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EUROPA 2024, GUAI STARE NEL MEZZO
di Marco Bentivogli, da CeSPI (Centro Studi di Politica Internazionale), https://www.cespi.it/, maggio 2024
Ci avviciniamo rapidamente al rinnovo del Parlamento Europeo. Nel 2019 la divisione marcata tra forze apertamente nazional populiste e anti-europeiste che spingevano per l’uscita dall’Euro e forze dichiaratamente europeiste è stata, paradossalmente, una chiave positiva per dare vivacità, partecipazione e slancio al dibattito sull’Europa.
Lo scenario è cambiato. Lo scontro commerciale e politico tra Usa e Cina, l’invasione russa dell’Ucraina, il determinarsi di nuovi equilibri orientati a un disordine multipolare piuttosto che a un ordine multilaterale, richiedono un ruolo sempre più forte dell’Unione europea.
Eppure l’Europa è più divisa oggi che nel 2019. Il fronte sovranista si è ridefinito e riarticolato e ora, per la prossima Commissione, si profila un accordo tra conservatori e popolari. Troppe le incertezze e le timidezze che hanno indebolito il fronte anti-sovranista a cominciare dall’Italia dove a fronte di legami strutturali sempre più stretti con i partners europei – i paesi dell’Unione continuano a rimanere di gran lunga lo sbocco principale per le imprese italiane – le ultime elezioni hanno consegnato per la prima volta il Paese alla guida di forze dichiaratamente euroscettiche e orgogliosamente sovraniste.
Peraltro occorre riconoscere come il burocratismo, l’inefficacia decisionale, la scarsa legittimazione popolare, eterogeneità delle condizioni nelle diverse regioni restano il terreno su cui i sovranisti giocano la partita contro le istituzioni di Bruxelles. In realtà, gran parte di questi fallimenti sono dovuti al ruolo preminente degli Stati nazionali e ad una scarsa cessione di sovranità alle istituzioni comunitarie: questo processo si è realizzato solo in ambito di politica monetaria con la nascita della BCE, mentre le politiche fiscali e industriali, rimaste in mano ai governi nazionali, sono scarsamente efficaci senza capacità di investimento sovranazionale È come non far arrivare l’acqua all’orto e arrabbiarsi se le piante si seccano.
Alle elezioni europee del 2024 il progetto europeo arriva quindi ammaccato. ma l’Europa unita è e resta la soluzione, non il problema, serve un’inversione di rotta. Oggi parlare di “ever closer Union” ovvero di Unione sempre più coesa, senza che le persone abbiano chiare le ricadute pratiche sulla loro vita, serve solo a dare ulteriore carburante ai populisti-sovranisti che stanno agitando il clima pre-elettorale in vista delle prossime elezioni europee del 2024.
Anche di fronte a quanto sta avvenendo tra Russia e Ucraina occorre riconoscere che l’argomento dell’Unione europea come spazio privo di conflitti e costruttore di pace, ha molta presa sulle generazioni che hanno vissuto le guerre mondiali e il loro portato di morte e distruzione ma per le nuove generazioni che hanno sempre vissuto nella pace e conoscono la guerra dalle tv “all-news” l’argomento non è altrettanto forte. Per questo non si può stare nel mezzo, bisogna impugnare la causa dell’unità europea e motivare le proprie convinzioni tra le persone.
Completare il disegno europeo significa ridurre le disuguaglianze tra le regioni, integrare i sistemi formativi, assumere il pieno controllo delle politiche economiche e fiscali, avere un sistema di difesa comune, eleggere direttamente il Presidente degli Stati Uniti d’Europa.
