PAESI DIMENTICATI: quale destino? – PROPOSTE di ritorno alla vita dei luoghi abbandonati: con AREE METROPOLITANE in ogni territorio; con la CONCESSIONE GRATUITA DI EDIFICI a immigrati; ritorno dei SERVIZI ESSENZIALI; RECUPERO AMBIENTALE (come la proposta di ripristino dei TERRAZZAMENTI)

SANTO STEFANIO DI SESSANIO (117 abitanti rimasti, in provincia dell’AQUILA) - Negli ultimi anni qualche imprenditore straniero si è innamorato delle città fantasma italiane. Uno di questi è lo svedese Daniel Kihlgren che si è messo in testa di far rivivere SANTO STEFANO DI SESSANIO, in Abruzzo, acquistandone una parte e realizzando un “ALBERGO DIFFUSO” nelle case prima abbandonate
SANTO STEFANIO DI SESSANIO (117 abitanti rimasti, in provincia dell’AQUILA) – Negli ultimi anni qualche imprenditore straniero si è innamorato delle città fantasma italiane. Uno di questi è lo svedese Daniel Kihlgren che si è messo in testa di far rivivere SANTO STEFANO DI SESSANIO, in Abruzzo, acquistandone una parte e realizzando un “ALBERGO DIFFUSO” nelle case prima abbandonate

   I paesi fantasma in Italia sono circa un migliaio, se si escludono stazzi e alpeggi, altrimenti si sale a 6mila. Non intendiamo paesi “istituzionali”, con tanto di seppur piccola amministrazione comunale, ma borghi, frazioni, colmelli, ma a volte veri e propri paesi “istituzionali” che hanno popolazione ridottissima, di poche decine di persone rispetto alle centinaia e migliaia di qualche decennio fa.

   Un fenomeno tangibile, visibile, l’abbandono e la desertificazione di paesi specie di montagna o lontani da centri urbani significativi, frutto dell’incedere della storia nei territori, dove ogni luogo (fatto di natura, artificio umano, accadimenti storici) può essere oggettivamente destinato all’abbandono. Ma la cosa non è rassicurante (l’oggettività):la rassegnazione all’abbandono denota incapacità di trasformarsi, un declino culturale, economico, ambientale, sociale, urbano….

L’emblema delle città abbandonate italiane è CIVITA DI BAGNOREGIO (provincia di Viterbo), appoggiata da secoli su un colle di tufo, CHIAMATA “LA CITTÀ CHE MUORE”. PER OGNI FRANA (FREQUENTE), CIVITA PERDE UN PEZZO, restringendosi ogni giorno di più, cercando di sopravvivere abbarbicata a quel tufo. A collegarla con il resto del mondo, un ponte sospeso percorribile solo a piedi. Mai nessuna macchina ha varcato i confini del paese (Lidia Baratta, da Linkiesta del 4/4/2015)
L’emblema delle città abbandonate italiane è CIVITA DI BAGNOREGIO (provincia di Viterbo), appoggiata da secoli su un colle di tufo, CHIAMATA “LA CITTÀ CHE MUORE”. PER OGNI FRANA (FREQUENTE), CIVITA PERDE UN PEZZO, restringendosi ogni giorno di più, cercando di sopravvivere abbarbicata a quel tufo. A collegarla con il resto del mondo, un ponte sospeso percorribile solo a piedi. Mai nessuna macchina ha varcato i confini del paese (Lidia Baratta, da Linkiesta del 4/4/2015)

   Tentiamo, nell’individuare in questo post geografie dei luoghi, cause dell’abbandono, effetti, di dare spunti per un ritorno alla vita di paesi ora desolatamente vuoti di giovani, bambini (spesso ci sono solo pochi anziani…), senza persone che ci vivono, lavorano, vivono.

