DAL MEDIO ORIENTE ALL’UCRAINA, DAL SUDAN AL MYANMAR: LE GUERRE DEL 2023 CHE MINACCIANO IL 2024

di Antonella Alba, da https://www.rainews.it/, 28/12/2023

– Non solo morte e distruzione, ma anche migrazione, carestie, perdita d’identità. Venti di guerra soffieranno ancora a lungo per tutto il 2024 mentre l’umanità è sotto il fuoco continuo anche delle conseguenze del cambiamento climatico –  

   II 2023 è stato segnato da due guerre, quella russo-ucraina che continua e quella iniziata oltre due mesi fa tra Israele e Hamas. Due conflitti che hanno polarizzato l’attenzione internazionale e la pubblica opinione per i quali, nonostante gli sforzi, non si riesce a trovare una soluzione diplomatica e che rischiano di peggiorare allungandosi per tutto il 2024. 

   La controffensiva ucraina non è riuscita a ribaltare le sorti del conflitto cominciato due anni fa e – secondo alcuni analisti – in questi lunghi mesi ha rappresentato il più alto rischio di scontro nucleare degli ultimi 60 anni.  Ci voleva una “nuova guerra”, quella mediorientale, perché quel timore uscisse di scena mentre, invece, è sempre là a ricordarci che una guerra alle porte dell’Europa è ancora possibile. Lì dove il Paese considerato culla della civiltà russa ha, invece, ottenuto il via libera per entrare a far parte dei 27. 

   Fonti non confermate parlano di almeno 190mila soldati ucraini rimasti vittima di due anni di guerra. Un ucraino su 3 è stato costretto a fuggire dal proprio Paese. E anche per i militari russi, il Cremlino non fornisce dati certi. Secondo il New York Times sarebbero almeno 120mila quelli rimasti sul terreno. Ma sono i civili le vittime principali in tutti i conflitti. 

   Non solo morte e distruzione, guerra significa soprattutto migrazione, carestia, diritti umani violati e Continua a leggere

LA GEOGRAFIA DEGLI STRETTI: passaggi indispensabili per il predominante commercio marittimo mondiale di fonti energetiche -petrolio- e altro; e causa di ricatti, pretese geopolitiche e sorgenti di rovinose guerre – Il caso dello Stretto di Bab el-Mandeb, porta sul Mar Rosso, possibile terzo conflitto mondiale dopo Ucraina e Gaza

(Mar Rosso e gli attacchi degli Houthi yemeniti, mappa da https://www.tgcom24.mediaset.it/) – Lo stretto di Bab el-Mandeb è largo appena 20 miglia nautiche (meno di 40 km); è situato tra la punta sud-occidentale della penisola arabica e il Corno d’Africa. Fino a un quarto delle merci mondiali transita attraverso questo stretto, comprese le forniture energetiche critiche per l’Europa provenienti dal Golfo Persico – Il 19 dicembre 2023 gli Stati Uniti hanno annunciato un’operazione chiamata ‘Prosperity Guardian’ per ristabilire l’ordine nel Mar Rosso. E’ una coalizione internazionale di cui fanno parte, tra gli altri, anche Regno Unito, Francia, Italia, Spagna, Olanda, Norvegia, Australia e Seychelles. (Alessio Dell’Anna, 27/12/2023, da https://it.euronews.com/)

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(guerrieri Yemeniti Houthi, foto da https://formiche.net/) – “(…) Gli Houthi sono un gruppo islamista filo-sciita dello Yemen, supportato militarmente dall’Iran. Sono stati dichiarati organizzazione terroristica dal governo legittimo dello Yemen, dall’Arabia Saudita, dagli Emirati Arabi Uniti e dalla Malesia.   Al momento hanno in mano gran parte dello Yemen occidentale, inclusa la capitale Sana’a’.   Nel 2015, una coalizione guidata dall’Arabia Saudita, di cui fa parte anche il governo yemenita, gli ha dichiarato guerra, scatenando un conflitto che ha causato centinaia di migliaia di morti.   La guerra tra la coalizione araba e gli Houthi è ancora in corso, sebbene al momento sia stata stipulata una tregua. (…)” (Alessio Dell’Anna, 27/12/2023, da https://it.euronews.com/)

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TIMES, SUNAK AUTORIZZA RAID AEREI CONTRO HOUTI

Il premier britannico Rishi Sunak ha autorizzato attacchi aerei britannici contro le posizioni militari Houthi nello Yemen per respingere gli attacchi dei ribelli appoggiati dall’Iran alle navi in transito nel Mar Rosso.

Lo scrive il Times.
    Il Regno Unito si dovrebbe unire agli Stati Uniti e ad altri alleati nello svolgimento della missione “a breve”, scrive il quotidiano.