Tutto questo va compiuto avendo consapevolezza di quanto sia cambiata la società europea – si pensi alle nuove tendenze demografiche – e quindi quanto e come debba essere riformato il mondo della produzione. Ripensare i lavori fuori dai paradigmi e dalle convenzioni giuridiche del ‘900 può liberare energie impensabili così come ridefinire il welfare per ritrovare il consenso e l’adesione delle grandi masse al progetto comune. Finora l’Unione non si è mai direttamente occupata di questo ma proprio l’orizzonte di un welfare comune potrebbe essere quella nuova frontiera capace di dare nuova linfa e spinta propulsiva al sogno europeo. Brexit, a Ovest, Erdogan a Est sono due esempi che dimostrano quanto il sovranismo nella pratica sia nocivo e contrario agli interessi dei lavoratori.
Siamo alle porte del secondo balzo in avanti dell’umanità in termini scientifico tecnologici. La ricerca sta già offrendo e offrirà sempre di più una capacità di abitare in modo più intelligente il pianeta per chi saprà cogliere la sfida su campo aperto.
Progettare lavori, opere, ecosistemi a #umanitàumentata rilancia un’impresa e la rende non solo più forte ma il luogo di costruzione condivisa del futuro. Il nostro continente può essere lo spazio di realizzazione di queste nuove architetture sociali, economiche, industriali. L’Unione europea può diventare la piattaforma di impulso di un mondo aperto libero, sostenibile e solidale, le alternative a questi valori sono dall’altra parte. Bisogna scegliere.
Se di sovranità bisogna parlare, allora parliamo di quella industriale e tecnologica. Dobbiamo riconquistare una sovranità europea autonoma ma non equidistante, tra Cina e Stati Uniti. Intelligenza Artificiale, reti cloud, robotica, ricerca di base e applicata, etc. meritano una capacità europea che non si fermi a costruire buoni regolamenti (vedi Gdpr) ma a elaborare nuovi standard (come avvenne per il Gsmnelle tlc), come dovrebbe avvenire per le reti cloud (con Gaia X). Su questo, si può ricostruire una leadership globale, centrale e di orientamento degli stessi G2, Stati Uniti e Cina, capace di aggregare campioni europei in tutti i settori. Altrimenti, senza la capacità di revisione dei trattati (a partire dalla concorrenza), e quella di revisione del patto di stabilità, molti Governi che hanno promesso cose irrealizzabili, alla vigilia delle elezioni europee, tra un anno torneranno a dare la colpa all’Europa, quando invece la mancanza di risultati è figlia proprio dell’incoerenza e inaffidabilità delle leadership sovraniste innanzitutto nei confronti dei loro elettori, quindi del proprio Paese e infine dell’Europa stessa. Per questo non deve essere lasciato solo alle istituzioni e ai gruppi parlamentari il rilancio del sogno europeo ma deve essere portato al centro del discorso pubblico e della società civile europea.
Ma servono gruppi dirigenti, élite in ogni ambito con queste visioni e capacità. Storicamente hanno portato avanti il progetto europeo, leadership centrali agli schieramenti politici, come Adenauer, Schuman, De Gasperi, poi Kohl e Prodi. Tutti e 5 cattolici, i primi tre, uomini di frontiera, perseguitati dalle dittature nazifasciste.
Chi ha a cuore il destino dell’Unione non può prescindere da questa eredità, da queste biografie.
Per la sinistra e tutti gli europeisti c’è un bivio, non irrilevante, inseguire i populisti (come fece Corbyn) nei loro progetti più miopi o abbandonare, tutta la retorica dell’“Europa si, ma” e dare tutte le proprie energie migliori al completamento del sogno europeo. Non vi sono solo ragioni “ideali” per seguire con determinazione la seconda strada: tornare a lavorare seriamente per il sogno europeo è conveniente ed urgente. In questa fase, le sfumature, gli atteggiamenti rinunciatari sono più pericolosi della demagogia.
