“Il petrolio finirà presto” – Credere nel cambiamento energetico urgente con le fonti rinnovabili è una necessità (abbandoniamo il greggio prima che sia lui ad abbandonarci)

Pozzi di petrolio che bruciano… immagine tratta da “Apocalisse nel deserto” (Lektionen in Finsternis), un docu-film del 1992 di Werner Herzog.  Documentario provocatorio realizzato subito al termine della prima Guerra del Golfo del 1991, tra i pozzi di petrolio che gli iracheni in ritirata incendiarono nel Kuwait riconquistato dalle truppe americane. Tra le scene rimaste immortalate nella storia difficile della nostra epoca e realtà, quella finale dove, dopo l’affanno di quegli uomini intenti a spegnere le fiamme, essi decidono di riaccenderle, non concepiscono lo stare senza la distruzione (c’è appunto alla fine il gesto dell’uomo che lancia una fiaccola riaccendendo la fiamma su un pozzo petrolifero appena spento con enorme fatica)
Pozzi di petrolio che bruciano… immagine tratta da “Apocalisse nel deserto” (Lektionen in Finsternis), un docu-film del 1992 di Werner Herzog. Documentario provocatorio realizzato subito al termine della prima Guerra del Golfo del 1991, tra i pozzi di petrolio che gli iracheni in ritirata incendiarono nel Kuwait riconquistato dalle truppe americane. Tra le scene rimaste immortalate nella storia difficile della nostra epoca e realtà, quella finale dove, dopo l’affanno di quegli uomini intenti a spegnere le fiamme, essi decidono di riaccenderle, non concepiscono lo stare senza la distruzione (c’è appunto alla fine il gesto dell’uomo che lancia una fiaccola riaccendendo la fiamma su un pozzo petrolifero appena spento con enorme fatica)

E’ notizia di questi giorni che l’ “International Energy Agency” (Iea) con sede a Parigi, la massima autorità della politica energetica occidentale, ha formalizzato la decisione di “dire al mondo”, attraverso il suo presidente Fatih Birol, che il petrolio sta per finire, che la produzione sta scendendo di anno in anno di quasi il 7%, e che entro dieci anni ci troveremo in una grave crisi se non saranno concretizzati i sostituti del petrolio (o se non adotteremo politiche energetiche più parsimoniose e risparmiose). Non sono i “soliti” ecologisti a lanciare l’allarme, bensì un organismo ufficiale internazionale espressione di governi, che studia attentamente gli sviluppi delle produzione e del consumo energetico del pianeta. Al calo della produzione, si sovrappone la crescita dei consumi nei paesi in via di sviluppo (pensiamo solo alla Cina e all’India…): tra dieci anni ci sarà bisogno del petrolio di 4 Arabie Saudite (il paese che è al primo posto nella produzione di greggio, seguito subito dopo dalla Stati Uniti che sono pure i maggiori consumatori…). Qualcuno dice che questa previsione dell’ “Iea” è troppo catastrofista, e che avremo petrolio per altri trent’anni… ma cosa cambia?

Vi diamo qui conto di questo contesto di crisi petrolifera con alcuni articoli, puntando però subito sulle alternative in campo, non solo teoriche, che si stanno avviando e che forse necessitano di maggiore spinta e bisogno di crederci.

IL  PETROLIO  FINIRA’  PRESTO

L’Agenzia per l’energia avverte: «A questo ritmo, tra dieci anni serviranno 4 Arabie Saudite»