(da ANSA, ore 23,00 del 11/1/2024)

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HORMUZ & GLI ALTRI. GLI STRETTI MARITTIMI CHE SCOTTANO: LÌ PUÒ SCOPPIARE UN’ALTRA GUERRA

di Francesco Palmas, 28/12/2023, da AVVENIRE, https://www.avvenire.it/

– Oggi sono i terroristi e i pirati a sconvolgere i flussi del commercio mondiale. Non solo gli Houthi nel Mar Rosso, ma anche in Asia oppure a Hormuz –

   Ce n’eravamo accorti già durante la Guerra fredda: presidiare gli stretti è vitale. E lo conferma uno studio dello stato maggiore interforze statunitense. Negli anni ’80 si doveva sorvegliare i movimenti della flotta sovietica nelle strettoie del Bosforo, del Baltico, del Mar Bianco e del Mar del Giappone. Oggi sono i terroristi e i pirati a sconvolgere i flussi del commercio mondiale. Sono bastati i raid dei ribelli yemeniti Houthi per far capire anche ai meno esperti la vulnerabilità delle nostre economie, dipendenti dal mare per il 90% delle merci scambiate e per il 40% della ricchezza globale. Gli insorti ci affrontano con un conflitto asimmetrico, giocato sulle spalle di Gaza, facendo tornare in auge vecchie tattiche, mutuate della jeune école francese e dai pasdaran iraniani; negare la libertà di navigazione è il loro obiettivo, colpendone la linfa vitale, i commerci.

   E il Mar Rosso, angusto intorno a Bab el-Mandeb e Suez, si presta alla perfezione alle manovre di “sea denial”, grazie alla diffusione dei droni kamikaze e dei missili antinave, in dote a molte tecnoguerriglie. La vulnerabilità degli stretti, crescente, impone di riflettere sulla protezione dei megaporti e delle navi.

   Probabilmente basterà l’operazione Prosperity Guardian a riportare le grandi compagnie di navigazione a Bab el-Mandeb e Suez, anche perché gli Houthi e l’Iran non possono osare troppo: l’area è un arsenale navigante, fitto di navi da guerra e aerei occidentali.

   Bab el-Mandeb, non diversamente da Suez, non è nuovo a tensioni; lo attraversano 17mila navi l’anno. L’uno e l’altro hanno già vissuto momenti tragici, dall’attentato alla petroliera Limburg, alle crisi drammatiche del 1956-57 e 1967-75. Oggi il dossier è complicato dalla natura filo-palestinese degli attacchi Houthi e dal pullulare di interessi spesso conflittuali, traditi dalla danza delle basi a Gibuti, sentinella principe degli stretti. 

   I Paesi mediorientali e del Mashrek sono riluttanti a prendere posizioni nette per non alienarsi i favori delle opinioni pubbliche e non compromettere l’appeasement ritrovato con l’Iran, padrino degli Houthi. Anche gli americani sono prudenti: per ora non hanno bombardato lo Yemen; sanno che la mossa potrebbe incendiare la regione e aprire un fronte con Teheran, destabilizzando l’arteria numero uno del commercio mondiale: Hormuz, il “choke point” per antonomasia, polmone fra il Medio Oriente e l’Oceano Indiano, attraversato da 53mila navi l’anno e unica via d’uscita per il petrolio del Golfo diretto ai mercati dell’Asia e dell’Oceania.

   Ricchezze enormi, intorno alle quali si stagliano antagonismi irriducibili fra Washington e Teheran e fra Washington e Pechino, in una rotta che dall’Europa passa per il Golfo, attraversa l’Asia centrale e finisce in Estremo Oriente.

   L’Iran, che domina lo stretto, ha un potere di ricatto enorme, forse il deterrente maggiore quando minaccia di bloccarlo, intrappolandovi il 6-7% del petrolio mondiale. E chi dice Hormuz dice anche militarizzazione delle flotte e contenzioso sul Mar Cinese meridionale, foriero di conflitti in divenire, aggravati dalla pirateria marittima e dal rischio saldatura fra bucanieri e terroristi di matrice salafita, soprattutto intorno allo stretto di Malacca, nerbo dei traffici mondiali da e per l’Estremo Oriente, imprescindibile per Cina, Taiwan, Corea e Giappone. Ne dipende il 90% del loro import petrolifero, con transiti globali pari a 80.000 navi l’anno, più che a Suez (23.583 navi) e a Panama (14.274 navi), un canale fiaccato ultimamente anche dalla siccità.

