BOSNIA: torna l’incubo della secessione dei separatisti serbi (a 30 anni dall’inizio della guerra civile iugoslava) – I NAZIONALISMI: incendi che cercano di propagarsi sempre (l’ungherese Orban, la Serbia…alleati al secessionismo serbo bosniaco) (e i BALCANI che si “svuotano” di giovani) – Come evitare una nuova catastrofe

LA STORIA È TORNATA A BUSSARE DALLE PARTI DI SARAJEVO. La Bosnia-Erzegovina non viveva una simile turbolenza politica dal 1995, quando gli accordi di DAYTON avevano regalato una prospettiva di pace a un Paese multietnico in perenne conflitto con se stesso. La convivenza tra SERBI, CROATI e BOSGNACCHI (i BOSNIACI MUSULMANI) sembra oggi essere in pericolo a causa in particolare delle rivendicazioni di MILORAD DODIK, membro del triumvirato che guida la Bosnia-Erzegovina e leader dell’Alleanza dei socialdemocratici indipendenti, il partito di maggioranza della REPUBBLICA SPRSKA, la parte serba del Paese che sogna di ricongiungersi con Belgrado. (…)(da https://www.linkiesta.it/) – (nell’IMMAGINE: la bandiera della BOSNIA ERZEGOVINA: è blu con un triangolo giallo -che ricorda vagamente la forma dello stato- e una fila di stelle bianche a cinque punte allineate lungo l’ipotenusa; i tre vertici del triangolo rappresentano la teoria delle tre etnie del paese: Bosgnacchi, Serbi, Croati)

   In base agli  accordi di DAYTON del 1995 (che posero fine al massacro della ex Iugoslavia, pur congelando situazioni precarie e negative di separazione etnica), lo Stato bosniaco ha conservato il territorio già appartenente (nel periodo della Iugoslavia di Tito) alla “Repubblica federativa iugoslava di Bosnia ed Erzegovina”, ma è stato suddiviso in due entità distinte: la Repubblica Serba (Republika Srpska) e la Federazione croato-musulmana (Federacija Bosne i Hercegovine), rispettivamente con il 49% e il 51% del territorio. Si dichiarò una larga autonomia delle due parti della Bosnia, e si diede un’unità federativa allo Stato Bosniaco retto da una presidenza collegiale, costituita dai tre membri delle maggiori etnie (uno musulmano, uno serbo e uno croato), che a rotazione (ogni 8 mesi ciascuno) ne sono a capo.

(nell’immagine: mappa della Bosnia Erzegovina, da Wikipedia) – In base agli ACCORDI DI DAYTON  del 1995, lo Stato bosniaco ha conservato il territorio già appartenente alla Repubblica federativa iugoslava di Bosnia ed Erzegovina, ma è stato suddiviso in due entità distinte: la Repubblica Serba (Republika Srpska) e la Federazione croato-musulmana (Federacija Bosne i Hercegovine), rispettivamente con il 49% e il 51% del territorio. La Repubblica Serba, di forma assai irregolare, comprende le regioni più settentrionali (confinanti con la Croazia) e più orientali (limitrofe alla Serbia e al Montenegro), la cui continuità è interrotta a Nord dal distretto di Brčko che, conteso fra le due entità federate, è governato direttamente dall’amministrazione internazionale. La Federazione croato-musulmana è nel complesso più compatta, ma presenta due exclave nel Nord e una maggiore frammentazione etnica: dei dieci cantoni in cui è suddivisa, cinque sono a maggioranza bosniaca, tre a maggioranza croata e due misti. Gli accordi di Dayton stabilirono che lo Stato Bosniaco unitariamente è retto da una presidenza collegiale, costituita da tre membri (uno musulmano, uno serbo e uno croato), che a rotazione ne sono a capo. (da www.treccani.it/) (vedi qui altre informazioni su Bosnia ed Erzegovina (wanderello.it)

   Ecco, semplificando molto il contesto, questa è la base degli Accordi di Dayton: quanto deciso e sottoscritto da tutte le parti in causa (serbi, croati, musulmani), nel 1995, con l’avallo degli Usa (invece assente politicamente e militarmente l’Unione Europea) per fermare la guerra civile, dando operatività, pacificazione, superando la guerra e la violenza nei Balcani occidentali facenti prima parte della ex Iugoslavia

   Ora la Bosnia, pur divisa etnicamente in due entità, bene o male esprime un connotato di unità nazionale: della Bosnia va detto che si tratta di un’entità geografico-territoriale assai riconoscible nella storia, un’unità esistente da più di un millennio (vedi: “Storia della Bosnia ed Erzegovina – Wikipedia”); con una pluralità di etnie al suo interno che adesso, anziché costituire una ricchezza sociale e culturale, viene ad essere il problema e il motivo di scontro attraverso il progetto secessionista dei serbi bosniaci.

“(…) A BANJA LUKA, il capoluogo della REPUBLIKA SRPSKA, il 9 gennaio 2022 cerimonie ufficiali con corone di fiori sui monumenti in memoria dei caduti serbo-bosniaci della guerra di 30 anni fa, per celebrare il 9 gennaio 1992 giorno della dichiarazione di indipendenza della Repubblica Serba di Bosnia (considerato uno dei momenti chiave per lo scoppio della guerra che ha sconvolto il Paese dal 1992 al 1995 e ha provocato oltre 100.000 vittime). Celebranti, il leader serbo-bosniaco MILORAD DODIK che è anche membro serbo della “presidenza tripartita bosniaca” (nella FOTO che parla alla folla, da notare che sono sventolate BANDIERE SERBE rosse, blu e bianche); e da Belgrado sostiene la manifestazione dei serbo-bosniaci il presidente del parlamento serbo IVICA DACIC. Poi, sempre a Banja Luka, la sfilata di reparti delle forze di polizia serbo-bosniache, più vera e propria forza armata che semplice polizia. (…)” (da https://www.remocontro.it/, 14/1/2021) (nella FOTO: Dodic alla festa del 9 gennaio scorso, foto da https://osservatorioglobalizzazione.it/)

   Lo Stato bosniaco, come dicevamo con tutti i limiti rinato proprio dagli accordi di Dayton del 1995, e che ora ha pure ufficialmente chiesto di entrare nell’Unione Europea, tutta questa costruzione statuale bosniaca sembra precipitare completamente con la paventata secessione serba, e con il rischio di una nuova guerra civile interna: e la forte nazionalistica parte che si riconosce nella Repubblica bosniaca Serba (Republika Srpska), dichiara di voler unirsi alla Serbia, diventarne una provincia, rinunciando all’unità dello Stato Bosniaco.

   Situazione complicata e assai pericolosa; in un momento in cui il mondo è preso dal problema del Covid e dalle tante crisi geopolitiche con conseguenze globali (come lo scontro Usa – Russia sul contesto dell’Ucraina, o quello sempre più latente e pericoloso tra Cina e Usa e Occidente) (poi è da non trascurare le crisi africane e del Medio Oriente…), di Bosnia si parla poco.

La BOSNIA nella prima metà degli anni ’90 del secolo scorso (trent’anni fa) è stata forse il punto centrale del massacro della GUERRA CIVILE BALCANICA della EX IUGOSLAVIA: pensiamo tra tutti al MASSACRO DI SREBRENICA, cioè il GENOCIDIO di oltre 8mila musulmani bosniaci, per la maggioranza ragazzi e uomini, avvenuto nel luglio 1995 appunto nella città di SREBRENICA (che si trova nell’estrema parte centro-orientale del Paese). E nella guerra civile bosniaca (solo bosniaca) in tre anni ci fu un bilancio di 100 mila morti e 2 milioni di profughi

   Non scordando che la Bosnia nella prima metà degli anni ’90 del secolo scorso (trent’anni fa) è stata forse il punto centrale del massacro della guerra civile balcanica della ex Iugoslavia: pensiamo tra tutti al massacro di Srebrenica, cioè il genocidio di oltre 8mila musulmani bosniaci, per la maggioranza ragazzi e uomini, avvenuto nel luglio 1995 appunto nella città di Srebrenica (che si trova nell’estrema parte centro-orientale del Paese). E nella guerra civile bosniaca (solo bosniaca) in tre anni ci fu un bilancio di 100 mila morti e 2 milioni di profughi.

Mappa FISICA della Bosnia Erzegovina (da https://www.pinterest.it/)

   Ora, cosa è accaduto il 9 gennaio scorso, che ha dato una accelerazione a un possibile ritorno di guerra civile in Bosnia? Nel «Giorno della Republika Srpska», appunto il 9/1/2022, è stato celebrato il trentennale dell’atto di secessione con il quale, il 9 gennaio 1992, venne proclamata la nascita di una Repubblica serba di Bosnia, uno dei passaggi-chiave che allora portarono alla guerra civile bosniaca. Questa “festa”, celebrazione di ricorrenza (non riconosciuta, considerata incostituzionale dallo stato unitario bosniaco), è stata pure supportata dalle dichiarate intenzioni del leader serbo MILORAD DODIK (controverso uomo forte dell’entità serba di Bosnia) di portare avanti il progetto di unire la parte serba della Bosnia allo Stato della Serbia.

“MALEDETTA SARAJEVO” di Francesco BATTISTINI e Marzio G. MIAN – pagg. 400 euro 19,00  – Una fatica preziosa, capace di spiegare in termini semplici e chiari l’orrore che molti di noi ricordano come un fenomeno inspiegabile, feroce, lontano dalla nostra storia del dopoguerra eppure vicinissimo, appena al di là dell’Adriatico. Perché nulla del genere era successo in Europa dal 1945. Perché mai prima la Nato aveva svolto una campagna di attacchi. Perché non si capiva, nel grande pubblico, chi stesse massacrando chi, quali maschere nascondessero i responsabili, quali parti in causa praticassero con sistematica ferocia la pulizia etnica, che aveva nelle donne le prime vittime designate. Cinque guerre, duecentocinquantamila morti, due milioni e mezzo di profughi, tutto questo per far nascere la SLOVENIA e la CROAZIA (oggi membri dell’Unione Europea), la nuova e ridimensionata SERBIA, la MACEDONIA, la BOSNIA ERZEGOVINA, il KOSOVO

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   Il voler qui mettere in guardia sul pericoloso contesto di questo momento in Bosnia di pericolo di secessione (con altre sofferenze, violenze…), vuole essere una pur minima condivisione con tutti quelli che in questo momento denunciano questa situazione pericolosa. Facendo presente che fatti che spesso portano alla guerra (con tutte, ripetiamo, le tragedie che accadono) possono spesso essere evitate con la diplomazia, con una politica saggia, attenta a quel che accade e con una strategia (nonviolenta) capace di spegnere ogni focolaio di tensione che si verifica.

Il libro: Cathie Carmichael – CAPIRE LA BOSNIA ED ERZEGOVINA – Alba e tramonto del secolo breve – Ed. BEE le metamorfosi, euro 17,00 – Una ricerca storica che parte dal Medio evo e arriva ai giorni nostri e che ha come cuore il “secolo breve”, dal 1914 al 1995, dall’uccisione dell’arciduca Francesco Ferdinando agli accordi di Dayton. Un periodo che ha trasformato la Bosnia ed Erzegovina in un crocevia fondamentale dell’Europa, un ponte fra oriente e occidente, attraverso tre guerre in pochi decenni. Una storia complessa, che ha origini ben più remote, e che la storica inglese CATHIE CARMICHAEL riesce a rendere chiara e affascinante.   Luoghi come MEĐUGORJE, SREBRENICA, SARAJEVO, MOSTAR, il PONTE SULLA DRINA o personaggi come TITO, PAVELIĆ, FREUD, ANDRIĆ fanno da sfondo a questo affresco che per la prima volta entra nelle dinamiche storiche, sociali, politiche di un paese fondamentale per un intero continente

   Quello che è mancato trent’anni fa per evitare la guerra civile balcanica con la dissoluzione della ex Iugoslavia, è stata proprio un’azione attenta e saggia dell’Europa; che invece si è allora dimostrata o assente (pensiamo all’assedio ai civili di Sarajevo durato 4 anni senza che nessuno intervenisse…), o spesso fomentatrice di tensioni che hanno incentivato lo scontro (come nell’immediato poco opportuno riconoscimento dello Stato di Croazia che ha acceso la miccia dello scontro con la Serbia…).

   Speriamo che  in questo frangente la politica europea sia impegnata a fare azioni e pressioni efficaci per evitare la secessione nazionalista serba in Bosnia: regione geopolitica con la sua storia, cultura…dove da secoli convivono cittadini di diverse origini etniche e tradizioni religiose. E speriamo che tutti si possa fare qualcosa di utile per un presente e un futuro di pacificazione: che non ci si dimentichi della Bosnia, Terra a noi così vicina. (s.m.)

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I BALCANI SI ‘SVUOTANO’ –“(…)Nuovi censimenti e studi confermano la COSTANTE RIDUZIONE DELLE POPOLAZIONI UN PO’ IN TUTTA L’AREA BALCANICA, segnala sull’Ansa Stefano Giantin. «Rischiano di diventare un “deserto”, i vicini Balcani, affossati dal doppio colpo della DENATALITÀ e soprattutto dell’EMIGRAZIONE, in particolare DEI PIÙ GIOVANI». Varie tessere di un complicato puzzle. Il censimento in BULGARIA, ha certificato un crollo dell’11% della popolazione negli ultimi dieci anni. Altro censimento, nella MACEDONIA DEL NORD, oggi con circa 1,8 milioni di abitanti, il 10% in meno rispetto a vent’anni fa, e 600mila macedoni che vivono oggi all’estero. (…) Anche nella vicina ROMANIA, l’emigrazione verso Paesi più ricchi appare incontrollabile. Stime Onu disegnano una Romania con poco meno di dodici milioni di abitanti nel 2100, sette in meno rispetto a oggi. (…) L’ALBANIA, terra d’emigrazione per eccellenza, fra ottant’anni potrebbe ritrovarsi con solo 1,1 milioni di abitanti: sono 800mila gli albanesi emigrati verso Paesi Ue. Peggio la BOSNIA-ERZEGOVINA, dove sarebbero addirittura 500mila le persone emigrate negli ultimi dieci anni, con sempre più giovani che partono e sempre più vecchi e pensionati che rimangono da soli a casa. (…)” (da https://www.remocontro.it/, 14/1/2022) (nell’immagine: I BALCANI – mappa da https://lospiegone.com/)

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L’ESCALATION. LA BOSNIA È SULL’ORLO DEL PRECIPIZIO

di Riccardo Michelucci, 12 gennaio 2022, da AVVENIRE.IT https://www.avvenire.it/

– Ancora provocazioni dei secessionisti serbi del leader DODIK. Spari su una moschea al confine con la Serbia. L’Ue contro la «retorica incendiaria» –

   Nel cosiddetto «GIORNO DELLA REPUBLIKA SRPSKA», il 9/1/2022, è stato celebrato il trentennale dell’atto di secessione con il quale, il 9 gennaio 1992, venne proclamata la nascita di una Repubblica serba in Bosnia, uno dei passaggi-chiave che portarono alla guerra. Una ricorrenza che la Corte costituzionale di Sarajevo ha da tempo dichiarato incostituzionale e discriminatoria verso i cittadini non serbi.
   Ma per MILORAD DODIK, controverso uomo forte dell’entità serba di Bosnia, è stata l’ennesima occasione per alimentare le proprie rivendicazioni secessioniste. Migliaia di persone hanno assistito alla sfilata delle forze di polizia e delle organizzazioni della società civile che si è svolta a BANJA LUKA, durante la quale sono state intonate canzoni nazionaliste serbe e slogan a favore dell’ex generale RATKO MLADIC, già condannato all’Aja per crimini di guerra. Forte anche della presenza dei rappresentanti di RUSSIA, CINA e SERBIA alle celebrazioni, Dodik è tornato ad attaccare gli Usa – che nei giorni scorsi hanno imposto nuove sanzioni alla Republika Srpska – ribadendo che l’entità serba sarà in futuro uno Stato indipendente, con uno status federale o confederale con Belgrado.
   «Tale assetto contribuirebbe alla stabilizzazione e alla pace nella regione», ha spiegato al quotidiano di Belgrado Vecernje Novosti. Nel frattempo però si sono verificati numerosi incidenti in località che evocano memorie terribili risalenti al conflitto degli anni ’90. A JANJA, al confine con la Serbia, sono stati esplosi colpi d’arma da fuoco per intimidire i fedeli che uscivano dalla moschea dopo la preghiera del mattino. A BRCKO sono stati deturpati i graffiti che commemorano le vittime del GENOCIDIO DI SREBRENICA. Tensioni e incidenti sono stati registrati a PRIJEDOR, FOCA, GACKO, PRIBOJ e NOVI PAZAR, località tristemente famose per la pulizia etnica della popolazione non serba durante la guerra di trent’anni fa.