(Marco Bentivogli, da CeSPI (Centro Studi di Politica Internazionale), https://www.cespi.it/, maggio 2024)
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LA SCELTA DEL CONSIGLIO EUROPEO, DEI GOVERNI, DI “NON DECIDERE” SULLA PROPOSTA DI RIFORMA DEI TRATTATI DEL PARLAMENTO EUROPEO VIOLA I TRATTATI STESSI
di ROBERTO CASTALDI, da EURACTIV Italia, 2/3/2024
Il Consiglio Europeo, la riunione dei capi di stato e di governo dell’Unione Europea, si appresta ancora una volta a violare le norme europee, sancite dal Trattato di Lisbona, che governano l’Unione europea. I Trattati infatti prevedono che il Parlamento europeo abbia il potere di proporre ulteriori riforme dei Trattati e in quel caso il Consiglio Europeo è chiamato a decidere a maggioranza semplice (non a maggioranza qualificata, né all’unanimità) sull’avvio di un processo di riforma, seguendo due strade: attraverso una convenzione Europea nel caso di riforme rilevanti oppure con una procedura semplificata nel caso di riforme di minor peso. Il pacchetto di riforme che il Parlamento Europeo ha approvato lo scorso novembre, frutto delle proposte scaturite dalla Conferenza sul Futuro dell’Europa, è un progetto organico di riforma dei Trattati che modifica completamente la governance dell’UE superando l’unanimità, rafforzando i poteri dell’Unione in ambito fiscale, energetico, in politica estera di difesa e in altri campi di rilevanza fondamentale per l’Europa. Di fronte a tale proposta, la risposta del Consiglio europeo è stata quella di mettere in stand by la questione rimandandola sine die. (Roberto Castaldi, da euractiv Italia, 2/3/2024)
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SFINIRE LA PIAZZA PRIMA DI OTTOBRE È LA SCOMMESSA DI “SOGNO GEORGIANO”
di Micol Flammini, da “Il Foglio” del 14/5/2024
La popolazione della Georgia è numerosa quanto quella della Toscana. Sono meno di quattro milioni di abitanti e in questi giorni sembrano tutti per le strade di Tbilisi, tanto sono affollate, calpestate, rischiose. Le proteste contro il governo e contro la “legge russa”, approvata dal Parlamento, vanno avanti da settimane, di giorno e di notte, sono incessanti, determinate e forse dovranno esserlo a lungo.
La presidente del paese, Salomé Zourabichvili, potrebbe porre il veto sulla legge, il veto potrebbe essere poi superato con un altro voto in Parlamento e questo sarà il preludio delle elezioni di ottobre, in cui il partito di maggioranza, Sogno georgiano, vuole rivincere a ogni costo.
Allora la protesta dovrà andare avanti, dritta fino a ottobre, organizzata e pronta a pressione e repressione asfissianti. Sarà un rischio, ma Sogno georgiano ha già fatto la sua scommessa: i manifestanti si stancheranno. Marika Mikiashvili, del partito di opposizione Droa, è sicura che il governo farà di tutto per sfiancare i manifestanti, la propaganda è già in azione, manifestare è rischioso, e poi c’è la particolarità di questa piazza senza un leader: “Si diceva che noi georgiani avessimo bisogno di un capo politico, di un potere centrale forte. Si diceva che i georgiani protestano ma poi si stancano. Ci stiamo meravigliando di noi stessi, questa protesta è orizzontale, ci sono varie anime che collaborano, è tutto nuovo”, dice al Foglio entusiasta per l’energia della protesta e preoccupata per la repressione crescente.
Sono arrivati in strada i picchiatori, ci sono gli arresti, ci sono telefonate di intimidazione ai parenti dei leader dell’opposizione. Il governo ha messo in conto che è a ottobre che vuole arrivare e così vuole sfinire questi manifestanti, con l’intento di vederli stanchi e demotivati per le prossime elezioni. “Nessuno vuole una rivoluzione, vogliamo tutti le elezioni, ma ci teniamo che siano oneste, trasparenti. Non so prevedere che effetto potrebbe avere una finta elezione”.