(Francesco Palmas, 28/12/2023, da AVVENIRE, https://www.avvenire.it/)

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(mappa da https://it.euronews.com/) – “Il campo da tenere d’occhio è il mar Rosso, il prossimo obiettivo sono gli houthi, la milizia sciita su cui stavolta l’Iran ha deciso di investire perché, diversamente da Hezbollah, costa poco e i morti houthi non importano a nessuno. Gli americani però, con l’aiuto degli Emirati e dello Yemen del Sud, hanno mandato una flotta per metterli fuori gioco: il prossimo confronto militare sarà laggiù” …“Anche per la Cina c’è il problema del Mar Rosso, dove il blocco delle merci, quasi tutte cinesi, gonfia i prezzi: per questo Pechino sta provando a mediare, pur consapevole che la regione è imprevedibile e che in passato il tentativo di riconciliare Iran e Arabia Saudita è stato un fallimento dalle cui maglie sono usciti gli houthi…”  (GILLES KEPEL intervistato da Francesca Paci, “La Stampa” del 9/1/2023)

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Il contesto geopolitico dei due STRETTI fondamentali (anche nello scontro Iran, Israele, Stati Uniti….): cioè di HORMUZ e di BAB EL-MANDEB, con al-Hudaidah, città e principale porto dello Yemen, sul Mar Rosso (e con a nord SUEZ) (mappa da https://ilmanifesto.it/)

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PERCHÉ LO STRETTO DI BAB EL-MANDEB È COSÌ IMPORTANTE PER L’ECONOMIA MONDIALE?

di Tom Metcalfe, 9-1-2024, da https://www.nationalgeographic.it/

– Grazie alla sua posizione strategica lungo una delle rotte marittime più importanti del mondo, lo stretto di Bab el-Mandeb è un vero e proprio “punto caldo” internazionale. –

   Bab el-Mandeb è una piccola strozzatura geografica nel Mar Rosso che ha un’influenza enorme sull’economia mondiale: è un punto chiave per il controllo di quasi tutte le spedizioni tra l’Oceano Indiano e il Mar Mediterraneo attraverso il Canale di Suez. I recenti attacchi dei droni alle navi commerciali a Bab el-Mandeb da parte delle forze Houthi dello Yemen hanno avuto come conseguenza l’arrivo di navi da guerra di diversi Paesi a pattugliare l’area, mentre molte navi commerciali stanno scegliendo di percorrere la rotta più lunga – più costosa e molto più pericolosa – intorno all’Africa per raggiungere il Mediterraneo. Oggi Bab el-Mandeb è al centro delle cronache mondiali, ma anche in passato ha svolto un ruolo importante nella storia dell’umanità.

Che cos’è esattamente Bab el-Mandeb?

Si tratta di uno stretto largo 20 miglia nautiche (quasi 40 km) e lungo 70 (circa 130 km) che separa il Corno d’Africa dalla punta meridionale della Penisola arabica che costituisce in pratica l’ingresso meridionale del Mar Rosso dal Golfo di Aden e dall’Oceano Indiano. Sul lato ovest dello stretto si affacciano Eritrea e Gibuti, mentre lungo il suo lato orientale si trova lo Yemen.

   Un’isola chiamata Perim (nota anche come Mayyun) blocca parzialmente la parte più stretta del Bab el-Mandeb sul lato yemenita, mentre poco più a sud, al largo di Gibuti, si dipanano le Isole dei Sette Fratelli.

Come e perché ha preso questo nome?

Bab el-Mandeb significa “Porta delle lacrime” o “Porta del lamento funebre” in arabo, da bab, che significa “porta” e mandeb (o mandab) che significa “lamento”.

   Il nome sembra riferirsi ai pericoli della navigazione in questa stretta via d’acqua, piena di correnti trasversali, venti imprevedibili, scogli e secche. Molte navi nei secoli e nei millenni passati sono naufragate nello stretto, mentre le navi moderne devono affrontare anche i pericoli delle mine navali di conflitti passati.

Perché Bab el-Mandeb fa notizia?

Un gruppo di ribelli yemeniti noto come Houthi, che prende il nome dal suo fondatore Hussein al-Houthi, ha dato il via nel 2004 a una rivolta contro il governo ufficiale dello Yemen, accusato di schierarsi contro di loro parteggiando con l’Arabia Saudita. Dal 2014 gli Houthi controllano la capitale Sanaa e gran parte dell’ovest e del sud del Paese.

   Gli Houthi sono principalmente musulmani sciiti con legami con l’Iran, che ha finanziato la loro ribellione contro il governo yemenita a maggioranza sunnita e i loro attacchi all’Arabia Saudita, a guida sunnita. Alla fine del 2023 gli Houthi hanno annunciato che avrebbero preso di mira le navi a Bab el-Mandeb a sostegno di Hamas, a sua volta sostenuto dall’Iran, che attualmente è coinvolto nel conflitto contro Israele a Gaza.

Da allora le forze Houthi hanno lanciato missili contro diverse navi nello stretto e anche contro Israele.

Quanto traffico marittimo si muove tra l’Europa e l’Asia?

Bab el-Mandeb, il Mar Rosso e il Canale di Suez sono collegamenti vitali lungo la principale rotta marittima del mondo tra Asia ed Europa.