   Nelle settimane scorse Dodik ha fatto approvare dal parlamento di Banja Luka una risoluzione per il ritiro delle competenze in materia di difesa, giustizia e fisco: secondo molti sarebbe il primo passo formale verso la secessione. L’Alto rappresentante della comunità internazionale per la Bosnia Christian Schmidt ha ribadito che non permetterà ulteriori minacce all’integrità del Paese, mentre per la Ue è «retorica incendiaria».

   Intanto in molte città europee e Usa – tra cui Roma, New York, Bruxelles, Oslo, Ginevra, Vienna – si sono svolte manifestazioni per sensibilizzare i governi sulla gravità della situazione bosniaca. Prima che sia troppo tardi. (Riccardo Michelucci, 12 gennaio 2022, da AVVENIRE.IT)

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BALCANI IN PERICOLO: SEPARATISMI SERBO-BOSNIACI, VECCHI NAZIONALISMI E FUGA GIOVANILE

da https://www.remocontro.it/, 14/1/2022

– Celebrazioni per il 30/mo anniversario della REPUBLIKA SRPSKA di BOSNIA nel pieno della bufera che investe il leader serbo-bosniaco MILORAD DODIK, accusato di mire secessioniste, e colpito da sanzioni americane. – Tensioni che montano e fuga delle popolazioni in tutti i Paesi dell’area, fuori o dentro l’Ue, per il doppio colpo della denatalità e dell’emigrazione. –

SRPSKA REPUBLIKA DI BOSNIA – Nel pieno della bufera che investe il leader serbo-bosniaco Milorad Dodik, accusato di crescenti mire secessioniste, e bersaglio di sanzioni americane –segnala l’ANSA da Belgrado-, nella Republika Srpska, l’entità a maggioranza serba della Bosnia-Erzegovina, tre giorni di festeggiamenti per celebrare il 30/mo anniversario della sua fondazione. Rinnovata retorica nazionalista con importanti arrivi da Belgrado. Serbo Bosnia figlia della secessione da Sarajevo dopo quella dalla ex Jugoslavia, gennaio 1992, con tre anni di massacri e un bilancio di 100 mila morti e 2 milioni di profughi.

Anniversario sfida

L’anniversario della fondazione della Republika Srpska, viene regolarmente ignorato nella Federazione croato-musulmana, l’altra entità di cui si compone (o meglio, si divide) il Paese balcanico, festeggiamenti considerati una provocazione e dichiarati illegittimi dalla Corte costituzionale bosniaca.

Banja Luka ‘capitale’

A Banja Luka, il capoluogo della Republika Srpska, cerimonie ufficiali con corone di fiori sui monumenti in memoria dei caduti serbo-bosniaci della guerra di 30 anni fa. Celebranti, il leader serbo-bosniaco Milorad Dodik, che è anche membro serbo della ‘presidenza tripartita bosniaca’, e da Belgrado il presidente del parlamento serbo Ivica Dacic. Poi la sfilata di reparti delle forze di polizia serbo-bosniache, più vera e propria forza armata che semplice polizia.

Difesa, giustizia e fisco separati

Dodik è tornato a rivendicare la legittimità della decisione del parlamento locale, che ha stabilito di restituire alla Republika Srpska competenze e prerogative in materia di difesa, giustizia e fisco, competenze a suo dire previste dall’accordo di pace di Dayton e dalla stessa costituzione bosniaca, ma che col tempo sarebbero state ‘assorbite’ dallo stato centrale bosniaco. Una decisione questa che ha suscitato grande allarme nella comunità internazionale, che teme lo spettro di una reale secessione dei serbo-bosniaci e il possibile scoppio di un nuovo conflitto armato.

Intanto i Balcani si ‘svuotano’

Nuovi censimenti e studi confermano la costante riduzione delle popolazioni un po’ in tutta l’area balcanica, segnale sempre sull’Ansa Stefano Giantin. «Rischiano di diventare un “deserto”, i vicini Balcani, affossati dal doppio colpo della denatalità e soprattutto dell’emigrazione, in particolare dei più giovani». Varie tessere di un complicato puzzle. Il censimento in Bulgaria, ha certificato un crollo dell’11% della popolazione negli ultimi dieci anni. Altro censimento, nella Macedonia del Nord, oggi con circa 1,8 milioni di abitanti, il 10% in meno rispetto a vent’anni fa, e 600mila macedoni che vivono oggi all’estero.

Catastrofe demografica

Una vera e propria catastrofe demografica, perché a partire sarebbero soprattutto giovani, mentre in patria le culle rimangono vuote e cresce il numero degli anziani. Anche nella vicina Romania, l’emigrazione verso Paesi più ricchi appare incontrollabile. Stime Onu disegnano una Romania con poco meno di dodici milioni di abitanti nel 2100, sette in meno rispetto a oggi. Stime speculari a quelle della vicina Bulgaria, che nel 2100 potrebbe contare solo 3,5 milioni di abitanti, un vero e proprio collasso della popolazione.

Balcani extra Ue

L’Albania, terra d’emigrazione per eccellenza, fra ottant’anni potrebbe ritrovarsi con solo 1,1 milioni di abitanti. Sono 50mila gli albanesi che hanno ottenuto un permesso di soggiorno in Germania a partire dal 2018, con Berlino che sta ora per sorpassare Roma e Atene come meta d’emigrazione. E dal 2008 sono 800mila gli albanesi emigrati verso Paesi Ue. Peggio la Bosnia-Erzegovina (torniamo alla prima parte della notizia), dove sarebbero addirittura 500mila le persone emigrate negli ultimi dieci anni, senza una politica per arrestare l’esodo, con sempre più giovani che partono e sempre più vecchi e pensionati che rimangono da soli a casa.

Serbia, Montenegro, Kosovo e Croazia incluse.

E per tutti i Balcani, causa spopolamento, si contrarrà lo sviluppo economico a medio-lungo termine minando alle basi l’assetto sociale. Ma anche la Ue non può sorridere. Dato che nei decenni a venire dovrà fare i conti con una regione svuotata, impoverita e instabile, nel cortile di casa.

(da https://www.remocontro.it/, 14/1/2022) 

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IL FUTURO DELLA BOSNIA ERZEGOVINA E’ SEMPRE PIU’ INCERTO

di JORIE HORSTHUIS, giornalista, 17 gennaio 2022, da INTERNAZIONALE, https://www.internazionale.it/

   Per Marko Djogo è sempre un momento doloroso quando un suo studente si laurea e gli dice che sta per partire. Continua a leggere

Il VULCANO sottomarino HUNGA-TONGA-Hunga-Ha’apa esploso il 15 gennaio nel sud del Pacifico, ha liberato energia pari a mille bombe atomiche, con tsunami oltre 10mila km e nubi vulcaniche fino a 30 Km di altezza, forse influenzando la temperatura climatica globale; dimostrando il reale posto che occupa l’uomo sulla Terra

TSUNAMI TONGA, COLPITO 84% DEGLI ABITANTI – 22 gennaio 2022 da www.adnkronos.com/ – Il governo: “ORA PRIORITÀ SONO ACQUA E CIBO” – Lo TSUNAMI provocato dall’eruzione del VULCANO SOTTOMARINO HUNGA TONGA-HUNGA HA’APAI ha colpito l’84% delle circa 105mila persone che abitano nel regno di Tonga. Lo ha annunciato il governo dell’arcipelago del Pacifico, precisando che al momento le sue priorità sono le forniture di cibo e di acqua alla popolazione, con quasi 60mila litri distribuiti finora durante i soccorsi. (nella FOTO: Tonga dopo lo tsunami: la vegetazione ricoperta di ceneri vulcaniche; foto da https://www.ilpost.it/)

L’ESPLOSIONE DEL VULCANO HUNGA-TONGA-HUNGA-HA’APA

di Gabriele Umbriaco, da https://ilbolive.unipd.it/ del 19/1/2022

Il vulcano sottomarino Hunga-Tonga-Hunga-Ha’apa è esploso al mattino del 15 gennaio scorso in mezzo all’Oceano Pacifico alle ore 04:14:45 UTC, liberando un’energia pari a 1.000 bombe atomiche di Hiroshima. Questa energia si è dispersa nell’ambiente, creando tsunami fino a oltre 10.000 km di distanza, innalzando le nubi vulcaniche fino a 30 Km di altezza, e facendo espandere la nube per 260 km, tanto da essere chiaramente visibile dai satelliti geostazionari. La violenta esplosione ha creato un’onda di pressione supersonica che ha cominciato a propagarsi in tutte le direzioni, ad una velocità di 340 m/sec, pari a circa 1.200 km/h. A 2.000 Km di distanza è stata sentita nettamente la deflagrazione (…).

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   Senza dubbio abbiamo assistito ad un evento di energia impressionante, che ancora una volta ci fa riflettere sul reale posto che occupa l’uomo sulla Terra. (Gabriele Umbriaco)

(l’articolo completo: Vulcano Hunga-Tonga-Hunga-Ha’apa, l’esplosione vista dai sensori | Il Bo Live UniPD )

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“(…) HUNGA TONGA-HUNGA HA’APAI, nelle isole TONGA, era un’isola che non c’era. E che nel giro di poche settimane è cresciuta quasi del doppio e poi, in pochi secondi, è quasi totalmente scomparsa dalla faccia della Terra. Chissà, in futuro, potrebbe tornare ad accrescersi, ricostruita dal vulcano sottomarino che ne governa il destino. La gigantesca esplosione del 15 gennaio l’ha quasi polverizzata. Un evento catastrofico osservato da satellite in quell’angolo remoto del Pacifico, che però si è fatto sentire in tutto il globo per l’onda d’urto e gli sbalzi di pressione. E gli effetti sul clima terrestre, nel prossimo futuro, sono ancora tutti da valutare. (…)” (Matteo Marini, da “la Repubblica” del 17/1/2021) (nell’immagine: esplosione del vulcano delle isole TONGA, foto ripresa da https://ilbolive.unipd.it/)

TRE FENOMENI ASSURDI NEL MONDO DOVUTI ALL’ERUZIONE DI TONGA, PER CAPIRE QUANTO È STATA ENORME

di Simone Cosimi, 20/01/2022, da https://www.esquire.com/

– Dal boom sonico alla petroliera in Perù fino alle onde gravitazionali atmosferiche, alcune fra le più incredibili conseguenze –

   L’eruzione del vulcano sottomarino, ma con una caldera a filo d’acqua, Hunga Tonga-Hunga Ha’apai del 15 gennaio ha prodotto un’enorme nuvola di cenere e uno tsunami le cui conseguenze, dopo giorni di isolamento internazionale, iniziamo a comprendere solo in queste ore con l’arrivo dei primi voli di soccorso nel piccolo regno polinesiano nel Pacifico meridionale, costituito da 170 isole e poco più di 100mila abitanti.

MAPPA delle isole TONGA ripresa da https://www.treccani.it/

   L’eruzione, a quanto sembra una del genere ne accade ogni mille anni, è stata provocata da una subduzione, un movimento tettonico nel quale una placca terreste finisce per slittare sotto il bordo di un’altra.  Non è un caso che le zone di subduzione, in particolare nell’“anello di fuoco” che circonda il Pacifico, producano alcuni fra i fenomeni più violenti che si registrano sul pianeta. Secondo la Nasa la forza esplosiva dell’eruzione sarebbe di 500 volte più potente della bomba atomica sganciata su Hiroshima al termine della seconda Guerra mondiale, circa 10 megaton di equivalente in TNT. La cenere ricopre spiagge, abitazioni, infrastrutture, il cavo sottomarino che collega Tonga alle isole Fiji e la connette al mondo è danneggiato e ci sono forti preoccupazioni sulle riserve di derrate alimentari e soprattutto di acqua dolce. (Simone Cosimi, 20/01/2022, da https://www.esquire.com/)

TONGA, paura tsunami in tutto il Pacifico – Le onde hanno raggiunto l’isola principale del regno, Tongatapu, colpendo in particolare la capitale Nuku’alofa. Molte persone sono state costrette a lasciare le loro abitazioni. L’allerta è scattata alle Samoa, nelle Fiji, in Nuova Zelanda e su tutta la costa Ovest degli Stati Uniti (nell’immagine: GLI EFFETTI DEL VULCANO SOTTERRANEO nella varie aree del Pacifico, mappa ripresa da www.valigiablu.it/)

   Tre conseguenze danno l’idea della violenza del fenomeno, in realtà iniziato già dallo scorso dicembre. Potrebbe ad esempio aver prodotto una serie di cosiddette onde gravitazionali atmosferiche. Ne parla Gareth Dorrian su The Conversation, spiegando come siano in corso delle ricerche per capire in che modo queste onde concentriche possano avere effetti sullo Spazio.

   “Poiché l’atmosfera è per lo più trasparente agli occhi umani, raramente la pensiamo come una struttura complessa e dinamica con molti strati distinti. Le propaggini superiori della nostra atmosfera si estendono ben al di sopra della linea di Kármán, il punto a 100 km sul livello del mare dove lo spazio inizia ufficialmente” spiega Dorrian, scienziato dell’università di Birmingham che ricorda come questi strati atmosferici siano pieni di onde che viaggiano in ogni direzione e che possono essere generate da un gran numero di fenomeni: tempeste geomagnetiche causate da esplosioni sul Sole, terremoti, vulcani, temporali e persino l’alba. (Simone Cosimi, 20/01/2022, da https://www.esquire.com/)

L’andamento della pressione atmosferica registrata dagli strumenti dell’INGV sull’Etna: si vedono i due passaggi dell’onda prodotta dall’esplosione del VULCANO HUNGA TONGA. (da FOCUS https://www.focus.it/)

   Le eruzioni vulcaniche in passato sono state associate a cambiamenti misurabili nella ionosfera, una delle parti più distanti dell’atmosfera che si estende da 65 a mille km, rilevati dai ricevitori GPS a terra, ad esempio nel 2015 e nel 2013. Anche in caso di Hunga Tonga-Hunga Ha’apai potrebbe aver prodotto conseguenze simili, si capirà solo nelle prossime settimane.

   Un’altra conseguenza che dà l’idea della potenza esplosiva è stato il boom sonico percepito a migliaia di chilometri di distanza da Tonga. Uno dei punti più distanti in cui è stato chiaramente distinto è lo stato americano dell’Alaska, a quasi 10mila chilometri dal vulcano. Ma ci sono numerosissime testimonianze in molte parti del mondo: dal Minnesota al Montana alle (relativamente) vicine Australia e Nuova Zelanda (2.000 km). L’onda d’urto è stata invece registrata perfino dai sismografi nel Regno Unito, a 16mila chilometri dal regno polinesiano. (Simone Cosimi, 20/01/2022, da https://www.esquire.com/)

Il regno polinesiano di TONGA è costituito da più di 170 isole del Sud Pacifico, la maggior parte delle quali disabitate, lambite da spiagge bianche e barriere coralline, e ricoperte da foreste tropicali. L’isola principale, TONGATAPU, è protetta da lagune e scogliere calcaree. Qui si trova la capitale rurale di NUKU’ALOFA, oltre ai resort sulla spiaggia, le piantagioni e L’HA’AMONGA ʻA MAUI, il monumentale trilite di corallo risalente all’XI secolo (il trilite, nella foto ripresa da www.scientiantiquitatis.blogspot.com/)

   Nel più classico dei “butterfly effect”, infine, alla raffineria La Pampilla di Callao, il porto di Lima, in Perù, una petroliera italiana ha rovesciato in mare parte del carico di greggio a causa di un’ondata attribuibile allo tsunami innescato dal collasso della caldera del vulcano. La Mare Doricum, attraccata alla banchina dell’impianto gestito da Repsol, si è piegata sotto l’urto del mare e i tubi di scarico si sono tranciati, provocando il rilascio di almeno 6 mila barili di greggio. La cifra è stata stimata da Rubén Ramírez, ministro dell’ambiente del paese sudamericano. Già martedì 18 gennaio le spiagge a Nord della raffineria, come siamo tristemente abituati a vedere in queste tragiche occasioni, erano piene di animali come uccelli marini, leoni marini e delfini ricoperti di petrolio e inermi a riva o morti.

