Frane e alluvioni: l’abusivismo non c’entra (invece c’entra la politica territoriale e urbanistica lasciata nelle mani dei Comuni) – quattro questioni urgenti da risolvere

Le rotaie invase dai detriti della stazione ferroviaria di Giampilieri superiore (Messina), dopo l'alluvione di giovedì notte. Il paese è stato completamente evacuato: 435 persone che si erano rifugiate nella scuola elementare del paese sono state trasferite in autobus in alcuni alberghi a Messina, dopo che i mezzi di soccorso sono riusciti a liberare la strada che collega la piccola frazione con la provinciale 114 (foto Ciro Fusco/Ansa, ripresa da “il Corriere.it”)
Le rotaie invase dai detriti della stazione ferroviaria di Giampilieri superiore (Messina), dopo l'alluvione di giovedì notte. Il paese è stato completamente evacuato: 435 persone che si erano rifugiate nella scuola elementare del paese sono state trasferite in autobus in alcuni alberghi a Messina, dopo che i mezzi di soccorso sono riusciti a liberare la strada che collega la piccola frazione con la provinciale 114 (foto Ciro Fusco/Ansa, ripresa da “il Corriere.it”)

Se in Italia sette comuni su dieci sono a rischio frane, vuol dire che su 8.101 comuni ne sono a rischio 5.671. Una situazione frammentata incontrollabile: senza possibilità di razionalizzazione se prima non si passa per una sintesi amministrativa. Cerchiamo di spiegarci meglio. In questi giorni di tragedia per i morti e le conseguenze del dissesto idrogeologico delle frazioni e comuni del messinese, si è parlato di ABUSIVISMO. Parola avulsa e inesistente. L’abusivismo non esiste. La stragrande maggioranze della abitazioni in Italia è “regolare”: lo è fin dall’origine (regolare concessione o autorizzazione edilizia) per la maggior parte; per i ripetuti condoni edilizi un’altra (minore) parte. Pertanto di abusivo si ha ben poco. Caso mai sono i Comuni del tutto sconsiderati a permettere costruzioni in luoghi all’origine di pericolo, o che con le nuove costruzioni diventeranno pericolosi. A volte poi, osiamo qui dire, qualche casa in un contesto impervio, di area boscata montagnosa o collinare, non ci sta neppure male da un punto di vista della sicurezza generale: diventa una “sentinella” dei pericoli degli smottamenti e movimenti del terreno. Può essere una presenza utile.     Posto allora che qui proponiamo di rivedere il nostro approccio al contesto territoriale, eliminando dai nostri triti discorsi parole obsolete (come “abusivismo”), proviamo qui a porre quattro (sintetiche) questioni di fondo per un generale riequilibrio territoriale onde evitare tragedie periodiche che sembrano ineludibili.

1 – Impossibilità degli 8.101 comuni italiani di gestire urbanisticamente il proprio territorio. Si sa che la politica urbanistica dei comuni è quasi sempre, in modo naturale e spontaneo, influenzata da motivi clientelari (non stiamo qui a dilungarci…) e affidata a amministratori e tecnici spesso non in grado di gestire una materia così delicata: lasciare ai comuni la possibilità di gestire il loro piccolo o grande territorio decidendo dove mettere case, fabbriche e servizi, è pura follia (a poco o niente servono i piani di coordinamento regionali e provinciali). Non parliamo poi della messa in sicurezza del territorio che ai nostri amministratori è cosa che manco passa per la testa (e, vi diranno, a ragione, che non ne hanno le risorse). L’unica possibilità di lasciare ai comuni questa importante funzione (urbanistica e territoriale) è razionalizzarli unificandoli in più grandi e omogenee (geomorfologicamente e storicamente) realtà amministrative. In Italia i geografi (da Lucio Gambi in poi) hanno sempre posto il problema che 8.000 comuni sono troppi: ne basterebbero 800. Solo così si può concedere a loro (Comuni) totalmente la politica urbanistica e di assetto del territorio.

