Abitare in ghetti: il malessere dei quartieri periferici delle nostre città, tra nuovi inserimenti di immigrati, caos di integrazione e paura di perdita di identità – Il caso di VIA PADOVA A MILANO – Come superare i ghetti (la società civile -tutti noi “mediatori”- che deve aiutare le istituzioni)

Immagine della sera del 13 febbraio scorso, a Milano in Via Padova, dopo l’uccisione di Abdel Aziz El Sayed, ragazzo egiziano di 19 anni - POLVERIERA. Il capo della squadra mobile di Milano Alessandro Giuliano ha definito Via Padova in conferenza stampa "una polveriera". 101 dei 436 negozi che si affacciano sulla strada sono gestiti da immigrati, e nel 2009 il valore degli immobili dell'area è sceso di due punti percentuali. Dei 138.178 abitanti della cosiddetta zona 2, di cui via Padova fa parte, il 17,7% è straniero. Il 13% vive proprio nella lunga arteria che collega piazzale Loreto all'estrema periferia cittadina. (…) "Non possiamo uscire dopo le 8 di sera. Qui c'è un coprifuoco per reali ragioni di sicurezza. La 56 (l'unico bus che percorre la via) è un Bronx", dice Liliana, un'impiegata che vive in via Padova da 50 anni. Ma anche tra gli stranieri regolari c'è chi protesta, e non ci sta a passare per delinquente: "Provate a venire qui alle 6 del mattino e vedrete quante persone escono di casa per andare al lavoro: è un formicaio", spiega Hussein, tunisno, in Italia dagli anni 90. (da http://www.reuters.it del 14/2/2010)

Il pericolo “banlieu francese”, cioè fenomeni degenerativi di scontri che hanno interessato Parigi (ma non solo) in questi anni, è venuto in mente a molti (è stato risollevato) quando il 13 e il 14 febbraio scorso in Via Padova a Milano ci sono stati duri scontri tra immigrati dopo l’uccisione di un ragazzo egiziano per banali motivi.

A prescindere dai gravissimi e dolorosi fatti di Milano, per parlare qui di convivenza e di come evitare i ghetti e mettere in atto processi virtuosi di integrazione, per un volta ci permettiamo di prenderla un po’ “alla larga”. Facendo delle simulazioni. Due.

1 – Se abitate in un condominio, o in una situazione di vicinato con altre persone, può capitare che vi siano condizioni di tensione con i vostri vicini di casa o di appartamento. E la vostra reazione può anche essere proporzionata al grado di rapporto che avete con essi. Se la ragazzina del piano di sopra suona il pianoforte e vi sveglia irruentemente da un sonno pomeridiano, se la conoscete e appartiene ad amici di famiglia (la avete vista nascere, viene a trovarvi e vi racconta della scuola, etc.), ebbene il vostro atteggiamento sarà sicuramente benevolo, e vi preoccuperete che si eserciti bene al piano, e passi gli esami per l’ammissione al conservatorio. Se invece la ragazzina è di una famiglia con la quale siete in lite, che non vi salutate nemmeno, allora vi incazzerete fortemente di essere svegliati dal suono del pianoforte. Continuiamo nelle simulazioni con un altro esempio.

2 – Se il vicino di appartamento ogni tanto organizza delle feste e c’è un caos di rumore e di musica fino a notte fonda che vi impedisce di dormire, se è un italiano, un vostro conterraneo, andate a bussare, vi incazzate, gli dite (magari usando parole del più stretto dei dialetti…) di smettere. Se invece trattasi di una famiglia extracomunitaria, non c’è solo l’arrabbiatura totale e l’andare a protestare duramente, ma penserete che c’è incompatibità tra voi e “loro”, di “modi di vita” tra voi e “questi” che vengono da chissà dove: cioè nasce lo SCONTRO ETNICO per la stessa cosa (la sconveniente musica ad alto volume da voi subita per un loro festa tra amici).

La percezione del rapporto insediativo, di abitazione, di vita contermine tra stranieri e “indigeni”, e la reazione che si crea, è sempre elemento di maggiore difficoltà, anche nelle ipotesi date da armonia e volontà di superare ogni evenienza negativa. Da questo la necessità, per famiglie immigrate che non conoscono le regole “nostre”, di mediatori in grado di insegnare loro un’  “educazione all’abitare” che magari ben volentieri vogliono apprendere. Ma le tensioni possono sempre sorgere lo stesso.