   “Si tratta del peggior disastro ecologico che si è verificato intorno a Lima negli ultimi tempi e ha gravemente danneggiato centinaia di famiglie di pescatori – ha spiegato il ministro in una dichiarazione pubblicata su Twitter – Repsol deve risarcire immediatamente il danno”. Il direttore delle comunicazioni dell’azienda, Tine Van Den Wall Bake, ha negato ogni responsabilità: “Non siamo stati noi a causare questo disastro ecologico e non possiamo dire chi sia il responsabile”, ha detto mercoledì alla radio nazionale. (Simone Cosimi, 20/01/2022, da https://www.esquire.com/)

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VULCANI E CLIMA, da ING Ambiente

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ERUZIONE VULCANO ISOLE TONGA E CAMBIAMENTI CLIMATICI: UNA RIFLESSIONE

19/01/2022 – da https://www.snpambiente.it/ (Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente – v. ARPA regionali)

   FILIPPO THIERY, previsore meteo istituzionale e volto noto della trasmissione Geo&Geo, ha formulato alcune valutazioni collegate all’eruzione del vulcano nelle isole Tonga, fenomeno che – come abbiamo riportato anche qui – è stato “visto” dai barometri di tutto il mondo, Italia compresa.

   In particolare, Thiery, da sempre in prima linea anche nella divulgazione scientifica collegata al cambiamento climatico in corso, ha provato a rispondere alla domanda: “L’imponente eruzione del vulcano alle isole Tonga, potrà avere apprezzabili effetti sul clima globale?”.

Queste le considerazioni che possiamo condividere grazie al contributo postato sul suo profilo personale di Facebook.

   “La storia recente, annoverando un caso di rara rilevanza in era di avanzata tecnologia osservativa sullo stato sulla chimica e sulla fisica della nostra atmosfera, ci aiuta a formulare una prima risposta, seppur ovviamente a livello molto speditivo (per il resto, naturalmente, aspettiamo i contributi che verranno pubblicati sulle riviste specialistiche di settore, come si usa quando si parla di Scienza).

   Il 15 giugno 1991, una delle più grandi eruzioni vulcaniche (probabilmente la seconda) di tutto il XX secolo, quella del monte PINATUBO alle FILIPPINE, immettendo 17 milioni di tonnellate di anidride solforosa in atmosfera (la colonna eruttiva raggiunse i 35 km di altezza, penetrando quindi ben dentro la stratosfera), portò – per reazione di questa sostanza con l’acqua – alla formazione di un’ingente quantità di goccioline di acido solforico, capace di alterare in misura decisamente macroscopica (seppur momentanea) la concentrazione di aerosol (particelle sospese) nel fluido atmosferico. Questa immensa “nuvola” di aerosol, nelle settimane successive, per azione delle correnti stratosferiche, si “spalmò” rapidamente intorno alla Terra, fino a costituire attorno ad essa, circa 1 anno dopo l’evento eruttivo, uno strato con copertura globale, capace di apportare una importante diminuzione della quantità di radiazione solare netta che raggiungeva la superficie terrestre: lo spessore ottico dell’atmosfera, parametro che misura quanta radiazione luminosa, nel suo passaggio attraverso la colonna atmosferica, viene ostacolata dalle particelle sospese in aria, aumentò da 10 a (localmente e più brevemente) 100 volte, rispetto ai livelli precedenti l’eruzione. E questo, ovviamente, si tradusse in una modifica della temperatura sulla superficie del globo terrestre; ora vediamo di quanto e, soprattutto, per quanto tempo.

   Nel grafico qui sotto è riportata l’anomalia della temperatura globale, misurata su tutta la superficie terrestre (terre emerse + oceani) come scarto rispetto al clima di riferimento (in questo caso è utilizzato come standard per quest’ultimo il trentennio 1951-80). La linea nera è la media annuale globale (ogni quadratino rappresenta quindi la media di un singolo anno calcolata su tutto il globo), e permette di seguire le fluttuazioni, a qualsiasi combinazione di fattori siano dovute, fra un anno e l’altro. La linea rossa è la media mobile su un periodo di cinque anni, e ha la funzione di smorzare le fluttuazioni interannuali, evidenziando il trend complessivo: si vede facilmente il noto progressivo innalzamento della temperatura in conseguenza delle attività umane.

   Come si può vedere, gli effetti dell’eruzione del PINATUBO, e della conseguente ridotta quantità di energia solare in arrivo sulla superficie terrestre, si tradussero in una riduzione dell’anomalia di temperatura (scarto che rimase comunque positivo, cioè in eccesso, rispetto al clima standard) di circa 0.2°C nei due anni successivi all’eruzione (1992 e 1993), smorzamento rapidamente rientrato nei due anni ancora a seguire, in conseguenza dei processi chimici e della circolazione atmosferica che hanno in definitiva “rimosso” l’eccesso di aerosol solforici dovuto all’evento vulcanica.

   Se facessimo questo grafico per il solo emisfero settentrionale (che fu naturalmente la porzione del globo maggiormente influenzata, essendo il vulcano alle Filippine), oppure se lo lasciassimo con copertura globale ma limitandolo alle sole terre emerse (a loro volta maggiormente influenzate, non avendo la grande inerzia termica degli oceani), otterremmo sullo stesso biennio 1992-93 un effetto circa doppio (mezzo grado centigrado circa di diminuzione), sia pur mantenendo positiva l’anomalia rispetto al clima di riferimento, cioè con temperatura che, comunque, anche in quel biennio di relativo “raffreddamento” rimase globalmente più calda del normale, seppur in misura momentaneamente meno accentuata rispetto agli anni immediatamente precedenti.

   La tempistica di superamento dell’evento rimane la stessa, quantificando quindi in 2-3 anni la durata della finestra di momentanea influenza di quell’imponente eruzione sul clima del nostro pianeta.

   Questo effetto di diminuzione dell’anomalia di temperatura non fu omogeneo durante le varie stagioni ma si registrò soprattutto in quelle estive, compensando inverni che anzi, in diverse zone del globo, risultarono più caldi del solito (e le modellizzazioni del clima, successivamente messe a punto per tener conto del contributo di quell’evento vulcanico, rendono conto di questo effetto di riscaldamento invernale, che quindi probabilmente non fu casuale).

   Quell’eruzione vulcanica quindi, seppur rientrando fra i casi più eclatanti dell’ultimo secolo e mezzo, dal punto di vista dell’influenza di eventi naturali sul clima globale, ebbe effetti assolutamente momentanei, rapidamente rientrati nel giro di un paio d’anni, e in nessun modo capaci di fermare il riscaldamento globale dovuto all’uomo.

   È assai più complesso, ovviamente, capire gli effetti che ebbe quell’eruzione sulla circolazione atmosferica e, di conseguenza, sui regimi climatici delle varie zone del globo. La maggior disponibilità di particolato in atmosfera (derivante dalle ceneri e dalle altre particelle sparate verso l’alto in seno alla colonna eruttiva), di base favorisce la formazione delle nubi, ma da qui a correlare questo o quell’evento precipitativo di quel periodo all’eruzione del Pinatubo, evidentemente ce ne passa.

   L’evento è stato comunque molto studiato, e ci sono parecchi articoli in letteratura scientifica che tentano una quantificazione di queste correlazioni.

   Questo ci permette, almeno a livello molto semplicistico e indicativo, di rispondere sia alla domanda iniziale, che a quelle ad essa collaterali:

1) L’imponente eruzione del 15 gennaio 2022 alle isole Tonga, potrà avere apprezzabili effetti sul clima globale? Sì certo, potrebbe, ma si tratterebbe solo di una momentanea Continua a leggere

IL LITIO e la geografia della transizione ecologica delle materie prime – il LITIO per le batterie delle AUTO ELETTRICHE (e gli altri prodotti elettrificati) non può portare a un NEOCOLONIALISMO ESTRATTIVO – A Cile, Bolivia, Argentina si aggiunge il progetto in SERBIA – Come non ripetere gli errori del passato

“(…) La BOLIVIA possiede la più grande riserva di LITIO al mondo: il SALAR DE UNUY, una gigantesca distesa di sale di 10 mila km. Posto sulle ANDE a un’altitudine di 3.600 metri, è un luogo impressionante dove lo scintillio del sale confonde cielo e terra creando un unico manto lattiginoso visibile anche dallo spazio; nel tempo è diventato una visitatissima ZONA TURISTICA, con tutti i pro e contro che questo significa, ed ora a interferire con i DELICATISSIMI EQUILIBRI SOCIO-ECOLOGICI di una riserva naturale abitata da COMUNITÀ INDIGENE è arrivata anche l’ESTRAZIONE del LITIO. (…)” (Serena Tarabini, da “IL MANIFESTO” del 24/3/2021) (nella FOTO: Salar de Unuy, BOLIVIA – da Wikipedia)

   Da mesi ci sono dure proteste ambientaliste in Serbia (le più recenti nei primi giorni di gennaio, ma iniziate negli ultimi mesi del 2021) per chiedere al governo di respingere la possibile costruzione di una miniera di litio nella Serbia Occidentale. Le proteste sono giunte dopo che la Rio Tinto, la seconda società mineraria e di metalli al mondo, ha annunciato di voler dar vita a una grande miniera di LITIO in Serbia, nella Valle del fiume Jadar, a ovest di Belgrado e ai confini con la Bosnia.

   La multinazionale anglo-australiana stima che nei previsti 40 anni di vita, la miniera produrrà 2,3 milioni di tonnellate di carbonato di litio per batterie (un minerale fondamentale per le batterie dei veicoli elettrici, e per lo stoccaggio di energia rinnovabile); e pure 160.000 tonnellate di acido borico necessario per le apparecchiature per le energie rinnovabili come i pannelli solari e le turbine eoliche.

SERBIA: LE PROTESTE CONTRO IL PROGETTO DI ESTRAZIONE DEL LITIO – “(…) EPICENTRO DELLE PROTESTE è LOZNICA, cittadina della Serbia nord-occidentale al confine con la Bosnia-Erzegovina. Qui, nella VALLE DEL FIUME JADAR, sono custodite le più grandi riserve di litio in Europa e tra le più grandi al mondo, elemento essenziale nella produzione di batterie per le auto elettriche. La spinta alla decarbonizzazione ha accelerato i piani della multinazionale anglo-australiana che già da tempo aveva puntato gli occhi sulla valle del Jadar. E così dopo un’esplorazione lo scorso anno dei territori intorno a Loznica del valore di 200 milioni di dollari, Rio Tinto è passata all’azione, annunciando un investimento da 2,4 miliardi di dollari per la costruzione di quella che si ritiene sarà la più grande miniera di litio nel continente europeo. (…)” (Alessandra Briganti, da IL MANIFESTO) (nella FOTO: Autostrada bloccata in Serbia per la manifestazione contro la miniera di litio, foto da https://www.repubblica.it/)

   L’epicentro delle proteste è LOZNICA, cittadina della Serbia nord-occidentale al confine con la Bosnia-Erzegovina. Qui, nella VALLE del FIUME JADAR, sono state scoperte le più grandi riserve di litio in Europa e tra le più grandi al mondo. Poi la protesta (anche a Belgrado) ha messo insieme l’annoso ed irrisolto problema dell’inquinamento atmosferico (soprattutto nella capitale), con appunto i controversi investimenti in campo minerario che, secondo attivisti e organizzazioni ambientaliste, rischiano di compromettere in modo irreparabile il territorio serbo: e proprio tra questi, in particolare c’è la miniera da due miliardi e mezzo di dollari di investimento progettata dalla Rio Tinto; ma anche lo sfruttamento dei giacimenti di rame a BOR, non lontano dal confine bulgaro, da parte della compagnia cinese Zijin.

“(…) La VALLE del JADAR è un’area rurale importante per la SERBIA. Inoltre, spiega al Guardian Dragana Dordevic, professoressa dell’Università di Belgrado, qui si trovano i BACINI dei FIUMI DRINA e SAVA, da cui circa 2,5 milioni di persone vengono rifornite di acqua. Bacini che, spiega la docente, sono in pericolo: ‘Tali miniere sono per lo più aperte nei deserti proprio a causa dell’effetto dannoso sull’ambiente e sulla biodiversità’. (…)” (Dario Prestigiacomo, da https://europa.today.it/ del 13/12/2021) (la MAPPA della VALLE del JADAR è tratta da www.rainews.it/)

   Ora pare che il progetto del gigante anglo-australiano si sia (temporaneamente) fermato dopo così tante e tenaci proteste dei cittadini della Valle di Jadar e degli ambientalisti. Tutto bloccato, sembra, per ora, dinanzi ai timori di inquinamento (delle acque, del suolo) paventate dagli oppositori e dimostrate in altre parti del pianeta (specie nel Sud del mondo) nell’estrazione di questo materiale prezioso per l’elettrificazione, com’è il litio. Ma è più che sicuro che il progetto si riproporrà al più presto.

   Perché l’UE attualmente importa il litio per le batterie da fuori Europa. E la Serbia è un membro candidato a entrare nella UE, e la Commissione europea è chiaramente favorevole al progetto (la disponibilità di avere “in casa” il prezioso minerale, appena la Serbia sarà accolta); dall’altra ovviamente il presidente serbo Aleksandar Vucic e il suo governo non possono che essere favorevoli: una buonissima entrata finanziaria e un modo anche per accreditarsi con l’Europa nella velocizzazione della procedura di adesione. A spingere poi sembra ci siano le case automobilistiche tedesche, costrette ora a importare con difficoltà il minerale. Pertanto la battuta di arresto ambientalista e di preoccupazione e rifiuto della popolazione locale che dovrà convivere con la miniera, sono un ostacolo che da più parti si cercherà di rimuovere celermente.

– Il 65% del litio viene utilizzato nelle batterie (di vario tipo); il 18% nella produzione di materiali ceramici e vetro; il 5% nella produzione di grassi lubrificanti; il restante 12% ha altre destinazioni finali.
– Con 8 milioni di tonnellate, il Cile ha le maggiori riserve di litio a oggi conosciute, poi vengono l’Australia con 2,7 milioni di tonnellate, l’Argentina con 2 milioni e la Cina con 1 milione.
– Appartiene al primo gruppo (metalli alcalini). Il litio, nella sua forma pura, è un metallo tenero color argento, che si ossida rapidamente a contatto con l’aria o l’acqua.
(nell’immagine qui sopra: TABELLA ESTRAZIONE DEL LITIO e riserve disponibili tra Paesi, da https://www.flottefinanzaweb.it/)

   Ma è veramente pericolosa (e come) l’estrazione del litio in quel luogo della Serbia? Nella Valle di Jadar si trovano i bacini dei fiumi Drina e Sava, da cui circa 2,5 milioni di persone vengono rifornite di acqua. L’attività mineraria, secondo molti, è difficile che possa convivere con il sistemi naturali idrici dei luoghi in cui avviene. Quella poca informazione esistente sui danni all’ambiente causati dall’estrazione del litio spesso è stata commissionata (l’indagine) dalle compagnie estrattive stesse, informazioni che (c’è da pensare) siano molto interessate a far apparire queste forme estrattive più che compatibili. Significativo però che adesso alcune case automobilistiche vogliano “mettere le mani avanti” e pure loro studiare la sostenibilità di questa produzione mineraria.

“(…) Dal 2035 (fra soli 13 anni) in Europa non potranno più essere vendute automobili a motori termici a benzina o diesel. È ormai da tempo in corso una ristrutturazione industriale senza pari nel mondo dell’automobile e tutti i maggiori marchi automobilistici stanno andando verso l’ELETTRIFICAZIONE dei veicoli, da ibridi a plug-in a 100% elettrici. La vettura 100% elettrica promette (e mantiene) zero emissioni di CO2 durante l’utilizzo, tuttavia per affrontare correttamente il problema occorre valutare l’intero ciclo vitale, dalla produzione all’utilizzo, fino allo smaltimento. (…)” (Fabio Marzocca, 24/9/2021, da https://www.acronico.it/) (nell’immagine qui sopra: MAPPA LITIO nel mondo, da https://www.nogeoingegneria.com/)

   Il paradosso dei metalli per la green revolution è che il loro accaparramento spesso distrugge l’ecosistema; e attualmente esistono ben poche garanzie per regole e risarcimenti.