Da “La Stampa” del 4/8/2009 – di Francesca Paci, corrispondente da Londra

pozzi di petrolio
pozzi di petrolio

Finché era brandita in piazza dai più apocalittici tra ambientalisti e noglobal, la fine dell’età dell’oro nero poteva passare per profezia da menagrami. Ma se la fiducia nelle umane sorti e progressive vacilla ai piani alti dell’International Energy Agency di Parigi, il tempio della politica energetica occidentale, la questione si fa seria. In un’intervista al quotidiano The Independent il direttore economico dell’Iea, Fatih Birol, sposa le peggiori previsioni: «Un giorno resteremo a secco. Non sarà oggi né domani, eppure dovremo abbandonare il petrolio prima che lui abbandoni noi. Prepariamoci perché modificare il sistema costerà tempo e denaro». La produzione di greggio diminuisce del 6,7% l’anno, il doppio rispetto a quanto ipotizzato nel 2007 dall’Iea. Di questo passo, avverte Birol, ci troveremo in riserva in men che non si dica: «Tra dieci anni, a parità di consumi, avremmo bisogno di 4 Arabie Saudite per mantenere gli standard attuali. Non ne basteranno 6 se saranno confermate le stime e la richiesta aumenterà fino al 2030».
«I governi farebbero bene ad ascoltare l’Iea: è come se la Banca Mondiale avesse annunciato la crisi finanziaria», spiega il geologo Jeremy Leggett, ex consulente petrolifero e fondatore della Solarcentury, multinazionale dell’energia solare. Nel libro Fine Corsa denuncia l’omertà che avvolge il problema: «Nonostante ogni settimana venga pubblicato un nuovo rapporto la cultura del silenzio resiste. Finché, per esaurimento dei giacimenti o per la domanda del mercato, i prezzi lieviteranno e dovremo correre a cercare energie alternative». Fatih Birol parla di discesa irreversibile. Molti degli 800 siti da cui provengono tre quarti dell’oro nero planetario avrebbero già oltrepassato la soglia di massima produzione lasciando nelle mani dei paesi più dotati, quasi tutti mediorientali e restii a investire in infrastrutture, un potere destinato a crescere già dal 2010.
«Il culmine dell’estrazione risale al 1964, oggi per ogni barile raffinato ne vengono consumati quattro» osserva Colin J. Campbell, ex petroliere, fondatore dell’Association for the Study of Peak Oil&Gas e autore del bestseller The Coming Oil Crisis. Il tempo delle verifiche è scaduto: «L’Iea è stata a lungo strumento dei governi occidentali per negare, anche di fronte all’evidenza, l’esaurimento del greggio che, nel medio termine, avrebbe rafforzato i paesi Opec. Ora nascondere la verità è insostenibile, l’era del petrolio è al tramonto e con essa la convinzione otto-novecentesca della crescita inarrestabile». Qualcuno minimizza la tentazione ecocatastrofista sulle orme di quel Lomborg Bjørn, l’ambientalista scettico dell’omonimo libro, che alcuni anni fa scandalizzò gli ex compagni di Greenpeace argomentando la condizione per niente disastrata della terra. Daniel H. Yergin, vincitore del Pulitzer per il saggio The Prize: The Epic Quest for Oil, Money & Power, gira il mondo smentendo il requiem del serbatoio, al sicuro, sostiene, per altri trent’anni.
La Cambridge Energy Research Associates, la think tank che dirige, ammette un calo della domanda ma esclude che i giacimenti possano prosciugarsi a breve. Nel frattempo però, è recessione piena. E l’economia, ragiona il leader dell’IEA, va a benzina: «La ripresa dei prossimi 5 anni sarà lenta e fragile e potrebbe essere strangolata dall’aumento del prezzo del petrolio. Spero che i governi prendano le loro contromisure». Il problema è quali, chiosa il columnist dell’Independent Steve Connor: «Ci sono ampie riserve di greggio non convenzionale come le sabbie petrolifere del Canada, ma attingervi sprigionerebbe grandi quantità di diossina». Dalla padella alla brace: se non fosse che anche il carbone ha le ore contate. (Francesca Paci)

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«LA  GREEN  ECONOMY  PUO’  DARCI  UNA  SPINTA»

Intervista Il premio Nobel: Italia terra ideale per le rinnovabili   – Dal “Corriere Economia” del 29/6/2009 – di Marco Sabella   – Pachauri: Kyoto rappresenta un costo, ma se agiamo subito, poi lo sviluppo sarà accelerato

«La crisi economica globale potrà sviare per breve tempo l’ attenzione dei governi dalle questioni ambientali e dalle politiche per la riduzione delle emissioni dei gas nocivi. Questo momento di difficoltà generale rappresenta un’ opportunità straordinaria per realizzare quei cambiamenti strutturali che porteranno alla creazione di un’ autentica economia verde».

Rajendra Pachauri, premio Nobel per la pace nel 2007 e presidente del Teri, l’ istituto indiano per l’ energia e le risorse naturali, è uno dei maggiori specialisti mondiali di cambiamento climatico e di politiche per la riduzione delle emissioni di anidride carbonica.

