ALLUVIONE (in Emilia Romagna): sempre le stesse tragiche cose – per la SICUREZZA IDRICA: i LIMITI di casse di espansione, argini, dighe… rimedi che non bastano alla salvaguardia del territorio: sono necessarie non solo opere idrauliche ma lasciare libero l’alveo dei fiumi, coltivazioni biologiche, ricarica della falda, aree urbane permeabili… (basta cemento)

(alluvione in Emilia Romagna, foto ripresa da https://www.leggo.it/) – “(…) Le catastrofi naturali riguardano, ormai da vent’anni, tutta Italia. Dal 2010 al 31 ottobre 2022 si sono verificati ben 1.503 eventi estremi nel nostro Paese. Solo l’Emilia Romagna ne ha contati ben 111. Le vittime accertate dal 2010 a novembre 2022 erano 279. E le emergenze ci costano circa 3 miliardi di euro l’anno.   Il punto è la fragilità del nostro territorio. Secondo l’ISPRA (l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, ente di ricerca pubblico legato al ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica) il 18,4% dell’Italia ricade nelle aree di maggiore pericolosità per frane e alluvioni. Sono 6,8 milioni gli italiani che vivono in territori a rischio alluvioni, circa un milione e mezzo quelli che vivono in territori a rischio frane. E il punto è che spendiamo almeno quattro volte in più per riparare i danni che per prevenirli. Se infatti dal 1999 circa 500 milioni di euro sono stati spesi per prevenire i danni degli eventi metereologici estremi, dal 2013 in poi spendiamo un miliardo e mezzo ogni anno per sanarli. Una cifra che, in assenza di un indirizzo preciso, è destinata probabilmente a risalire. (…)” (Daniele Tempera, 18/5/2023, dahttps://www.today.it/)

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(la MAPPA-LINEA dell’ALLUVIONE ripresa da https://www.meteoweb.eu/) — “(…) Ci sono degli interventi più strutturali che, come ricorda Legambiente, riguardano non solo l’Emilia Romagna come: -vietare qualsiasi edificazione nelle aree classificate come a rischio idrogeologico; -delocalizzare gli abitanti nelle aree a rischio con appositi finanziamenti; -salvaguardare la permeabilità delle aree urbane; -vietare l’utilizzo dei piani interrati; -vietare gli intubamenti dei corsi d’acqua. Un’opera che può essere fatta solo di concerto quindi, sul quale i vari governi latitano da anni. (…)” (Daniele Tempera, 18/5/2023, dahttps://www.today.it/)

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LA NATURA CI PRESENTA LA LISTA DI QUEL CHE SERVE PER SALVARE L’ITALIA

di Giulio Boccaletti, da “il FOGLIO” del 18/5/2023

   Gli eventi che hanno colpito l’Emilia-Romagna sono tragici. Alle perdite, drammatiche nel caso delle vittime, sostenute da comunità travolte dalla forza dell’acqua, va aggiunto un impatto economico misurabile.   Vari studi econometrici hanno dimostrato che eventi simili a questi impongono un costo sul capitale produttivo delle zone colpite che durerà ben oltre la pioggia. Un freno economico, insomma, di cui si farebbe volentieri a meno. Ma questi eventi potrebbero essere doppiamente tragici se finissero per alimentare polemiche sterili.

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(MALTEMPO IN EMILIA ROMAGNA – la MAPPA degli allagamenti, da https://www.ilmessaggero.it/)

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Giulio Boccaletti, da “il FOGLIO” del 18/5/2023:

   Alcuni già si avventurano in affermazioni come: “Non c’è alcun cambiamento climatico, la siccità è stata sconfitta!”. È una sciocchezza, figlia di analfabetismo scientifico. Questa pioggia non elimina i rischi legati alla siccità, perché l’acqua deve esserci dove e quando serve. L’acqua a Faenza non aiuta Vercelli. L’acqua ora, se non accumulata in falde o ghiacciai accessibili, non aiuterà gli irrigatori a fine giugno.

   Quello che gli eventi di questi giorni dimostrano, invece, è che ciò che da decenni si temeva sarebbe successo, si sta puntualmente verificando. Il cambiamento climatico si esprime nella statistica delle variabili meteorologiche. La statistica: vale a dire che in media ci aspettiamo periodi più lunghi di siccità e precipitazioni più erratiche e intense. In media. Il destino di quest’anno si chiarirà nelle prossime settimane, ma anche se fossimo fortunati, pur affrontando costi enormi, ci ritroveremo a giocare la stessa mano ogni anno futuro.

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(ALLUVIONE IN ROMAGNA, foto ripresa da https://quifinanza.it/) – “(…) Quello che colpisce è la mancanza di un piano. L’Italia deve infatti ancora aggiornare e approvare il suo “Piano di Adattamento ai cambiamenti climatici“: la bozza è pronta dal 2018. Nel mezzo abbiamo avuto la pandemia ed eventi climatici sempre più estremi. Si tratta di uno strumento che hanno tutte le nazioni avanzate ad eccezione Slovenia, Polonia e Turchia. E che servirebbe a definire con maggiore precisione le aree a rischio idrogeologico e orientare efficacemente le politiche. (…)” (Daniele Tempera, 18/5/2023, dahttps://www.today.it/)

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Giulio Boccaletti, da “il FOGLIO” del 18/5/2023:

   Quindi che fare? Nell’elaborare una risposta, non ci aiuta l’abitudine moralista che vede nella colpa di qualcuno l’unica spiegazione possibile. Può darsi che ci siano state negligenze, ma questo è un problema strutturale. L’Emilia-Romagna, per esempio, è in gran parte piatta e si trova a valle di una moltitudine di torrenti appenninici. Molte delle zone di pianura che sono oggi allagate erano storicamente paludi.

   Il triangolo tra Bologna, Ravenna e Comacchio, per esempio, era così pieno d’acqua che nel XIII secolo Bologna era uno dei porti fluviali più attivi d’Europa, con una flotta in grado di sostenere un conflitto con Venezia. Poi vennero le opere di bonifica. Si cominciò nel medioevo, accelerando a partire dal XV secolo con gli interventi idraulici degli Estense di Ferrara e dello Stato pontificio. La legge Baccarini della fine dell’Ottocento diede un’ulteriore spinta alle bonifiche, che continuarono fino agli anni Cinquanta del secolo scorso. Gli impianti idrovori del sistema di consorzi di bonifica della regione, che in queste ore stanno cercando di prosciugare le zone allagate facendo defluire l’acqua, sono l’eredità di questa trasformazione secolare. La lezione è chiara.

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(Maltempo_Emilia Romagna, fonte ISPRA, ripresa da https://tg24.sky.it/) – L’ultimo rapporto dell’ISPRA sul tema è del 2021 e dice che il 93,9 per cento dei comuni italiani (cioè 7.423) «è a rischio per frane, alluvioni e/o erosione costiera». L’ISPRA analizza dove è maggiore la pericolosità per frane e alluvioni, dove le coste subiscono più erosione e quali e quanti sono i rischi per la popolazione, gli edifici, le imprese e i beni culturali in tutto il paese. Dice che le regioni con più abitanti a rischio per frane e alluvioni sono, in ordine, Emilia-Romagna, Toscana, Campania, Veneto, Lombardia e Liguria. (da https://www.ilpost.it/, 19/5/2023)

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Giulio Boccaletti, da “il FOGLIO” del 18/5/2023:

   Il fatto che, fino a poco tempo fa, molti paesaggi italiani non fossero soggetti a siccità e alluvioni frequenti come lo sono oggi non era dovuto solo alla fortuna climatica, ma a secoli di opere idrauliche e di gestione del territorio, che ne hanno profondamente modificato l’idrologia, creando ecosistemi artificiali altamente controllati. Il problema è che tutte quelle trasformazioni secolari hanno una cosa in comune: la statistica meteorologica si era mantenuta entro una banda più o meno stazionaria. Fino a oggi. Eventi, che erano talmente rari da non essere contemplati nella progettazione operativa dei sistemi idraulici (anche a causa dei costi che avrebbero imposto) sono ora sempre più frequenti.

   A fronte di questo servono un coordinamento istituzionale e investimenti strategici in tutto il sistema di sicurezza idrica del paese: non solo opere idrauliche, da argini a dighe che pure servono, ma anche uso dei territori, gestione della domanda, strumenti di assicurazione finanziaria, risorse per il monitoraggio e la modellistica e tanto altro. Gli ingredienti non sono un mistero. Paesi comparabili al nostro con un’idrologia complessa, dall’Australia all’Olanda, hanno investito risorse commensurate ai problemi che affrontano.