2 – Da sempre il territorio “si muove”: specie in zone montagnose e collinare, ma anche nelle aree costiere e di pianura (con i fiumi che modificano il loro alveo). Certi borghi storici, anche di valenza artistica e di valore per la loro antichità, sono stati costruiti in luoghi non adatti dal punto di vista di questi movimenti territoriali che avvengono, che “devono” avvenire: dobbiamo chiederci se vale la pena conservarli (questi borghi) a tutti i costi, costruendo opere (spesso del tutto innaturali, cemento su cemento) di contenimento per impedire il naturale assetto e trasformazione del luogo ambientale. E dobbiamo capire se mantenere lì la popolazione sia cosa utile (e sicura per queste persone).  mappa italia alluvioni

3 – Qualche presenza urbanistica, abitativa, può andar bene in zone impervie collinare o montane (ma anche sui fiumi e le coste): serve a “essere presenti” sul territorio per segnalarne il dissesto idrogeologico. Un ruolo di sentinella (controllo) dell’ambiente di chi ci vive, dei fenomeni che accadono, e di manutenzione mirata di elementi territoriali fatti dall’uomo: ad esempio i sentieri di montagna sono quasi sempre anche elementi che son serviti e servono tuttora per il regolare scolo e deflusso delle acque in caso di forti piogge; solo chi li usa e ci passa abitualmente può accorgersi se questa funzione idrogeologica non subisce variazioni negative (e rimediare se del caso).

4 – Questione disboscamento-rimboschimento: è l’ABBANDONO il vero  problema. In questi decenni il bosco è cresciuto in modo abnorme in montagna e in aree pedemontane; e non diminuito. E sempre più troviamo aree abbandonate dalle popolazioni per l’impossibilità di fare in esse un progetto economico di vita dignitoso. Pertanto servirà sì in alcuni casi rimboscare; ma ancor di più pulire e recuperare all’abbandono tutte quelle aree che adesso sono incontrollate, lasciate a sè. Un grande progetto di recupero dall’abbandono è necessario (questo si potrebbero connettere bene con le aziende giovanili agro-forestali che sta tentando di sviluppare l’attuale ministro all’agricoltura Zaia).

Cerchiamo di dare un quadro sintetico, qui di seguito, del dibattito che sta avvenendo dopo la tragedia del messinese.

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«Tragedia annunciata». La rabbia sotto il fango

Drammi familiari e personali di chi ha perso tutto. E una certezza: «Non hanno imparato nulla dal disastro del 2007» – da IL GAZZETTINO del 3/10/2009zone colpite

Messina
«È una tragedia annunciata». Salvatore Giccone abita a Scaletta Marea è scampato al disastro causato dal nubifragio nel Messinese descrive così l’accaduto. «Già due anni fa c’erano state frane e bisognava prendere i provvedimenti giusti. Ma non è stato fatto nulla. Forse ora che ci sono stati i morti – aggiunge – qualcosa di farà».
E due anni fa nel 2007 era ottobre, il 25 del mese: un violentissimo nubifragio, che provocò una serie di frane, si abbatté su Giampilieri e Briga, frazioni del comune di Messina, e sui paesi limitrofi come Scaletta Zanclea, oggi nuovamente devastati dal maltempo.
Allora non ci furono vittime, né crolli, ma cumuli di fango, terra e detriti si abbatterono sulle abitazioni e riempirono le strade trascinando via decine di auto. Dalle colline si staccarono massi di terra, diverse case vennero travolte e i torrenti Saponara, Racinacci e Divieto, strariparono bloccando la circolazione e isolando centri abitati.
Ma quella di due anni fa è solo l’ultima delle emergenze provocate dal maltempo nella zona di Messina. Nel 1998, tra Pace e Annunziata, alla periferia nord del capoluogo dello Stretto, sotto le frane seguite a un nubifragio, morirono quattro persone e nel 1996 gli abitanti di Mili San Marco, rischiarono di restare sepolti da una frana.
Dopo la frana dell’ottobre di due anni fa era stato dichiarato lo stato di calamità, furono previsti lavori per 11 milioni di euro che sarebbero serviti per mettere in sicurezza la zona. Nei due anni successivi, però, l’unico lavoro realizzato è stato un terrazzamento a monte della via Palombara, dove oggi i danni sono stati limitati.
E il nuovo disastro annunciato porta con sè decine di tragedie familiari, personali come quella di una famiglia di Giampilieri Superiore. Nella loro abitazione, dopo la frana che ha sconvolto il paese, c’è stata un’esplosione dovuta a una fuga di gas. Il figlio, di una trentina d’anni, è morto, mentre i genitori sono ricoverati in gravi condizioni nel centro grandi ustionati dell’ospedale di Palermo.
Nello stesso paese un padre con il suo figlioletto di 7 anni sono stati “miracolati” perchè erano fuori casa quando la frana ha distrutto la loro casa. L’altra figlioletta di 4 anni e la mamma sono disperse. «La loro casa – dice adesso una signora che li conosceva – se l’è portata via la frana. Chissà che fine ha fatto quella povera donna e la bambina, dove saranno andate a finire».
La testimone è piena di rabbia per questa tragedia. «Erano due anni che si sapeva che questa è una zona a rischio e nessuno ha fatto niente. Questi morti ce li hanno sulla coscienza». Ora il padre vaga per Giampilieri. Cerca la moglie e la figlia; protegge il bambino che è rimasto accanto a lui ma sa che ci sono ben poche speranze di trovare vivi i suoi congiunti.
«Questa strage si poteva evitare. Un colpevole c’è». Ha gli occhi rossi dal pianto e dalla disperazione, ma la voce è ferma e decisa. Antonio Lonia, nell’alluvione di fango e detriti ha perso la moglie, due figli e il suocero. Il cadavere del suocero, Salvatore Scionti, è stato ritrovato, mentre Maria Letizia, la moglie, e Francesco e Lorenzo, di due anni e mezzo e sei anni e mezzo, risultano ufficialmente ancora dispersi, ma lui non nutre più speranze. «Si trovavano – spiega – sul fronte della frana. Non c’è niente da fare. Ne sono convinto».
La famiglia di Antonio era a casa, in una palazzina posta proprio ai piedi della collinetta dalla quale si è staccata una massa enorme di fango che è caduta a valle travolgendo tutto e tutti. Per i familiari di Antonio, anche se manca l’ufficialità, nessuna speranza.
Orazio è invece salvo assieme alla moglie e alle due figlie di 7 e 12 anni. «Abbiamo sentito un boato e ci siamo trovati la casa invasa dal fango e dai detriti. Per fortuna avevamo due stanze al piano di sopra e siamo riusciti a scappare».