   E’ così probabile che il 2022 vedrà tra le sue sfide anche quella del modo di procurarsi, da parte degli Stati e delle aziende automobilistiche, del litio (ma anche di altri preziosi materiali, come il cobalto) per la realizzazione delle batterie per le auto elettriche. Il metallo, specie in Europa ma in tutti i Paesi ricchi, fa gola a molti e può innescare tensioni e strategie geopolitiche.

“(…) L’ESTRAZIONE del LITIO dal terreno può avvenire in DUE MODI: CON L’ATTIVITÀ MINERARIA e CON LA SALAMOIA DELLE SALINE, CIOÈ PER AFFIORAMENTO. In entrambi i casi, si tratta di ATTIVITÀ DAL FORTE IMPATTO AMBIENTALE, come testimonia una inchiesta del Guardian, ripresa da Internazionale, su quanto sta avvenendo in CILE, il Paese con le più grandi riserve mondiali del materiale indispensabile per costruire le batterie ricaricabili e al secondo posto, dietro l’Australia, per produzione annua (…)” (da https://www.flottefinanzaweb.it/) (nella FOTO qui sopra: Cantiere di estrazione e prima lavorazione del litio nel deserto di Uyuni in Bolivia, foto da www.corriere.it/)

   In questo momento alcune grandi aziende automobilistiche impegnate nello sviluppo dell’auto elettrica (specie tedesche, come Volkswagen e Mercedes) riconoscono la necessità di un controllo diretto dell’attività mineraria per renderla sostenibile con l’ambiente che vanno ad intaccare. Forse per questo (concentrandoci sui minerali più strategici per l’elettrificazione, il litio e in parte il cobalto) non a caso le miniere sono finora per lo più aperte nei deserti proprio a causa dell’effetto dannoso sull’ambiente e sulla biodiversità (il triangolo geografico mondiale del litio è tra Bolivia, Cile e Argentina); oppure in aree africane poverissime (come il cobalto nel sud del Congo) dove egemonie locali e paesi esteri predatori fanno quello che vogliono ai danni dell’ambiente e delle popolazioni locali (in Congo i bambini lavorano in queste miniere).

“(…) L’elemento centrale di un’autovettura elettrica è rappresentato dalle batterie per l’immagazzinamento dell’energia. Queste hanno bisogno di numerose materie prime, ma fra queste le più importanti sono il LITIO e il COBALTO. Nel mondo, attualmente, quasi tutto il COBALTO viene estratto dalle miniere del sud del CONGO, in condizioni disumane per i minatori. AMNESTY INTERNATIONAL e UNICEF hanno recentemente pubblicato un documento in cui denunciano l’impiego di oltre 40mila BAMBINI all’estrazione del cobalto (…)” (Fabio Marzocca, 24/9/2021, da https://www.acronico.it/) (nella FOTO: Baby-minatore in Congo per l’estrazione del cobalto, foto da https://www.acronico.iy/)

   Pertanto, si capisce che dove si può esprimere la propria contrarietà, più o meno democraticamente, difficile è superare l’opposizione alle nuove miniere. Serve per questo un nuovo approccio nella necessità di trovare questi minerali: garantire estrazioni di queste nuove materie prime senza impatti ambientali e sociali; che le popolazioni autoctone non ne abbiano un danno ma eventualmente dei vantaggi di benessere e affrancamento (nel Sud e nel Nord del pianeta).

“(…) IL 62% DELLE RISERVE MONDIALI DI LITIO sono rappresentate dalle SALINE e l’80% di queste riserve si trova nel triangolo tra ARGENTINA, CILE e BOLIVIA. (…) DEPOSITI DI LITIO IN NATURA SI TROVANO anche nelle rocce e ricavarlo, come avviene per esempio in Australia o in Cina, ha un certo costo, sia economico che ambientale. Nelle saline invece il litio viene ricavato semplicemente facendo evaporare l’acqua per mezzo della radiazione solare: niente esplosivi, niente pile di rocce sterili, niente residui tossici. Ma questo non significa che non ci possano essere delle conseguenze. (…)” (Serena Tarabini, da “Il Manifesto” del 24/3/2021) (FOTO: SALINE con grumi per ricavare il litio, foto da  www.repubblica.it/)

   La transizione ecologica vorrebbe (vuole) un approccio nuovo al mondo (umano, animale e vegetale); ma per realizzarla, come nel caso dell’elettrificazione dei veicoli, rischia di andare contro i suoi stessi principi, quando cerca di accaparrarsi negli stessi modi di prima le nuove materie prime (come è il caso del litio). E’ necessario evitare, non replicare, gli errori del passato. Vanno trovate le soluzioni perché ciò non accada.

   L’opportunità data pur dalla negativa situazione del riscaldamento climatico è quella di cambiare i rapporti di sfruttamento sull’ambiente e sui paesi cosiddetti poveri del mondo. Per riuscire nella riconversione ecologica non si può che unire le forze tra i popoli: una svolta sociale. Per le auto elettriche il litio (il nuovo petrolio) va pagato al prezzo giusto e può (deve) diventare occasione di affrancamento culturale ed economico di parte del Sud del pianeta (cioè realizzare il volto migliore della globalizzazione). (s.m.)

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LOZNICA, nella Valle dello Jadar, luogo delle proteste contro la proposta di miniera di LITIO (vedi nella MAPPA: si trova a ovest di Belgrado ai confini con la Bosnia Erzegovina (MAPPA da https://www.treccani.it/)

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IL LITIO IN EUROPA (SERBIA) APRE LA SFIDA DEI METALLI PER IL 2022

di Violetta Silvestri, 28/12/2021, da https://www.money.it/

– In Europa la miniera di litio serba già sta facendo scalpore: il gigante Rio Tinto ha interrotto i lavori. Perché? Il 2022 segnerà la sfida su uno dei metalli più ricercati per la transizione green –

   L’estrazione del metallo è vitale per la rivoluzione dei veicoli elettrici e sarebbe un potenziale vantaggio economico per la Serbia (dove è stato scoperto un giacimento), aiutando l’accesso in Europa a una risorsa strategica.

   Ma il progetto del gigante australiano Rio Tinto si è fermato dopo tante e tenaci proteste dei cittadini della valle serba di Jadar, dove era nato il progetto di uno dei più grandi giacimenti di litio d’Europa.

   Tutto bloccato, dinanzi a timori ambientalisti – il paradosso dei metalli per la green revolution è che il loro accaparramento spesso distrugge l’ecosistema – e poche garanzie per regole e risarcimenti.

   Il 2022 vedrà tra le sue sfide anche quella del litio in Serbia? Il metallo in Europa fa gola a molti e può innescare tensioni e strategie geopolitiche

La miniera di litio in Serbia non si farà (per ora)

Le ultime novità sull’ambizioso progetto di Rio Tinto per estrarre litio in Serbia raccontano del colosso che ha deciso di fermarsi.

   Troppe le proteste ambientaliste, evidente la titubanza del presidente serbo che si prepara alle elezioni dell’anno prossimo e palese la volontà della città di Loznica (in Serbia) che ha ritirato una decisione di zonizzazione per consentire lo sviluppo industriale nella valle.

   Il presidente serbo Aleksandar Vucic, che sostiene la miniera, ha affermato che non procederà a meno che il Paese non sostenga il progetto e non vengano applicati gli standard ambientali. La controversa legge sull’espropriazione dei terreni, necessaria per gli scavi di Rio Tinto, tornerà in Parlamento.

   La multinazionale mineraria, che si è impegnata a investire 2,4 miliardi di dollari per costruire il giacimento di litio, ha insistito sul fatto che non abbandonerà lo sviluppo del territorio e ha promesso un maggiore dialogo con la gente del posto. Per conquistare i locali ha ristrutturato scuole e impianti sportivi.

   Rio Tinto ha affermato che l’effetto ambientale dei pozzi profondi 500 metri, di un impianto di lavorazione e di un impianto di stoccaggio dei rifiuti sarebbe minimo.

   Ma i manifestanti e gli ambientalisti credono che il progetto distruggerebbe terreni agricoli preziosi.

“Non c’è alcuna possibilità che questa miniera possa estrarre il litio in modo ecologicamente sostenibile”, ha affermato Savo Manojlovic, leader di Kreni Promeni (Go, Change), il principale gruppo dietro le proteste. “Questa non è come la passione verde dell’occidente. Per noi è una questione di sopravvivenza.”

   Il caso racconta molto delle prossime sfide del mondo più verde. Le proteste in Serbia riflettono una battaglia più ampia che l’industria mineraria e i responsabili politici devono affrontare nel passaggio a un’energia pulita.

   Elettrificare l’economia globale richiede più minerali come rame, litio e cobalto, ma sta diventando sempre più difficile superare l’opposizione alle nuove miniere. E, soprattutto, garantire sfruttamenti responsabili e con impatti ambientali e sociali limitati.

Cosa significa (anche per l’UE) sfruttare il litio serbo?

Pur con tanti dubbi, la Serbia stava facendo affidamento a questa preziosa scoperta.

   La produzione economica pro capite del Paese balcanico è circa un terzo dell’Europa occidentale e Belgrado sperava che il litio diventasse un pilastro economico. Rio afferma che la miniera contribuirebbe direttamente all’1% e indirettamente al 4% del PIL del Paese.

   Il Governo vedeva ulteriori vantaggi nel rendere Jadar parte di una catena di fornitura di metalli per batterie, dall’estrazione mineraria alla produzione di veicoli elettrici.

   L’impatto economico totale, compresi altri investimenti, potenzialmente promette di essere superiore a 10 miliardi di euro all’anno, fino al 22% del PIL.

   Secondo i documenti visionati dal FT, Belgrado aveva messo in conto che la cinese CATL, il più grande produttore di batterie al mondo per quota di mercato, investisse fino a 2,5 miliardi di euro. Altri produttori di batterie come la tedesca Varta o la slovacca InoBat, una società sostenuta da Rio, poteva aggiungere altri 1,5 miliardi di euro. Una casa automobilistica come Volkswagen poteva investire 3 miliardi di euro nella produzione di veicoli elettrici.

   Oltre alle sue conseguenze economiche, la miniera poteva innescare un importante impatto geopolitico. La Serbia lotta per avere influenza nei Balcani tra UE, Russia e Cina.

   Il litio dava a Belgrado la possibilità di esercitare un’influenza maggiore sull’UE, che è rimasta indietro rispetto alla Cina nella corsa ai materiali per le batterie, e in particolare alla Germania, le cui case automobilistiche vogliono procurarsi le batterie localmente piuttosto che dipendere da Pechino.

   Tutto fermo, per ora. C’è da scommettere che si tornerà a parlare del litio serbo. Anche perché il presidente Vucic ha promesso di coinvolgere l’Unione Europea per garantire un’estrazione sicura. (Violetta Silvestri, 28/12/2021, da https://www.money.it/)

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SERBIA: CONTINUANO LE PROTESTE CONTRO L’ESTRAZIONE DI LITIO

di Anna Peverieri, da https://sicurezzainternazionale.luiss.it/ del 4/1/2022

– Centinaia di manifestanti in Serbia hanno bloccato il traffico in diverse località del Paese, il 3 gennaio, per protestare contro la possibile creazione di miniere per l’estrazione di litio –

   A riportare la notizia, il 3 gennaio, è stata l’emittente indipendente RFE/RL. È da settimane che continuano le proteste ambientaliste, organizzate da manifestanti per esortare il governo a respingere la possibile costruzione di una miniera di litio nella Serbia Occidentale.

   Le proteste sono giunte dopo che la Rio Tinto, la seconda società mineraria e di metalli al mondo, con sede a Londra, ha annunciato di studiare il possibile sviluppo di una miniera di litio in Serbia. Gli esperti ritengono che il Paese potrebbe ospitare una delle più grandi strutture estrattive d’Europa. La miniera avrebbe il potenziale di generare entrate significative dall’esportazione, nonché creare numerosi posti di lavoro per la Serbia, soprattutto se il Paese decidesse di raffinare localmente il litio e di sviluppare impianti di batterie a base del materiale.  

   Da parte sua, Rio Tinto ha ribadito che rispetterà le leggi e gli standard ambientali, ma i gruppi ecologisti temono che le miniere di litio possano arrecare gravi danni all’ambiente. Ad oggi, la società ha effettuato solo esplorazioni. “Rio Tinto deve lasciare la Serbia”, ha dichiarato Aleksandar Jovanovic, uno dei leader della protesta. Tali progetti sono sostenuti dal presidente serbo, Alaksandar Vucic, che ha più volte condannato le manifestazioni, definendole “politiche”. Tuttavia, il leader di Belgrado ha assicurato che non verranno implementati i piani per la costruzione delle miniere finché non saranno completate le dovute valutazioni ambientali.

Il litio rappresenta una materia prima fondamentale per la produzione di gran parte delle moderne apparecchiature tecnologiche, anche in campo militare. Inoltre, si prevede che, nei prossimi anni, la domanda di auto elettriche alimentate a batteria al litio possa subire un brusco aumento, soprattutto perché Stati Uniti, Europa e Cina stanno tentando di ridurre le emissioni di carbonio.

   A livello globale, la disponibilità del litio resta limitata e, al momento, il suo mercato starebbe assistendo ad una fase di cambiamento. Dopo un periodo di disponibilità in eccesso rispetto alla domanda che si è protratto fino al 2018, la situazione è cambiata con la crescita del settore delle auto elettriche, soprattutto a partire dalla scorsa estate.

   Nel mese di gennaio 2021, le vendite di automobili elettriche in Asia sarebbero triplicate rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Al contempo, anche in Europa il mercato delle automobili alimentate con fonti alternative ha superato quello di veicoli alimentati a diesel per la prima volta, nel terzo trimestre del 2020. In tale contesto, è iniziata a verificarsi una carenza nelle forniture di litio. Secondo alcuni esperti citati da Global Times, nel 2020, per la prima volta, l’equilibrio tra offerta e domanda di litio è stata in deficit.

   In tale quadro, è importante sottolineare che la Serbia è chiamata a far fronte i suoi problemi ambientali per avanzare verso l’adesione all’Unione Europea. Vucic ha più volte espresso l’intenzione di favorire l’ingresso di Belgrado nell’UE, ma, al contempo, ha anche promosso stretti legami con Russia e Cina.

   Quanto a quest’ultima, sono stati attivati numerosi investimenti cinesi nel settore minerario e infrastrutturale serbo. Mosca, invece, ha approfittato delle recenti controversie tra Serbia e Kosovo per riavvicinarsi allo storico alleato. Nei mesi di settembre e ottobre, le tensioni tra Serbia e Kosovo si sono riacuite a causa di una controversa disputa sulle targhe, culminata con il dispiegamento di veicoli blindati e truppe lungo i confini che i due Paesi condividono.

   Sebbene la crisi sia poi stata risolta, il 30 settembre, grazie ad un accordo mediato dall’Unione Europea, la Russia ha colto l’occasione per riemergere negli affari serbi. Nell’ultimo periodo, il focus è stato posto sulle questioni ambientali, sia in Serbia sia in altre nazioni balcaniche, a causa dell’inquinamento dell’aria e dell’acqua. I manifestanti hanno organizzato le varie proteste durante i fine settimana per condannare le autorità serbe, che sembrerebbero favorire gli interessi degli investitori stranieri. (Anna Peverieri, da https://sicurezzainternazionale.luiss.it/ del 4/1/2022) 

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LA PIÙ GRANDE MINIERA DI LITIO IN EUROPA MOSTRA IL LATO OSCURO DELLA TRANSIZIONE ECOLOGICA

di Dario Prestigiacomo, da https://europa.today.it/ del 13/12/2021 Continua a leggere

IL NUCLEARE È ENERGIA VERDE IN EUROPA?? – La ripresa del progetto nucleare (per aiutare la FRANCIA a risistemare le sue obsolete centrali) con l’inserimento dei reattori atomici tra le energie pulite sembra (è) cosa fuori del tempo (e la GERMANIA si astiene, pur chiudendo le sue centrali) – E l’ITALIA?