   Serve una lista di priorità con i corrispondenti valori economici e costi, e un piano di implementazione che converta le competenze che il paese ha in istituzioni capaci di gestire una situazione dinamica e in grado di navigare le complessità prodotte dalla riforma delle competenze ambientali definite dal Titolo V della Costituzione. Non sarà facile.

   L’Italia ha impiegato oltre cinque secoli a raggiungere la sicurezza idrica alla quale ci siamo abituati. Adesso dobbiamo ricalibrarla in pochi decenni se vogliamo evitare che una successione di eventi catastrofici, sia siccità sia alluvioni, azzoppi le parti più produttive del paese. Sembra che la Natura, avendo ascoltato le discussioni surreali degli ultimi mesi su come spendere i soldi del Pnrr, abbia deciso di presentare al governo e al paese intero una lista chilometrica di interventi necessari. I soldi ci sono. La cabina di regia pure. Attendiamo il piano finanziario prioritizzato e le istituzioni di attuazione. Ne dipende la sicurezza del paese.  (Giulio Boccaletti)

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(17/5/2023: I FIUMI ESONDATI IN EMILIA ROMAGNA nella seconda piena a 15 giorni dalla prima, MAPPA ripresa da https://www.corriere.it/)

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(19 maggio 2023 ore 13.30: L’ALLUVIONE VISTA DAL SATELLITE, immagine ripresa da https://www.corriere.it/)

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IN ROMAGNA SONO ESONDATI ANCHE I BACINI COSTRUITI PER EVITARE GLI ALLAGAMENTI

da IL POST.IT del 19/5/2023, https://www.ilpost.it/

   L’acqua è stata talmente abbondante da rendere inefficaci le opere costruite per gestire le piene dei fiumi

In seguito alla grave alluvione in Emilia-Romagna è nato un dibattito che si sta concentrando più che altro sulle cause delle intense piogge e sulle gravi conseguenze che hanno avuto.

   In particolare esperti, politici e abitanti delle zone colpite si sono interrogati sugli interventi e sulle opere idrauliche che avrebbero potuto evitare l’allagamento di decine di migliaia di case e soprattutto la morte di 14 persone. È una reazione piuttosto naturale e giustificata, non nuova in un paese come l’Italia particolarmente soggetto a frane e alluvioni: anche stavolta si è parlato molto della mancata prevenzione, cioè di cosa non è stato fatto negli ultimi anni per mettere in sicurezza i fiumi, e poco su ciò che si può fare adesso.

   Tra le opere più citate come decisive in caso di alluvioni ci sono le “casse di espansione” dei fiumi, note anche come bacini di espansione. Secondo diversi esperti intervistati dai giornali, in tutta la regione e soprattutto in Romagna non ne sono state costruite a sufficienza: in realtà in alcune zone c’erano, ma le precipitazioni sono state così intense da renderle inefficaci.

   Le casse di espansione sono invasi costruiti per raccogliere l’acqua che tracima dai fiumi durante le piene. Di solito vengono realizzate in pianura e sono di due tipi, contigue ai corsi d’acqua – chiamate anche “in linea” – oppure separate, chiamate “laterali”. Le casse di espansione realizzate in linea deviano l’acqua in eccesso in un’ampia zona libera con argini più alti: in questo modo il livello della piena si abbassa, così come la pressione dell’acqua. Vengono chiamate casse di espansione perché di fatto sono un’espansione dei fiumi: quando il livello dell’acqua è sotto controllo, le casse di espansione rimangono vuote.

   I bacini separati invece raccolgono l’acqua che esonda in caso di piena: riempiendosi, evitano che l’acqua allaghi campi e strade. La capacità delle casse di espansione viene stabilita sulla base di dati come la portata del fiume e il livello raggiunto durante le piene del passato.

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   In Emilia-Romagna le prime casse di espansione furono progettate negli anni Settanta, in seguito all’alluvione del 1973 a Reggio Emilia, in cui morirono due persone. Nel 1985 venne completata la cassa di espansione sul fiume Panaro, nel 1991 quella sul Crostolo. Nel 2004 e nel 2006 vennero collaudate le casse di espansione dell’Enza e del Parma. Fino alla fine degli anni Novanta le casse di espansione furono costruite prevalentemente nella pianura emiliana, una zona più a rischio di alluvioni. Di recente alcuni esperti avevano detto che in Romagna non ci sono casse di espansione, in realtà negli ultimi anni ne sono state costruite diverse.

   Secondo un report della Regione che cita i dati dell’ANBI, l’associazione nazionale delle bonifiche e delle irrigazioni, in Emilia-Romagna ci sono 53 casse di espansione che possono raccogliere fino a 66 milioni di metri cubi di acqua.

   Dall’inizio della legislatura di Stefano Bonaccini sono stati stanziati 190 milioni di euro per costruire 23 nuove opere idrauliche tra casse di espansione e bacini artificiali. Dopo la prima alluvione di inizio maggio, il senatore di Fratelli d’Italia Marco Lisei ha detto che al momento funzionano soltanto 12 sulle 23 nuove previste. Le altre sono in fase di progettazione o di realizzazione.

   Uno dei problemi è relativo ai costi, che per questo tipo di opere sono alti anche per via degli espropri. «Le opere idrauliche sono finanziate o dalla Protezione civile o dal ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica», ha detto la vicepresidente della Regione, Irene Priolo. «Quest’anno avremo dal ministero dell’Ambiente 13 milioni di euro contro i 22 ricevuti l’anno scorso. Finanziamenti irrisori, a fronte di una grande complessità anche per quanto riguarda il lungo iter autorizzativo».

   In questa fase è difficile capire se le casse di espansione non ancora costruite avrebbero evitato l’esondazione dei fiumi e l’allagamento delle città. Gli oltre 200 millimetri di pioggia caduti negli ultimi giorni (in alcune zone dell’Emilia-Romagna si è arrivati a quasi 300 millimetri) sono stati troppi anche per molte opere finora realizzate. Le fotografie e i video diffusi mostrano allagamenti molto estesi, spesso dovuti alla rottura degli argini dei fiumi, anche quelli teoricamente protetti dalle casse di espansione.

   A Forlì, in Romagna, le due casse di espansione costruite lungo il corso del fiume Montone si sono completamente allagate e non sono state sufficienti a contenere la piena che ha causato l’allagamento del quartiere Romiti. A Castel Bolognese e Solarolo ci sono stati ingenti danni nonostante la cassa di espansione nel canale dei Molini. I lavori del bacino non sono ancora conclusi, ma già in occasione dell’alluvione di inizio maggio la cassa di espansione aveva raggiunto la capienza massima di 150mila metri cubi di acqua.

   Anche a Bagnacavallo, in provincia di Ravenna, la cassa di espansione realizzata da poco nel canale Redino si è riempita. A Lugo, uno dei comuni allagati giovedì, l’acqua è tracimata dal bacino di espansione che si trova nel parco Golfera nella zona occidentale della città. A Cesena il torrente Pisciatello è esondato, nonostante la cassa di espansione e la messa in sicurezza degli argini, in località Calisese, una frazione della città.

   In altre zone invece le opere di prevenzione hanno funzionato. La cassa di espansione del Samoggia, in provincia di Bologna, all’inizio di maggio aveva raccolto 2,7 milioni di metri cubi di acqua e anche nelle ultime ore ha retto. «Le vasche di contenimento del torrente hanno tenuto sia nell’alluvione dei primi di maggio, sia in quello delle scorse ore», ha detto al Corriere della Sera il sindaco di San Giovanni in Persiceto, Lorenzo Pellegatti. «Se dovesse venire un’altra piena prima che l’acqua defluisca sarebbe un disastro, ma per ora il sistema ha tenuto».