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INIZIATIVA DELLA REGIONE VENETO

In Veneto la frana viaggia su internet

Censiti 10mila smottamenti. Da novembre via a un nuovo servizio informativo con monitoraggio delle otto zone a rischio (di Daniela De Donà, da “il Gazzettino del 3/10/09)

Belluno
L’Italia che frana. Da Nord a Sud. La terra diventa fango nella Sicilia orientale, le montagne si sgretolano nel Bellunese. In Cadore con le frane di Cancia, Staulin, Mortisa, Chiapuzza, Acquabona. E smottamento è parola nota a Chiesa di Zoldo Alto come a Mont, in Alpago. Così la terra si muove nel veronese, zona dell’Alpone, o a Recoaro dove la frana sotto sorveglianza si chiama “Rotolon”. Sono 10 mila le frane censite nel Veneto, alcune pericolose. Ma è di ieri la bella notizia: da novembre partirà un servizio della Regione Veneto che darà informazioni sulle precipitazioni e i conseguenti movimenti franosi. «Un servizio diviso in otto zone di attenzione che verranno monitorate dal neonato Centro funzionale decentrato», ha precisato Mariano Carraro, segretario regionale alla protezione civile. Le informazioni arriveranno agli utenti dal sito regionale attraverso sms, fax o mail. Così il Veneto dai piedi fragili sarà più sicuro, allertato con tempismo.
Di frane si è parlato ieri in un convegno organizzato dalla Fondazione Angelini Centro Studi, uno dei più interessanti attori nella tutela della montagna, all’interno della manifestazione Oltre le Vette.
Al centro del confronto il movimento del Tessina, sui monti bellunesi dell’Alpago: «Un’esperienza di intervento che non vuole essere il modello unico, ma che va copiata per l’approccio metodologico – ha precisato Sandro Silvano, per 18 anni responsabile dell’Istituto di ricerca per la protezione idrogeologica del Cnr di Padova – la frana del Tessina continua a rappresentare un rischio se non dovesse resistere la roccia del Pian del Cice, un colosso che si muove di 4-5 centimetri all’anno».
La frana del Tessina per colata è una delle più imponenti d’Italia. Sviluppata nel 1960 ha avuto il suo evento parossistico nel 1992 quando il paese di Funes venne fatto evacuare. Da allora sul territorio si sono succeduti vari interventi di mitigazione del rischio con lo scopo di proteggere gli abitanti. Fu allora che per la prima volta si fece sinergia igrogeologica quando l’allora direttore del Genio civile di Belluno, Ermanno Gaspari, creò un’unità di crisi che per tre mesi rimase in pianta stabile a monitorare il movimento franoso. Perché nell’ emergenza bisogna fare in fretta unendo le forze.
Da 17 anni sul Tessina, uno dei laboratori più importanti d’Italia, si sono fatte misurazioni dello spostamento del livello, sia nella parte superiore sia nella colata, si è tenuto sotto controllo lo spostamento profondo con degli inclinomentri. Soprattutto si è costruita una galleria drenante sotto il monte Teverone. Poi le azioni si sono trasformate in modello matematico «che può essere applicato ad altri fenomeni simili» spiega Gaspari. E il modello di intervento proposto per il Tessina vale per tutto il Veneto. Come precisa Alvise Luchetta, direttore del Genio civile di Belluno, «se partiamo dal presupposto che studiare un problema non è superfluo». La questione tocca i tecnici ma pure gli amministratori, che se la vedono con la gente: «Dalla scienza vogliamo risposte possibili e condivisibili – è il pensiero di Loredana Barattin, sindaco di Chies d’Alpago, Comune con la spada di Damocle della frana – da non sottovalutare è sia la complessità dei rapporti tra le istituzioni che le difficoltà economiche».