E’ bene iniziare ad andare oltre con il pensiero e con la strategia, il cammino da qui ai primi di giugno sembra scritto: “Credo che il governo abbia intenzione di arrivare fino in fondo con la legge. Forse qualcosa potrebbe cambiare se ci saranno scioperi di varie categorie. Potrebbero edulcorarla, ma non credo che abbiano intenzione di fare un passo indietro”.
Uno lo fecero lo scorso anno, quando per la prima volta Sogno georgiano presentò la “legge russa”, che vuole imporre alle organizzazioni che ricevono più del 20 per cento di finanziamenti dall’estero di registrarsi come agenti stranieri. I georgiani scesero in strada, pronti a tutto, il governo fece finta di ripensarci, ma si prese un anno per pianificare una strategia migliore: “La propaganda è forte, il governo dice che chi manifesta è a favore di una Georgia pronta a farsi colonizzare, noi georgiani non percepiamo l’occidente come un colonizzatore”, anzi temono che se la Georgia andrà avanti con questa legge diventerà un pariah internazionale, perderà le sue credenziali con l’Unione europea, che le ha dato lo status di paese candidato.
E’ un’altra la colonizzazione che la Georgia teme: quella che viene dal Cremlino. Il rischio è che più che all’Ucraina, queste proteste somiglino alla Bielorussia: “Il paragone con le manifestazioni di Euromaidan che iniziarono a Kyiv nel 2013 spesso lo fa anche ‘Sogno georgiano’ in modo dispregiativo. E’ un paragone che usano per dirci che quelle proteste portarono all’invasione russa dell’Ucraina, quindi per accusare i manifestanti di mettere a rischio la sicurezza del paese. In sé questa affermazione fa ridere, è come se ‘Sogno georgiano’ stesse ammettendo: se ci cacciate, se ci fate dimettere, la Russia verrà in nostro soccorso”.
Se qualcuno in queste proteste viene arrestato, la folla lo protegge. Ci si fa scudo gli uni con gli altri, si marcia insieme, ci si difende insieme. E’ questo il senso di comunità georgiana, “è una società piccola e coesa”, dice Mikiashvili. “Se qualcuno ancora giustifica il governo è perché crede che sia europeista ma ha in mente un altro cammino per portare il paese nell’Unione europea. Se aumenterà la violenza, anche queste persone capiranno che invece la destinazione verso cui ci traghetterà il governo è nel verso opposto, lontano dall’Ue”. (MICOL FLAMMINI)
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L’UE SPERA NELLE ELEZIONI PER SALVARE LA CANDIDATURA DELLA GEORGIA
di David Carretta, da “Il Foglio” del 14/5/2024
Bruxelles. La Georgia si trova a un bivio tra il modello Bielorussia di paese sotto il controllo del Cremlino e la strada per entrare nell’Unione europea.
Da un mese decine di migliaia di manifestanti, in gran parte giovani, protestano ogni giorno nella capitale Tbilisi contro una legge sull’influenza straniera che il governo ha copiato dalla Russia di Vladimir Putin per reprimere le organizzazioni delle società civile. Il partito al potere, Sogno Georgiano, nelle mani dell’oligarca filo russo Bidzina Ivanishvili, ha deciso di passare alla forza. Il Parlamento ha approvato in terza lettura quella che è stata ribattezzata dall’opposizione la “legge russa”, che obbliga le organizzazioni che ricevono più del 20 per cento di finanziamenti dall’estero a registrarsi come agenti “al servizio degli interessi di una potenza straniera”.
Le 50 mila persone nella piazza dell’Europa a Tbilisi sabato sera, il coraggio dei giovani colpiti dalla violenza della polizia, le migliaia di bandiere a dodici stelle al fianco di quelle della Georgia e la posta in gioco geopolitica non sono bastati a convincere i leader dell’Ue ad andare oltre le pacche sulle spalle ai democratici e i vaghi avvertimenti al governo di Irakli Kobakhidze.