   Nel caso dell’Emilia-Romagna è anche complicato fare paragoni con gli interventi realizzati in altre regioni sulla tenuta dei fiumi: ogni territorio ha infatti caratteristiche diverse, con diversi livelli di rischio alluvione.  Secondo le valutazioni dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA), l’Emilia-Romagna è una delle regioni più a rischio di alluvioni. I dati dell’ultima rilevazione dicono che 428mila persone vivono in aree a pericolosità elevata, 2,3 milioni di persone in aree a pericolosità media e meno di 300mila in aree almeno a pericolosità bassa. Come si può notare da questa mappa pubblicata dal sito dell’ISPRA, l’Emilia-Romagna è la regione del Nord Italia più a rischio di alluvioni. (da IL POST.IT del 19/5/2023, https://www.ilpost.it/)

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(foto Ansa da https://www.wwf.it/) — LE ACCIDENTATE INIZIATIVE NAZIONALI PER PREVENIRE I RISCHI DA ALLUVIONI – “ItaliaSicura” nel 2019 fu sostituita da “ProteggItalia”, ma entrambe sono state poco efficaci per scarsa continuità e lentezze burocratiche – Ogni volta che in una zona d’Italia avviene un’alluvione o una frana scienziati ed esperti ripetono che non bisognerebbe solo intervenire in caso di emergenza, per soccorrere e limitare i danni, ma anche in maniera preventiva, per evitare problemi in caso di fenomeni meteorologici estremi. L’alluvione in Emilia-Romagna ha rianimato questo dibattito, che stavolta si è sviluppato anche attorno a questioni politiche relative a ItaliaSicura, una struttura amministrativa creata dal governo di Matteo Renzi nel 2014 per finanziare e realizzare opere di prevenzione, sostituita poi nel 2019 dal piano ProteggItalia del primo governo di Giuseppe Conte. (da https://www.ilpost.it/, 19/5/2023)

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ALLUVIONI, WWF: ITALIA IMPREPARATA AGLI EVENTI METEO ESTREMI

da https://www.wwf.it/, 17/5/2023

– Siccità e alluvioni si alternano, con l’effetto di elevare esponenzialmente il rischio, amplificato da un territorio dove si continua a consumare suolo –

EVENTI ESTREMI SEMPRE PIÙ INTENSI E FREQUENTI

Negare la crisi climatica o far finta che non ci riguardi non salverà il nostro Paese dalle conseguenze di una crisi globale che sta mettendo a durissima prova il nostro territorio e i cittadini. Quello che sta accadendo in questi giorni in Emilia Romagna dimostra ancora una volta che siamo in presenza di eventi meteorologici sempre più intensi e frequenti che ormai si alternano a ritmi drammatici. Fenomeni una volta unici e rari si moltiplicano, addirittura a pochi giorni di distanza, e non solo in Italia.

   Siccità e alluvioni si alternano, con l’effetto di elevare esponenzialmente il rischio. Non agire subito per affrontare la realtà climatica, purtroppo, amplificherà le conseguenze sulla sicurezza e il benessere delle comunità.

   L’area del Mediterraneo è particolarmente soggetta al rischio climatico: aumento della temperatura media, ondate di calore, scarse precipitazioni, fusione dei ghiacciai stanno erodendo le nostre riserve d’acqua, le alluvioni improvvise o le precipitazioni copiose come quelle di questi giorni moltiplicano l’effetto sul territorio già a rischio.

URGENTE DEFINIRE POLITICHE DI ADATTAMENTO AL CLIMA CHE CAMBIA

Per il nostro Paese, è indispensabile definire il Piano di Adattamento al Cambiamento Climatico, dopo la consultazione chiusasi alcune settimane fa, e renderlo uno strumento efficace per operare le scelte necessarie. La Commissione VAS deve trasmettere gli esiti della consultazione quanto prima, il ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica deve chiarire le scelte da compiere e stanziare i fondi necessari.

ABBATTERE LE EMISSIONI DI CO2

È soprattutto indifferibile l’abbattimento delle emissioni di CO2, metano e degli altri gas climalteranti, per evitare scenari e impatti ingestibili: abbiamo poco tempo e l’Italia dovrebbe essere alla testa degli Stati che vogliono le emissioni zero, non in retroguardia come è attualmente.
   Tra le politiche di adattamento che non possono più subire ritardi, quelle di gestione dell’acqua, recuperando una regia unica, superando la frammentarietà della sua gestione a partire dai bacini fluviali. È indispensabile l’azione per ripristinare la naturalità dei fiumi, poiché sono quasi sempre i tentativi umani di irreggimentare i corsi d’acqua a moltiplicare i danni e la perdita di vite umane. Bisogna assicurare un effettivo ed efficace governo del territorio.

RIDARE SPAZIO ALLA NATURA

Ridare spazio alla natura è la migliore cura per la fragilità del nostro territorio. A cominciare dai fiumi. I fiumi hanno bisogno di spazio: gli eventi calamitosi in Emilia-Romagna, causati dagli effetti del cambiamento climatico che determinano precipitazioni violente e concentrate in poche ore provocando vere e proprie bombe d’acqua, hanno messo ancora più a nudo una gestione fallimentare dei nostri corsi d’acqua. Gli alvei sono stati canalizzati, le aree di esondazione naturale occupate, distrutti i boschi ripariali e le zone umide perifluviali che fungevano da vere e proprie spugne in grado di attenuare gli eventi calamitosi e purtroppo la Regione Emilia-Romagna, che peraltro dispone anche di importanti casse di espansione, si è distinta in questa opera di distruzione degli ambienti fluviali come il WWF ha più volte denunciato.

RINATURAZIONE SUL TERRITORIO

Bisogna ridare spazio ai fiumi, recuperare aree di esondazione naturale, ripristinare, ove possibile i vecchi tracciati, avviare interventi di rinaturazione diffusi sul territorio. È sempre più urgente una politica di adattamento ai cambiamenti climatici che vada oltre la logica di emergenza e ne consideri gli effetti nella pianificazione ordinaria. Purtroppo la situazione è in continuo peggioramento come dimostrano i dati sul consumo di suolo che ha ripreso a correre con maggiore forza del passato, superando la soglia dei 2 metri quadrati al secondo e sfiorando i 70 chilometri quadrati di nuove coperture artificiali in un anno, un ritmo non sostenibile che dipende anche dall’assenza di interventi normativi efficaci in buona parte del Paese o dell’attesa della loro attuazione e della definizione di un quadro di indirizzo omogeneo a livello nazionale. (da https://www.wwf.it/, 17/5/2023)

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(I rischi del territorio, rapporto Ispra) – LE AREE A RISCHIO ALLUVIONE IN ITALIA – Il 5,4 per cento del territorio è in aree a pericolosità elevata, e i comuni dell’Emilia-Romagna sono quelli più a rischio – 
Ogni anno l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA), un ente di ricerca pubblico legato al ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, diffonde dati aggiornati che mostrano quanto l’intero territorio italiano sia esposto al rischio idrogeologico, cioè legato a frane e alluvioni. Le indagini e i report servono soprattutto per dare informazioni puntuali a chi gestisce il territorio, tecnici e politici, e in questo modo incentivare interventi per ridurre i rischi. La grave alluvione che negli ultimi giorni ha colpito l’Emilia-Romagna è la conferma di un dato noto da tempo: quasi tutti i comuni della regione si trovano in aree a pericolosità idrica media o elevata.
In generale l’Italia rispetto a molti altri paesi europei è esposta naturalmente al rischio di alluvioni perché lo spazio per contenere l’acqua delle esondazioni è limitato. Negli ultimi decenni questa condizione si è aggravata con l’espansione dei centri abitati e delle aree industriali che hanno coperto una parte consistente di suolo. La cementificazione diminuisce la capacità del suolo di assorbire la pioggia e quindi favorisce lo scorrere di grandi quantità d’acqua. Iniziative che possono contrastare gli effetti del consumo di suolo sono la cosiddetta rinaturalizzazione delle aree più vicine ai fiumi, cioè far sì che tornino boscose. Ma anche la realizzazione di fossati e piccoli laghetti nelle campagne, che contribuiscano a raccogliere l’acqua (e che siano d’aiuto nei periodi siccitosi), e di siepi che evitino il trasporto di detriti.
L’ISPRA ha identificato tre possibili scenari legati al rischio di alluvioni: le aree a rischio basso possono essere colpite da alluvioni con una frequenza di ritorno superiore ai 200 anni (in idrologia si usa il tempo di ritorno, il tempo medio intercorrente tra il verificarsi di due eventi successivi di entità uguale o superiore, per esprimere una probabilità), le aree a rischio medio tra i 100 e i 200 anni e quelle a rischio alto tra i 20 e i 50 anni. In tutta Italia il 14% del territorio è in aree a pericolosità bassa, il 10% è in aree a pericolosità media, il 5,4% in aree a rischio elevato; la rimanente parte di territorio – quindi la grande maggioranza – non è considerata a rischio.
Il rischio è più alto in Emilia-Romagna. (…..) Ferrara è la provincia con la più alta percentuale di popolazione esposta almeno al rischio medio: il 100%. Sono sette le province in cui la percentuale supera il 50%: oltre a Ferrara, anche Rovigo, Ravenna, Venezia, Mantova, Reggio Emilia e Bologna. La Sicilia è la regione con meno aree a rischio alluvione. (…) (Fonte dati: ISPRA) (da https://www.ilpost.it/ 21/5/2023)

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CASSE DI ESPANSIONE. SERVONO DAVVERO?