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Messina, una strage annunciata

Il dissesto idrogelogico che incombe sull’Italia da decenni negli articoli di Cianciullo e Valentini, su la Repubblica, 3 ottobre 2009)

Sette comuni su 10 a rischio frane “E il Sud Italia è il più minacciato”
Antonio Cianciullo

La ricetta del disastro è precisa. Si prende un territorio come l’Italia, con 7 Comuni su 10 a rischio idrogeologico. Si spargono case abusive a profusione, possibilmente nelle aree in cui si espandono fiumi e torrenti in piena. S’immettono in atmosfera gas serra, quanto basta per modificare il ciclo idrico e produrre piogge interminabili e violente. Poi si aspetta. Non a lungo. Nell’ottobre dell’anno scorso è toccato a Cagliari; a dicembre Roma ha convissuto con l’incubo alluvione; adesso è Messina a pagare un prezzo molto alto. Cosa ci aspetta nel prossimo futuro?

La risposta è contenuta in «Ecosistema a rischio» un documento firmato dalla Protezione civile e dalla Legambiente che sintetizza, regione per regione, la capacità di risposta alla minaccia del dissesto idrogeologico. La base di partenza è oggettivamente preoccupante: ci sono 1.700 Comuni a rischio frana, 1,285 Comuni a rischio alluvione e 2.596 Comuni a rischio sia di frane che di alluvioni. Una classifica guidata da Calabria, Umbria, Val d’Aosta, Marche e Toscana.
Ma il rischio di base, quello legato alla conformazione del territorio, non è in fin dei conti determinante: in Giappone e in California scosse che farebbero una strage nei paesi più poveri o più disattenti lasciano intatte case costruite per resistere a quelle sollecitazioni.

«Noi possiamo smettere di progettare opere inutili come il Ponte sullo Stretto e investire quei soldi nella messa in sicurezza del paese per convivere con il rischio frane e alluvioni, dando tra l’altro lavoro a centinaia di migliaia di persone», osserva Vittorio Cogliati Dezza, presidente di Legambiente. «Oppure possiamo continuare a varare piani casa che puntano sulla quantità invece che sulla qualità e sulla sicurezza e assistere così al progressivo aumento del rischio, che si concentrerà sulle regioni meridionali, meno abituate a progettare le difese contro le inondazioni».
«Al momento», accusa Ermete Realacci, responsabile ambiente del Pd, «stiamo puntando dritti dritti verso lo smantellamento delle difese contro le calamità che fino a ieri chiamavamo naturali e che ci costano 6-7 miliardi l’anno: gli stanziamenti governativi per l’assetto idrogeologico nel 2008 erano 510 milioni di euro, nel 2009 sono scesi a 269, il prossimo anno saranno 120 e nel 2011 precipiteranno a 93».

La disattenzione si declina anche a livello comunale. Il 77 per cento dei Comuni censiti nell´analisi della Protezione civile ha nel proprio territorio case in aree a rischio frana o alluvione e solo 1 Municipio su 20 ha cominciato a eliminarle dando un´alternativa a chi le abita. Nel 42 per cento dei Comuni non viene svolta regolarmente la manutenzione ordinaria dei corsi d´acqua e delle opere di difesa idraulica.
Invece di rimuovere le cause del rischio, gli amministratori si preparano ad affrontare il peggio. L’82 per cento dei Comuni si è dotato di un piano di emergenza da mettere in atto in caso di frana o alluvione. E due Comuni su tre hanno una struttura di protezione civile operativa 24 ore su 24.