Quali costi dovrà sostenere l’ economia globale per combattere l’effetto-serra?

«Non c’ è una risposta univoca: i costi variano molto da settore a settore. I comparti più interessati dal cambiamento di modello produttivo saranno comunque quello dell’ energia e le costruzioni».

Le azioni di contenimento non rischiano di ridurre la velocità della crescita economica globale?

«Abbiamo calcolato che le misure per la riduzione dei gas serra potrebbero frenare del 3% il tasso della crescita globale da oggi al 2030. Ma quanto più queste misure verranno prese con anticipo rispetto alle scadenza previste dal Protocollo di Kyoto, tanto minore sarà il loro effetto sullo sviluppo economico globale, che potrebbe addirittura risultarne accresciuto».

I Paesi con il maggior livello di emissioni sono gli Stati Uniti e gli Emergenti. Chi deve intervenire per primo?

«Le economie Emergenti si trovano in una fase in cui è normale che le emissioni aumentino. In realtà i principali responsabili della crescita dei gas serra sono i Paesi industrializzati ed è da loro che dovranno venire i principali interventi. Se pensiamo che soltanto in India circa 400 milioni di persone non hanno accesso all’ energia elettrica si capisce che non è da lì che può venire lo sforzo principale per combattere l’ effetto serra, visto che esistono ancora bisogni fondamentali totalmente insoddisfatti».

Il presidente Obama ha dichiarato il suo impegno a sostegno dell’ ambiente. Quali sono le politiche che dovrebbero essere adottate immediatamente?

«Ci sono spazi enormi a cominciare dagli interventi nel settore immobiliare pubblico. E’ possibile infatti aumentare l’ efficienza energetica di tutti gli edifici, così come vi è un grande potenziale di risparmio sui consumi attraverso investimenti mirati nel settore dei trasporti. In questi comparti sono necessari investimenti massicci che potranno dare risultati importanti già a medio termine».

In Europa quali sono i Paesi più virtuosi nella lotta al cambiamento climatico?

«La Germania è stata uno dei primi Paesi ad adottare misure di contenimento e a sviluppare il settore delle energie rinnovabili. Queste scelte hanno fatto nascere migliaia di nuovi posti di lavoro e dimostrano quanto la green economy sia un affare e non solamente un costo per gli Stati».

L’ Italia sta facendo abbastanza per combattere l’ effetto serra?

«In Italia è ancora necessario aumentare il livello di consapevolezza dei rischi legati al surriscaldamento climatico a livello di opinione pubblica generale. Solo una maggiore presa di coscienza della posta in gioco, infatti, potrà spingere i governi a realizzare gli investimenti necessari. Il Paese si trova in una posizione invidiabile dal punto di vista geografico e, soprattutto nel Sud, potrebbe aumentare molto il contributo offerto da fonti rinnovabili come il solare e l’ eolico».   (Marco Sabella)

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COSI’  NASCE  UN’INDUSTRIA  (ECOLOGICA)

da “il Sole 24ore” del 21/7/2009 – di Laura La Posta ed Eleonora Della Ratta

Fiocco verde. Dalla meccanica un nuovo comparto hi-tech – Migliaia di nuove imprese e turnaround, 55mila occupati: è la green economy italiana

«Nel 1993 eravamo un’impresa edile specializzata in lavori pubblici: dopo dieci anni ci siamo resi conto che non avevamo un futuro e ci siamo guardati intorno, cercando un’idea innovativa». Così Salvatore Moncada, amministratore delegato del Moncada energy group racconta come l’azienda siciliana è passata dall’ingegneria civile alla produzione di energia rinnovabile. «Abbiamo sfruttato le nostre competenze ingegneristiche per creare impianti eolici, poi è stata la volta dei pannelli solari e ora abbiamo realizzato tre impianti a biomasse – racconta –: le rinnovabili costituiscono la metà del nostro fatturato. E siamo salvi. Non solo: entro un anno prevediamo di passare da 220 a 500 dipendenti e da 70 a 200 milioni di fatturato».