Insufficienti per mettere in sicurezza i territori

(Ing. Roberto Colla, Coordinatore rischi idrogeologici Amo – Colorno)

(da https://www.parmatoday.it/ del 9/4/2019: Nota- Questo comunicato è stato pubblicato integralmente come contributo esterno. Questo contenuto non è pertanto un articolo prodotto dalla redazione di ParmaToday)

   Premesso che sulle casse di espansione fluviali è sempre molto difficile leggere note positive, le più accreditate teorie idrauliche di oggi tendono ad eliminarle. E’ ormai pensiero comune che siano devastanti e troppo impattanti date le loro dimensioni, costose sia nella costruzione che nel successivo e complicato mantenimento, insufficienti in quanto calcolate per piogge storiche oggi superate dai mutamenti climatici in atto, con arginature altissime a tenuta di immensi laghi per cui pericolose visti i numerosi mammiferi bucaioli che le abitano, depauperatrici di falde acquifere scaricando le piene senza permetterne la percolazione, senza possibilità di invasare le acque per altri usi dovendo sempre essere vuote, con effetti limitati a pochi chilometri di asta per cui, ad esempio, una cassa a Casale, se pur discutibile per la difesa della città, mai potrà avere benefici certi su Colorno. 

   Di tutt’altra valenza idraulica sono invece i bacini plurimi, come quello progettato ed auspicabile ad Armorano, ma solo per energia elettrica e approvvigionamento civile ed agricolo. Nulla potendo, vista la distanza, riguardo la laminazione delle piene per la difesa di Parma e Colorno.  A valle di Armorano occorre riportare l’asta fluviale ad un assetto molto simile a come natura la fece ma nel rispetto di tutte le costruzioni realizzate nei secoli dall’uomo ed oggi utilizzate. Tramite canali scolmatori, ottenuti con semplici movimenti di sterro e riporto in loco, funzionanti solo in presenza di superamento della portata minima vitale e senza alcuna opera elettromeccanica, verrà captata parte dell’onda di piena lasciando transitare solo la portata massima ammissibile per il tratto di valle. Tali opere sono in definitiva sfioratori laterali molto facilmente realizzabili per ogni tipologia di alveo, sia pensile che inciso. 

   Le acque poi saranno dirottate verso laghi artificiali, più o meno distanti dal punto di presa in funzione della morfologia dei terreni attraversati, da cui l’eventuale eccesso liquido possa tracimare sopra le arginature verso campagne non antropizzate, portando con sé acque limacciose fertili. Tali laghi, che non devono mai intaccare e scoprire le falde, serviranno, nella fase di tracimazione, sia per il rimpinguamento delle falde stesse che per usi plurimi. Potranno essere impermeabilizzati con strati di argilla ricavati in loco, con spese molto modeste. 

   Questo metodo si propone di essere un insieme di tanti piccoli bacini di espansione naturali dislocati lungo tutta l’asta che darà possibilità di irrigare i terreni limitrofi, oggi molto penalizzati dallo spreco insensato delle acque invernali di piena, che vengono condotte velocemente in mare dalle casse esistenti. Le esondazioni ottenute saranno definite “controllate”. Il fiume cioè uscirà dall’alveo dove noi lo programmeremo e non più nei centri abitati. Come oggi troppo spesso succede nonostante le innumerevoli quanto inutili casse costruite sugli affluenti di Po. 

   In pratica la sostanziale differenza tra le casse e i bacini diffusi risulta essere che le prime immettono le acque nello stesso alveo mentre i secondi le distribuiscono fuori dell’alveo e quindi in falda, infinito bacino di accumulo sotterraneo. Tra l’altro le casse (…però con fondo e pareti in cemento armato) sono nate a difesa delle fognature bianche ove svolgono un importante e corretto compito, appunto dovendo poi ricondurre le acque piovane nelle medesime tubazioni.  Qualcuno, favorevole alle casse fluviali in terra, ha a mio avviso definito banalmente i terreni esondabili di serie B. È esattamente l’opposto: aumenteranno invece enormemente di valore per la loro facile e poco costosa irrigazione, quasi sempre ottenibile a scorrimento superficiale.

Ing. Roberto Colla Coordinatore rischi idrogeologici Amo – Colorno

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L’INTERVISTA

“CON UNA PIOGGIA SIMILE SI PUÒ FARE POCO, ORA DIAMO PIÙ SPAZIO AI FIUMI”

di Daniele Tempera, 18/5/2023, da https://www.today.it/

– Il presidente dei geologi dell’Emilia Romagna, Paride Antolini, insiste sulla straordinarietà dell’alluvione. Ma l’evidenza è che la gestione ordinaria non basta più, paghiamo il prezzo dei ritardi: su 23 nuove opere anti alluvione solo la metà sono in funzione –

   Dalla siccità all’alluvione. Le cartoline di quest’anno dell’Emilia Romagna ci hanno restituito il vero significato di quella che viene chiamata “emergenza climatica”. Dal dramma del Po sotto il livello di guardia si è passati repentinamente a 21 fiumi esondati. E al record di 200 ml di pioggia cascata in 48 ore in alcune aree dell’Appennino dove i fiumi nascono e prendono corpo prima di presentarsi a valle. Parliamo dell’equivalente delle piogge attese in due mesi. E da Faenza a Cesena, da Ravenna a Forlì, le precipitazioni non sono state da meno. La sensazione è quella di trovarsi di fronte a un evento epocale, anche per l’estensione dell’area colpita, ma che non si può parlare più di ”maltempo” o ”novità”.

Ha senso chiamarli ancora “eventi estremi”?

A molti è sembrato un refrain, potenziato, di quanto avvenuto due settimane fa. Tra il 2 e il 3 maggio un’intensa perturbazione ha colpito l’Emilia-Romagna in particolare nell’area di Bologna e Ravenna. Il bilancio è stato allora di due morti, vari fiumi esondati e rischio e varie evacuazioni. Una calamità per il quale il Governo aveva già dichiarato lo stato di emergenza. In questo caso i danni sono definiti “incalcolabili”.

Ma l’inventario delle alluvioni nell’area che va dalle alte Marche all’area adriatica dell’Emilia Romagna non autorizza, malgrado l’eccezionalità dell’evento, allo stupore. Ripercorriamoli con ordine.

   Tra il 15 e il 16 settembre del 2022 nelle Marche, in molte aree delle province di Pesaro-Urbino e Ancona, le piogge si intensificano fino ad arrivare a 90mm all’ora. Una dinamica che ha scatenato frane e l’esondazione di molti corsi d’acqua, in particolare quella del fiume Misa che ha provocato la piena più disastrosa. Il bilancio è drammatico: 13 le vittime e interi territori devastati da acqua, fango e detriti.

Il 10 maggio 2020 è ancora l’area di Pesaro a essere colpita con allagamenti e smottamenti in città e provincia. Il 13 settembre 2019 è invece il turno di Cesena dove si assiste all’esondazione del Savio, una dinamica simile (anche se meno intensa) a quella avvenuta due giorni fa. Il 14 maggio 2019 a pagare il prezzo del maltempo è invece di Villafranca, comune in provincia di Forlì che assiste all’esondazione del fiume Montone. Il 5 e il 6 febbraio 2015 esondando diversi fiumi in tutta la Romagna. Una calamità che porta all’evacuazione di decine di persone a Ravenna e Riccione e all’isolamento di Cesenatico. I danni ammonteranno a 32 milioni di euro

   Nel maggio del 2014 un’alluvione si abbatte su Senigallia, comune marchigiano a sud di Pesaro. Il bilancio? 180 milioni di euro di danni e centinaia di sfollati.

   È legittimo porsi, a questo punto, il dubbio che non ci troviamo di fronte a un evento completamente inaspettato, anche se quanto accaduto sembra fuori scala anche per l’estensione dell’area colpita. ”Con una piovosità simile si può fare poco, è un evento epocale: consideriamo che sono caduti 200ml di acqua in un metro quadro in 36 ore, non abbiamo una rete idrografica che possa prevedere un evento del genere. Dobbiamo però attrezzarci in futuro, perché questi eventi possono ricadere anche se non sappiamo quando” osserva il Presidente dell’ordine dei geologi emiliani Paride Antolini. Tuttavia, anche nell’eccezionalità il dato, banale, è che il cambiamento climatico non è qualcosa che sarà, ma qualcosa che dobbiamo imparare a fronteggiare oggi.

La prevenzione non fa vincere le elezioni

L’evidenza è che più un territorio è antropizzato, ovvero più è rilevante la presenza umana, più il rischio idrogeologico aumenta. Una cosa particolarmente vera per l’Emilia Romagna, regione caratterizzata da una delle densità abitative più alte d’Italia.