I fatti di Milano di Via Padova del febbraio scorso hanno innescato una serie di positive proposte di soluzione del problema “ghetti”, cioè di quando la “presenza immigrata” in un quartiere è eccessiva e si crea uno squilibrio; e di come integrare il “nuovo mondo” di persone che si affacciano a noi in condizioni abitative tali da non creare, appunto, dei ghetti, dove loro si insediano.

La vera differenziazione che attualmente c’è (e noi tentiamo qui di seguito di metterla in rilievo) non è tanto tra destra, sinistra, Lega eccetera, ma su come affrontare il fenomeno della “clandestinità”. Cioè, se tutti sono d’accordo che dobbiamo agire, trovare strumenti, per evitare i ghetti che spontaneamente si stanno creando (un condominio dove si insedia una famiglia di cinesi, può accadere che a poco a poco diventi un condominio di soli cinesi… strano, pazzesco, ma inoppugnabile…), le posizioni si differenziano molto sul problema della clandestinità. Pertanto siamo tutti d’accordo che non deve accadere che gli immigrati si isolino; dobbiamo far sì che siano “sparsi” nella città, con diritti e doveri tali e quali ai nostri (poi c’è chi va loro incontro, magari organizzando feste di quartiere e possibilità di amicizia e scambio, e chi non ne vuole sapere, ma questo è un altro problema….); ma sulla clandestinità la cosa diventa più complessa.

Milano, RIVOLTA in via Padova…. disordini scoppiati il 13 febbraio scorso a Milano in seguito all'omicidio di un giovane egiziano… scontri che hanno messo a ferro e fuoco via Padova, una lunga arteria nella periferia nord- est del capoluogo lombardo, dove la presenza di immigrati è molto alta. A scatenare la rivolta, durante la quale sono state rovesciate automobili e spaccate vetrine, è stata la morte del giovane egiziano 19enne Hamed Mamoud El Fayed Adou, accoltellato intorno alle 18 da un gruppo di sudamericani dopo una lite scoppiata su un bus per futili motivi. In seguito all'omicidio, circa 300 nordafricani sono scesi in strada… La situazione è degenerata e un centinaio di immigrati hanno iniziato a compiere atti di vandalismo

Ai ”duri” che dicono che i clandestini vanno cacciati, gli altri fanno capire che finora non ha funzionato questo atteggiamento; e che a “scegliere” di far entrare clandestini molto spesso è il mercato del lavoro, in modo soft, spontaneo (pensiamo a tutta la questione “badanti”, persone irregolari ma assai richieste). E che la clandestinità si alimenta della necessità delle nuove forme di lavoro spesso di bassa qualità e sempre sottopagato, in concorrenza spietata (nell’edilizia, nei servizi…), dove appunto i cosiddetti clandestini sono “necessari”. Insomma sono questioni, a– il rifiuto dei ghetti e la convivenza in una società multietnica, e b– l’atteggiamento verso la clandestinità (decisa o rifiutata non dalla politica ma dal mercato del lavoro), sulle quali dobbiamo trovare strumenti più idonei di soluzione, rispetto a tentazioni emotive, buone o cattive che siano.

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“E ORA FACCIAMO I QUARTIERI MISTI”

da “IL GIORNALE” del 17/2/2010, di Antonio Ruzzo – intervista a Roberto Formigoni, governatore della Lombardia «Serve una distribuzione più equa degli immigrati nella città. Solo così si evitano ghetti abitati solo da stranieri e si aiuta la convivenza tra le diverse culture»

Milano «Solo in Via Padova poteva succedere quello che è successo». Roberto Formigoni non ha dubbi: quartieri come quello alla periferia nordest di Milano messo (il 13-14 febbraio scorso, ndr) a ferro e fuoco in una guerra tra bande di immigrati, sono polveriere pronte ad esplodere. Nel suo progetto di città multietnica gli stranieri che rispettano le leggi e vogliono integrarsi vanno integrati, ma bisogna dar loro una mano.

Servirebbe la bacchetta magica…

«Non è necessaria, mi creda. Serve un piano e una politica che porti a pensare ad una distribuzione più equa degli immigrati nelle città. Perché dove le concentrazioni di stranieri sono eccessive sono tutti a disagio: gli italiani e loro stessi».

Questo cosa significa. Mettere un tetto alle concentrazioni etniche o fissare quote per nazionalità agli affittuari?