Complessivamente dal rapporto «Ecosistema a rischio» esce un quadro estremamente critico: solo il 37 per cento dei Comuni svolge un lavoro positivo di mitigazione del rischio, mentre 787 amministrazioni comunali si danno da fare per peggiorarlo. Tra le maglie nere citate, due Comuni del Messinese: Ucria e Alì.

Non chiamatela calamità
Giovanni Valentini

Una valanga scura di fango, macerie e detriti che invade le strade, sbriciola i muri, travolge le auto, ghermisce case e negozi, sommerge porte e finestre.
Se non le avete ancora viste, andate a sfogliarle una per una su Repubblica.it le foto di Giampilieri, frazione di Messina sulla costa dello Stretto, scattate il 26 ottobre 2007. È una retrospettiva di immagini impressionanti, la documentazione fotografica di un disastro annunciato che purtroppo s’è ripetuto ieri con la puntualità irrevocabile della rovina e della morte, provocando un’altra strage nella memoria dolente del Malpaese.

Sono passati due anni da quell’avvertimento e, per ammissione dello stesso comandante in capo della Protezione civile, Guido Bertolaso, non è stato fatto niente per prevenire ed evitare un tragico replay. Per incuria, per abbandono, per irresponsabilità di tutti coloro, amministratori locali, politici nazionali, uomini e donne di governo, che avrebbero dovuto intervenire per tempo.
Di quale autonomia si appropria allora il presidente della Regione Sicilia, Raffaele Lombardo, se proprio sul suo territorio un nubifragio arriva a uccidere tanti cittadini inermi? Di quale ambiente si occupa il ministro dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo da Siracusa, quando proprio nella sua isola un’alluvione può generare una tale catastrofe? E soprattutto, di quale Ponte sullo Stretto vagheggiano i governanti del centrodestra, mentre non si riesce neppure a proteggere le colline e le strade che franano sotto la pioggia proprio in quell’area?

Ha perfettamente ragione il Capo dello Stato a invocare maggiore sicurezza piuttosto che «opere faraoniche». C’è una sproporzione intollerabile fra la retorica megalomane delle cosiddette grandi opere e l’ignavia rituale delle piccole opere, quelle normali, regolari, quotidiane, che sarebbero utili per impedire il saccheggio del territorio; la speculazione edilizia e la cementificazione selvaggia; o soltanto per provvedere alla manutenzione ordinaria dei paesi, delle città, delle infrastrutture. Un gap indecente intessuto di affari, di abusi e di scempi che producono un danno irreparabile all’intera collettività: alla popolazione, innanzitutto; ma anche all’ambiente naturale, al paesaggio o perfino al turismo e quindi all’economia.

È proprio il governo del territorio che manca o difetta, e non certo da ieri né soltanto in Sicilia, nell’amministrazione pubblica nazionale. Tanto più in un Mezzogiorno d’Italia abbandonato a se stesso, relegato nel suo progressivo degrado, consegnato all’emarginazione dell’illegalità e della criminalità organizzata. E nonostante i ricorrenti e accorati appelli del presidente della Repubblica, l’antica e irrisolta “questione meridionale” sembra rimossa ormai dall’agenda nazionale, dall’ordine del giorno di un governo d’ispirazione nordista, dominato da una preminente tendenza separatista o addirittura secessionista.

Ma il peggio è che non impariamo niente dai disastri, dalle catastrofi, dalle tragedie precedenti. Dalle alluvioni, dalle frane, dai terremoti. Senza disconoscere qui l’impegno profuso in Abruzzo dal governo di centrodestra, dalla Protezione civile e dai volontari, alla fine il trionfalismo mediatico sembra prevalere sul senso del rigore e della responsabilità, in una sorta di reality permanente, uno show autocelebrativo finalizzato più che alto a fare ascolti e a raccogliere voti.

Vogliamo costruire nuovi ponti e nuove autostrade, ma non abbiamo strade sicure e non riusciamo a fare una manutenzione regolare nelle grandi città nemmeno per coprire le buche o riparare i marciapiedi. Vogliamo i treni ad alta velocità, ma quelli dei pendolari sono indegni di un Paese civile e gli altri per lo più scomodi e sporchi. Vogliamo installare le centrali nucleari, ma la rete elettrica fa acqua da tutte le parti e intanto produciamo meno energia solare della fredda Germania.