Le manifestazioni contro la “legge russa” dimostrano “l’impegno e il desiderio davvero impressionanti della vasta maggioranza dei cittadini georgiani per il futuro europeo del loro paese”, ha detto ieri il portavoce dell’Alto rappresentante, Josep Borrell.
E’ arrivato il momento delle sanzioni? “Non ci siamo ancora”. A chiedere a Borrell di preparare misure restrittive mirate contro Ivanishvili, Kobakhidze, il presidente del Parlamento, Shalva Papuashvili, e i parlamentari georgiani che hanno approvato definitivamente la legge è stato un gruppo di quattro eurodeputati uscenti. Ivanishvili, che ha anche la nazionalità francese, potrebbe essere più conciliante di fronte alla prospettiva di vedersi vietato l’ingresso nell’Ue e congelato parte del patrimonio.
I quattro deputati – il socialista Thijs Reuten, la popolare Miriam Lexmann, la verde Viola von Cramon-Taubadel e il liberale Petras Austrevicius – chiedono a Borrell anche di prepararsi a interrompere il dialogo di alto livello con la Georgia e a bloccare l’apertura dei negoziati di adesione.
Alcuni deputati degli stati membri – il tedesco Michael Roth, il lituano Zygimantas Pavilionis, il finlandese Sebastian Tynkkynen, il polacco Bogdan Klich, il ceco Pavel Fischer – hanno deciso di andare a Tbilisi per dimostrare sostegno ai manifestanti. “La vera capitale dell’Europa”, ha detto Roth, presidente della commissione Esteri del Bundestag.
Ma la visita è simbolica. La Commissione di Ursula von der Leyen, che con i finanziamenti ha una forte leva da usare con il governo, ha scelto un profilo basso. Né Borrell né il commissario all’Allargamento, Olivér Várhelyi, hanno ritenuto utile fare il viaggio. Il primo maggio è stato inviato a Tbilisi un alto funzionario, il direttore generale per l’Allargamento, Gert Jan Koopman, per avvertire che la “legge russa” rischia di far deragliare la candidatura della Georgia.
Tra i leader delle istituzioni dell’Ue solo il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, ha preso il telefono in mano per dire al premier Kobakhidze che “il futuro della Georgia appartiene all’Ue” e che i manifestanti “devono essere ascoltati”, mentre ieri in una lettera indirizzata a Borrell e Várhelyi dodici ministri degli Esteri hanno chiesto di dire che è della “massima importanza assicurare il futuro europeo della Georgia” e che occorre indicare “conseguenze concrete” in caso di adozione della legge.
I leader dell’Ue sembrano avere paura di una rivoluzione democratica o un cambio di regime. In Ucraina, nel gennaio del 2014, la visita dell’allora Alto rappresentante dell’Ue, Catherine Ashton, a Maidan galvanizzò i manifestanti fino alla caduta del filo russo Viktor Yanukovich il mese successivo.
L’Ue spera nelle elezioni legislative e presidenziali del prossimo autunno per evitare che la Georgia finisca fuori dalla strada verso l’adesione per imboccare quella del modello bielorusso. Anche la presidente Salomé Zourabichvili, in conflitto aperto con Sogno Georgiano, ritiene che “l’importante ormai è concentrarsi sulle legislative di ottobre”.