   ”La nostra zona, da Rimini a Piacenza è un continuum di case e poli industriali. L’urbanizzazione è cresciuta enormemente nel dopoguerra, è ovvio che nel momento che si passa da una gestione ordinaria del clima a una straordinaria si entra in crisi: i fiumi esondati sono stati ben 21 e ovviamente ci hanno fatto scoprire tutte le fragilità del nostro territorio” sottolinea Paride Antolini. Ma i fiumi fanno da sempre parte dell’ambiente che ci è dato occupare. Il punto è costruire nelle loro prossimità o far sì che l’ondata di pieni non arrivi incontrastata a ridosso dei centri abitati.

   ”Si deve senza dubbio lavorare sulla mitigazione, dare più spazio ai fiumi, non restringere o deviarne gli alvei, lavorare sull’espansione dei cosiddetti invasi di laminazione, ovvero sulle aree che rimangono normalmente vuote e fruibili dal punto di vista ambientale, turistico, agricolo e che possono all’occorrenza, assorbire parte della piena del fiume evitando esondazioni più a valle vicino ai centri abitati. In montagna invece si dovrebbe puntare sulla riforestazione e il mantenimento dei boschi per impedire all’acqua di scendere a valle. Sono cose a cui si sta lavorando, anche se con qualche ritardo. Non posso escludere però che, malgrado la realizzazione di opere del genere avremmo comunque avuto una catastrofe” precisa Antolini.

   Il punto sono però, per l’appunto, i ritardi. Tra il 2015 e il 2022, come riporta il Quotidiano.net la Regione Emilia Romagna ha ricevuto 190 milioni di euro per la realizzazione di 23 di queste opere (definite anche “casse di epansione”). A regime ne funzionano solamente 12, altre due funzionano solo in parte, mentre nove attendono la fine dei lavori. Due sono addirittura ancora da finanziare, a fronte di un’emergenza che, come abbiamo visto nella cronologia sopra, non nasce certo oggi. Il punto è forse che non sono opere che hanno un ritorno immediato in chiave elettorale e che non finiscono mai sotto la lente dell’opinione pubblica, se non a tragedia avvenuta.

   Ci sono poi degli interventi più strutturali che, come ricorda Legambiente, riguardano non solo l’Emilia Romagna come: vietare qualsiasi edificazione nelle aree classificate come a rischio idrogeologico; delocalizzare gli abitanti nelle aree a rischio con appositi finanziamenti; salvaguardare la permeabilità delle aree urbane; vietare l’utilizzo dei piani interrati; vietare gli intubamenti dei corsi d’acqua. Un’opera che può essere fatta solo di concerto quindi, sul quale i vari governi latitano da anni.

Governo che viene, rinvio che trovi

Le catastrofi naturali riguardano, ormai da vent’anni, tutta Italia. Dal 2010 al 31 ottobre 2022 si sono verificati ben 1.503 eventi estremi nello Stivale. Solo l’Emilia Romagna ne ha contati ben 111. Le vittime accertate dal 2010 a novembre 2022 erano 279. E le emergenze ci costano circa 3 miliardi di euro l’anno.

Il punto è la fragilità del nostro territorio. Secondo l’Ispra il 18,4% dell’Italia ricade nelle aree di maggiore pericolosità per frane e alluvioni. Sono 6,8 milioni gli italiani che vivono in territori a rischio alluvioni, circa un milione e mezzo quelli che vivono in territori a rischio frane. E il punto è che spendiamo almeno quattro volte in più per riparare i danni che per prevenirli. Se infatti dal 1999 circa 500 milioni di euro sono stati spesi per prevenire i danni degli eventi metereologici estremi, dal 2013 in poi spendiamo un miliardo e mezzo ogni anno per sanarli. Una cifra che, in assenza di un indirizzo preciso, è destinata probabilmente a risalire.

   Ma ancora una volta, come è avvenuto per la pandemia, quello che colpisce è la mancanza di un piano.

L’Italia deve infatti ancora aggiornare e approvare il suo “Piano di Adattamento ai cambiamenti climatici“: la bozza è pronta dal 2018. Nel mezzo abbiamo avuto la pandemia ed eventi climatici sempre più estremi. Si tratta di uno strumento che hanno tutte le nazioni avanzate ad eccezione Slovenia, Polonia e Turchia. E che servirebbe a definire con maggiore precisione le aree a rischio idrogeologico e orientare efficacemente le politiche. Un’azione che ci chiede anche l’Europa urgentemente per orientare meglio i soldi del Pnrr. In particolare il Piano Nazionale di ripresa e resilienza stanzia circa 2,49 miliardi di euro sulla prevenzione del rischio idrogeologico. Fondi difficilmente gestibili in assenza di una strategia nazionale nel Paese che ha scelto di rincorrere le emergenze invece di imparare a gestirle. (Daniele Tempera, 18/5/2023, da https://www.today.it/)

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ALLUVIONI: COSA FARE PER EVITARE IL DISASTRO

di Elena Roda, 20 maggio 2023, da https://www.upday.com/

– L’alluvione in Emilia-Romagna e le immagini che sono giunte dai luoghi colpiti portano a chiedersi se e cosa, da un punto di vista tecnico, si possa fare per evitare distruzioni di questa portata. Lo abbiamo chiesto a un esperto – 

   “Ormai è chiaro che c’è un effetto climatico che aumenta il rischio di alluvioni su alcuni tipi di territorio che per l’Italia sono rilevanti”. Esordisce così il professor FRANCESCO BALLIO, docente di idraulica al Politecnico di Milano, intervistato da upday per affrontare il tema dell’alluvione che ha colpito l’Emilia Romagna e della frequenza con cui questi fenomeni si stanno verificando nel nostro Paese.

COSA SI PUÒ FARE PER LIMITARE I DANNI DELLE ALLUVIONI?

“Le azioni di mitigazione sono molte. Ci sono almeno una ventina di strategie che possiamo adottare: dalle opere più classiche come bacini di laminazione, dighe e argini, fino a insegnare ai cittadini come comportarsi in queste situazioni. Ma nessuna di queste è una soluzione, da sola. Bisogna sempre pensare a un mix. Alcune strategie sono relativamente universali, come le indicazioni alla popolazione su come comportarsi, altre sono sito-specifiche. Le azioni richieste nel caso delle Marche, dove c’è stata l’alluvione lo scorso settembre, ad esempio, sono diverse da quelle richieste per il territorio dell’Emilia-Romagna. Il fattore comune di tutte queste azioni è che hanno un costo”.

UN COSTO?

“Un costo in senso lato. In termini di soldi, sicuramente, ma anche in vincoli sul territorio. Alzare un argine, per esempio, oltre che costare, ha un impatto sul territorio. Impedire di costruire in una zona o addirittura delocalizzare delle case ha un costo e ha un vincolo. Insomma, c’è un impatto negativo. Abbassare il rischio costa. L’unico denominatore comune è una discussione sociale, quindi politica, in cui la società decide qual è il livello di costo che vuole affrontare e quanto vuole proteggersi”.

LA SOLUZIONE È UN DIBATTITO ALL’INTERNO DELLA SOCIETÀ E DELLA POLITICA?

“Un dibattito sociale e scelte politiche perché gli elementi tecnici li conosciamo: si chiamano argini, manutenzione dei fiumi, invasi, pulizia degli alvei, dragaggio degli alvei. E poi, evitare di costruire in certe zone. Serve fare uno studio locale e fare una serie di analisi costi benefici per capire quale sia la soluzione migliore e il costo indotto. C’è un messaggio importante però che vorrei passasse”.

“Dobbiamo accettare che l’inondazione avviene e quindi ridurre i danni o compensare i danni laddove ci sono. Dobbiamo continuare a lavorare per impedire certi effetti, ma dobbiamo anche essere consapevoli che dobbiamo lavorare sugli impatti, quindi sulla mitigazione. Penso all’Emilia-Romagna, ad esempio. Considerando che è un territorio quasi al 100% antropizzato, serve selezionare le zone su cui possiamo accettare i danni e quelle che invece dobbiamo proteggere, procedendo con schemi di compensazione, di fatto lavorando a una soluzione sugli effetti”.

A LIVELLO TECNICO, E GENERALE, COSA SI PUÒ FARE?

Sicuramente bisogna lavorare per tenere l’acqua a monte, cioè evitare che arrivi. Nel limite del possibile bisogna rallentare l’arrivo del picco verso valle. Questo non sempre si può fare, ma laddove è possibile, è una delle azioni. La pioggia non si può fermare, ma possiamo rallentare la concentrazione del deflusso in modo da distribuirla meglio. E poi possiamo mettere in condizioni di manutenzione ancora migliore i fiumi che hanno una capacità di portata maggiore. 