LE CAUSE DELL’ABBANDONO

   I motivi di spopolamento sono molteplici. I vecchi alpeggi, ad esempio, sono stati abbandonati con il boom economico del secondo dopoguerra, preferendo ad essi condizioni di vita migliori, più comode, andando a lavorare in fabbrica o emigrando in altri Paesi. Ci sono borghi abbandonati perché troppo isolati; altri perché distrutti da continui terremoti, frane e alluvioni (forse questa è la causa principale dell’abbandono: si va a costruire in zona più sicura il “nuovo paese”, a volte ragionevolmente e con buone riuscite urbanistiche, la maggior parte creando degli obbrobri…). Ma non da meno ci sono in primis, come motivo dell’abbandono, ragioni economiche, come nel caso dei villaggi minerari in Sardegna, oppure nella Alpi e nella catena appenninica per l’insostenibilità di una vita magra, fatta di privazioni non più sopportabili nell’era dell’inizio del benessere economico dagli anni 60 del secolo scorso.

“LA MIA ITALIA FATTA DI ABBANDONO E DI VITE DESOLATE”: I LUOGHI ABBANDONATI DI CARMEN PELLEGRINO: UN ROMANZO PER PORTARLI A NUOVA VITA - L'autrice trova, studia e riporta in vita le “ROVINE”. Negli ultimi anni ha censito e visitato decine e decine di PAESI DIMENTICATI, in Italia e all’estero, al punto da indurre la Treccani a registrare un neologismo: ABBANDONOLOGO. Ora quelle storie sommerse sono al centro di un romanzo "CADE LA TERRA". Perché all'abbandono si reagisce anche riscrivendolo -
“LA MIA ITALIA FATTA DI ABBANDONO E DI VITE DESOLATE”: I LUOGHI ABBANDONATI DI CARMEN PELLEGRINO: UN ROMANZO PER PORTARLI A NUOVA VITA – L’autrice trova, studia e riporta in vita le “ROVINE”. Negli ultimi anni ha censito e visitato decine e decine di PAESI DIMENTICATI, in Italia e all’estero, al punto da indurre la Treccani a registrare un neologismo: ABBANDONOLOGO. Ora quelle storie sommerse sono al centro di un romanzo “CADE LA TERRA”. Perché all’abbandono si reagisce anche riscrivendolo –

LE PROPOSTE DI RIPOPOLAMENTO

1- Innanzitutto noi crediamo a una vera nuova riorganizzazione istituzionale dei territori, coinvolgendoli tutti in AREE METROPOLITANE (se non piace questo termine per zone e paesi di montagna, chiamiamoli AGROPOLITANI o quant’altro di simile e più accattivante…). Non può essere che il “sistema-Paese” (nazione) pensi di potenziare e investire risorse e innovazione solo in 15 Aree-Città (metropolitane) (più o meno corrispondenti ai maggiori nuclei urbani che ci sono adesso), tralasciando il ruolo di tutto il resto del territorio nazionale.

Fare, realizzare AREE METROPOLITANE, anche sulla cima del Monte Bianco, non vuol dire urbanizzare e costruire grattacieli, per niente… significa dare un piano di conservazione qualificata, innovazione nel gestire il territorio (anche volutamente “dimenticando” e tutelando pure aree selvagge, nel rendere le varie comunità – villaggi, paesi, cittadine, etc. – partecipi di un progetto comune identificabile nel concetto più alto di METROPOLIS, città-area metropolitana che ha l’ambizione di voler portare felicità ai suoi abitanti (oltre ogni divisione etnica, sociale…).

   Parliamo di gente che vive e condivide il luogo “Area metropolitana” (pur riconoscendosi anche, ed essere fortemente legato, al suo piccolo villaggio)… Area Metropolitana come luogo di per se “forte”, autorevole (e non debole, subordinato e arrendevole a tutto, non avendo dimensioni e autorevolezza che lo rendano all’esterno capace di farsi valere, e all’interno non in grado di assumere un proprio progetto di sviluppo sostenibile, ambientale, conservativo, in ogni caso di benessere economico per tutti…). Il progetto “Aree metropolitane in ogni dove” è per noi essenziale per recuperare alla vita i borghi in declino, dimenticati, in abbandono.