Delle discussioni sono in corso tra i partiti di opposizione per creare una piattaforma delle forze democratiche e pro europee. Ma, per il momento, le esitazioni giocano a favore di Vladimir Putin. Il veto di Zourabichvili alla “legge russa” sarà superato da un altro voto in Parlamento. Sogno Georgiano potrà allora usarla per reprimere l’opposizione in vista delle elezioni. La sanzione ultima dell’Ue è revocare lo status di paese candidato della Georgia. Cioè lasciarla a Putin. (DAVID CARRETTA)
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ALLARGAMENTO: come funziona e quali Paesi:
Allargamento dell’UE – Unione europea (europa.eu)
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2004 – 2024: VENT’ANNI FA IL GRANDE ALLARGAMENTO DELL’UNIONE EUROPEA. BILANCI
di DAVID CARRETTA, da IL FOGLIO quotidiano, 1/5/2024, https://www.ilfoglio.it/
– Il primo maggio l’Unione europea ha festeggiato il ventennale del grande allargamento del 2004, dove aderirono dieci paesi. Celebrazioni un po’ sottotono, nonostante i numerosi successi del progetto europeo in questi ultimi vent’anni. Una rassegna –
BRUXELLES. Il primo maggio, l’Unione Europea ha festeggiato il ventennale del grande allargamento del 2004. La guerra della Russia in Ucraina, la crescita dell’estrema destra prima delle elezioni europee, la deriva illiberale di Ungheria e Slovacchia hanno reso la festa molto sottotono. Il Parlamento europeo ha tenuto una cerimonia il 24 aprile, infilata nell’ultima sessione prima della fine della legislatura in mezzo a centinaia di voti, con un discorso poco ispirato della presidente della Commissione, Ursula von der Leyen.
La presidenza belga dell’Ue lunedì ha invitato i ministri per gli Affari europei a una cerimonia celebrativa. Il 30 aprile c’è stata una discussione tra loro sulle elezioni apprese dall’allargamento del 2004, mentre von der Leyen ha pronunciato un discorso a Praga. A Bruxelles la Commissione ha organizzato una “flashmob”: una manifestazione improvvisata per ricordare questo anniversario. È il sintomo di un pericolo. Che il successo del grande allargamento a dieci stati membri del 2004, quello che è servito a riunificare l’Europa dopo la separazione della Cortina di ferro, faccia soprattutto paura. Guardando al futuro e al prossimo grande allargamento è come se l’Ue avesse paura della sua più grande forza.
Se c’è una politica che ha dimostrato tutto il suo successo, sia politicamente sia economicamente, è l’adesione dei dieci paesi che un tempo venivano chiamati con un certo disprezzo “la Nuova Europa”. Il successo economico è evidente guardando ai dati. Venti anni fa, il grande interrogativo era quanto sarebbe costato far uscire una serie di paesi impoveriti da decenni di comunismo, quanti “idraulici polacchi” avrebbero rubato posti di lavoro in Francia, quanto ci avrebbero rimesso Spagna o Italia di fondi coesione.
Invece, l’Ue ha trasformato i paesi Baltici nelle tigri europei. L’Ungheria, la Slovacchia e la Repubblica ceca sono diventate delle mini potenze industriali del mercato unico. La Polonia è diventata terra di opportunità. Anche “l’Ue dei quindici” ha potuto beneficiare di un enorme impulso interno. Le esportazioni spagnole verso i dieci sono raddoppiate. Gli scambi commerciali dell’Italia di beni con questi paesi è aumentato del 77 per cento. “Molti dubitavano della capacità dell’Ue di integrare popolazioni ed economie di più di 100 milioni di persone”, ha ricordato il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel. Invece, il risultato è stato “spettacolare”, ha detto Michel.
Secondo la Commissione, il Pil medio pro capite dei dieci paesi che hanno aderito nel 2004 è cresciuto dal 59 per cento della media dell’Ue all’81 per cento. L’Estonia ha registrato un tasso di crescita medio annuo del reddito nazionale lordo superiore all’8 per cento. Polonia, Slovacchia, Malta e Lettonia sono cresciute in media di oltre il 7 per cento. I salari reali sono raddoppiati tra il 2004 e il 2023. I livelli di povertà ed esclusione sociale sono diminuiti dal 37 per cento nel 2005 al 17 per cento nel 2020. Il numero di bambini a rischio di povertà è diminuito dal 41 per cento al 17 per cento. La percentuale di persone di età compresa tra 25 e 34 anni con un’istruzione terziaria è aumentata di quasi 20 punti percentuali. La “Nuova Europa” è agile, innovativa, intraprendente, giovane e brillante. Sicuramente più di una “Vecchia Europa” che appare sempre più appesantita da élite e popolazioni sempre più avverse al rischio.