E PER LE CASE?

Pensare a costruirle in modo che i danni siano limitati e seguire anche semplici regole che si usavano anche in passato: evitare, ad esempio, di installare impianti in cantina, o di lasciarvi valori. Si accetta che l’acqua arrivi, ma si limitano i danni. Per le cose, ovviamente. Per le persone non ci si può permettere che ci siano vittime. 

(Elena Roda, 20 maggio 2023, da https://www.upday.com/)

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CONTINUARE A NEGARE NON CI SALVERÀ

di Stefano Mancuso, da “la Repubblica” del 20/5/2023

   Come conseguenza alla recente tragedia dell’alluvione in Emilia-Romagna, è iniziata la solita discussione sulle cause di questi eventi climatici catastrofici che, come d’uso, terminerà entro pochi giorni. Più o meno il tempo che il suolo si asciughi e le cause, così come gli effetti, di questa ennesima calamità interesseranno soltanto a coloro che sono stati direttamente danneggiati. Chi ha perso un familiare, un amico, un conoscente; chi ha perso la casa o la propria azienda. Per tutti gli altri continuerà a valere quella attitudine del tutto umana a non voler vedere il pericolo in arrivo.

   Che esista una cosa chiamata riscaldamento globale, la cui azione produce catastrofi, dopo quasi un secolo di ricerche da parte della scienza, dovrebbe essere ormai una nozione comune; è qualcosa di talmente noto che continuare a parlarne è ormai diventato addirittura dannoso. Controproducente. Chi soltanto prova a citare cosa dicono a proposito di riscaldamento globale gli studi dei migliori centri di ricerca mondiali, è o una Cassandra (per chi ha fatto studi classici) o un semplice menagramo il cui solo risultato è, appunto, portare iella e generare ecoansia.

   È così, anche quando la stessa regione è colpita, a distanza di quindici giorni, da due eventi che, in condizioni normali, hanno, ognuno, la probabilità di accadere non più che una volta per secolo, a nessuno viene in mente che, forse, il riscaldamento globale non è qualcosa che verrà in un futuro lontano e nebuloso, ma qualcosa che sta colpendo duro già oggi (e non solo nel Sahel o in Estremo Oriente, dove, al limite, ci dispiace, ma sono posti così lontani e, poverini, sono già pieni di problemi) ma qui da noi, nella ricca e avanzata Emilia-Romagna.

   E allora, a caso, scegliete voi pure la miscela che gradite di più sulle cause del disastro: scarsa manutenzione degli argini, alberi caduti che hanno intasato gli alvei dei fiumi, impermeabilizzazione dei suoli, versanti non curati, nutrie e castori, destino cinico e baro e chi più ne ha più ne metta. Intendiamoci, ognuno di questi fattori ha la sua rilevanza e per alcuni è molto maggiore. Ovviamente le nutrie c’entrano poco e sicuramente la sfortuna, che per due volte nel giro di due settimane l’atmosfera abbia deciso di scaricare una parte del suo surplus di energia al suolo nella stessa zona ha un ruolo rilevante.

   Ma se non l’avesse fatto in Romagna, la pioggia si sarebbe, comunque, dovuta scaricare da qualche altra parte e luoghi disabitati in Italia non ce ne sono più. Certo, se la stessa quantità d’acqua fosse caduta su una zona meno edificata, più permeabile, e in cui i fiumi non sono tombati o costretti dal cemento entro canali minuscoli, interrotti da dighe e barriere, allora nutrie o non nutrie, i danni sarebbero stati molto minori. Se i bacini entro i quali questi fiumi corrono fossero stati più coperti di foreste e i fiumi più liberi di prendersi il loro spazio, oggi probabilmente non racconteremmo lo stesso disastro.

   Ma deve essere chiaro che il riscaldamento globale è un fenomeno esponenziale e che le sue manifestazioni saranno sempre più intense e frequenti (ecco di nuovo la Cassandra) e non volerlo vedere, non volerne neanche parlare, non ci aiuterà in alcun modo a proteggerci.

   Una decina di giorni fa, durante una conferenza sullo stato dell’Ue, Josep Borrell, alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, raccontava come chiunque in Ue sapesse da almeno dieci anni quali fossero le mire di Putin sull’Ucraina. Speravano che quello che era sotto gli occhi di tutti non si avverasse. Tutti lo sapevano ma nessuno ne parlava, quasi come se nominandolo si rendesse il pericolo più reale. Lo fanno anche i bambini, ma non funziona.

   Se non vogliamo che disastri come quello della Romagna si ripetano dobbiamo per prima cosa, tutti, iniziare a chiedere che le politiche per la riduzione della CO2 e degli altri gas clima alteranti siano sempre più stringenti, globali e efficienti. Dobbiamo, tutti, chiedere che la lotta al riscaldamento globale diventi la priorità di ogni governo di questa Repubblica. Dobbiamo, tutti, capire che il riscaldamento globale è il più grave problema che l’umanità abbia mai avuto nel corso della sua storia e che qualunque politica sociale, economica, sanitaria che non lo prendesse in considerazione sarebbe inutile e dannosa. E soprattutto, tutti, dovrebbero intendere che nascondere un problema non serve ad evitarlo, ma solo a renderlo più enorme. (STEFANO MANCUSO)

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L’ITALIA HOTSPOT DEL CLIMA MALATO

di Carlo Petrini, da “La Stampa” del 19/5/2023

   Ormai è innegabile: sulla nostra penisola la crisi climatica sta dando perfetta manifestazione di sé con eventi estremi molto spesso opposti (pensiamo alla siccità e alle alluvioni), che si manifestano in sequenza e con frequenza sempre più elevata, condizionando profondamente le nostre vite. Fino a pochi giorni quasi tutto il territorio nazionale era attanagliato dalla più lunga siccità degli ultimi due secoli; pensiamo che per quasi un anno e mezzo le precipitazioni potevano essere contate con il contagocce. Ora invece le energie, le preoccupazioni e anche l’attenzione mediatica sono catalizzate sulle precipitazioni a carattere alluvionale che hanno colpito l’Emilia Romagna causando vittime e oltre diecimila sfollati.

   In 18 ore si sono riversati i millimetri di pioggia che in media cadono in un mese. Questo ha provocato l’esondazione di tutti i fiumi, allagamenti nei paesi in pianura, isolamento di quelli collinari a causa delle frane di molte strade, i campi coltivati sono diventati veri e propri laghi e i frutteti che erano in una fase cruciale della maturazione dei loro prodotti sono stati severamente danneggiati. Sarebbe bello che questa situazione tremenda che sto descrivendo fosse un fenomeno sporadico e isolato, ma purtroppo così non è. Oggi è stata la volta dell’Emilia Romagna, nel novembre del 2022 era toccato a Ischia e solo due mesi prima alle Marche.

   E domani? Non è dato saperlo eppure sappiamo che succederà. L’Italia come il resto del bacino del Mediterraneo rientra infatti tra quelli che gli scienziati definiscono “hotspot dei cambiamenti climatici”, ossia aree del pianeta che subiscono gli effetti della crisi del clima con maggior intensità e con conseguente impatto sui sistemi naturali e umani.

   I dati forniti dall’Ispra nel 2021 danno conferma di ciò mostrando come il 94% dei Comuni italiani è a rischio frane e alluvioni. Mentre uno studio dell’Osservatorio di Legambiente ha rivelato che in soli dieci anni il numero annuale di allagamenti da piogge intense è passato da dieci nel 2012 a 150 nel 2022.

   Inondazioni, frane e alluvioni da un lato, e dall’altro uno stato di siccità che si sta cronicizzando e che acutizza gli effetti delle piogge rendendo il terreno impermeabile. Ecco allora che le piogge, non riuscendo a penetrare nel suolo, da un lato allagano le città e dall’altro non vanno ad alimentare le falde, mentre bisognerebbe fare di tutto fuorché impedire l’accumulo di riserve d’acqua (prima fra tutte le azioni per recuperare gli invasi che non riescono più a svolgere il loro compito perché mal gestiti nel tempo).

   Come se tutto ciò non bastasse c’è un ulteriore fattore, questo di natura umana, che si aggiunge a questo quadro di tempesta perfetta. Sto parlando della cementificazione che fa sì che le strade si trasformino in veri e propri torrenti che trascinano appresso tutto quello che incontrano nel loro percorso. In un Paese quale l’Italia che è sull’orlo della crisi demografica ogni giorno del 2021 si sono cementificati una media di 19 ettari al giorno, con una velocità di due metri quadrati al secondo. Gli abitanti diminuiscono e gli edifici si moltiplicano. Tutto questo non ha la benché minima e razionale ragion d’essere! Eppure è reso possibile dal fatto che l’Italia ancora manchi di una legge per frenare il consumo di suolo, nonostante di proposte in tal senso ve ne siano da oltre dieci anni.