   L’Organizzazione Marittima Internazionale (IMO) stima che fino a un quarto del traffico marittimo mondiale passi lungo questa rotta, il che equivale a diversi miliardi di tonnellate di merci ogni anno. Secondo la U.S. Energy Information Administration, questo include circa 4,5 milioni di barili di petrolio al giorno che provengono dai paesi del Golfo Persico e dell’Asia.

Che importanza aveva nella Preistoria?

La maggior parte dei paleoantropologi è oggi favorevole alla teoria Out of Africa, nota anche come teoria della “origine africana recente”, secondo la quale l’uomo moderno, Homo sapiens, si sarebbe evoluto in Africa Orientale circa 150.000 anni fa.

   Da lì, Homo sapiens sarebbe emigrato in Medio Oriente, Asia, Europa e nelle Americhe, sostituendo col tempo altre specie di ominidi che già vivevano in molte di queste aree.

   Se così fosse, l’antica migrazione dal Corno d’Africa verso la Penisola arabica è stata probabilmente il loro primo passo – e alcuni studiosi hanno proposto che lo stretto di Bab el-Mandeb possa essere stato, almeno per una parte del tempo, un ponte terrestre tra le due regioni.

   Uno studio del 2006 indica che non sarebbe esistito alcun ponte terrestre attraverso Bab el-Mandeb per diversi milioni di anni, ma un altro più recente ha proposto che il mare tra le due regioni fosse così stretto da poter essere facilmente attraversato a nuoto o lasciandosi trasportar dalla corrente.

Qual è stata l’importanza di Bab el-Mandeb nell’epoca moderna?

Per millenni, Bab el-Mandeb è stato conosciuto come un pericoloso tratto di mare ai confini del mondo mediterraneo; si sapeva che al di là di esso si trovavano le ricchezze dell’India e dell’Estremo Oriente, ma lo stretto era una barriera molto temuta e le rotte via terra erano spesso considerate più sicure.

   La “Porta del Dolore” acquisì però una nuova importanza globale dopo il 1869, con l’apertura del Canale di Suez in Egitto, che univa il Golfo di Suez, a nord-ovest del Mar Rosso, al Mar Mediterraneo. L’apertura del Canale portò a un drastico aumento del traffico marittimo nel Mar Rosso e attraverso Bab el-Mandeb e divenne presto la rotta di navigazione preferita tra Europa e Asia.

   L’Impero britannico si era già impadronito dell’Isola di Perim al centro di Bab el-Mandeb durante le guerre napoleoniche; decenni dopo, nel 1856, temendo una rinascita del potere francese attraverso il canale allora in costruzione proprio da parte francese, la Gran Bretagna occupò completamente l’isola, stanziandovi truppe e costruendo un faro; la Gran Bretagna usava Perim principalmente come stazione di rifornimento per le navi a vapore alimentate a carbone che viaggiavano da e verso la sua base navale di Aden, una città portuale sulla costa meridionale dello Yemen a circa 100 miglia nautiche a est di Bab el-Mandeb.

   La presenza britannica nell’area continuò fino alla fine degli anni ’60, quando Perim passò ai governanti del sud dello Yemen. In seguito il sud dello Yemen passò sotto l’egida del blocco comunista, mentre l’Egitto sosteneva invece il regime del nord dello Yemen. Le due parti combatterono un’aspra guerra civile fino alla loro unificazione formale nel 1990.

Qual è stato il ruolo di Bab el-Mandeb dagli anni ’60 in poi?

Negli ultimi decenni Bab el-Mandeb è diventato un “punto caldo” globale a causa delle enormi quantità di merci e di petrolio che lo attraversano. Diverse potenze mondiali, tra cui gli Stati Uniti e la Cina, mantengono attualmente grandi basi militari sul lato gibutiano dello Stretto, presumibilmente per evitare che Bab el-Mandeb sia preda di ostilità.

   Il recente conflitto in Israele non è il primo che coinvolge Bab el-Mandeb. Nel 1973, dopo la guerra dello Yom Kippur, i membri arabi della Comunità economica dei produttori di petrolio (OPEC) annunciarono un blocco delle petroliere dirette in Israele dall’Iran, allora governato dal regime filo-occidentale dello Scià. Le navi egiziane fecero rispettare il blocco a Bab el-Mandeb e costrinsero molte petroliere a tornare indietro, finché lo stretto fu riaperto alcuni mesi dopo. Gli eventi della storia recente hanno evidenziato l’importanza geopolitica di questo tratto di mare e il suo impatto critico sulle forniture energetiche globali.