«Chiariamo subito che i metodi coercitivi sono fandonie. Bisogna creare dei quartieri mix, dove possano convivere piccole comunità di nazionalità diverse e non ghetti abitati solo da nordafricani, sudamericani o cinesi. Chi arriva da noi deve capire che siamo pronti ad accoglierli in ogni zona di una città. E in questa direzione devono muoversi le istituzioni, le parrocchie, le associazioni per fare opera di convincimento. Se il numero degli stranieri viene distribuito in modo più equo è più semplice che diverse culture si sopportino e non si creano tensioni e zone franche».

Gli incentivi per convincere gli stranieri ad uscire dai quartieri ad alta densità multietnica potrebbero essere un idea?

«Sono un’ottima idea, una delle tante che potrebbero essere applicate. Ma ripeto, l’obbiettivo è quello di decongestionare certe zone ad alta intensità di immigrazione e tutto ciò che va in quella direzione si deve prendere in considerazione. Stiamo studiando, anche se va detto che questa non è una operazione che può essere fatta dall’oggi al domani».

Nel frattempo non ha paura che nelle periferie milanesi possa succedere quello che è successo nelle banlieu di Parigi?

«Assolutamente no. Via Padova è stato un caso isolato, non preventivabile. Per una lite da poco è stato ucciso un ragazzo e quel raptus ha scatenato una reazione imprevedibile. Certo, lì la situazione è difficile, la più difficile della città. Ma a Milano non ci sono altre via Padova come continuano a sostenere certi “corvacci”. Il modello francese e anglosassone ha fallito, da noi il numero di immigrati che hanno raggiunto un buon livello di integrazione continua a crescere. In Lombardia ci sono 1 milione e 100mila stranieri, un quarto del Paese, e sono fondamentali perle nostre imprese, il nostro tessuto sociale. Il 22 per cento è proprietario di casa, molti sono piccoli imprenditori e negli ultimi otto anni sono raddoppiate le degenze negli ospedali che è un altro segno di accoglienza».

Però invia Padova il numero di clandestini è altissimo. La Lega voleva andare a cercarli casa per casa, poi Bossi e il ministro Maroni hanno ordinato a Salvini il dietrofront.

«Per carità, non scherziamo. I clandestini sono un grandissimo problema che va affrontato senza esitazioni ma senza fare propaganda. Danneggiano tutti, vivono in condizioni disastrose e creano tensioni fortissime che poi esplodono come in via Padova…».

Il ministro del Welfare Maurizio Sacconi sta mettendo a punto un «patto» pervenire incontro agli immigrati: chi rispetta le regole e la nostra identità va aiutato. Che ne pensa?

«Penso che sia la strada giusta, l’unica percorribile. Lo scatto in avanti si fa solo così, con un’assunzione di responsabilità da parte nostra e da parte di chi arriva nel nostro Paese con l’animo giusto. Bisogna diffondere educazione, cultura, formazione a chi sta ai patti. È già il modello lombardo». (…)

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IL GHETTO MULTIETNICO DI MILANO

COME SI DIFENDE UN QUARTIERE

di Angelo Panebianco, da “Il Corriere della Sera” del 16/2/2010

Lo scontro interetnico di via Padova a Milano ha portato nuove sofferenze a due categorie di persone, del tutto incolpevoli: i vecchi abitanti della zona e gli immigrati che vorrebbero lavorare in pace. Gli italiani di via Padova, esasperati, e impossibilitati ad andarsene (anche, probabilmente, in molti casi, a causa del deprezzamento subito dai loro alloggi), denunciano le condizioni di degrado e la mancanza di sicurezza.

Ma anche gli immigrati che lavorano hanno la loro pesante dose di disagi. Non sono, presumibilmente, leghisti quegli immigrati che a Gianni Santucci (sul Corriere di ieri) dicevano: «A distruggere le vetrine c’erano troppe facce che vedo in giro a non far niente tutto il giorno» oppure «Devono prenderli e mandarli a casa».

Ci sono in gioco due questioni, difficili da gestire.  La prima riguarda la clandestinità, la sua frequente connessione con attività criminali, nonché il ruolo di primo piano che i clandestini svolgono sempre nelle rivolte urbane. La seconda riguarda la formazione di ghetti multietnici all’interno delle città. Come ha scritto Isabella Bossi Fedrigotti, sempre sul Corriere di ieri, ciò che è successo in via Padova può accadere in altri quartieri di Milano e in tante altre città.

Combattere l`immigrazione clandestina è difficilissimo. Ma lo è ancora di più se tanti operatori, religiosi e settori di opinione pubblica mostrano un’indulgenza che sfiora la complicità verso il fenomeno. Come è fin qui accaduto.