“(…) IL DADO È (QUASI) TRATTO – IL VIA LIBERA A NUCLEARE E GAS È SCRITTO nella bozza della “tassonomia” che Bruxelles si appresta a sottoporre a governi e Parlamento europeo. Le forti pressione della FRANCIA per l’inclusione dell’atomo hanno pagato. Nel frattempo la GERMANIA avvia lo spegnimento di tre centrali e si appresta a dare l’addio definitivo al nucleare. IL NUCLEARE SARÀ INCLUSO TRA LE FONTI ENERGETICHE INDICATE DALLA COMMISSIONE UE COME MERITEVOLI DI RICEVERE UN SOSTEGNO ECONOMICO nell’ottica di riduzioni delle emissioni. La decisione, più volte rinviata, non sorprende ed era stata preannunciata da diversi esponenti della Commissione durante le scorse settimane. Ora però L’OK È SCRITTO NERO SU BIANCO. In questi mesi Bruxelles è stata oggetto di forti pressioni da parte dei paesi che hanno sposato l’atomo. In primis la FRANCIA, che dal nucleare ottiene circa il 70% dell’energia che consuma, ma che deve affrontare un ingente programma di ammodernamento e manutenzione dei suoi impianti. (…)” (da IL FATTO QUOTIDIANO del 1/1/2021) – (l’immagine qui sopra è ripresa da https://www.qualenergia.it/ )

   La Commissione Europea ha preso una decisione, in tema di impianti energetici, che sconfessa la sua volontà, finora espressa, di perseguire un Green Deal. Infatti il nucleare viene incluso tra le fonti energetiche indicate dalla Commissione come meritevoli di ricevere un sostegno economico: questo nell’ottica delle riduzioni delle emissioni, cioè che le centrali nucleari non producono Co2, e allora vanno bene. La bozza del piano elaborato dalla Commissione Ue, prevede infatti l’inclusione proprio del nucleare (a del gas naturale) nella tassonomia Ue (cioè nella lista delle attività definite sostenibili da Bruxelles).

“(…) A metà 2021 si contavano 415 reattori nucleari in funzione in 33 paesi, sette reattori in più rispetto a metà 2020, con una potenza elettrica installata (parliamo cioè delle centrali in funzione) superiore dell’1,9% a quella dell’anno precedente: ciononostante, nel 2020 il parco nucleare mondiale ha generato il 3,9% in meno di elettricità rispetto al 2019. Si è trattato del primo calo nella produzione di energia nucleare dal 2012, quando molti reattori furono chiusi sulla scia del disastro nucleare di Fukushima. (…)” (da https://www.reteclima.it/, 16/12/2021) (nell’immagine: la situazione degli impianti nucleari nel mondo – sempre da https://www.reteclima.it/)

   E’ evidente che questa decisione è pesantemente condizionata dalla Francia, che dal nucleare ottiene circa il 70% dell’energia che consuma; ma che anche deve affrontare un ingente programma di ammodernamento e manutenzione dei suoi impianti (la maggior parte molto vecchi). Un piano che, secondo il gruppo Edf (l’Enel francese) costerà almeno 50 miliardi di euro (e c’è bisogno dell’aiuto Ue).

   Interessante il fatto che se “solo” Germania, Austria, Spagna e Lussemburgo si sono all’inizio opposte a questa decisione, nel giro di 24 ore la Germania ha fatto sapere, attraverso il nuovo cancelliere Scholz, che non si opporrà più, che si asterrà su questa decisione. Una decisione necessitata dal mantenere stretti rapporti di amicizia con la Francia, oltreché forse dal fatto che la Germania (che sta spegnendo tre delle sue ultime sei centrali nucleari) si è accorta di avere molto pochi alleati per un’eventuale opposizione. E anche della necessità di aiutare l’alleato Macron che in aprile di quest’anno dovrà affrontare non facili elezioni presidenziali per una sua possibile riconferma.

“(…) Il ruolo dell’energia nucleare mostra il suo costante declino nel contributo alla produzione di elettricità a livello globale, scendendo da un picco del 17,5% del 1996 al 10,1% nel 2020. Per quanto riguarda i nuovi impianti il paese che sta investendo di più sul nucleare è la Cina, che ha in programma di costruire 17 nuove centrali: seguono l’India (6 installazioni in progetto), gli USA (2), la Russia (2), la Francia (1). In totale, a livello mondiale, ci sono 53 unità in costruzione, ma di queste almeno 31 sono in ritardo: in 10 casi, l’inizio dei lavori risale a un decennio fa o più…(…) La maggior parte dei ritardi è da imputarsi ai costi in costante lievitazione; spesso poi vengono imposti stop dalle autorità a causa di problemi di sicurezza o per incidenti intervenuti negli impianti (…)” (da https://www.reteclima.it/, 16/12/2021) – (L’IMMAGINE: Costruzione centrali nucleari negli anni, sempre da https://www.reteclima.it/)

   E così l’Unione Europea apre la possibilità concreta di rilanciare l’energia nucleare come fonte green; produzione di energia nucleare in questo periodo storico per tanti motivi in crisi (vi invitiamo a leggere quanto scrive “ReteClima” sul tema riportato in questo post qui di seguito). Nucleare green assieme anche al gas naturale: con la condizione per quest’ultimo che la sua emissione di Co2 non superi i 270 grammi per kilowatt; e che il via libera a nuovi investimenti nel gas avvenga solo se serviranno per rimpiazzare petrolio e carbone. Sul gas (di cui l’Italia usufruisce per la maggiore) ci troviamo d’accordo nel considerarlo combustibile fossile “di transizione” nel passaggio completo alle fonti rinnovabili, il male minore; che invece il nucleare passi come una energia rinnovabile ed ecologica, ci sembra cosa incredibile.

NUCLEARE, LA GERMANIA fa retromarcia: SI ASTERRÀ sulla decisione Ue di inserirlo tra le energie pulite
Nonostante le parole di fuoco del ministro dell’Economia e leader dei Verdi contro la proposta della Commissione, il governo SCHOLZ (nella foto il nuovo cancelliere Olaf Scholz) ha deciso di non chiedere modifiche al testo: Berlino sa di non avere molti alleati

   Incidenti catastrofici che hanno segnato il dolore e la vita di milioni di persone (Cernobyl, Fukushima, il pericolo scampato a Three Mile Island….), il fatto che l’atomo sia pericolosissimo (e costosissimo è fare centrali…), che le scorie radioattive abbiamo effetti letali per decine di migliaia di anni (eredità nostra al mondo futuro, umano, ma anche animale e vegetale….), tutto questo non conta, in prospettiva poi di ribadire l’avvento di un Green Deal, una nuova era verde…..

Evoluzione tra il 2009 e il 2020 del prezzo della generazione elettrica con diverse tecnologie (immagine da https://www.dw.com/)

   Il 2022 parte dunque, sul versante energetico per l’Europa, con una delusione rispetto alle aspettative finora espresse, di una svolta energetica: ci troviamo invece tra la necessità di andare decisamente verso l’utilizzo di fonti rinnovabili, e dall’altra al contrario di ribadire un percorso nuclearista che ritenevamo oramai superato (almeno nell’Unione Europea, pur riconoscendo l’anomalia dei cugini francesi…).

L’ETÀ MEDIA della flotta di reattori nucleari in operazione è in crescita, ATTESTANDOSI OGGI A 30,7 ANNI: ben 278 reattori su 415 sono attivi da più di 31 anni. (da https://www.reteclima.it/, 16/12/2021)

   E anche l’Italia tacerà, si adeguerà; divisa sui contenuti energetici al suo interno; e pur ricordandosi il referendum (del 1987) di bocciatura del nucleare; e della improbabilità nel nostro Paese che si voglia riprendere un progetto nuclearista (in Italia non si riesce ancora a “collocare definitivamente” -triste dicitura…- il lascito delle scorie radioattive prodotte quarant’anni fa).

   La strada che sembrava prospettarsi positivamente fino a qualche mese fa, appariva assai condivisibile: un modello energetico fondato su innovazione tecnologica, miglioramento dell’efficienza, sviluppo delle rinnovabili e gas come fonte fossile di transizione (noi avremmo solo aggiunto qualcosa sul risparmio energetico). Ora la situazione è diversa.

Dal 1970 a metà 2021, la costruzione di 1 reattore su 8 è stata abbandonata o sospesa (immagine da https://www.reteclima.it/)

   L’iter per questa decisione europea, che porterà a consistenti finanziamenti per i Paesi che hanno centrali nucleari, in primis la Francia, ma anche per chi vorrà (o chiederà) di perseguire il progetto di reattori atomici, questo iter di approvazione della bozza di Bruxelles ha un percorso non breve: il testo messo a punto dalla Commissione europea dovrà essere approvato dal Consiglio europeo, vero organo decisionale dell’Unione, che riunisce i capi di Stato e dei governi dei paesi Ue (via libera che non dovrebbe incontrare particolari ostacoli). Il testo dovrà anche ricevere semaforo verde dal Parlamento europeo; e poi la decisione entrerà in vigore nel 2023…e anche se adesso pertanto nulla è ancora definitivo, è presumibile che il tutto possa passare. Una decisione a nostro avviso scellerata. Un passo indietro per una vera “nuova Europa”. (s.m.)

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ALLO STUDIO IMPIANTI NUCLEARI DI IV GENERAZIONE (in possibile costruzione tra non meno di 10 anni) “(…) I promotori di un ritorno al nucleare riconoscono i limiti degli impianti esistenti, ma insistono nell’affermare che la nuova tecnologia nucleare (cosiddetta “di IV generazione”) garantisce miglioramenti tali da rendere le centrali più sicure, più piccole, più performanti e quindi meno costose, nonché da produrre meno scorie radioattive (ridotta la loro vita a soli 300 anni!!!).   I reattori di IV generazione si distinguono da quelli precedenti soprattutto perché utilizzano liquidi refrigeranti diversi dall’acqua (ad esempio gas, metalli liquidi, sali fusi).   In particolare, una categoria che genera grandi speranze è quella degli Small Modular Reactor (SMR). Si tratta di un gruppo di reattori caratterizzati da dimensioni e potenza ridotti (fino a 300 MW per unità): ciò darebbe notevoli vantaggi sul fronte degli spazi richiesti agli impianti, nonché sull’impatto sul territorio. Il report WNISR 2021 fa il punto della situazione anche sugli SMR sostenendo però chiaramente il fatto che nel 2020 non c’è stato alcun risultato di rilievo sul campo “i loro promotori hanno fornito poche prove di qualsiasi schema di implementazione prima di un decennio, come minimo(da https://www.reteclima.it/, 16/12/2021) – (Immagine: STOP NUCLEARE, da https://www.dw.com/)

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RETECLIMA

ANACRONISTICO NUCLEARE: IL MERCATO HA SCELTO LE FONTI RINNOVABILI, PIÙ ECONOMICHE E SICURE

da https://www.reteclima.it/, 16/12/2021

   Le fonti energetiche rinnovabili costano circa quattro volte in meno rispetto al nucleare.

Nel 2020 produrre 1 kWh di elettricità con il fotovoltaico è costato in media 3,7 $/kWh, con l’eolico 4 $/kWh, con il gas è costato 5,9 $/kWh, con il carbone 11,2 $/kWh e con il nucleare ben 16,3 $/kWh .

   A riportare questi dati è il “World Nuclear Industry Status Report 2021” (WNISR), pubblicazione che ogni anno valuta lo stato e le tendenze dell’industria nucleare internazionale.

   Il rapporto è stato curato da Mycle Schneider, consulente energetico indipendente con sede a Parigi, che nella stesura ha coinvolto numerosi altri esperti internazionali e prestigiose università (Harvard, British Columbia, Tokyo, Berlino).

LA SITUAZIONE DEGLI IMPIANTI NUCLEARI NEL MONDO

A metà 2021 si contano 415 reattori nucleari in funzione in 33 paesi, sette reattori in più rispetto a metà 2020, con una potenza elettrica installata (parliamo cioè delle centrali in funzione) superiore dell’1,9% a quella dell’anno precedente: ciononostante, nel 2020 il parco nucleare mondiale ha generato il 3,9% in meno di elettricità rispetto al 2019.

   Si è trattato del primo calo nella produzione di energia nucleare dal 2012, quando molti reattori furono chiusi sulla scia del disastro nucleare di Fukushima.

   Tutto questo non vale però per la Cina, dove si concentrano le nuove installazioni, senza la quale la diminuzione della produzione sarebbe ancora maggiore: nel 2020, la Cina ha infatti prodotto per la prima volta più elettricità nucleare della Francia, paese che ricava dal nucleare il 71% della propria energia, risultando seconda solo agli Stati Uniti.

   Il ruolo dell’energia nucleare mostra il suo costante declino nel contributo alla produzione di elettricità a livello globale, scendendo da un picco del 17,5% del 1996 al 10,1% nel 2020.

   Per quanto riguarda i nuovi impianti il paese che sta investendo di più sul nucleare è la Cina, che ha in programma di costruire 17 nuove centrali: seguono l’India (6 installazioni in progetto), gli USA (2), la Russia (2), la Francia (1).

   In totale, a livello mondiale, ci sono 53 unità in costruzione, ma di queste almeno 31 sono in ritardo: in 10 casi, l’inizio dei lavori risale a un decennio fa o più, comprese due unità la cui costruzione ha avuto inizio rispettivamente 36 e 45 anni fa.

   La maggior parte dei ritardi è da imputarsi ai costi in costante lievitazione; spesso poi vengono imposti stop dalle autorità a causa di problemi di sicurezza o per incidenti intervenuti negli impianti. Si tratta di un classico cane che si morde la coda: le aziende costruttrici sono costrette ad aumentare in itinere la potenza dei generatori, nello sforzo di utilizzare l’economia di scala per rimediare a costi ormai insostenibili, e così questi costi crescono ancora.

   Dal 1970 a metà 2021, la costruzione di 1 reattore su 8 è stata abbandonata o sospesa.

   L’età media della flotta di reattori in operazione è in crescita, attestandosi oggi a 30,7 anni: ben 278 reattori su 415 sono attivi da più di 31 anni.

   A metà 2021 il WNISR 2021 conta un totale di ben 196 reattori chiusi, di cui solo 20 sono stati completamente smantellati, mentre i rimanenti sono o in attesa di decommissioning o in fasi diverse del processo di chiusura.

   Ricordiamo che, come capita anche per le centrali a carbone o a gas, ovviamente anche i reattori nucleari hanno una “data di scadenza”, cioè un periodo di tempo predeterminato di operatività oltre il quale non è più possibile – o economicamente sostenibile – mantenerli attivi.

   I primi impianti (di I e II generazione) erano stati progettati per funzionare per un periodo di circa 30 anni, mentre per le centrali più moderne la durata operativa potrebbe arrivare anche fino ai 60 anni.

   Alla fine di questo periodo è necessario iniziare il cosiddetto processo di decommissioning, che consiste in una serie di attività di decontaminazione e riqualifica che porta allo smantellamento completo dell’impianto: la durata media di questo processo è di circa 20 anni.

   I fondi stanziati dai governi per queste operazioni vanno dai 23-38 miliardi di euro di Francia e Germania, fino ai 109-250 miliardi di euro stimati nel Regno Unito. Gli autori del report sottolineano, però, che né Francia né U.K. hanno mai smantellato completamente alcun reattore; quindi, al momento, abbiamo a disposizione solo delle stime e nessun dato economico reale a consuntivo.

LA NUOVA GENERAZIONE DI REATTORI

Ma allora perché si continua, anche in Italia, a parlare di nucleare come di un’opzione fattibile?

   I promotori di un ritorno al nucleare riconoscono i limiti degli impianti esistenti, ma insistono nell’affermare che la nuova tecnologia nucleare (cosiddetta “di IV generazione”) garantisce miglioramenti tali da rendere le centrali più sicure, più piccole, più performanti e quindi meno costose, nonché da produrre meno scorie radioattive.

   I reattori di IV generazione si distinguono da quelli precedenti soprattutto perché utilizzano liquidi refrigeranti diversi dall’acqua (ad esempio gas, metalli liquidi, sali fusi).

   In particolare, una categoria che genera grandi speranze è quella degli Small Modular Reactor (SMR).

   Si tratta di un gruppo di reattori caratterizzati da dimensioni e potenza ridotti (fino a 300 MW per unità): ciò darebbe notevoli vantaggi sul fronte degli spazi richiesti agli impianti, nonché sull’impatto sul territorio. I componenti di questi reattori possono essere assemblati in fabbrica prima di essere inviati al sito di costruzione, inoltre, è possibile installare più unità (moduli) nello stesso impianto, in modo da poter regolare la potenza erogata in base alle necessità

   Molti di questi reattori, infine, adottano la cosiddetta “sicurezza passiva”, cioè non richiedono l’intervento umano per l’attivazione delle misure emergenza.