Prossima tappa? La realizzazione di un impianto fotovoltaico su un terreno acquistato… negli Stati Uniti. Da Agrigento al California dreamin’.Il boom delle energie rinnovabili, fotografato dal Gestore dei servizi elettrici (si vedano i dorsi regionali del Sole 24 Ore del primo luglio), si sta rivelando la via d’uscita dalla crisi per questa e per molte altre imprese. La molla è stata il Conto energia, l’incentivo con cui il Gse (cioè, lo Stato in ultima analisi) paga l’energia prodotta dai privati a quasi il triplo rispetto al prezzo medio del mercato, per vent’anni dall’investimento.

A questo si aggiunge lo scambio sul posto, che permette, sostanzialmente, di non pagare le bollette.Gli incentivi per le auto meno inquinanti e lo spuntare di offerte bancarie di finanziamenti ad hoc stanno facendo il resto. La crisi, infine, sta accelerando un processo inevitabile per molte aziende attive in business recessivi: il necessario turnaround per mantenersi in vita viene declinato da molti in un’ottica verde.

Lo conferma Aldo Fumagalli Romario, presidente della Commissione Sviluppo sostenibile di Confindustria. «La sfida climatica che spinge alla riduzione delle emissioni di CO2 sta rappresentando un’occasione di sviluppo tecnologico e di nuova imprenditorialità – spiega –. Pensiamo ai grandi progetti di Ccs (cattura e sequestro di CO2), allo sviluppo di tecnologie a basso impatto nei trasporti, agli ingenti programmi di sostegno per l’eolico, il fotovoltaico e il solare termico».

Gli fa eco Sandro Bonomi, presidente Anima (la federazione dell’industria meccanica): «Le imprese italiane sanno innovarsi e adattare il proprio know-how alle nuove sfide e lo sviluppo futuro è rappresentato proprio dalle energie rinnovabili – sottolinea –: l’industria meccanica sta investendo in ricerca, per creare un’intera filiera che lavori nell’ambito della green economy».

Dalla meccanica pura, molte piccole e medie imprese stanno svoltando verso le energie rinnovabili, dalla progettazione degli impianti alla produzione: «Gli incentivi sono importanti per due aspetti – spiega Bonomi –, da un lato agevolano la ripresa di un settore che prova a uscire dalla crisi più competitivo di prima, dall’altra facilitano il rispetto di normative europee che l’Italia non può ignorare».

Quelle di Fumagalli e Bonomi non sono dichiarazioni programmatiche, ma la fotografia di quanto si sta verificando in intere aree del paese. Come la cosiddetta Etna valley, il distretto hi-tech orgogliosamente nato attorno alla St Microelectronics di Catania e ora in ansia per le misure di cassa integrazione varate e poi ridimensionate. «Molte aziende hanno cominciato a seguire il filone delle energie rinnovabili – conferma Salvo Raffa, presidente del distretto e della sezione hi-tech di Confindustria Catania –: quelle non più competitive nel settore meccanico hanno impegnato la propria esperienza e tecnologia nel fotovoltaico, ma anche in altri ambiti come il recupero dei vettori energetici da produzione industriale o la produzione di idrogeno da lavorazione di semiconduttori».

Dal Trentino alla Sicilia si trovano ovunque storie di eco-imprese interessanti o di turnaround verdi.

Come quelle della Pramac di Casole d’Elsa (Siena), che dai gruppi elettrogeni e dai macchinari per la logistica è passata ai moduli fotovoltaici hi-tech (18 milioni di fatturato aggiuntivi previsti quest’anno). Storie vincenti come quella della Solsonica, la società di Cittaducale (Rieti) del gruppo Eems: pannelli fotovoltaici da esportazione per un business incrementale di 20 milioni.

Chissà se il futurologo Alvin Toffler, ormai 81enne, chiamerebbe questa rivoluzione la Quarta ondata: dalla società post-industriale da lui preconizzata nel bestseller del 1980 The third wave stiamo forse passando a una società eco-industriale di nuovo tipo, difficile da inquadrare.

La foto del nuovo settore è mossa o sfocata: sulla base occupazionale creata c’è guerra di stime. A livello prudenziale, si parla di 55mila occupati. Di fatto, c’è un Far West di regole, modelli di business, start-up non rilevate, turnaround non dichiarati. E scarsa consapevolezza del fatto che sta nascendo un comparto industriale.