Che senso ha, in nome di una sciatta e del tutto ideologica «difesa degli ultimi», disinteressarsi delle gravissime conseguenze che la clandestinità porta con sè e che sono destinate a pesare sia sugli italiani che sugli immigrati regolari? Le probabilità di scontri etnici, quanto meno, diminuiscono se la clandestinità viene arginata e i facinorosi allontanati. E migliora, per tutti, la vivibilità dei quartieri.

La seconda questione riguarda la formazione di ghetti multietnici. E’ un problema ancora più difficile da risolvere di quello della clandestinità. A causa del fatto che i ghetti si formano quasi sempre in modo spontaneo, seguendo dinamiche che sono proprie del mercato (degli alloggi). Il ministro degli Interni Roberto Maroni, nella sua intervista al Corriere di ieri, ha detto cose responsabili e condivisibili. Ma ha forse sopravvalutato la possibilità di impedire per il futuro eccessi di concentrazioni etniche nelle aree urbane. l ghetti si formano perché l`afflusso di immigrati spinge le persone che temono un deprezzamento eccessivo della loro proprietà a vendere. E quando il deprezzamento è compiuto, il quartiere si riempie di immigrati poveri. E’ difficile bloccare questi processi.

In un bel film che circola in questi giorni nelle sale, “An education”, due allegri mascalzoni sbarcano il lunario prendendo in affitto appartamenti in quartieri di soli bianchi e poi subaffittandoli a famiglie di colore. Le vecchine del quartiere si spaventano, svendono di corsa case e mobilio. E i due mascalzoni arraffano tutto l’arraffabile.

Forse, consistenti sostegni economici alle persone che, a causa del flusso immigratorio, vedono deprezzate proprietà ed esercizi commerciali, servirebbero di più che non tentativi di pianificazione nella distribuzione urbana dei vari gruppi etnici. Alleviando il danno, ciò forse contribuirebbe anche a ridurre il rancore verso gli immigrati.

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Normative tra fare e disfare

L’ETERNO CANTIERE IMMIGRAZIONE

di Guido Bolaffi, da “Il Sole 24ore” del 16/12/2009

Sull’immigrazione la politica italiana continua a scherzare col fuoco. A fronte di un fenomeno complicato ed in veloce, sistematica evoluzione, le sue dispute interne sembrano condannarla al lavoro di Sisifo. Ricomincia sempre da capo. Come se tempo e memoria non fossero vincoli ma banali optional dai quali si può prescindere senza pagare pegno. Prendiamo, ad esempio, la questione relativa alla creazione di un ministero ad hoc dell’immigrazione e quella del diritto di voto agli stranieri.

Partiamo dal primo. L’onorevole Briguglio, parlamentare di maggioranza, ha sostenuto la necessità di un cambiamento grazie all’istituzione di un nuovo dicastero dell’immigrazione con l’attribuzione delle relative deleghe oggi in capo al ministero degli Interni. In sè niente di male. Salvo spacciarla come una novità. Sono passati vent’anni da quando, all’atto della conversione in legge del decreto Martelli del 1989, il problema fu posto per la prima volta senza da allora, essere mai stato risolto. Un tempo addirittura siderale se si considera che all’epoca gli immigrati in Italia erano poche centinaia di migliaia e non gli oltre 4 milioni di oggi. Ed Internet ancora non esisteva.

Con l’aggravante di obbligare l`amministrazione ad un ennesimo, costoso trasloco di uomini, mezzi e competenze a pochi mesi da quello fatto – ma nella direzione opposta – dalla compagine governativa di centrosinistra, che ha trasferito la responsabilità dell’immigrazione dal Welfare al Viminale.

Stesso discorso per quanto riguarda il diritto di voto. Che è tanto auspicabile quanto ineluttabile. Ma il problema non è questo. Il punto è che non riusciamo a darci ragione di un’amnesia che appare inspiegabile.

Come non ricordare, infatti, che nel 1998, all’atto del voto sulla legge Turco-Napolitano, l’opposizione aveva scambiato la sua rinuncia al filibustering parlamentare con lo stralcio, da parte del governo, dell’articolo relativo al diritto di voto amministrativo per gli immigrati. L’intesa era che se ne sarebbe discusso un minuto dopo il varo, poi avvenuto, della norma sul voto degli italiani all’estero.