(Tom Metcalfe, 9-1-2024, da https://www.nationalgeographic.it/)

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(Lo STRETTO di HORMUZ, mappa ripresa da https://www.ocean4future.org/) – “(…) Con una larghezza di appena 21 miglia nautiche nel punto più stretto, i mercantili seguono degli instradamenti, vere autostrade del mare per immettersi sulle rotte che vanno ad oriente oppure si dirigono verso Aden/Bab el Mandeb. Lo Stretto di Hormuz è attraversato da un terzo delle esportazioni mondiali di petrolio greggio via mare e collega i grandi produttori del Medio Oriente con i clienti in tutto il mondo.  Questo ne fa uno stretto strategico di primaria importanza. Dozzine di petroliere viaggiano ogni giorno attraverso lo Stretto, ma il loro passaggio è diventato, dal 1990, molto più complicato: mine navali ed attacchi, hanno messo in luce il pericolo per gli armatori del transito nello stretto. (…)” (ANDREA MUCEDOLA, da https://www.ocean4future.org/, 22/5/2021)

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MAR ROSSO, COSA C’È DA SAPERE SULLA CRISI CHE METTE A RISCHIO IL COMMERCIO MONDIALE

di Alessio Dell’Anna, 27/12/2023, da https://it.euronews.com/

– Gli attacchi dei ribelli yemeniti rischiano di mettere in ginocchio il settore dei trasporti marittimi, che solo nel Mar Rosso rappresenta il 12% del commercio mondiale, per un valore di 1,2 trilioni di dollari l’anno –

   Da più di un mese, un gruppo di ribelli yemeniti sta attaccando navi mercantili nel Mar Rosso.

   Gli Houti, conosciuti anche come i Partigiani di Dio, hanno annunciato di voler entrare nella guerra tra Israele e Hamas al fianco del popolo palestinese, attaccando tutte le navi dirette verso Israele. 

   I lanci missilistici dallo Yemen hanno di fatto aperto un altro fronte per Israele, che sta già tenendo testa ad  attacchi sul confine nord provenienti dal Libano.

Chi sono gli Houthi?

Gli Houthi sono un gruppo islamista filo-sciita dello Yemen, supportato militarmente dall’Iran. Sono stati dichiarati organizzazione terroristica dal governo legittimo dello Yemen, dall’Arabia Saudita, dagli Emirati Arabi Uniti e dalla Malesia.

   Al momento hanno in mano gran parte dello Yemen occidentale, inclusa la capitale Sana’a’. 

   Nel 2015, una coalizione guidata dall’Arabia Saudita, di cui fa parte anche il governo yemenita, gli ha dichiarato guerra, scatenando un conflitto che ha causato centinaia di migliaia di morti. 

   La guerra tra la coalizione araba e gli Houthi è ancora in corso, sebbene al momento sia stata stipulata una tregua.

Cosa sta succedendo esattamente nel Mar Rosso?

Gli Houthi stanno lanciando missili e droni navali dai territori controllati in Yemen, incluso il porto of Hudaydah. 

   Dall’inizio degli attacchi – il più eclatante dei quali ha visto addirittura il sequestro di un’intera nave israeliana – “più di duecento navi hanno dichiarato incidenti, e circa 180 vascelli sono state costretti a cambiare rotta”, dice l’esperto di logistica della University of Bradford, Gokcay Balci.

   Al netto di qualche leggero danno, nessuna nave è stata affondata né sono state riportate vittime.

   Tuttavia, la concentrazione degli attacchi in uno stretto di mare largo appena 32 chilometri, tra lo Yemen e il Gibuti, ha spinto la maggior parte degli armatori ad evitare la tratta.

Quali sono state le conseguenze?

Almeno 8 tra i 10 più grandi armatori del mondo – tra cui MSC e Maersk – hanno temporaneamente sospeso ogni viaggio per il Mar Rosso, decidendo di virare verso il Capo di Buona Speranza, in Sud Africa, per raggiungere l’Europa. 

   Una deviazione di 9.000 chilometri, che comporta “tra i sei e i 14 giorni di viaggio in più” secondo Guy Platten, segretario generale dell’International Chamber of Shipping.  

   Gli esperti sono concordi nel dire che queste enormi deviazioni non hanno avuto, per il momento, ricadute sostanziali sul prezzo delle merci. 

   Sono aumentate però le polizze assicurative delle navi e, ovviamente, l’uso del carburante. In particolare, questo comporterebbe un incremento delle emissioni di anidride carbonica tra il 20% e il 35%, secondo Gokcay Balci.   Alcune compagnie inoltre stanno pagando un sovrapprezzo tra i 500 e i 1000 dollari in più a cargo.

Come sta reagendo l’occidente?

Il 19 dicembre, gli Stati Uniti hanno annunciato un’operazione chiamata ‘Prosperity Guardian’ per ristabilire l’ordine nel Mar Rosso. E’ una coalizione internazionale di cui fanno parte, tra gli altri, anche Regno Unito, Francia, Italia, Spagna, Olanda, Norvegia, Australia e Seychelles. 

   Il segnale è stato colto positivamente da alcuni armatori, tra cui Maersk, che, pochi giorni dopo l’arrivo delle prime navi americane nella zona, ha annunciato di voler riprendere la tratta del Mar Rosso “appena possibile”.