In un Paese senza catasto edilizio, o con un catasto a dir poco obsoleto, non c´è una mappa aggiornata delle zone a rischio idrogeologico; un censimento effettivo delle aree pericolanti; un registro o un inventario completo delle tante Giampilieri che al nord, al centro o al sud, insidiano l’assetto del territorio. E soprattutto, non c’è un protocollo ufficiale, regione per regione, su cui pianificare un programma di interventi mirati per la difesa del suolo, in base a una scala di priorità.

Queste non sono calamità naturali. Eventi imprevedibili o incontrollabili. Sono colpe e omissioni che chiamano in causa precise responsabilità politiche, amministrative e spesso anche giudiziarie.

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IL DOSSIER – da “il Corriere della Sera” del 3/10/2009

Incuria e abusi, l’Italia che si sbriciola:
rischi idrogeologici in 7 Comuni su 10

Le colpe dell’amministrazione dietro i disastri ambientali. Da Nord a Sud edifici realizzati in zone di esondazione

«La natura non fa scon­ti. Prima o poi, gli errori ricadono addosso a chi li ha compiuti. Semi­nando la morte, come vediamo a Messina». Vittorio Cogliati Dezza presiede «Legambiente» ma inse­gna storia e filosofia: e si sente. Nu­meri e cifre, nella loro durezza, con­fermano la sua tesi: più il territorio italiano è sfruttato, martoriato, mal­governato, più l’Italia si sbriciola e si impantana in una melma che in­goia vittime, provoca crolli, disper­si, assenza d’acqua potabile, quindi disperazione. Proprio Legambiente certifica che nel 77% dei comuni so­no state costruite abitazioni e nel 56% fabbricati industriali in aree a rischio. Ancora numeri, eloquentis­simi. 5.581 comuni italiani a ri­schio idrogeologico di cui 1.700 per frane, 1.285 per alluvioni, 2.596 per frane e alluvioni insieme. Nella sola Sicilia, 272 comuni a rischio e 91 nel Messinese. Il record appartie­ne al Piemonte con 1.046 comuni in pericolo, l’opposto della Sarde­gna che ne registra appena 42.

Proprio vero. La natura non fa mai sconti. Ciò che riceve, restitui­sce. Nel bene come nel male. Una terra tutelata restituisce una sicura protezione idrogeologica. Una terra violentata non può far altro che produrre altra violenza. Non per­ché sia matrigna ma perché l’uomo le ha sottratto gli strumenti per pro­teggere proprio se stesso. Non c’è bisogno di evocare lo spettro di Sarno, con le sue 140 fra­ne e i suoi 137 morti nel maggio 1998. Basta guardare a tempi più re­centi. Per esempio quest’anno. Fra­ne e quattro morti al Nord, due a Borca di Cadore (18 luglio). Due vit­time nel Trapanese per un nubifra­gio (2 febbraio). Due operai morti sotto una frana a Caltanissetta (28 gennaio). Frane in tutto il Sud, chiusi 60 chilometri di autostrada (29 gennaio). Due morti e quattro feriti per una frana sulla Saler­no- Reggio Calabria (25 gennaio). Poco prima, alla fine del 2008, gli spettacolari danni e l’autentico ter­rore di Roma per la clamorosa pie­na del Tevere (dicembre 2008). In­ferno d’acqua a Cagliari, tre morti (22 ottobre). Maltempo: due morti, Valtellina isolata (13 luglio). Po e Dora, rotti gli argini, ponti bloccati e scuole chiuse. E si potrebbe conti­nuare tristemente così, con titoli sempre uguali, lì a dimostrare che la natura non fa sconti.

Accusa Giulia Maria Crespi, presi­dente del Fondo per l’Ambiente Ita­liano: «C’è totale indifferenza verso il paesaggio e le sue regole. Paesag­gio vuol dire anche assesto idrogeo­logico. Ma come si fa quando l’agri­coltura è totalmente abbandonata, i corsi d’acqua e i boschi non vengo­no curati, le colline sono tagliate senza curarsi delle vene idriche, si costruisce dissennatamente nei po­sti più sbagliati? Poi arriva la cata­strofe e si piange… Non si capisce che un paesaggio rispettato non fa­vorisce i ricchi snob che vogliono il loro panorama ma produce turi­smo, agricoltura, ricchezza».