Perché non tenere conto di quanto già fatto in Parlamento? Il tema delle partecipazione elettorale amministrativa degli stranieri era tra l’altro già contenuto nella “Convenzione di Strasburgo” del 1994 firmata dall’Italia, con l`eccezione di questo punto specifico. Basterebbe, come è già avvenuto per tutti gli altri capitoli di quella Convenzione, decidersi a recepire anche questo suo ultimo capitolo nel nostro ordinamento interno.

Sull’immigrazione l’Italia vive, e non da oggi, in una sorta di permanente stato febbrile che cerca di curare sfornando provvedimenti di legge come nessun altro al mondo. Basta leggere per credere: 1986, legge n.943;1989, legge Martelli; 1992, legge Boniver,1993, legge Conso; 1993, decreto legge sul lavoro stagionale; 1996, legge Dini;1998, legge Turco-Napolitano; 2001, legge Bossi-Fini Last but not least il provvedimento sull’ordine pubblico con l’introduzione del reato di clandestinità. Tutto si fa ad hores. La ragione? Che nessuno ha ancora trovato il coraggio e la lungimiranza di dire basta al suo uso improprio come arma per regolare i conti politici. Con i nemici e con gli amici.

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I SUPER DOVERI DEGLI IMMIGRATI

di Giovanna Zincone, da “La Stampa” del 8/2/2010

La cittadinanza dell`Ue e quelle dei singoli Paesi membri seguono due logiche antitetiche. Il permesso di soggiorno a punti rischia di imitare quella sbagliata. Vediamo perché.

L`Ue, in quanto figlia non troppo degenere della Comunità economica, adotta una cittadinanza che segue la logica della libera circolazione: incentiva le persone a muoversi dove ci sono più opportunità. La cittadinanza nazionale segue la tradizionale logica dello stato-nazione: pretende comunanza di cultura e di lingua, incentiva le persone a radicarsi sul territorio.

Per diventare cittadino europeo basta avere la nazionalità di uno dei Paesi membri, poi si va e si lavora dove si vuole. Non si chiede ai cittadini comunitari di conoscere la lingua, la cultura, le istituzioni dei paesi dell`Unione in cui emigrano. Al contrario, le singole cittadinanze nazionali chiedono assimilazione, vogliono e inducono stabilità. Per naturalizzarsi occorre essere lungo-residenti, oppure essere nati sul territorio, o avervi studiato per un po` di anni. L`europeo è invitato ad andare negli altri Paesi dell`Unione senza vincoli, mentre il non comunitario che vuole diventare cittadino del singolo Paese deve restare fermo e assimilarsi.

La differenza è comprensibile. Per concedere un diritto che segna l`appartenenza ad una comunità civile lo Stato chiede garanzie. Non vuole dare un titolo importante a chi stia lì quasi per caso, deve capire se chi vuole entrare nel club fa sul serio, anche se alcuni segnali di questo “fare sul serio” variano. Oggi nell’Unione il requisito della residenza va dal minimo di 3 anni in Belgio al massimo di 12 in Grecia (ma quel governo intende ridurlo a 5 anni). Per gli altri segnali di integrazione stiamo assistendo, invece, ad un trend convergente. In quasi tutti i Paesi europei una certa conoscenza della lingua è sempre stata valutata quando si trattava di concedere la naturalizzazione, ma per lo più non si chiedevano prove formali. Da quando, nel 1999, la Germania ha inserito per legge la conoscenza del tedesco, molti paesi hanno seguito il suo esempio. Poi sono arrivati i test di integrazione, introdotti in Gran Bretagna nel 2002. Anche i test hanno attecchito alla grande, e servono non solo a valutare la competenza linguistica, ma anche la conoscenza della cultura, della storia, della vita civile del Paese di immigrazione. Per fornire le conoscenze ritenute necessarie si sono allestiti corsi di integrazione: ad aprire la pista in questo caso è stata l’Olanda, e di lì i corsi si sono diffusi a macchia d’olio. L’asticella da superare per diventare cittadino si è talvolta abbassata sui tempi, ma si è alzata per le prove di integrazione. Alcuni esperti considerano queste richieste eccessive e inutili: se un individuo se la cava a vivere e a lavorare senza conoscere bene una lingua, se la può cavare altrettanto bene a votare, una volta che sia stato promosso a cittadino.

D`altronde i regimi democratici, con il suffragio universale, hanno concesso la cittadinanza politica anche agli analfabeti. Quanto al caso italiano, fin troppi commentatori hanno già osservato che si pretende dai nuovi cittadini una cultura pubblica che non dimostrano di avere neppure molti parlamentari. Ma questi argomenti funzionano solo se vogliamo continuare ad accontentarci di una democrazia scadente.