Cosa potrebbe succedere adesso?

Nel caso gli Houthi non fermassero gli attacchi, gli Stati Uniti e la loro coalizione “potrebbero decidere di neutralizzare alcune posizioni dei ribelli”, dice Chris Doyle, direttore del Counci for British-Arab Understanding, aggiungendo però che “non è facile colpirli tra le colline dello Yemen.”

   “Gli Houthi sono stati capaci di lanciare missili in Arabia Saudita, colpendo obiettivi vitali, come infrastrutture petrolifere, come negli Emirati Arabi. Hanno missili che possono viaggiare per più di 1.600 chilometri. E’ pericoloso, ma non fare nulla potrebbe essere altrettanto problematico, significherebbe lasciarli fare, oltre che mettere a rischio una tratta importante come quella del Mar Rosso.”

   “Gli Houthi hanno dichiarato che questi attacchi continueranno finché Israele non fermerà le operazioni a Gaza. E’ un movimento che capta tutta la profonda rabbia causata dalla distruzione e dalle morti di questa guerra… provocati dai bombardamenti israeliani”.

(Alessio Dell’Anna, 27/12/2023, da https://it.euronews.com/)

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(CLICCARE SULL’IMMAGINE PER INGRANDIRLA) (Maritime choke points, mappa da https://www.infodata.ilsole24ore.com/) – “(…) Oggi sono i terroristi e i pirati a sconvolgere i flussi del commercio mondiale. Sono bastati i raid dei ribelli yemeniti Houthi per far capire anche ai meno esperti la vulnerabilità delle nostre economie, dipendenti dal mare per il 90% delle merci scambiate e per il 40% della ricchezza globale. Gli insorti ci affrontano con un conflitto asimmetrico, giocato sulle spalle di Gaza, facendo tornare in auge vecchie tattiche, mutuate della jeune école francese e dai pasdaran iraniani; negare la libertà di navigazione è il loro obiettivo, colpendone la linfa vitale, i commerci. (…)” (Francesco Palmas, 28/12/2023, da AVVENIRE, https://www.avvenire.it/)

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(Strait of Malacca, mappa da Wikipedia) – “(…) Lo stretto di Malacca è il passaggio storico tra l’oceano Indiano ed il Pacifico. Questo stretto marittimo è forse secondo solo ad Hormuz per il volume del traffico mercantile mondiale. La via d’acqua è particolarmente suggestiva e si restringe progressivamente da circa 97 miglia nautiche fino ad una strettoia di circa 1,7 miglia, il Phillips Channel, che si affaccia sul gigantesco hub marittimo di Singapore.  Lo stretto di Malacca è sulla rotta marittima diretta in Cina, Indonesia, Giappone e Corea del Sud. Nel suo punto più stretto, i rischi di collisione tra navi è elevato. Inoltre, come lungo le coste somale, vi è la possibilità di attacchi da parte dei pirati che non disdegnano di attaccare anche le navi alla fonda in attesa di entrare in porto. (…)” (ANDREA MUCEDOLA, da https://www.ocean4future.org/, 22/5/2021)

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L’intervista a GILLES KEPEL

“IL PROSSIMO FRONTE SARÀ IL MAR ROSSO. HOUTHI BRACCIO DEBOLE DELL’IRAN”

di Francesca Paci, da “La Stampa” del 9/1/2023

– L’analista di Medio Oriente: “Tre mesi di operazioni militari sono stati una catastrofe per Israele Sinwar ha messo in difficoltà Teheran, che scatena i ribelli yemeniti per coprire la sua debolezza” – “Assistiamo a una trasformazione del conflitto: Israele ha attirato su di sé l’accusa di genocidi” – “Il confine Israele-Libano non si scalderà come nel 2006, resterà una guerra di attrito” – “Usa e Israele hanno capito che si deve attaccare Siria, Hezbollah, Iraq e houthi per colpire Teheran” –

   Ipotizza che, nonostante l’alta tensione delle ultime ore, gli scontri al confine con il Libano resteranno al livello di attrito perché la guerra di Gaza è cambiata su pressione di Washington e a condurre l’offensiva israeliana sarà sempre più l’intelligence degli omicidi mirati. Indica il mar Rosso bersagliato dagli houthi come il prossimo fronte su cui si concentrerà la coalizione a guida americana. Mette in guardia dallo scommettere sulla famigerata razionalità dei mullah, «sempre meno in controllo di quell’Iran che è ormai una dittatura militare». GILLES KEPEL, uno dei massimi studiosi di Medio Oriente, sta finendo un saggio sulle conseguenze del 7 ottobre e ne ragiona al telefono con “La Stampa” sul treno che da Mentone lo riporta in Francia, mentre, intorno a lui, la gendarmerie bracca i migranti lungo la frontiera.