Sul piano politico il bilancio può apparire meno positivo. L’Ungheria si è trasformata in un regime democratico illiberale dopo 14 anni di governo di Viktor Orban. Gli otto anni di governo del Partito Legge e Giustizia (PiS) in Polonia hanno eroso le fondamenta dello stato di diritto a un livello tale che il primo ministro, Donald Tusk, sta faticando a tornare a una democrazia liberale piena. La Slovacchia è ricaduta nelle mani di Robert Fico che, appena riconquistato il potere, sta smantellando la legislazione anti corruzione. L’argomento alla moda è che il grande allargamento del 2004 fosse stato precipitato per ragioni politiche e che le democrazie dei dieci nuovi entranti non fossero sufficientemente consolidate per gli standard dell’Ue. Oggi dunque se ne pagherebbe il prezzo.
La realtà è più complessa. La Polonia dimostra che le forze delle democrazie liberali possono riconquistare il potere, anche quando un regime illiberale ha preso il controllo delle redini dello stato per quasi un decennio. In Repubblica ceca Andrej Babiš non è diventato un Orban. Nei Baltici le forze politiche filo russe non sono riuscite a destabilizzare il corso occidentale dei loro governi pro europeo e filo atlantisti. La democrazia e lo stato di diritto, inoltre, sono sempre più fragili anche nella “Vecchia Europa”, sottoposti a costanti attacchi da parte di avversari interni ed esterni.
In realtà, il grande allargamento e l’Ue hanno permesso il consolidamento accelerato delle democrazie degli entranti. Basta guardare all’evoluzione dei paesi vicini, quelli rimasti fuori per scelta dell’Ue o per imperialismo della Russia, per averne la controprova. Le riforme nei paesi Balcani si sono arrestate quando l’Ue ha smesso di fare sul serio sulla loro adesione. Recep Tayyip Erdogan ha imboccato la strada della Turchia neo ottomana e illiberale quando ha capito che le porte dell’Ue di fatto erano chiuse. In Ucraina, Georgia e Moldavia, i leader pro russi, gli oligarchi e la corruzione hanno rialzato la testa ogni volta che l’Ue ha guardato più o meno consapevolmente altrove. La Bielorussia è una dittatura poverissima, oltre che un vassallo di Mosca.
L’allargamento è stata la vera arma del “soft power” dell’Ue. E lo è ancora. L’Ucraina resiste all’aggressione di Vladimir Putin grazie anche alla prospettiva di entrare nell’Ue. In Georgia i cittadini si ribellano al governo filo russo che approva una “legge russa” con le bandiere europee. La Moldavia vede nell’Ue la garanzia per liberarsi della minaccia russa. Nei Balcani occidentali, tra mille contraddizioni, la marcia verso l’Ue di Albania, Bosnia Erzegovina, Macedonia del nord, Montenegro e Serbia (in attesa del Kosovo) è ripartita e con essa alcune (troppo poche) riforme. Durante una conferenza a Bruxelles, la presidente della Moldavia, Maia Sandu, ha chiesto all’Ue di adottare “un bilancio per la pace, cioè un bilancio che faciliti l’allargamento dell’Unione”.
Il primo maggio 2004 non è stata “solo la nascita di un’Unione più ampia. È stata la nascita di una nuova era”, ha ricordato von der Leyen davanti al Parlamento europeo. “Era stata una notte di promesse, perché l’Europa è una promessa: la promessa che tutti gli europei possono essere padroni del proprio destino. La promessa di libertà e stabilità, pace e prosperità”, ha aggiunto la presidente della Commissione. Von der Leyen ha ragione. Come ha ragione quando dice che “oggi il desiderio di unire l’Europa e completare la nostra Unione è più importante che mai”. Ma il desiderio è più forte oltre la linea di confine che divide l’Ue dai nuovi aspiranti entranti.