Altrimenti, proprio dai requisiti che imponiamo agli immigrati perché vogliamo nuovi cittadini competenti, dovremmo prendere spunto per chiedere altrettanto ai nostri concittadini per diritto ereditario. Anziché abbassare l`asticella per gli stranieri, dovremmo saltare tutti un po` più in alto. Questo implica prendere molto più sul serio l`educazione civica, proporre palinsesti radiotelevisivi appetibili ed eticamente intensi.

L`esigente approccio nei confronti dei nuovi cittadini potrebbe offrire uno spunto per chiedere maggiore competenza ai candidati alle elezioni di ogni ordine e grado. Si tratterebbe sia di ristabilire un cursus honorum, una carriera basata sull`apprendimento graduale, sia di restituire ai partiti quella funzione di educatori civili che svolgevano utilmente in passato. Ma se la severità nelle richieste che facciamo ai nuovi cittadini può essere utile per costruire una democrazia più adulta, non si capisce invece a cosa servano pretese di assimilazione rivolte a chi è qui solo per lavorare.

È sensato imporre una buona conoscenza della cultura storica e civica, dei meccanismi del welfare del nostro Paese anche a chi non intende radicarsi e non vuole diventare cittadino? Lo si è già fatto con il pacchetto sicurezza per la concessione della carta di soggiorno, che si può ottenere dopo 5 anni di residenza regolare, adesso pare che lingua e cultura diventino una condizione per restare a lavorare in Italia dopo un tempo di residenza anche più breve.

Ma se uno straniero investe tanto per imparare lingua e cultura del luogo, sarà poi riluttante a spostarsi altrove, a tornare in patria. Il suo progetto iniziale, magari a breve termine, si trasformerà in un progetto stanziale a lungo termine. Se si può accettare la sfasatura tra una cittadinanza europea mobile, concepita in una logica economica, e una cittadinanza nazionale stanziale, concepita in una logica da stato-nazione, non si capisce perché calare la cappa della logica statuale anche ai permessi di soggiorno per motivi di lavoro. Perché imporre ai lavoratori stranieri l`obbligo di assimilarsi? Non ci basta che rispettino le nostre leggi e i valori portanti delle nostre democrazie? Meraviglia che forze politiche convinte dei benefici di un`immigrazione circolare, fluida, si adoperino per spingere gli immigrati a diventare stanziali.

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Sui fatti di Milano

CITTADINI OSTAGGIO DELLA BANLIEU

da “La Nuova Venezia” del 15/2/2010

MILANO. Ieri, a poco più di 24 ore dalla rivolta della comunità nordafricana di via Padova, a Milano, dove sabato è stato assassinato un giovane egiziano, la calma era ancora lontana dall’essere ristabilita. Finiti gli scontri, la tensione è rimasta alta, e ad essa si sono aggiunte le inevitabili polemiche politiche mentre decine di pattuglie blindavano il quartiere.

La polizia intanto cerca di individuare i responsabili del delitto, che dovrebbero essere cinque o sei giovani sudamericani, già noti come facenti parte di una gang chiamata «Chicago», nata da una costola dei più noti «Latin King», che si riunisce nel vicino Parco Trotter e in un palazzo nella stessa via dove abitava la vittima, Abdel Aziz El Sayed, imbianchino di 19 anni, regolare ma in attesa da quasi un anno del rinnovo del permesso di soggiorno.

Alla base della lite poi degenerata nel delitto, secondo testimonianze, ci sarebbero degli apprezzamenti fatti alla fidanzata dell’ucciso, una giovane italiana. Mentre l’egiziano scampato all’aggressione, il principale testimone, si troverebbe nel Cie di via Corelli per essere protetto. Intanto, polizia e carabinieri hanno comunicato di aver fermato i primi quattro presunti responsabili dei vandalismi di sabato. Nel corso dei tafferugli sono state ribaltate 9 auto, 17 quelle danneggiate e 5 negozi latino-americani hanno subito atti di vandalismo.

Gli stranieri accompagnati in Questura dopo che la situazione era tornata alla normalità sono stati 37, tutti egiziani tranne un ivoriano (uno degli aggrediti). Ventitré di essi sono risultati regolari e dei rimanenti irregolari, quattro sono stati fermati con l’accusa di «devastazione e saccheggio». Si tratta di quattro egiziani, due di 27 anni, uno di 19 e uno di 32. I fermi, che adesso dovranno essere convalidati, sono stati eseguiti da Digos e Nucleo informativo dei Carabinieri, mentre le indagini sull’omicidio sono condotte dalla Squadra Mobile.