   Il report WNISR 2021 fa il punto della situazione anche sugli SMR sostenendo però chiaramente il fatto che nel 2020 non c’è stato alcun risultato di rilievo sul campo. “I cosiddetti reattori avanzati di vario tipo, compresi i cosiddetti Small Modular Reactors (SMR), fanno molto rumore nei media, hanno ottenuto diversi finanziamenti pubblici, ma i loro promotori hanno fornito poche prove di qualsiasi schema di implementazione prima di un decennio, come minimo.

   I pochi esemplari in costruzione (Argentina, Cina, India) hanno subito numerosi ritardi e ci vorranno ancora anni per il loro completamento.

   In Russia i due mini-reattori montati su una chiatta galleggiante nell’Artico, connessi alla rete nel 2019, hanno avuto un costo per unità di generazione pari al doppio di quello delle più costose centrali di III generazione: in Corea del Sud il reattore SMART non risulta appetibile ai privati in quanto economicamente non competitivo.

   In conclusione; pur essendo potenzialmente interessanti a livello teorico, purtroppo si tratta di tecnologie ancora allo stadio embrionale che non saranno disponibili prima del 2030 o del 2040.

   La transizione energetica non può però aspettare questi tempi, deve essere attuata immediatamente: aspettare altri dieci anni (o più) implicherebbe quasi sicuramente superare i +2°C di aumento della temperatura media globale, la soglia limite concordata negli accordi climatici internazionali.

LE RINNOVABILI HANNO GIÀ VINTO SUL MERCATO

Il capitolo finale della pubblicazione offre un paragone impietoso tra nucleare e rinnovabili da un punto di vista economico.

   Nel 2020 la capacità nucleare netta è aumentata di 0,4 GW, mentre sono stati installati ben 256 GW di rinnovabili non idroelettriche (soprattutto eolico e fotovoltaico).

   L’investimento totale in nuova elettricità ottenuta da solare ed eolico ha superato i 300 miliardi di dollari, ben 17 volte il valore degli investimenti globali effettuati per l’energia nucleare: serve però sottolineare anche il fatto che i finanziamenti al nucleare sono essenzialmente pubblici (non solo in Cina e Russia, ma anche in Francia), mentre le rinnovabili hanno da tempo attirato l’interesse e gli investimenti dei privati.

   Per quanto riguarda i costi, l’analisi dell’LCOE* (basata sulle autorevoli stime di Lazard), mostra che, tra il 2009 e il 2020, i costi del fotovoltaico utility-scale sono scesi del 90%, quelli dell’eolico del 70%, mentre per il nucleare questi costi sono aumentati del 33%.

   Nel 2020 le rinnovabili nell’UE (compreso l’idroelettrico) hanno superato per la prima volta i combustibili fossili diventando la fonte primaria di elettricità; inoltre, anche senza l’idroelettrico, hanno per la prima volta generato più energia dei reattori nucleari.

   “Le rinnovabili oggi sono diventate così economiche che in molti casi sono al di sotto dei costi operativi di base delle centrali nucleari”

   “Oggi dobbiamo mettere al primo posto la questione dell’urgenza […] ogni euro investito in nuove centrali nucleari peggiora la crisi climatica perché questo denaro non può essere usato per investire in opzioni più efficienti di protezione del clima.” (MYCLE SCHNEIDER, intervista rilasciata a DW)

da https://www.reteclima.it/, 16/12/2021

*L’LCOE (Levelized Cost of Energy) è una misura sintetica della competitività economica complessiva delle diverse tecnologie di generazione di energia. Rappresenta il costo di produzione di 1 MWh di energia elettrica generata, comprensivo dei costi di costruzione e di gestione dell’impianto di generazione (tratto dal sito ENEA).

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COMMISSIONE UE, VIA LIBERA A NUCLEARE E GAS COME FONTI UTILI PER LA TRANSIZIONE VERDE. ALL’ATOMO AIUTI FINO AL 2045

da IL FATTO QUOTIDIANO del 1/1/2021

– Il via libera a nucleare e gas è scritto nella bozza della “tassonomia” che Bruxelles si appresta a sottoporre a governi e Parlamento europeo. Le forti pressione della Francia per l’inclusione dell’atomo hanno pagato. Nel frattempo la Germania avvia lo spegnimento di tre centrali e si appresta a dare l’addio definitivo al nucleare. Salvini: “Pronti a raccogliere firme per referendum” –

   Il dado è (quasi) tratto. Il nucleare sarà Continua a leggere

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) è la priorità, con l’emergenza Covid, del 2022 – Ma riuscirà a realizzare le sue MISSIONI? (rivoluzione verde e digitale, mobilità sostenibile e inclusione sociale, istruzione e salute) – E saremo solo spettatori o si potrà “partecipare” al Piano? (e i Comuni ce la faranno?)

LA PARTECIPAZIONE AI PROCESSI DECISIONALI E DEMOCRAZIA “(…) Il PNRR individua 6 missioni e 16 temi e li raggruppa in relative politiche, mentre la vita li integra tutti: questa è la ragione per aprire la partecipazione a tutte le persone, tenendo alta l’attenzione affinché anche le risorse “non umane” siano rappresentate (ovvero il mondo vegetale e animale). Nel nome dell’emergenza, al contrario, la scrittura del piano non è stata partecipata. Questo è un grave problema all’origine….(…)” (DANIELA CIAFFI da https://www.labsus.org/ 14/12/2021) (foto ripresa da http://www.ilgazzettinodisicilia.it/)

   I 51 obiettivi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), obiettivi che sono stati approvati entro il 31 dicembre 2021 per avere dalla UE la prima rata di elargizione e prestito (sono 10 rate, una ogni 6 mesi se si dimostrano adempiuti gli impegni presi – che pertanto l’ultima è al 30/6/2026 -; questa prima rata è di 24,1 miliardi di euro sul totale di 191,5 delle 10 rate semestrali con un prefinanziamento già avuto ad agosto di 24,9 miliardi), ebbene, questi 51 obiettivi “raggiunti” possono deludere a una loro lettura: nel senso che sono per lo più (possiamo dire tutti) delle condizioni pre-procedurali, e niente come cose effettivamente fatte o avviate alla realizzazione. Dei 51 obiettivi, 27 si parla di riforme (come giustizia, concorrenza, fisco…) da fare e 24 di investimenti… ma niente di concreto: si parla di norme da farsi, di “entrate in vigore” di disposizioni di procedure da mettere in atto da parte dell’apparato statale (specie sui temi della giustizia civile e penale), e anche, qualche obiettivo su forme di norme che servono alla digitalizzazione (come quella del turismo).

ITALIA DOMANI: Il logo del PNRR Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza – per scaricare il Piano: PNRR Aggiornato.pdf

   Aspetti finora, in questa prima fase (con opere e cambiamenti che dovrebbero concludersi nella loro operatività nel 2026), ancora da identificare bene (molti impegni legislativi…) a chi pensava di entrare già nei contenuti e nella fase concreta delle 6 MISSIONI che questo PNRR si è posto (lo ha posto la Commissione europea per il nostro Paese): 1-Digitalizzazione, cultura e turismo (40,3 miliardi), 2-Rivoluzione verde e transizione ecologica (59,5 miliardi di euro), 3-Infrastrutture per una mobilità sostenibile (25,4 miliardi),  4-Istruzione e ricerca (30,9 miliardi), 5-Inclusione e Coesione (19,9 miliardi), 6-Salute (15,6 miliardi). Pertanto, finora, niente di “applicato” alla realtà, in opere e servizi che si definiscono innovativi verso il futuro.

Se una quota consistente dei finanziamenti del PNRR è previsto che se ne faranno carico i COMUNI (70 miliardi di euro, il 30%), RIUSCIRANNO GLI ENTI LOCALI a trovare le risorse operative e intellettuali per adempiere alla realizzazione di opere e servizi, coordinandosi tra loro, portando a termine le MISSION del PNRR?

   E’ una serie lunghissima di traguardi o obiettivi da raggiungere (520, di cui 154 sono riforme da farsi e il resto fasi di attuazione degli investimenti sulle 6 missioni previste); e il cadenzare dei tempi per l’amministrazione centrale, le regioni e i comuni coinvolti ha tempi molto stretti: ad esempio per quanto riguarda la missione 5 “Inclusione”, riguardante il “sociale” (infrastrutture sociali, famiglie, comunità, lotta alla povertà, terzo settore etc….) i progetti dovranno essere presentati entro il prossimo 31 marzo, e per l’estate 2022 dovranno esserci i decreti ministeriali di approvazione di questi progetti…. 

   E poi tutti i progetti del PNRR devono essere conclusi (realizzati) entro il 31 marzo 2026: considerati i tempi di costruzione di molte opere pubbliche italiane, è una scadenza piuttosto ambiziosa.

Le 6 MISSIONI del PNRR (schema ripreso da https://www.moltocomuni.it/)

    E uno dei punti che ci preme “osservare”, è che nella operatività per avere quei fondi, quei finanziamenti (che di 191,5 miliardi, solo 68,9 sono contributi dati a fondo perduto, cioè senza dover restituire niente, gli altri 122,6 miliardi sono prestiti) si stanno cercando di mettere in moto strutture pubbliche (tutti i ministeri competenti…) e Enti locali (le regioni, i maggiori comuni, ma anche i piccoli: nel sociale gli Ats, Ambiti territoriali sociali…) che devono “correre” a presentare piani per avere l’approvazione e i finanziamenti (e poi fare gli eventuali appalti rivolti ai privati che dovranno “realizzare”) nelle varie tematiche, con una metodologia peraltro molto seria (di riscontro continuo dei risultati, di monitoraggio), ma che appare a nostro avviso ancora lontana dall’individuare i TRAGUARDI (milestones o traguardi, dice la Relazione: “rappresentano fasi essenziali dell’attuazione, fisica e procedurale, come l’adozione di particolari norme, la piena operatività dei sistemi informativi, o il completamento dei lavori…”) e gli OBIETTIVI (“target o obiettivi sono indicatori misurabili – di solito in termini di risultato – dell’intervento pubblico, come i chilometri di ferrovie costruiti; oppure di impatto delle politiche pubbliche, come l’incremento del tasso di natalità”).

PNRR MISSIONE DIGITALIZZAZIONE
(immagine da https://www.mef.gov.it/focus/)

   Ma, se volete leggere i 51 obiettivi (o target) “raggiunti” (?….come detto all’inizio, si tratta solo di condizioni pre-procedurali…), nella RELAZIONE AL PNRR, documento di 100 pagine pubblicato il 23 dicembre dal Governo (i 51 obiettivi sono elencati da pagina 49), questo è il link:

https://www.governo.it/sites/governo.it/files/RelazionePNRR.pdf 

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PNRR MISSIONE RIVOLUZIONE VERDE
(immagine da https://www.mef.gov.it/focus/)
 “(…) La sfida pandemica e le altre che dobbiamo e dovremo affrontare non possono essere vinte senza una cooperazione tra i diversi soggetti, compresi quelli che il dibattito internazionale sulla cura dei beni comuni chiama “gli invisibili”, ovvero il mondo vegetale e animale. Al momento il PNRR ha a questo proposito un progetto (troppo) implicito nella missione “rivoluzione verde e transizione ecologica” (…)”
(DANIELA CIAFFI da https://www.labsus.org/ 14/12/2021)

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PNRR MISSIONE MOBILITA’ SOSTENIBILE (immagine da https://www.mef.gov.it/focus/)

   Si vuole in particolare qui porre in evidenza come, per un così importante PIANO che coinvolge tutto il Paese, vi sono problemi di “democrazia partecipata” che rimangono irrisolti; e poi di organizzazione degli Enti locali medio-piccoli, che paiono incapaci di farsi carico della gestione delle loro aree di competenza. E cioè:

1) non si sta forse lasciando alla porta, come spettatori passivi, soggetti che potrebbero dire qualcosa nella realizzazione dei vari obiettivi del Piano? (come associazioni competenti in certi ambiti delle missioni del Piano, e scuole e università, imprese sociali, ordini professionali, i soggetti del terzo settore, singoli interessati, gruppi informali…) (dove è andata a finire l’intenzione, anche normativa di partecipazione dei cittadini ai processi decisionali degli apparati pubblici, che già è stata normata negli anni ’90 del secolo scorso?);

2) se una quota consistente dei finanziamenti del PNRR è previsto che se ne faranno carico i Comuni (70 miliardi di euro, il 30%), riusciranno gli enti locali a trovare le risorse operative ed intellettuali per adempiere alla realizzazione di opere e servizi, coordinandosi tra loro (senza magari essere fagocitati da “privati” interessati…)? (su questa problematica si rinnova la questione della necessità di arrivare a una rideterminazione estesa dei Comuni con FUSIONI che portino a nuove realtà urbane più confacenti alle realtà odierne dei territori, ma per il Pnrr purtroppo non c’è il tempo (e la volontà…), e ci si accontenterà per necessità almeno di un coordinamento tra gli enti locali: per questo si stanno creando, per arrivare in tempo ad avere i fondi del Pnrr, aggregazioni tra Comuni, su esempio delle Ati, associazioni temporanee d’imprese, ma non è la stessa cosa di quello che sono le fusioni, nuove realtà urbane.…).

PNRR MISSIONE ISTRUZIONE E RICERCA (immagine da https://www.mef.gov.it/focus/)

   Se non fosse che per lo spirito delle 6 missioni iniziali richieste dall’Unione Europea che appaiono condivisibili nel guardare con speranza al futuro prossimo, e ai finanziamenti che ci sono (pur la maggior parte a prestito, cioè a ulteriore debito per noi e per le future generazioni), ci sarebbe da dire e pensare che questa corsa a presentare piani, forse vede l’uscire dai cassetti degli uffici comunali passati progetti accantonati perché improbabili; oppure di opere che mal serviranno le aree geografiche interessate (come è da pensare l’alta velocità ferroviaria al sud che poco rappresenterà una mobilità efficiente e necessaria per lo spostarsi delle popolazioni meridionali).

   Per le “infrastrutture per una mobilità sostenibile”, per necessità di decidere celermente, si propongono tanti progetti di “alta velocità ferroviaria” (in aree territoriali nazionali di improbabile utilizzo ottimale); oppure per “istruzione e ricerca” si produrrà l’ottima idea di asili nido sparsi ovunque (ma poi, chi sosterrà le spese di funzionamento negli anni? funzioneranno davvero?…); o ancora per la “rivoluzione verde e transizione ecologica” c’è la possibilità di produrre interventi di assetto idrogeologico perlomeno discutibili nell’impatto di mega opere che si costruiranno….

PNRR MISSIONE INCLUSIONE E COESIONE (immagine da https://www.mef.gov.it/focus/)

   Ma qui non si vuole svilire un piano di così grande trasformazione (se avrà successo), e guardare con fiducia la nuova “svolta” proposta dalle 6 missioni della Commissione Europea (e il lavoro chiesto dalla UE di monitorare semestralmente la realizzazione delle opere e dei servizi ci pare cosa saggia). Ci sembra solo che questo piano di interventi così grande, è a conoscenza solo delle istituzioni bene o male costrette ad interessarsene, che passa sulla testa di tutti, che si è solo spettatori, e che ci si può accorgere dei difetti, degli errori in questa corsa forsennata ai progetti, solo molto tardi (ammesso che molti progetti arrivino alla loro realizzazione). Ma restiamo fiduciosi. (s.m.)