Da questo lato del confine si sentono già le voci di chi dice che l’Ue non sarà mai pronta ad accogliere altri otto nuovi membri e comunque non l’Ucraina perché è troppo grande. Ci sono già proteste per l’ingresso di prodotti agricoli ucraini e si fanno già i calcoli di quanto perderebbe l’Italia o l’Ungheria di fondi di coesione. La stessa von der Leyen ha scelto di fare del prossimo grande allargamento un processo burocratico. Nel giargone europeo si dice “processo basato sul merito”: un’infinita lista di riforme che devono essere realizzate una a una, verificate da un burocrate a Bruxelles e certificate all’unanimità da tutti gli stati membri. Von der Leyen rifiuta anche una nuova data “big bang”. Il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, invece, ha proposto il 2030. “L’allargamento è una pietra angolare della nostra strategia di sovranità”, ha detto Michel.
Il rischio è ricadere nell’apatia burocratica. Peggio ancora: il pericolo è usare l’apatia burocratica per nascondere la paura del proprio successo. Le conseguenze non sarebbero diverse da quelle che Michel ha evocato se l’Ue non avesse fatto la scelta strategica dell’allargamento venti anni fa. “Provate a immaginare per un momento come un’Ue più piccola e debole, con soli 15 stati membri, avrebbe fatto fronte alla guerra della Russia contro l’Ucraina? Una nuova Cortina di ferro nell’Est sarebbe emersa. La Russia avrebbe occupato in modo permanente questi paesi, sia ideologicamente sia politicamente. L’Est sarebbe caduto vittima del dominio e della soppressione della Russia”, ha detto Michel. “È agghiacciante da immaginare”. (DAVID CARRETTA, da IL FOGLIO quotidiano, 1/5/2024)
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L’UE DEL POST-ELEZIONI ALLA PROVA CON ALLARGAMENTO E GOVERNABILITÀ – “Dopo le elezioni del Parlamento europeo si dovrà affrontare il tema dell’ingresso di nuovi Paesi, dai balcanici all’Ucraina e alla Moldavia. Ma una Unione a 30-32 membri non potrà funzionare senza riforme fondamentali come l’abolizione del diritto di veto. (…) La Commissione Ue è il principale organo esecutivo dell’Unione europea, mentre il Consiglio europeo riunisce i capi di Stato e di governo dei 27 Stati membri e ha funzioni di indirizzo politico. Entrambe le nomine saranno decise dopo le elezioni europee che si terranno dal 6 al 9 giugno, tenendo conto per l’appunto dei risultati elettorali. (…)” (Rodolfo Ricci, da http://www.conquistedellavoro.it/, 3/5/2024)
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C’È UNA LUNGA LISTA D’ATTESA PER ENTRARE NELL’UE
di MATTEO NEGRI, da https://pagellapolitica.it/, 20/3/2024
– Dall’Ucraina alla Bosnia-Erzegovina, passando per la Turchia e l’Albania: vari Paesi vorrebbero aggiungersi agli attuali 27 Stati membri, ma il percorso è tutt’altro che semplice e breve –
Il 12 marzo la Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen ha raccomandato al Consiglio dell’Unione europea di aprire i negoziati per l’ingresso della Bosnia-Erzegovina nell’Unione europea. «In poco più di un anno sono stati compiuti più progressi che in un decennio», ha dichiarato von der Leyen per giustificare questa scelta. (…)
La Bosnia-Erzegovina non è l’unico Paese in lista d’attesa. Il processo di “allargamento” dei confini dell’Ue è fermo da più di dieci anni, da quando Continua a leggere