Da più parti si è gridato al «quartiere polveriera multietnica» anche se gli investigatori non concordano. Il Nucleo informativo, ad esempio, valuta l’accaduto più come una reazione emotiva e sottolinea che dei 2-300 magrebini che sabato hanno animato la protesta, i più facinorosi erano solo una ventina. Ma la reazione delle forze dell’ordine schierate, a molti abitanti, è parsa tardiva. «Questi spaccavano tutto e loro rimanevano fermi», urla un negoziante straniero.

E le polemiche non sono tardate ad arrivare, con il sindaco Letizia Moratti che ha promesso più uomini e i sindacati di polizia che fanno notare che «queste promesse si succedono ogni volta che accade qualcosa ma le risorse sono state tagliate». «Hanno riempito di telecamere la città – dice un pasticcere – ma qui ce ne sono meno che in tutte le altre parti. Ma non era un quartiere a rischio? E i controlli nei negozi chi li deve fare?». «Ci hanno mandato i soldati – ha detto un anziano – che non sanno nemmeno cosa fare». «In pochi anni sono arrivati decine di migliaia di stranieri – ha replicato il vice sindaco – con 44 mila clandestini. Numeri difficili da gestire, anche se Milano è ben lontana dall’essere Parigi». Però sabato il clima è sembrato un po’ quello delle banlieu.

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CITTÀ  MULTIETNICA

di Gad Lerner, da “La Repubblica” del 18/2/2010

Per secoli Costantinopoli, l’ odierna Istanbul, fu al tempo stesso la più grande città turca, greca, armena, curda, ebraica, romena del Mediterraneo. Era la New York del suo tempo, la capitale del mondo (ammesso che possiamo permetterci il lusso, allora come oggi, di escludere la Cina). Grazie a questa straordinaria peculiarità multietnica la metropoli plurale cresciuta sul Bosforo, al confine tra Europa e Asia, prosperava senza paragoni possibili con gli altri centri urbani europei: Parigi e Londra apparivano borghi trascurabili al suo cospetto.

Prima che sopraggiungesse l’ epoca dei nazionalismi, contrassegnata da genocidi, trapianti di popolazione e pulizie etniche, la città-mosaico aveva rappresentato il più potente fattore di sviluppo economico e culturale lungo tutta la sponda sud del Mediterraneo: furono multietniche fino a non molto tempo fa Salonicco, Smirne, Antiochia, Aleppo, Haifa, Alessandria d’ Egitto, Algeri, Orano, successivamente ridotte con la forza a innaturale omogeneità.

È banale constatare come la brutale cancellazione dell’ esperienza urbana levantina, nel giro di pochi decenni del secolo scorso, abbia contribuito decisivamente al declino delle regioni mediterranee interessate. La Istanbul monoetnica di oggi resta una grande città ma non è più una capitale. Un senso di vuoto, di mutilazione subita, infonde sentimenti di rimpianto e nostalgia nelle altre città che furono plurali e oggi sono ridotte al rango di province arretrate.

E prima ancora, l’ equazione multietnicità uguale progresso era stata confermata dalla nuova potenza mondiale: gli Stati Uniti d’ America, un nuovo impero generato dall’ incontro fra comunità migranti. Tuttora, per fare un solo esempio, New York ha una popolazione ebraica numericamente superiore alla somma di Tel Aviv e Gerusalemme. Mentre l’ estirpazione della presenza ebraica dall’ est Europa può essere annoverata tra le cause del suo impoverimento. Magari bastasse la consapevolezza storica per convincere i popoli.

Le recenti contrapposizioni ideologiche su un concetto astratto come il multiculturalismo segnalano dunque come sia difficile per le leadership politiche e culturali misurarsi con il fallimento di un’ illusione: far coincidere semplicemente, sulla carta geografica, gli Stati con le nazioni.

Quando un leader che è anche imprenditore globale come Berlusconi (con soci arabi e interessi sparsi oltreconfine) proclama di battersi “contro la società multietnica”, denota l’ urgenza opportunistica di assecondare una spinta difensiva anacronistica lontana dal suo linguaggio originario: il format televisivo commerciale, apolide per definizione.