   La crisi ambientale è arrivata allo stadio di irreversibilità e si manifesta in tutta la sua complessità e interconnessione tra sistemi naturali, economici e sociali. Non c’è più tempo per pensare, o peggio ancora nascondere la testa sotto la sabbia come fa la classe politica. Bisogna agire e sviluppare strategie di adattamento per far sì che vi siano le condizioni affinché la specie umana possa continuare a vivere sul pianeta (o i più pessimisti direbbero sopravvivere). (Carlo Petrini, da “La Stampa” del 19/5/2023)

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LE ACCIDENTATE INIZIATIVE NAZIONALI PER PREVENIRE I RISCHI DA ALLUVIONI

da https://www.ilpost.it/, 19/5/2023

– “ItaliaSicura” nel 2019 fu sostituita da “ProteggItalia”, ma entrambe sono state poco efficaci per scarsa continuità e lentezze burocratiche –

   Ogni volta che in una zona d’Italia avviene un’alluvione o una frana scienziati ed esperti ripetono che non bisognerebbe solo intervenire in caso di emergenza, per soccorrere e limitare i danni, ma anche in maniera preventiva, per evitare problemi in caso di fenomeni meteorologici estremi. L’alluvione in Emilia-Romagna ha rianimato questo dibattito, che stavolta si è sviluppato anche attorno a questioni politiche relative a ItaliaSicura, una struttura amministrativa creata dal governo di Matteo Renzi nel 2014 per finanziare e realizzare opere di prevenzione, sostituita poi nel 2019 dal piano ProteggItalia del primo governo di Giuseppe Conte.

   Si sa che il territorio italiano è vulnerabile agli effetti delle alluvioni, non solo perché si verificano periodicamente nel paese ed è facile ricordarselo, ma anche perché esistono studi molto dettagliati sui rischi specifici di ogni parte del paese in caso di disastri naturali di ogni genere, terremoti compresi. L’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA), un ente di ricerca pubblico legato al ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, analizza dove è maggiore la pericolosità per frane e alluvioni, dove le coste subiscono più erosione e quali e quanti sono i rischi per la popolazione, gli edifici, le imprese e i beni culturali in tutto il paese.

   L’ultimo rapporto dell’ISPRA sul tema è del 2021 e dice che il 93,9 per cento dei comuni italiani (cioè 7.423) «è a rischio per frane, alluvioni e/o erosione costiera», che le persone esposte al rischio di frana sono 1,3 milioni e quelle esposte al rischio di alluvioni 6,8 milioni. Dice anche che le regioni con più abitanti a rischio per frane e alluvioni sono, in ordine, Emilia-Romagna, Toscana, Campania, Veneto, Lombardia e Liguria.

   ItaliaSicura era una “struttura di missione”, espressione tecnica con cui si intendono enti creati dal governo nazionale o dalle amministrazioni locali per raggiungere determinati obiettivi, in questo caso prevenire i danni da dissesto idrogeologico con una serie di interventi da realizzare in una decina d’anni. Era formata da 16 tecnici provenienti da ministeri, dal dipartimento della Protezione Civile, da Invitalia, l’agenzia del governo che si occupa della crescita economica del paese, e da due esperti esterni alle istituzioni: Erasmo De Angelis, giornalista e politico del Partito Democratico con varie esperienze in ambiti di tutela e gestione dell’ambiente, e Mauro Grassi, economista esperto di disastri ambientali, a sua volta con alcune esperienze politiche.

   In questi giorni sia De Angelis che Grassi sono stati intervistati sulla vicenda di ItaliaSicura. Parlando a Omnibus, su La7, De Angelis ha detto che ItaliaSicura «ha realizzato il primo piano di opere e interventi regione per regione»: 10.361 opere, che potrebbero essere attuate ancora oggi, alcune con progetti ben definiti, altre meno, «per un costo presunto» intorno ai 30 miliardi di euro. Queste opere e interventi prevedono tra le altre cose la costruzione di argini e vasche di laminazione, rifacimenti di canali, aperture di fiumi tombati (cioè che passano sotto case e strade) e consolidamento dei versanti a rischio frana in tutte le regioni. L’idea era di stanziare ogni anno circa 3 o 4 miliardi di euro, ha spiegato De Angelis, e farlo con una struttura che potesse lavorare anche con governi diversi per dare continuità agli interventi.

   ItaliaSicura coordinava il lavoro di tante istituzioni: i ministeri dell’Ambiente, delle Infrastrutture, dell’Agricoltura, dei Beni culturali e dell’Economia, delle Regioni e vari enti locali. Gli 8,2 miliardi di euro stanziati in totale dal governo Renzi e poi da quello di Paolo Gentiloni e non usati del tutto vennero messi insieme usando fondi non spesi da diversi ministeri, scrive il Sole 24 Ore.

   Nei quattro anni in cui è stata attiva si è occupata dell’apertura o della riapertura di 1.445 cantieri, ma solo una parte venne portata a termine e secondo un’analisi della Corte dei Conti relativa al 2016-2019 la gestione dei fondi presenti in quegli anni non funzionò bene: «Non sembra ancora essere compiutamente definita una vera e propria politica nazionale di contrasto al dissesto idrogeologico, di natura preventiva e non emergenziale, coerente anche con una politica urbanistica e paesaggistica, rispettosa dei vincoli ambientali, con interventi di breve, medio e lungo periodo». La Corte definì «in larga parte inefficace» l’intervento pubblico nazionale e criticò il fatto che da un governo all’altro si cambiassero i processi decisionali per portare avanti gli interventi.

   I lavori di ItaliaSicura vennero interrotti nel 2019, quando il governo Conte riportò la gestione dei rischi di dissesto idrogeologico al solo ministero dell’Ambiente. Il governo ritenne che una struttura di missione rappresentasse un costo inutile. Ebbe un peso nella scelta anche il fatto che ItaliaSicura fosse un organismo legato a Renzi, che il Movimento 5 Stelle aveva contestato duramente nei precedenti anni all’opposizione. Formalmente ItaliaSicura fu sostituita nel 2019 dal piano ProteggItalia per cui fu previsto uno stanziamento di 14,3 miliardi fino al 2030.

   Sempre secondo la Corte dei Conti però nemmeno ProteggItalia è stata una soluzione efficace e risolutiva. «Permane la lentezza nell’adozione sia dei processi decisionali che di quelli attuativi, spesso condizionati da lunghi processi concertativi nazionali e locali», ha concluso un rapporto della Corte nel 2021; non c’è stata quella «accelerazione dell’attuazione degli interventi» che sarebbe servita. Le ragioni sono tante e legate alla frammentazione dei processi decisionali, che coinvolgono ancora molti enti nazionali e locali.

   Secondo il ministro per la Protezione civile Nello Musumeci ci sono 21 miliardi di euro stanziati per la messa in sicurezza del territorio dal 2019 al 2027 ma ancora non spesi. (https://www.ilpost.it/, 19/5/2023)

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I NOSTRI ERRORI NEGLI ANNI

di Gian Antonio Stella, da “il Corriere della Sera” del 19/5/2023

   Da Arquà Polesine, isolata e impossibilitata a chiedere aiuti, partì per chiedere soccorsi un ragazzo coraggioso e pazzo, Paride Fabbris, che entrò nel mito nuotando per chilometri nel buio fino a Rovigo tra le acque gelide e furenti. Era una notte di novembre del 1951. Altri tempi, altra alluvione. Quella catastrofica del Polesine quando l’acqua invase una superficie maggiore del lago di Ginevra. Ma ti chiedi: possibile che oltre settant’anni dopo pezzi d’Italia possono ancora restare isolati per colpa di alcuni giorni di pesante pioggia torrenziale? Certo, di acqua ne è venuta giù tantissima. Al punto che l’Ispra ha calcolato che nei due «eventi in sequenza» degli ultimi venti giorni le precipitazioni hanno superato in varie località i 450 millimetri.

   Un evento eccezionale con un «tempo di ritorno superiore a 100 anni». Un diluvio che da lunedì a mercoledì ha causato «l’esondazione di 23 fiumi e allagamenti diffusi in 41 comuni con picchi di 300 millimetri in 48 ore sui bacini del crinale e collina forlivese». Attribuire tanti lutti e tanti danni alla (solita) calamità naturale ingigantita dai cambiamenti climatici, però, è riduttivo. «L’ acqua disfa li monti e riempie le valli, e vorrebbe ridurre la terra in perfetta sfericità, s’ella potessi», scriveva già qualche secolo fa Leonardo da Vinci, «E non ha quiete insinoché non si congiunge col suo marittimo elemento».