Ancora Cogliati Dezza aggiunge un elemento importante alla sua analisi: «Comuni del Nord e del Sud hanno permesso di edificare in aree di esondazione. Il pericolo cre­sce perché, come i climatologi inse­gnano, siamo definitivamente en­trati in una fase in cui i fenomeni atmosferici sono più violenti e im­prevedibili. L’essenza dei nuovi pro­blemi idrogeologici è tutta qui: in tre giorni può cadere la stessa quan­tità di pioggia di un’intera stagio­ne. Guardiamo cosa è accaduto l’an­no scorso a Roma col Tevere e a Ca­gliari». Unico dato positivo, secon­do Cogliati Dezza, una nuova sensi­bilità diffusa tra i cittadini comuni che ormai individuano, dice, nel­l’abusivismo edilizio la vera causa dei disastri. Non si spiegherebbe di­versamente la chiarezza con cui don Giovanni Scimone, parroco di Giampilieri (quindi non un geolo­go), ha sintetizzato ciò che è acca­duto alla sua gente: «Le colline so­no prive di alberi, in parte distrutti dagli incendi, in parte tagliati per edificare, non sono stati costruiti muri di contenimento. Tutto que­sto comporta che una pioggia più violenta fa venir giù le frane».

Ma se lo capisce il parroco di un piccolo centro, troppo spesso a non (voler) comprendere sono le amministrazioni locali. Accusa Ve­zio de Lucia, urbanista, autore di molti piani regolatori, ex assessore all’urbanistica di Napoli: «Solo a Ro­ma sono in esame 85 mila doman­de di condono presentate tra i pri­mi anni Novanta e il 2003. Ciò signi­fica che l’abusivismo dilaga sotto le amministrazioni e i governi di ogni segno politico. La corresponsabili­tà è generale». Quasi un marchio culturale collettivo, ovviamente de­teriore. De Lucia ricorda che «qui l’Italia segna una fortissima diffe­renza col resto dell’Europa. Poiché non intendo assumere un atteggia­mento che potrebbe sfiorare il razzi­smo antropologico, dirò che siamo di fronte a un problema di scarsissi­mo rispetto delle leggi. Nel resto d’Europa l’abusivismo o non c’è o si registra in forme assolutamente marginali». Cosa fare? De Lucia ha una solida anima progressista ma non ha paura di una parola: «Occor­re semplicemente la repressione, che manca completamente. Perché parliamo di reati gravi che vanno repressi. Invece il fenomeno conti­nua a crescere. Nell’indifferenza ge­nerale». Già, l’indifferenza. Nemmeno l’abusivismo riguardasse solo chi lo produce e non si trasformasse in­vece, come realmente accade, nel depauperamento di un patrimonio collettivo che la Costituzione ci im­pone di salvaguardare (articolo 9: «La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione»).

Alessandra Mottola Molfino pre­siede da pochi giorni «Italia no­stra». Ma è prontissima a esprime­re la sua opinione: «Prima di costru­ire nuove cubature, sarebbe assai meglio riassestare le vecchie costru­zioni e soprattutto occuparsi della cura del territorio. Ma sembra im­possibile ragionare così». La neo­presidente aggiunge un altro tassel­lo a un quadro già disperante: «Da anni ‘Italia nostra’ produce docu­menti realizzati da eccellenti profes­sionisti nostri associati. Materiale inviato al governo e alle ammini­strazioni locali. Ma nessuno ci ascolta, eppure è tutto già scritto lì….». Vi accusano di essere contro lo sviluppo, nemici di qualsiasi ipo­tesi di edificabilità. «Falso. Noi chie­diamo solo di intervenire dopo aver analizzato attentamente le ca­ratteristiche del luogo e il suo livel­lo di sostenibilità. Ma a proposi­to… ». A proposito? «Noi di ‘Italia nostra’ siamo stati sempre fiera­mente contrari alla costruzione del Ponte sullo Stretto. Ora qualcuno dovrà spiegarci con quale coraggio, dopo una simile catastrofe, si può immaginare di dar vita a una simile grande opera su un territorio tanto gravido di pericoli e di incognite».  (Paolo Conti – Il Corriere dell Sera del 3/10/2009)

foto dell'alluvione

4 risposte a "Frane e alluvioni: l’abusivismo non c’entra (invece c’entra la politica territoriale e urbanistica lasciata nelle mani dei Comuni) – quattro questioni urgenti da risolvere"