Quando protesta contro il fatto che a passeggio nel centro di Milano s’ incontrano troppi africani, nega l’ abc della nuova metropoli europea di cui anche lui è figlio. Quasi mai la città multietnica è il prodotto di una politica abitativa consapevole, pianificata. Perché i flussi migratori possono essere regolati da governi responsabili, ma ben difficilmente pianificati. Accade così, con il senno di poi, che le diverse visioni culturali e soprattutto le convenienze politiche diano luogo a teorie dell’ integrazione o del rifiuto che solo a parole rivendicano la dignità di un progetto. I due “modelli” alternativi di integrazione spesso contrapposti sono oggi in Europa il “modello repubblicano francese” e il “modello comunitarista britannico”.

La Francia, erede di una concezione rivoluzionaria della cittadinanza fondata sui diritti, e quindi disgiunta dal vincolo di sangue della nazionalità, ha perseguito una pedagogia delle regole che trasformi gli immigrati in concittadini su base laica. Ciò non ha impedito la formazione di agglomerati urbani separati, di problematica integrazione.

Ma finora le rivolte delle banlieu, seppure violente, hanno visto prevalere la dimensione sociale e semmai criminale rispetto a quella religiosa integralista. Viceversa la storia coloniale dell’ impero britannico ha favorito nel Regno Unito la crescita di vere e proprie comunità immigrate a sé stanti, dotate di leadership separate anche nell’ elaborazione di codici morali e di cittadinanza, finendo per costituire entità in comunicanti.

Perfino corpi estranei, talvolta “nemici interni”. In diverse città italiane (Torino e Genova al nord, Palermo e Catania al sud) l’ occupazione di vaste porzioni di centro storico da parte delle comunità immigrate è stata parzialmente gestita nel tempo con un’ affannosa rincorsa di integrazione spontanea, affidata soprattutto alla scuola e al volontariato sociale, oltre che all’ azione preventiva e repressiva delle forze di polizia. Diverso è il caso di Milano, governata ormai da decenni da amministrazioni di destra che rifiutano ideologicamente la nuova dimensione multietnica.

Ciò naturalmente non ha frenato la vitalità dei nuovi cittadini milanesi immigrati, le cui imprese registrate presso la Camera di Commercio ormai detengono una quota di ricchezza irrinunciabile per l’ economia metropolitana; senza contare la quota dell’ economia illegale e della malavita. Il risultato è che la nuova forza economica degli immigrati, rifiutata a parole e boicottata con normative anacronistiche, spontaneamente cerca luoghi di residenza e d’ investimento che aggirino l’ ostacolo.

Fu così per la prima “casbah” di Porta Venezia, oggi non solo bonificata ma arricchita grazie alla sua nuova dimensione multietnica. È toccato poi alla non distante arteria commerciale di via Padova di divenire il ricettacolo di subaffitti senza regole e di vendite d’ appartamenti e negozi alla spicciolata, con prezzi in costante ribasso. Il laissez faire di chi rifiutava ogni pianificazione perché elettoralmente gli conveniva proclamare “no allo straniero”, di certo non era in grado di bloccare la metamorfosi in atto. Ma ha causato un’identificazione fra città multietnica e degrado che stride con la storia della civiltà. – GAD LERNER

3 risposte a "Abitare in ghetti: il malessere dei quartieri periferici delle nostre città, tra nuovi inserimenti di immigrati, caos di integrazione e paura di perdita di identità – Il caso di VIA PADOVA A MILANO – Come superare i ghetti (la società civile -tutti noi “mediatori”- che deve aiutare le istituzioni)"

  1. Emigrato mercoledì 10 marzo 2010 / 14:07

    Il modello francese mi piace molto, perché pone l’uomo al centro, sono i diritti a contare, poco importano la religione o il colore della pelle… Ma, come è stato detto i problemi esistono anche qui. Perché tutto sta nella testa, nella cultura di ognuno. Allora il modello per me è l’isola de la Réunion, dove non c’è un “tipo”, o forse il tipo reunionnese è il creolo, è il figlio di un apporto incrociato di geni, di musiche, di cibi, di storie, di lingue, di tradizioni… Così à la Réunion puoi trovare il cinese o il musulamano, e questo sarà venuto dalle Comore oppure dal Rajastan, il malgascio animista, ma diventato cattolico come il francese ,ma questo non praticante, magari color caffelatte, perché figlio di una coppia mista, dove lei è bianca e lui è nero, senza paura di dire in faccia i colori e le sfumature, perché nel fare questo non c’è nulla di razzista, ma anzi diventa una necessità anche divertente per capire un po’ di più da dove viene l’altro. Una ricchezza di colori che da’ il senso alla comunità locale, che ne riassume la bellezza.

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