   Ovvio. Ma è solo la natura la responsabile, oggi, delle 271 frane in 58 comuni (44 in provincia di Bologna, 90 in quella di Ravenna, 103 in quelle di Forlì-Cesena…) o sono state determinanti certe scelte urbanistiche sbagliate se non temerarie in una regione dove in totale sono state censite 80.335 frane cioè una su otto delle 620 mila contate Italia? Se le case e i condomini di Borgo Durbecco (Faenza) finiscono sotto acqua non sarà perché sono state costruite, anche in tempi recenti, cinque metri sotto la quota del centro storico e dell’argine dei fiume? È merito della buona sorte se Piazza Maggiore non è allagata come in una scellerata fake news messa ieri on-line o perché gli avi dei bolognesi di oggi scelsero un luogo quindici metri sopra la quota del Reno?

   Sempre l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale denunciava nel 2015 come il consumo effettivo del territorio, nel dopoguerra, fosse schizzato mediamente al 10,8% (oltre il doppio della media del territorio urbanizzato in Europa: 4,3%) con picchi da incubo nel Veneto (14,7%), Lombardia (16,3%), Campania (17,3%) fino al 22,8% in Liguria. Per non dire del suolo consumato in aree a rischio idraulico. Con Toscana ed Emilia-Romagna all’11%, Marche al 13% e Liguria addirittura al 30,1%. Da brividi.

   Eppure si è continuato a costruire, costruire, costruire: altri 883 ettari consumati nel solo 2021 in Lombardia, 683 in Veneto, 658 in EmiliaRomagna dove un sesto del territorio (il 14,6%) «è classificato a pericolosità elevata e molto elevata nei Piani di Assetto Idrogeologico». A livello nazionale «19 ettari al giorno, il valore più alto negli ultimi dieci anni, e una velocità che supera i 2 metri quadrati al secondo».

   Ne valeva la pena, in un Paese fragile come il nostro esposto a eventi catastrofici che sul solo fronte delle frane ha contato negli ultimi 50 anni (1972- 2021), 1.071 morti, 1.423 feriti e 145.548 evacuati? Mah… Lo stesso patrimonio paesaggistico, monumentale, artistico, come ricorda Giuseppe Caporale nel saggio Ecoshock appena uscito per Rubbettino, un patrimonio sul quale il Paese conta anche sotto il profilo turistico, è a rischio.

   «Degli oltre 213.000 beni architettonici, monumentali e archeologici», si legge nell’ultimo Rapporto sul Dissesto Idrogeologico in Italia, «quelli potenzialmente soggetti a fenomeni franosi sono oltre 12.500 nelle aree a pericolosità elevata e molto elevata; raggiungono complessivamente le 38.000 unità se si considerano anche quelli ubicati in aree a minore pericolosità. I Beni Culturali a rischio alluvioni sono quasi 34.000 nello scenario a pericolosità media e raggiungono quasi i 50.000 in quello a scarsa probabilità di accadimento o relativo a eventi estremi». E torniamo sempre lì, alla domanda che da troppi anni tormenta chi ama questo Paese: arriveremo finalmente a una vera consapevolezza della gravità del problema? O ci butteremo tutto alle spalle, come sempre, appena smetterà di piovere?  (GIAN ANTONIO STELLA)

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L’AMBIENTE ESTREMO

di Paolo Giordano, da “il Corriere della Sera” del 18/5/2023

   Poiché questo è il momento in cui dovremmo restare in silenzio – e nel silenzio concentrarci sugli alluvionati, gli sfollati, le vittime -, questo è anche il momento in cui esprimersi. La nostra psiche collettiva è intrappolata ormai da anni in cicli di emergenza e disinteresse, sempre più drammatici e sempre più brevi, che alla fine lasciano per lo più le cose come sono. La disponibilità ad ammettere e discutere un problema si apre e si chiude come una valvola a scatto. Così rimangono solo le occasioni peggiori, le meno adeguate in assoluto, quando la commozione è al culmine e sarebbe meglio tacere, per ribadire ciò di cui per il resto del tempo dovremmo parlare.

   Nel caso specifico, per ribadire il concetto centrale, il più ambiguo ma anche il più devastante della crisi climatica, nonché quello che continua a sfuggire ai più: crisi climatica significa l’aumento in intensità e in frequenza dei fenomeni estremi. Di un segno e di quello opposto: siccità e alluvioni, ondate di caldo e ondate di gelo. La parola chiave, quella su cui sventatamente non è stato concentrato lo sforzo comunicativo dall’inizio, è proprio «estremo». Siamo già entrati in un’epoca in cui il clima, in ogni sua manifestazione, è più estremo di come lo conoscevamo.

   Anche la siccità dei mesi scorsi in Pianura padana e le inondazioni delle ultime ore sono tutt’altro che slegate. Il «come» è reperibile nelle spiegazioni dei climatologi interpellati ovunque, che di certo accompagneranno anche questo articolo, ma bisogna cogliere l’attimo, leggerle oggi, perché scompariranno non appena la pioggia sarà cessata e l’acqua si ritirerà. Qui ci è sufficiente dire che chi vede in un fenomeno la negazione dell’altro – nell’eccedenza di piogge la negazione della siccità – si sta fermando allo stadio delle impressioni, del pensiero irragionevole, e rifiuta di accogliere ciò che quegli stessi climatologi ripetono non da ieri e nemmeno dalla scorsa primavera o dall’ultimo decennio: i fenomeni atmosferici estremi sono più estremi e più frequenti, e lo saranno sempre di più.

   Quella che viviamo è un’escalation ambientale. Martedì mattina ero in treno. Mentre la situazione meteorologica si aggravava, ho colto uno scambio di battute fra i miei vicini. Uno di loro, il più giovane, si occupava di qualcosa legato alla sostenibilità e ha mostrato al signore che gli sedeva di fronte il telefono con le immagini che arrivavano dall’Emilia-Romagna. L’altro ha commentato in modo lapidario: almeno è piovuto, i fiumi hanno raggiunto il loro livello normale, finalmente ci lasceranno in pace «con la storia della siccità». Il commento non era rivolto a me, quindi l’ho assimilato e lasciato andare, ma ha continuato a tornarmi in mente nelle ore successive. Non per via di un giudizio morale (sono certo che il signore non sarebbe stato altrettanto perentorio poche ore più tardi), ma per l’insofferenza che trasmetteva rispetto al dibattito più ampio intorno alla crisi climatica. Una «storia» con cui ci stanno ammorbando (chi, non è chiaro, non lo è mai), una storia che poi viene puntualmente sconfessata dalla realtà. Ammetto di essere rimasto anche un po’ sbalordito però.

   La comunità scientifica è pacificata sui fondamentali dei cambiamenti climatici ormai da decenni, anche i media mainstream sembrerebbero esserlo, ma qualcosa in noi, qualcosa di più profondo, continua a opporre resistenza. In questa rigidità interiore, perfino le emergenze finiscono spesso per volgersi nel contrario della consapevolezza. Le immagini aeree della pianura sommersa, le persone che chiamano aiuto e i video dei salvataggi: rendendoci vicini, ci allontanano anche, permettono di consumare tutto il nostro coinvolgimento nel dispiacere, anestetizzando la ragione. Alla fine, ciò che miriamo a risolvere il più in fretta possibile è sempre il nostro disagio personale. Solo che non possiamo più permettercelo.

   È davvero arrivato il momento di un salto di qualità comune, perché la crisi climatica non è più un’eventualità. È un presente in corso, adesso in Emilia-Romagna domani chissà, che richiede forme di adattamento molteplici, economiche, infrastrutturali, sociali – e richiede rinunce, sì -, nessuna delle quali avverrà senza prima un cambio di mentalità diffuso. O forse, più dell’espressione «cambio di mentalità», che non trasmette nulla di nulla, potremmo iniziare a dire: resa.

   Nessuna delle modifiche sostanziali di cui abbiamo bisogno avverrà nella misura e alla velocità necessarie se una parte di noi non decide di arrendersi. Di lasciar andare per sempre l’idea rassicurante di un ambiente «mite», per ammettere quella nuova di un ambiente «estremo».

   L’Italia è un territorio variegato, mosso, struggente. Ed esposto. La vulnerabilità – delle nostre coste, di certe aree montuose, delle isole e ora anche, sorprendentemente per molti di noi, della nostra più grande pianura – è il primo pensiero da ammettere per evitare di trovarci sospesi a mezz’aria, fra certe «storie» a cui non crediamo del tutto e un Pianeta che non capiamo più. (PAOLO GIORDANO)

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