Professor Kepel, un altro comandante di Hezbollah è stato ucciso in un raid nel Sud del Libano. Siamo alla vigilia di una escalation?

«Assistiamo a una trasformazione della guerra. Dal punto di vista d’Israele questi tre mesi di operazioni militari sono stati una catastrofe: da vittima del 7 ottobre è oggi agli occhi del mondo un aggressore spietato che non ha neppure ottenuto granché. I leader di Hamas Deif e Sinwar sono vivi, le loro infrastrutture resistono nei tunnel, il massacro di oltre 20 mila palestinesi, due terzi dei quali donne e bambini, ha rigirato contro il popolo segnato dalla Shoah l’accusa di genocidio. Il padrino americano non è contento: se Biden vuole essere rieletto in autunno ha bisogno anche dell’elettorato progressista che protesta per Gaza e la strategia va riorganizzata, subito. La data del cambio di passo è il 25 dicembre, quando, ammazzando a Damasco il generale iraniano Sayyed Reza Mousavi, Israele ha volto gli sforzi a quel che sa fare, operazioni precise con informazioni supportate dall’intelligenza artificiale per eliminare i leader del cosiddetto “asse della resistenza” controllato da Teheran. Mousavi era il ponte tra l’Iran e la rete terroristica di Hezbollah e Hamas, è stato colpito in un quartiere della capitale siriana protetto anche dai russi. Poi è toccato a Saleh al-Arouri, vice di Haniyeh ma più pesante di lui, ucciso nel quartiere di Beirut sud Dahiyeh, la roccaforte di Hezbollah. Ieri (l’8 gennaio, ndr), nel Libano meridionale, è stata la volta del comandante di Hezbollah Wissam Tawil. La scala non è più Gaza, epicentro della vendetta del 7 ottobre: sono tornate le operazioni segrete e mirate contro i nemici».

L’America avrà pure dettato la linea, ma ieri (l’8 gennaio, ndr) il segretario di Stato Blinken è parso ancora molto arrabbiato con i ministri più estremisti di Netanyahu. Israele non ascolta neppure Washington?

«Fino a dicembre la guerra era controllata da Netanyahu – in attesa della condanna per corruzione – insieme ai ministri Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir, due esponenti della destra suprematista che nel 2023 hanno supervisionato il prolificare di colonie illegali e violente in Cisgiordania. Non bastavano i 23 mila palestinesi uccisi, il loro obiettivo messianico era riconquistare Gaza, cacciare 2 milioni di persone e tenerne qualche decina di migliaia a lavorare nelle colonie. Sogno o incubo che fosse, non si realizzerà. Oggi il centro nevralgico non è più nelle mani di Bibi, a cui la Corte Suprema ha anche tolto la copertura sulla riforma della giustizia, ma in quelle del ministro della difesa Galant, dell’esercito e dell’America».

Non c’è il rischio che, nonostante il cambio di strategia, il confine libanese sfugga al controllo e divampi?

«Quel confine è poca cosa rispetto a quel che era nel 2006, ai tempi dell’ultima guerra tra Israele e Hezbollah. Allora Hezbollah cercava la vittoria nel nome di Dio e mise in campo tutta la sua potenza di fuoco ma il risultato fu di mettere in ginocchio il Libano al punto che oggi, debole e sostenuto ormai solo dai soldi dell’Iran, il partito di Nashrallah non ha più la capacità di ingaggiare un vero conflitto. No, quella sulla frontiera libanese resterà una guerra di attrito, senza escalation. Il campo da tenere d’occhio è invece il mar Rosso, il prossimo obiettivo sono gli houthi, la milizia sciita su cui stavolta l’Iran ha deciso di investire perché, diversamente da Hezbollah, costa poco e i morti houthi non importano a nessuno. Gli americani però, con l’aiuto degli Emirati e dello Yemen del Sud, hanno mandato una flotta per fermare i sabotaggi alla via della seta e metterli fuori gioco: il prossimo confronto militare sarà laggiù».

A che gioco sta giocando la Repubblica islamica d’Iran?

«L’Iran è in confusione, corre un rischio non previsto a causa di Hamas. All’inizio anche io credevo che il 7 ottobre fosse un’operazione troppo precisa per essere stata messa a segno da Hamas, che ci fosse dietro l’Iran e magari Hezbollah. Ma oggi pare proprio che Sinwar abbia deciso di testa sua il momento e forse le modalità dell’attacco, mettendo in forte difficoltà “l’asse della resistenza”. Stati Uniti e Israele hanno capito che la risposta giusta era attaccare la rete Siria, Hezbollah, Iraq e houthi e colpire così Teheran. L’Iran ha poi anche il fronte interno aperto, con la protesta delle donne in corso da un anno, e i mullah sembrano non controllare più la situazione come prima, quando vigeva il principio “tutto vietato in pubblico e tutto permesso in privato”. Oggi il clero sciita, di cui tanto si evocava “la razionalità”, è emarginato: comandano i Guardiani della rivoluzione, l’Iran è diventato una dittatura militare con una ideologia radicale ma senza più la base popolare profonda degli ayatollah e contrastato dalla classe media insofferente. Il generale Soleimani, il cui mausoleo è stato attaccato la settimana scorsa a Kerman, è l’imam Hussein dell’Iran contemporaneo».