Come fare a orientarsi? «Follow the money», consigliava Gola profonda al cronista Bob Woodward, come immortalato nell’indimenticabile film «Tutti gli uomini del presidente». E il fiume di soldi che si sta muovendo porta dritto a un simbolico edificio con su scritto Green business community. Con un fiocco verde sulla porta. (Laura La Posta ed Eleonora Della Ratta)

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“Il fotovoltaico è il settore che crescerà più in fretta”

da “LA STAMPA” del 22/6/2009 – domande a GB Zorzoli, presidente Ises (International solar energy society)

«Il fotovoltaico è il settore più interessante perché ha margini di innovazioni più elevati e si può arrivare a costi competitivi. In Italia il boom c`è stato con il decreto 2007».

Giovan Battista Zorzoli è presidente di Ises, l`International solar energy society, associazione no profit per la promozione delle Energie rinnovabili.

Quante sono le aziende in Italia nel fotovoltaico?

«Secondo i dati 2008 si stima siano tra le 630 e le 650 imprese tra i diversi segmenti. Tra queste c`è anche la piccola impresa di installazione. Ma la crescita è continua».

I dati dei Wwf dicono che il futuro dell’occupazione è nelle aziende «verdi».

«C`è un grande fermento e sviluppo. Nel 2009 abbiamo risentito di un momento difficile per la stretta creditizia. Si prevede una nuova spinta nel 2010, grazie all’economia di scala e ai miglioramenti tecnologici».

L’Italia sembra però essere moli to indietro rispetto al Nord Europa. Perché?

«Per un sistema politico preoccupato solo del piccolo cabotaggio, un mondo imprenditoriale che non ci credeva. All’inizio degli Anni 80 eravamo i primi, c’erano la “Helios technology”, che andò ai tedeschi, e quella del Gruppo Eni, sopravvissuta.  Poco tempo fa la “Baccini” leader mondiale, è stata comprata dagli americani. Il successo richiede denaro, e nessun italiano si è fatto avanti».

Previsioni sul futuro?

«Stiamo aspettando un decreto ministeriale che promette dal 2011 un nuovo regime e sviluppo.

Dicono che arriverà a fine anno. Speriamo. Intanto gli altri vanno avanti».

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Tokyo annuncia la svolta verde Ridurremo la CO2 del 25%

da “la Repubblica” del 8 settembre 2009

TOKYO – Forse non basterà a sbloccare l’ impasse per raggiungere un nuovo patto sul clima alla prossima conferenza Onu in programma a dicembre a Copenaghen, ma è comunque un importante passo avanti.

Con la vittoria del leader democratico Yukio Hatoyama anche il Giappone è passato infatti nel campo dei paesi che fanno del taglio delle emissioni di anidride carbonica una priorità da affrontare con audacia. Ad una settimana dalla storica vittoria nelle elezioni politiche, il futuro premier, parlando ad un convegno sul clima organizzato dal quotidiano Asahi Shimbun, ha ribadito gli ambiziosi impegni ambientalisti presi in campagna elettorale.

Tokyo, ha confermato Hatoyama, si impegnerà a tagliare le emissioni di CO2 del 25 per cento entro il 2020 rispetto al 1990 e a spingere la comunità internazionale verso un’ intesa globale nella lotta al riscaldamento globale. Un obiettivo in linea con quelli fissati dall’ Unione Europea e decisamente più avanzato sia di quello del meno 8% portato avanti dal governo uscente, sia di quello in discussione negli Stati Uniti (-17% rispetto al 2005).

Hatoyama non è entrato nel dettaglio degli strumenti ai quali pensa di ricorrere, spiegando che illustrerà l’iniziativa giapponese al prossimo vertice sul clima in programma il 22 settembre alle Nazioni Unite di New York. Tokyo, si è limitato ad affermare, cercherà di raggiungere l’obiettivo «usando tutti gli strumenti in nostro possesso».

Per i democratici giapponesi mantenere davvero le promesse non sarà comunque semplice. Keidanren, la più grande lobby d’ affari del paese, ha già annunciato che darà battaglia per ostacolare i progetti di Hatoyama perché rischierebbero di mettere il Giappone «in una posizione di svantaggio».

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