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PNRR MISSIONE SALUTE (immagine da https://www.mef.gov.it/focus/)

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BENI COMUNI E AMMINISTRAZIONE CONDIVISA

PERCHÉ SPINGERE IL PNRR VERSO LA SUSSIDIARIETÀ ORIZZONTALE

(Tre caratteristiche che contribuirebbero a rendere il PNRR più resiliente e partecipato)

di DANIELA CIAFFI (del Politecnico di Torino), da Labsus (Laboratorio della sussidarietà),

https://www.labsus.org/ 14/12/2021

   Il PNRR individua 6 missioni e 16 temi e li raggruppa in relative politiche, mentre la vita li integra tutti: questa è la ragione per aprire la partecipazione a tutte le persone, tenendo alta l’attenzione affinché anche le risorse “non umane” siano rappresentate. Nel nome dell’emergenza, al contrario, la scrittura del piano non è stata partecipata. Questo è un grave problema all’origine, riassumibile nella sgradevole sensazione di vecchia politica che non si pone allo stesso livello di coloro che restano tradizionalmente esclusi dalle opportunità né di ciò che non può gridare allo spreco, come il suolo.
   Da molto tempo prima della pandemia la società chiede invece rapporti più paritari a chi fa le politiche e la natura sta lanciando a sua volta segnali chiarissimi. Bisogna correggere il tiro, anche nella direzione della sussidiarietà orizzontale, e subito. Poiché la parola partecipazione viene usata con le accezioni più diverse, chiariamo qui come la intendiamo. Un PNRR partecipato ha almeno tre caratteristiche che un PNRR non partecipato non ha.

IL PNRR VA COMUNICATO MEGLIO

La prima azione partecipativa necessaria riguarda la comunicazione del piano, cosa ben diversa dalla semplice informazione lanciata a senso unico dal governo ai cittadini, lasciandoli nell’impossibilità di dare ritorni.

   Una cosa è ad esempio lanciare il tema della “innovazione” preoccupandosi di raccogliere feedback diversi (“noi non abbiamo neanche capito di che cosa stiamo parlando”, “noi per innovazione intendiamo qualcosa di diverso”, “per noi la definizione data dal piano è perfetta”) e un’altra è la mera informazione (“uno dei 16 temi del piano è l’innovazione”). Poiché per il PNRR si stanno usando risorse comuni, tutte e tutti, adulti e bambini, devono poter capire, per poter interagire: il piano è ricco di concetti ambiziosi e complessi. A: non si può dare per scontata la nostra alfabetizzazione a proposito (“chi sa cosa vuol dire innovazione?”); B: non possiamo perdere l’occasione di dialogare sui diversi significati, che i concetti incarnano (“per noi innovazione è innovazione amministrativa”, “noi intendiamo innovazione tecnologica”, “noi lavoriamo da anni su esempi di innovazione sociale e ambientale”, “in questo territorio il brodo di cultura dell’innovazione è diverso”).

PERCHÉ NON CHIEDERE AGLI ITALIANI SE VOGLIONO CONTRIBUIRE AL PIANO?

La cura della comunicazione non è importante di per sé, ma è fondamentale perché costituisce la base del possibile contributo attivo dei singoli, dei gruppi informali, delle associazioni, delle imprese sociali, degli ordini professionali, dei soggetti profit piccoli, medi e grandi.

   Troppo spesso la partita del PNRR viene descritta come una partita di sussidiarietà verticale: fondi dall’Europa, agli Stati, alle Regioni, quindi ai sindaci. Labsus sostiene da tempo che a nessun livello esistono responsabili pubblici capaci di far fronte da soli alla complessità.

   La sfida pandemica e le altre che dobbiamo e dovremo affrontare non possono essere vinte senza una cooperazione tra i diversi soggetti, compresi quelli che il dibattito internazionale sulla cura dei beni comuni chiama “gli invisibili”, ovvero il mondo vegetale e animale. Al momento il PNRR ha a questo proposito un progetto (troppo) implicito nella missione “rivoluzione verde e transizione ecologica” e all’interno della variegata galleria di soggetti sceglie di privilegiare le pubbliche amministrazioni da un lato e le imprese dall’altro.

   Per trovare un riferimento a famiglie, comunità e Terzo settore bisogna cercare dentro alla quinta missione, “coesione e inclusione”, come se rispetto agli altri pilastri del piano – “sanità”, “istruzione e ricerca”, “cultura, turismo, innovazione e digitalizzazione” e ancora “rivoluzione verde e transizione ecologica” – la passione e la competenza di milioni di italiane e italiani attivi e pronti a contribuire fosse stata finora marginale!

   I commoners di tutto il mondo denunciano da tempo il rischio di continuare a impostare le politiche in questo modo, perché così facendo non solo ci si dimentica di tutte le energie civiche che non sono etichettabili come pubbliche né come private, ma si perde di vista il tema dell’uso condiviso dei beni comuni, assai più importante della proprietà degli stessi. A livello nazionale, Labsus da più di 15 anni raccoglie storie di attivismo al servizio dell’arte di amministrare: questo è il momento in cui le occasioni che si aprono alle pubbliche amministrazioni e alle imprese non possono non rappresentare delle chance anche per le associazioni formali e informali che in moltissimi casi hanno aperto faticosamente la strada a politiche sperimentali, testando processi d’avanguardia, accettando sfide apparentemente perse.

SVILUPPARE CAPACITÀ ATTRAVERSO IL PNRR

A leggere nel dettaglio l’intero piano, il suo doppio titolo pare assai più sviluppato nella dimensione economico-finanziaria di “ripresa” e di hardware piuttosto che in quella socio-economica di “resilienza” e di software. Così, mentre gli stimoli sul piano materiale risultano piuttosto immediati, a partire dai ricchi elenchi delle possibili nuove infrastrutture di cui dotare l’Italia, molto più difficile è immaginare quali capacità potranno sviluppare gli abitanti grazie al piano. Certamente l’empowerment lavorativo è contemplato dal PNRR, nel breve periodo: non è difficile immaginare che saranno anni di intenso lavoro per chi pianifica, progetta e realizza le opere.
   A partire dall’esperienza che sto vivendo in questo semestre di didattica al Politecnico di Torino come docente di sociologia dell’ambiente e del territorio, insieme a colleghe di pianificazione urbanistica e progettazione architettonica, posso testimoniare che, quando i gruppi di studentesse e studenti si mettono al lavoro sulle “schede di PNRR” che riguardano precisi ambiti urbani e territoriali attraverso cui si concretizza il piano, il loro problema non è certo quello di cercare di rispondere agli obiettivi di infrastrutturazione della città e del territorio. Alle pubbliche amministrazioni locali, si sa, è stato esplicitamente chiesto di ritirare fuori dai cassetti piani e progetti: non guasterebbe allargare la richiesta, parallelamente e quando possibile, alle analisi quantitative e qualitative dei contesti sociali.

PNRR: COSA CAMBIA RISPETTO AL PIANO FANFANI?

Per il nostro Paese questa esigenza diffusa di progetto è davvero epocale, perciò dovremmo condividere l’esigenza che ci fossero delle evidenti differenze tra l’attuazione del PNRR oggi e quella del piano Fanfani lanciato alla fine degli anni Quaranta del secolo scorso: anch’esso con prospettiva di sette anni, anch’esso rivolto a tutto il territorio nazionale, anch’esso con lo scopo di rispondere ad esigenze materiali (anzi, la prima delle esigenze, quella di avere una casa, cui peraltro il PNRR non ha scelto di dedicare una missione, né un tema). Son passati infatti tre quarti di secolo dal piano INA-casa, cosiddetto piano Fanfani, che certamente ebbe ricadute in termini di Pil simili a quelle che il PNRR auspica di avere. Ma restare affezionati al paradigma dell’edilizia come volano dell’economia è antistorico, perché questi decenni hanno portato alla nascita e alla crescita, tra le altre cose:

della società della cura, intesa non solo come cura dei processi di argomentazione pubblica delle decisioni sulle trasformazioni sociali e spaziali, ma anche della cura intesa come azione collaborativa diretta;

di una coscienza ambientale diffusa, per cui il consumo di risorse finite (terra, acqua, aria, materiali per l’edilizia come per le nuove tecnologie eccetera) è per molti cittadini un’emergenza per le agende politiche a tutti i livelli, al pari/ancor più della decrescita economica;

di paradigmi democratici nuovi, quale l’Amministrazione condivisa dei beni comuni, che portano l’attenzione sulla possibilità e l’opportunità di co-gestire le risorse comuni in un’alleanza orizzontale tra soggetti pubblici, privati, del terzo settore, dei gruppi informali e dei singoli individui attivi.

   Questi punti, insieme ad altri che molti commentatori del PNRR hanno evidenziato, devono fare la differenza.

   Quando il Presidente della Repubblica ha convocato i sindaci per ribadire loro la grande responsabilità che assumono nell’attuazione di questo piano storico, è apparso ancora più evidente il dilemma storico tra il livello locale e quello dei soggetti globali/internazionali/statali: rifiutare il nuovo paradigma della sussidiarietà orizzontale significa continuare a perpetrare un gioco delle parti in cui dall’alto gli obiettivi di crescita economica continuano a essere perseguiti nel più consolidato dei modi, mentre le alternative dal basso non arrivano mai a proporre una vera alternativa di sistema.

   Nella logica della pattuizione – soprattutto quando iniziano a entrare in gioco anche i livelli regionali e le unioni di comuni, oltre alle singole municipalità – l’incrocio tra politiche dall’alto ed esperienze dal basso è sempre perseguito, insieme alla multiattorialità e con la regola basilare dell’apertura a chiunque voglia contribuire. Abbiamo notizia dei primi Patti di collaborazione che in Italia stanno iniziando a confrontarsi con le sfide del PNRR, e ci fa piacere che questa esigenza di partecipazione si estenda nel nord-ovest, anche grazie all’iniziativa di una fondazione di origine bancaria, sino a un comune di media dimensione nella Sicilia occidentale.

(DANIELA CIAFFI, da Labsus -Laboratorio della sussidiarietà-, https://www.labsus.org/)

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AI COMUNI MANCANO I DIPENDENTI PER GESTIRE I SOLDI DEL PNRR

da IL POST.IT https://www.ilpost.it/ del 7/12/2021

– C’è il rischio che 70 miliardi di euro rimangano inutilizzati: il governo vuole rimediare con un piano straordinario di assunzioni – Continua a leggere

UNREPORTED INBOUND PALERMO, sulla strage di Ustica, racconto di DANIELE DEL GIUDICE, per il NATALE 2021 dei nostri 25 lettori – Dal libro “Staccando l’ombra da terra” (ed. Einaudi) di un autore che ha (per dirla con Calvino) “un nuovo approccio alla rappresentazione, al racconto, secondo un nuovo sistema di coordinate”

“(…) Daniele Del Giudice nasce nel 1949 a Roma, da padre svizzero dei Grigioni morto quando Daniele è un bambino.  Passa anni in collegio, non ha un’infanzia felice. In un’intervista del 2007 a Riccardo Giacconi ricorda che suo padre prima di morire gli regalò una macchina da scrivere, una enorme Underwood americana e una Bianchi 28, una bicicletta. Non andava a scuola, il piccolo, preferiva pedalare la mattina e battere a macchina con due dita il pomeriggio. Del Giudice non ha mai terminato gli studi universitari, forse perché ben presto ha cominciato a collaborare per i giornali, prima di spostarsi a Milano e poi definitivamente a Venezia. E’ scomparso all’età di 72 anni il 2 settembre 2021 (…)” (PAOLO DI STEFANO, 2/9/2021, da https://www.corriere.it/) (nella foto: Daniele Del Giudice, foto ripresa da https://www.doppiozero.com/)

   Dedichiamo quest’anno la lettura di Natale, che tradizionalmente si fa da questo blog, all’opera di DANIELE DEL GIUDICE, scrittore veneziano (anche se nato a Roma, ma vissuto perlopiù a Venezia), autore che è scomparso all’età di 72 anni il 2 settembre scorso (2021) (con una vita funestata nei suoi ultimi 12 anni dalla malattia dell’Alzheimer). Una vita, la sua, di grandissimo livello letterario, come dimostra la lettura che vi proponiamo su un tristissimo episodio di cronaca.

   Molti sono i libri pubblicati da Daniele Del Giudice: forse il più famoso, il più letto (e che vi invitiamo a non mancare tra le vostre letture) è “Lo stadio di Wimbledon” (ed. Einaudi): racconta il viaggio-inchiesta di un giovane sulle tracce di un personaggio, di Trieste, realmente esistito, Bobi Bazlen, che, malgrado le sue grandi capacità letterarie, decise di non scrivere nulla, di non lasciare nulla ai suoi contemporanei e ai posteri (si descrive la sua «non scrittura» e il silenzio che caratterizzò la vita dell’intellettuale triestino).

   Ma qui vi presentiamo un racconto di grande pathos, tratto da un altro libro di Daniele Del Giudice. Il racconto qui proposto è dal libro “Staccando l’ombra da terra” (ed. Einaudi); è un capitolo dedicato alla tragedia di Ustica: l’aereo della compagnie Itavia, il “Dc9 I-Tigi”, partito da Bologna il 27 giugno del 1980 alle 8 di sera, e abbattuto un’ora dopo (alle 20.59) nel cielo di USTICA. Ottantuno (81) persone morte (77 passeggeri e 4 membri dell’equipaggio) sopra il braccio del mar Tirreno compreso tra le isole di PONZA e USTICA.

   Il volo era partito con due ore di ritardo da Bologna ed era diretto a Palermo. Doveva atterrare 15 minuti dopo le 21. Se ne sono invece perse le tracce sui radar poco prima delle 9 di quella sera. Si disse un cedimento strutturale, una bomba a bordo, i processi negli anni raccontano invece di una battaglia quella notte nei cieli italiani.

Il relitto del Dc9 ITAVIA all’interno del MUSEO PER LA MEMORIA DI USTICA di via Saliceto a BOLOGNA (foto da https://ilmanifesto.it/)

   L’ipotesi accertata dalla magistratura (il giudice Rosario Priore nel 1999) è che l’aereo di linea si sia trovato sulla linea di fuoco di un combattimento aereo in cui sarebbero stati coinvolti francesi, libici e statunitensi. Il volo Itavia sarebbe stato colpito per errore da un missile lanciato da un caccia Nato contro un Mig libico. Sull’aereo dello stato nordafricano ci sarebbe stato il leader libico Gheddafi e a lanciare il missile sarebbe stato un mirage francese…. Oppure il Dc-9 sarebbe stato colpito direttamente da uno dei velivoli in campo…. La scatola nera aveva registrato fino a quel momento dati regolari per il volo. La registrazione finisce con la parola Gua… che potrebbe essere «guarda», ma non ce ne è conferma. Una vicenda ancora oscura, mai del tutto chiarita. Sulla pelle di 81 persone vittime, e il dolore dei famigliari.

   Qui riprendiamo il capitolo (dal libro “Staccando l’ombra da terra”) su quell’aereo colpito e caduto a Ustica, di Daniele Del Giudice (che poi lo scrittore parteciperà al testo di una famosa pièce teatrale sulla strage di Ustica con Marco Paolini), rilevando il modo di scrivere attento, sensibile, intelligente, originale, dello scrittore, nel narrare una vicenda così dolorosa.

   “UNREPORTED INBOUND PALERMO” è l’espressione usata dal controllore di volo di Punta Raisi a Palermo per annunciare la perdita del contatto radio con l’ITAVIA 870 partito da Bologna un’ora prima, il 27 giugno del 1980, il “Dc9 I-Tigi” abbattuto nel cielo di USTICA.

   Buona lettura, e Buon Natale.