Cosa ci dice quell’attentato, rivendicato dall’Isis, delle altre forze che si muovono nella regione?

«C’è bisogno di un po’ di distanza per capire cosa sia successo nel doppio attentato di mercoledì scorso alla tomba di Qassem Soleimani. Gli Stati Uniti e Israele hanno certamente la capacità di interagire con questa entità chiamata Isis Khorasan, un oscuro gruppo sunnita in cui tanti servizi segreti si muovono. Sono stati loro? Non impossibile. Potrebbe però essere stato davvero l’Isis e sarebbe anche peggio, perché per l’Iran vorrebbe dire affrontare due nemici in simultanea, l’Occidente e uno Stato Islamico rinvigorito che riaccende quel conflitto settario sunnita-sciita divampato con le primavere arabe e poi ricomposto dall’“asse della resistenza” intorno ad Hamas e alla causa palestinese. Se quello di Kerman fosse stato seriamente un attacco indigeno di questo Isis-K, legato al Balucistan e fermo da tanto tempo, sarebbe un segno di enorme debolezza dello Stato iraniano».

Russia e Cina, per interessi geopolitici, flirtano cinicamente con “l’asse della resistenza”. Stanno giocando col fuoco, come gli americani al tempo della guerra in Afghanistan contro l’Urss?

«Mosca e Pechino sono presenti sul terreno, ma restano un passo indietro. Giocano con il fuoco, i loro interessi sono contraddittori. La Russia guarda con attenzione la guerra di Gaza perché allontana lo sguardo internazionale dall’Ucraina, ma al tempo stesso sacrifica i suoi rapporti con Israele, un tempo fortissimi e oggi tiepidi. Per la Cina, c’è il problema del mar Rosso, dove il blocco delle merci, quasi tutte cinesi, gonfia i prezzi: per questo Pechino sta provando a mediare, pur consapevole che la regione è imprevedibile e che in passato il tentativo di riconciliare Iran e Arabia Saudita è stato un fallimento dalle cui maglie sono usciti gli houthi. Russia e Cina restano un passo indietro perché per quanto beneficino degli attacchi all’Occidente devono sopravvivere e perché “l’asse della resistenza”, con l’Iran in posizione di debolezza e Hezbollah sconnesso dal Libano, è sulla difensiva».

(Francesca Paci, da “La Stampa” del 9/1/2023)

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(MAPPA da https://www.sciencedirect.com/) – LE 13 STRETTOIE DEL TRAFFICO MARITTIMO GLOBALE Uno studio della Duke University analizza le conseguenze logistiche ed economiche dei blocchi degli stretti del mondo, dove passano la quasi totalità del commercio. Quello di Malacca è il più importante di tutti –   Canale di Panama (A), Stretto di Gibilterra (B), Canale della Manica (C), Stretto di Danimarca (D), Stretto del Bosforo (E), Canale di Suez (F), Stretto di Bab el Mandeb (G), Stretto di Hormuz (H), Stretto di Malacca (I), Stretto di Lombok-Makassar (J), Stretto di Ombai (K), Mar Cinese Meridionale (L) e Mar Cinese Orientale (M).   Sono i principali colli di bottiglia del trasporto mondiale, quello marittimo, dove transitano l’80 per cento dei volumi merce e il 70 per cento del valore delle cose che acquistiamo e delle materie prime che lavoriamo. (…)” (Paolo Bosso, https://www.informazionimarittime.com/, 1/3/2023)

LE 13 STRETTOIE DEL TRAFFICO MARITTIMO GLOBALE

di Paolo Bosso, https://www.informazionimarittime.com/, 1/3/2023

– Uno studio della Duke University analizza le conseguenze logistiche ed economiche dei blocchi degli stretti del mondo, dove passano la quasi totalità del commercio. Quello di Malacca è il più importante di tutti –

   Canale di Panama, Stretto di Gibilterra, Canale della Manica, Stretto di Danimarca, Stretto del Bosforo, Canale di Suez, Stretto di Bab el Mandeb, Stretto di Hormuz, Stretto di Malacca, Stretto di Lombok-Makassar, Stretto di Ombai, Mar Cinese Meridionale e Mar Cinese Orientale.

   Sono i principali colli di bottiglia del trasporto mondiale, quello marittimo, dove transitano l’80 per cento dei volumi merce e il 70 per cento del valore delle cose che acquistiamo e delle materie prime che lavoriamo.

   Quanto costerebbe il blocco di questi stretti? Quale stretto causerebbe più danni Continua a leggere