  1. Gian Franco Mascoli lunedì 5 ottobre 2009 / 9:30

    Come non c’entra l’abusivismo ???!!!
    C’entra eccome!!!!!!!! come c’entrano i condoni, le sanatorie che legalizzano lo scandalo,che autorizzano le tragedie.
    BASTA!!!! non penso sia complesso identificare i colpevoli e punirli severamente e non a chiacchiere!!!!!!!
    BASTA con questo innocentismo incomprensibile, con questo garantismo, con questa privaci, che non tutelano gli onesti, che tutelano invece i disonesti, i farabbutti, i delinquenti che hanno tutte le motivazioni per invocare la privaci, così da garantirsi anonimato e quant’altro necessario per decurtarsi dalle pene e dalle responsabilità
    Saluti, Gian Franco Mascoli

    • paolomonegato martedì 6 ottobre 2009 / 10:13

      Come scritto nell’articolo, a causa di condoni, sanatorie, tangenti e quant’altro l’abusivismo è praticamente inesistente e gli edifici sono tutti “in regola”…. quindi è sbagliato parlare di abusivismo.

  2. Luca Piccin martedì 6 ottobre 2009 / 18:21

    Eh sì, il problema è grave nel senso che è il presidente del Consiglio stesso il primo a promuovere questa cultura dell’illegalità, del clientelismo, dell’affarismo arrivista.
    Una volta venuto meno il collante culturale dell’antifascismo l’Italia è crollata in un vuoto d’inciviltà.
    Si deve agire dal basso, con proposte e azioni concrete. Solo così si svilupperà una società civile e si ripristinerà il rispetto della legalità e della giustizia. A partire proprio dalla Costituzione (in questo caso il citato art. 9: «La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione»).
    L’elenco dei disastri avvenuti nell’ultimo anno è lui solo esplicativo di come il grave dissesto idrogeologico italiano sta a monte di queste situazioni. Serve un governo del territorio, ma lo stato si disimpegna e delega agli enti locali (creando pericolsi squilbri regionali: guardate nella pur breve lista quanti sono gli incidenti al Nord e quanti al Sud, pura casualità?). Come elencato a inizio articolo nei 4 punti critici, su cui concordo, i comuni non possono da soli far fronte al problema…
    Mi permetto infine di essere uccello del malaugurio, poiché, purtroppo, una delle prossime tragedie sarà la frana di Tessina.
    Stiamo davvero facendo il possibile per evitarla? O forse ancora una volta qualcuno verrà in elicottero a garantire ai superstiti calde dimore con vasi di fiori?

    • paolomonegato mercoledì 14 ottobre 2009 / 21:10

      Se il tuo commento fosse privo delle prime quattro righe sarebbe più condivisibile: non si può certo imputare al Cavaliere la paternità del malcostume italico… La speculazione edilizia che ha devastato il territorio inizia con il boom economico e demografico negli anni ’60 (prima c’è stato il business della ricostruzione postbellica)… E poi l’abusivismo c’era già ai tempi dell’impero romano… Quindi anche il discorso sul collante dell’antifascismo fa acqua…

      Per quanto il governo del territorio… Spesso, quando si cercano le cause della devastazione, si punta il dito contro il clientelismo e la corruzione nella pubblica amministrazione e si sottovaluta la questione degli oneri di urbanizzazione, vera scialuppa di salvataggio per bilanci comunali in crisi (i trasferimenti statali diminuiscono, l’ICI è stata tolta, e poi c’è il patto di stabilità). Senza soldi non si può intervenire per contrastare il dissesto idrogeologico (se la coperta è corta si preferisce orientare diversamente la spesa pubblica). Lo stato è troppo grande per intervenire efficacemente in questi problemi, certo deve dare il suo contributo ma devono essere gli enti locali ad occuparsi di queste faccende (deve valere il principio di sussidiarietà).

      PS: Nella finanziaria 2008 erano stati stanziati più di 500 milioni per la prevenzione del dissesto idrogeologico. Soldi sottratti al Ponte sullo Stretto e ridestinati a questa opera più utile grazie all’insistenza del tanto (a volte giustamente) vituperato Pecoraro Scanio. Oggi, in tempi di magra (il tesoretto non c’è più, anzi c’è la crisi: “semo drio ndare a ramengo“), il ministero dell’ambiente è senza fondi: i soldi servono da altre parti (cose serie come la cassa integrazione, ma anche: Ponte sullo Stretto, grandi opere in genere e, non ultimo, per coprire il buco creato dalla cancellazione dell’ICI…).

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