Associazione Geograficamente

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“UNREPORTED INBOUND PALERMO” di Daniele del Giudice (dal libro “Staccando l’ombra da terra” – ed. Einaudi)

   (Se qui ci fosse un capitolo su Ustica, dovrebbe essere la storia dell’aereo. Sarebbe la storia di un aeroplano finito in fondo al mare e riemerso dalle acque, una creatura di metallo inabissata e risorta, come in un racconto mitico, qualcosa fatto per l’aria e che finisce in acqua, l’acqua sarebbe peggio di ogni altra cosa, peggio che la terra o una montagna, stridente per contrasto, l’acqua fa più paura, tremila metri sotto il livello del mare, tremilasettecento, e poi dal mare risalito pezzo a pezzo, e ogni pezzo rimontato con cura attorno al simulacro, com’è chiamato il finto scheletro nell’hangar, l’ossatura di servizio cui ogni pezzo venne fatto aderire ricalcando la forma dell’aereo. Sarebbe una storia da intitolare I Tigi, come fossero un popolo antico o degli alberi secolari, e non dei pezzi di metallo sbriciolati e ricomposti. In aria, sul fondo del mare, infine a terra. E quando si riparte? «Bologna Ground, pronto per la messa in moto», «Itavia 870 autorizzato, temperatura 24, stop orario sull’ora. Avete l’ultimo bollettino?», e nel silenzio dell’hangar, la notte, si potrebbe ascoltare un lento gocciolio, come se il mare che per anni ha premuto le molecole di metallo, una volta a terra e all’asciutto, continuasse a uscirne, gocciolando, e l’aereo non smettesse mai di liberarsene. «Itavia 870, autorizzato a Palermo via Firenze, Ambra 13, salga e mantenga livello di volo 190. Ripeta e chiami pronto al decollo», I-TIGI, India Tango India Golf India, sarebbe il racconto in prima persona fatto dal metallo stesso, qualcosa che prima era un aereo, poi finì in fondo al mare e ne risorse, e fu di nuovo, dopo, un aereo, creatura metallica ricomposta; ma tra il suo essere aereo prima e aereo dopo non tutto torna, vengono meno un’ottantina di persone, tra passeggeri ed equipaggio. «Itavia 870, il decollo agli 8, cambi con Padova Informazioni», «Con Padova fin d’ora la 870, arrivederci Bologna», un evento che torna indietro riavvolgendo se stesso, quei filmati dove una bottiglia di latte esplode in mille pezzi schizzando il liquido denso e poi ogni scheggia ripercorre lo spazio e il tempo in senso inverso e riprende il suo posto, ricostruendosi, e anche il liquido, goccia a goccia, rifluisce nella bottiglia. Ma nel disfarsi e rifarsi dell’evento manca qualcosa, e mancherà per sempre. «Padova buonasera, è la 870», «Itavia 870, prosegua come autorizzato, richiami Firenze». A strascico, sul fondale, la telecamera sottomarina intuì cinque lettere dell’alfabeto, I-TIGI, dipinte in vernice nera sul ventre dell’ala sinistra, e non ci fu più dubbio, i Tigi erano lì, la coda quattro chilometri più avanti della cabina di pilotaggio. «Buonasera Roma, è l’Itavia 870», «Buonasera anche a lei, 870. Avanti», «La 870 è su Firenze, livello 160 in salita per 190. Stima Bolsena ai 34», «Itavia 870, ricevuto. Inserisca 1236 sul transponder. Autorizzato a Palermo via Bolsena, Puma, Latina, Ponza, Ambra13», «1236 arriva. Pronto per ulteriore salita la 870». «Itavia 870, contatto radar. Salga inizialmente al livello 230. Altro traffico di compagnia la precede, 6 miglia avanti, livello 250», «Roma, il traffico è in vista». I Tigi riposavano lì, poco distante da una nave romana carica di vetri, da un vascello con cannoni del diciassettesimo secolo, da un caccia Messerschmitt della seconda guerra mondiale, memorie della storia del trasporto, museo involontario in fondo al mare. «Itavia 870, accosti a destra, prua 170. Con traffico in vista autorizzato al livello di volo 290. Riassuma navigazione normale per Bolsena attraversando 260», «La 870 su per 290, lascia 190». Da principio l’eco del sonar disegnava sui plotter il contorno di masse magnetiche incerte, astratte, la cui probabilità veniva immaginata in alta media e bassa, probabilità che si trattasse di un oggetto di fabbricazione umana e non geologico; poi nella visione delle telecamere ogni pezzo divenne un obbiettivo numerato, e nell’istante, infine, in cui le gru lo deposero, colante acqua, sul ponte, la sua natura si stabilizzò in reperto. «Roma, la 870 attraversa 245 con traffico in vista, possiamo riaccostare a sinistra?» «Affermativo, Itavia 870. Prosegua per Bolsena». Ad est della rotta, poiché l’aereo si scompose di colpo verso est e così cadde in mare (non si crederebbe che anche in fondo al mare ci siano i riferimenti cardinali), vennero trovati i due motori, un quarto di miglio l’uno dall’altro, più ad est, un miglio, le ali e la fusoliera, ancora più in là, un miglio e mezzo, il timone di coda, due miglia più ad est la parte posteriore della fusoliera e uno spezzone dell’ala sinistra, staccatosi non nell’impatto ma per la fortissima accelerazione durante la caduta, ancora più a est un serbatoio arrivato da chissà dove, e poi, all’estremo, il terminale della fusoliera, gli ultimi sei finestrini di destra, gli ultimi sei di sinistra. «È la 870, buonasera Roma», «870 calling?», «Yes, good evening, this is 870 maintaining 290 over Puma», «Roger, 870, proceed Latina-Ponza». Tutto ciò che era indietro sarebbe finito avanti e viceversa, qualunque cosa li avesse precipitati in mare, i Tigi s’erano depositati sul fondo in ordine inverso a quello con cui volavano al momento, lungo un corridoio di quasi dieci chilometri di rottami. Ogni piccolo particolare era una deduzione, gli strumenti di bordo come i tappetini e la moquette, tranciata di netto all’altezza della quarta fila di sedili. Che ne sanno gli oggetti delle trame e delle azioni? Che ne sanno dei mandanti e degli esecutori, gli oggetti sono lì. Sarebbe la storia dell’aereo, perché l’aereo conosce la sua storia, quanti la conoscono al mondo?, in mancanza di parola sarebbe una storia di cose, storia di metallo, metallo offendente e metallo offeso, la fusoliera sa che cosa ha prodotto una frantumazione diseguale poco prima della coda, la pinna sinistra dello stabilizzatore di coda sa che cosa gli ha aperto un taglio a croce sul bordo, così come il ventre del flap destro conosce certamente che cosa lo ha perforato e la natura delle piccole biglie di ferro trovate dentro le lamiere scatolate, il portello laterale sa che cosa gli ha arricciato il rivestimento esterno (skin in inglese nella classificazione dei reperti, «pelle») verso il fuori, le rivettature strappate sanno se a strapparle è stata la velocità della caduta o la depressione di un boato. «È la 870, buonasera Roma», «Buonasera 870, mantenga livello 290, richiamerà sull’Ambra 13 Alpha», «Sì, senta, neanche Ponza funziona?», «Prego?», «Abbiamo trovato un cimitero stasera, da Firenze in poi praticamente non c’era un radiofaro funzionante», «In effetti è un po’ tutto fuori, compreso Ponza. Lei quanto ha in prua ora?», «Manteniamo 195», «Va bene, mantenga, andrà un po’ più giù di Ponza di qualche miglio», «Bene, grazie», «Comunque 195 potrà mantenerlo ancora una ventina di miglia e non di più, c’è molto vento da ovest, al suo livello dovrebbe essere di circa 100-120 nodi», «Sì, in effetti abbiamo fatto qualche calcolo, dovrebbe essere qualcosa del genere». La cornice della porta della toilette sa che cosa l’ha appiattita a quel modo, se un’onda d’urto quando l’aereo era ancora in volo o il timone di coda penetrando nella fusoliera al momento dell’impatto in mare e schiacciando tutto ciò che incontrava, il tappetino numero cinque sa che cosa lo ha strappato, ogni pezzo di metallo o plastica o tessuto sa quale altro oggetto, quale scheggia, e di che cosa, l’ha ridotto così. «È la 870, è possibile avere… 250 di livello?», «Affermativo, può scendere anche adesso», «Grazie, lasciamo 290». I Tigi non tornarono su tutti insieme ma in più riprese a distanza d’anni (nel frattempo i pezzi rimasti laggiù si saranno sentiti abbandonati?), prima la cabina di pilotaggio fusa col carrello anteriore, l’ala destra, il reattore sinistro, elementi della fusoliera, il portellone di servizio anteriore, alcune paratie del vano bagagli, il voice recorder, sedili, salvagenti, frammenti minuti e piccolissimi. Così l’aereo nell’hangar si ricreò nel tempo, si aprivano le casse a mano a mano che arrivavano, si disponevano i pezzi sul cemento, si procedeva al riconoscimento dei reperti, si montava il grosso tronco di coda sui ponteggi, per la fusoliera si cominciava con le ordinate e i correntini della struttura, come la prima volta in fabbrica, «L’Itavia 870 diciamo che ha lasciato Ponza tre miglia sulla destra, quindi, quasi quasi, per Palermo va bene così», «Molto gentile, grazie, siamo prossimi a 250», «Perfetto 870, in ogni caso avverta appena riceve Palermo VOR», «Sì, Papa Alfa Lima lo abbiamo già inserito e va bene. E abbiamo il DME di Ponza», «Perfetto, allora normale navigazione per Palermo. Mantenga 250, richiamerà sull’Alfa». Chissà quali emozioni avranno dovuto trattenere quelli che facevano quel lavoro (e quale modesto conforto sarà stato  il pensare che il lavoro è lavoro, o che in qualche modo lavoravano ‘per la verità’), ogni reperto aveva un cartellino, i manuali di manutenzione e i piani di costruzione aiutavano a ricollocarlo dove avrebbe dovuto essere, e con quel cartellino, all’inizio, ogni pezzo pendeva dall’intelaiatura accanto ai vuoti di quelli che mancavano, e a mano a mano che l’aereo riprendeva corpo si vedeva cosa mancava e cosa c’era, e dove era più distrutto e dove meno, l’aereo cominciava a farsi leggere come un testo frammentario, ogni pezzo si offriva al racconto di una possibilità dell’accaduto, la fiancata destra molto più sofferente della sinistra, il metallo non era arrugginito nemmeno nelle fratture, i colori di compagnie sembravano freschi, c’erano ancora le macchie nere degli scarichi dei motori; solo che ogni pezzo non combaciava più con gli altri, proprio perché manteneva la propria storia ossia la propria deformazione. «È sull’Alpha la 870», «Affermativo, leggermente spostato sulla destra, diciamo… quattro miglia. Comunque il servizio radar termina qui. Chiamate Roma Aerovie sulla 128.8 per ulteriori», «Grazie di tutto, buonasera», «Buonasera a lei, 870». E al ricombaciare dei pezzi, al loro ritrovarsi dopo anni e miglia di distanza e di separatezza, il colpo d’occhio non restituiva immediatamente l’accaduto, anche se ogni parte ne conservava la memoria, perché l’aereo così com’era adesso non è com’era in fondo al mare, e su quel disporsi, sulla mappa dei relitti in mare, cominciava la lettura e l’interpretazione, l’aereo s’era spezzato in volo, e ogni pezzo aveva proseguito la propria personale parabola da venticinquemila piedi a zero, oppure era sceso a motori spenti lacerandosi all’impatto, ed era l’impatto e solo quello ad aver prodotto ogni specifica ferita, e le correnti in aria e le correnti in mare ad aver prodotto la deriva. «Roma, buonasera, è l’Itavia 870», «Buonasera Itavia 870, avanti», «Centoquindici miglia per Papa Romeo Sierra, mantiene 250», «Ricevuto Itavia 870, può darci uno stimato per Raisi?», «Raisi lo stimiamo intorno ai 13», «870 ricevuto, autorizzati a Raisi VOR, nessun ritardo è previsto. Ci richiami per la discesa», «Per Raisi nessun ritardo, richiameremo alla discesa», «È corretto». Forse per una questione di rispetto i sedili non vennero mai rimontati, l’interno dell’aereo era un tavolato disposto sull’intelaiatura del pavimento originale, per quanto s’era potuto ricostruire, sul quale era appoggiata la moquette, e sopra il tutto un tunnel costituito dalla fusoliera, sfondata all’aperto davanti e dietro. «Itavia 870, quando pronti, autorizzati a 110. Richiamate lasciando 250 e attraversando 150… Itavia 870?». Ogni tanto, nell’hangar, i parenti si riunivano intorno ai Tigi per testimoniare il loro dolore o per testimoniare le azioni intraprese per ottenere giustizia e conoscenza della verità, e in quelle occasioni i Tigi, dopo essere stati un volo di linea, dopo essersi dispersi come relitti, poi ripescati e rimontati in forma d’aereo, diventavano un monumento funebre; per chi avesse osservato senza conoscere la storia, per chi avesse visto quelle povere persone raccolte in un hangar attorno a un aeroplano in pezzi, sarebbe stata un’immagine così dolorosa, così incomprensibile, e in quelle occasioni dentro l’aereo, a camminare sul tavolato, c’erano non più i periti, ma carabinieri, autorità e qualche fotografo. «Itavia 870, ricevete?… ». Col tempo arrivarono anche gli ultimi pezzi, l’ultimo frammento di correntino, l’ultimo pezzo stringheri, l’ultimo brano di rivestimento rivettato, i Tigi furono quasi completamente riuniti, quasi. E quando si riparte? «Itavia 870, qui è Roma, ricevete?…» Venne alla luce il flight recorder, e l’ultimo dei giubbetti salvagente, e l’ultima delle mascherine dell’ossigeno, e il telaio della porta anteriore con un finestrino della cabina piloti, e una pompa carburante, e un longherone con rivestimento e rivetti, e un seggiolino, e un portello con maniglia circolare, «Itavia 870, Roma…? Itavia 870, qui è Roma, ricevete?…», e una scatola elettrica, e tre tubi oleodinamici, e una condotta schiacciata, un elemento di strumentazione, un martinetto con molla, un seggiolino con cintura, «Itavia 870, ricevete?…Itavia 870, qui è Roma, ricevete?…», un pezzo di lamiera celeste con strumento, e un pezzo d’ala con valvole e tubi, e una scatola nera elettrica/elettronica, un oblò di plexiglas, un pezzo di struttura della fusoliera con targhetta ‘Douglas’, e uno scatolato nero con attacco di condotta, e un contenitore grigio verde con attacchi elettrici, «Air Malta 758, this is Rome control», «Rome go ahed», «Air Malta 758, please, try to call for us, try to call for us Itavia 870, please», «Roger, sir… Itavia 870… Itavia 870, this is Air Malta charter 758, do you read?… Itavia 870… Itavia 870, this is Air Malta charter 758. Do you read?… do you read?… Rome, negative contact with Itavia 870», altri due finestrini con l’apertura del portello d’emergenza, la targhetta dell’insegna luminosa ‘emergency exit’, un ultimo pezzetto di fusoliera con pittura rossa, un’altra parte di fusoliera bianca con l’interno celeste ripiegato sulla parte esterna bianca, un trasformatore bruciato con cavo, un frammento della deicing line, alcuni fogli del manuale operativo, un pezzo del rivestimento esterno abraso per frizione, uno strumento senza più il quadrante, «Itavia 870, Itavia 870 this is Rome control, do you read?… Itavia 870, Itavia 870, Rome control, do you read?… », un elevatore con scaricatore statico, un pezzo di condotta di ventilazione ad Y, un finestrino della fusoliera, un telaio per supporto carrucole, la scaletta posteriore, parte terminale dell’ala sinistra, un pannello divisorio bianco, una cassetta elettrica con sportellino, ordinate e correntini, il galley, cioè il cucinino, un frammento di fusoliera con valvola di scarico per WC, un ‘toilette seat’, «Air Malta, this is Rome», «Rome go ahead, this is Air Malta», «Ok, sir, we have Itavia 870 unreported inbound Palermo, please, please try to call for us Itavia 870, try to call for us Itavia 870», «Alitalia 870?», «Itavia, sir, Itavia, Itavia 870», «Roger… Itavia 870, Itavia 870 this is Air Malta. Do you read?… Itavia 870, do you read?… Do you read?… »)

(DANIELE DEL GIUDICE)

Do you read?

(mi ricevete?) (in inglese aereonautico)                                                                

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Unreported (“non comunicato”)

Inbound  (“in entrata”)

“UNREPORTED INBOUND PALERMO” è l’espressione usata dal controllore di volo di Punta Raisi a Palermo per annunciare la perdita del contatto radio con l’ITAVIA 870 partito da Bologna un’ora prima, il 27 giugno del 1980, il “Dc9 I-Tigi” abbattuto nel cielo di USTICA. Ottantauno (81) persone morte (77 passeggeri e 4 membri dell’equipaggio) nell’abbattimento dell’aereo avvenuto alle 20:59 del 27 giugno 1980 sopra il braccio del mar Tirreno compreso tra le isole di PONZA e USTICA

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L’ULTIMO MESSAGGIO DEL PILOTA AI PASSEGGERI DEL DC9

da https://www.stragi80.it/

   27 giugno 1980, il Dc9 I-Tigi della compagnia Itavia, con a bordo 77 passeggeri e 4 membri dell’equipaggio, ha appena sorvolato l’isola di Ponza. Percorre l’aerovia Ambra 13, verso Palermo Punta Raisi, l’atterraggio è stimato alle 21.13. I due assistenti di volo, Continua a leggere