MONTERANO (Foto di di Vittorio Caggiano, da L espresso del 18-2-2015) - LA CITTA' PERDUTA DI MONTERANO - Nella foto la CHIESA DI SAN BONAVENTURA, situata fuori dal BORGO DI CANALE MONTERANO (100 km. da Roma): la si può ammirare mentre si gira tra i suggestivi resti dell’antica MONTERANO, ZONA ABBANDONATA COMPLETAMENTE NEL XVIII SECOLO PRIMA A CAUSA DELL’ARIA INSALUBRE E POI PER L’ARRIVO DI TRUPPE FRANCESI
MONTERANO (Foto di di Vittorio Caggiano, da L espresso del 18-2-2015) – LA CITTA’ PERDUTA DI MONTERANO – Nella foto la CHIESA DI SAN BONAVENTURA, situata fuori dal BORGO DI CANALE MONTERANO (100 km. da Roma): la si può ammirare mentre si gira tra i suggestivi resti dell’antica MONTERANO, ZONA ABBANDONATA COMPLETAMENTE NEL XVIII SECOLO PRIMA A CAUSA DELL’ARIA INSALUBRE E POI PER L’ARRIVO DI TRUPPE FRANCESI

2- Senza SERVIZI ESSENZIALI ALLA PERSONA è impossibile riportare in vita un centro abbandonato, un paese, un borgo. Ufficio postale, negozio di generi alimentari, pronto soccorso medico a distanza non proibitiva, l’asilo o scuola primaria che non sia troppo distante, un bar, un centro ricreativo, per riunioni….sono tutte cose essenziali, che forse sono state loro, la loro sparizione, una delle principali cause di abbandono progressivo di un luogo. Ripristinarle “tale e quali” al passato è impossibile e improponibile.

   Però si possono trovare soluzioni nuove alternative. Creando sistemi “misti”, polifunzionali: il piccolo supermercato può fare anche da ricezione e spedizione della posta, del ricevimento delle raccomandate, oltreché da luogo in una stanza dove un impiegato “pubblico” (comunale, regionale, dell’agenzia entrate…), due volte la settimana presente, può ricevere le persone, gli abitanti… e collegandosi ad internet può svolgere mansioni diversificate in contatto con i vari enti pubblici (dalla carta di identità, al codice fiscale, a pratiche urbanistiche, a informazioni Inps, etc.).

Il giornalista napoletano ANTONIO MOCCIOLA nel suo ultimo libro LE BELLE ADDORMENTATE ha ritratto 82 delle città fantasma italiane, dall’Alto Adige alla Sicilia. Dopo dieci anni di viaggi in posti dimenticati da tutti, ha creato una sorta di guida per luoghi che nelle guide tradizionali non ci sono più, con tanto di foto e indicazioni per raggiungerli (Lidia Baratta, da Linkiesta del 4/4/2015)
Il giornalista napoletano ANTONIO MOCCIOLA nel suo ultimo libro LE BELLE ADDORMENTATE ha ritratto 82 delle città fantasma italiane, dall’Alto Adige alla Sicilia. Dopo dieci anni di viaggi in posti dimenticati da tutti, ha creato una sorta di guida per luoghi che nelle guide tradizionali non ci sono più, con tanto di foto e indicazioni per raggiungerli (Lidia Baratta, da Linkiesta del 4/4/2015)

   Pertanto i servizi nei luoghi lontani, “difficili”, possono essere ripristinati se si accetta il loro carattere “misto”, polifunzionale, in una stessa struttura, in uno stesso servizio (mettendo assieme pubblico e privato, e accorpando funzioni tali da far sì che non manchi niente dei servizi minimi essenziali che una popolazione chiede).

   Incredibilmente questo sta accadendo in molte grandi città, metropoli, nei loro quartieri….. e non accadde in piccole realtà comunali dove non si fa nulla per frenare l’inesorabile declino e abbandono. Inventare e proporre servizi multipli, polifunzionali, niente di nuovo sarebbe, comunque, sotto il cielo…. Ai primordi della civiltà industriale moderna, nei luoghi isolati (come quelli montani) i servizi così venivano dati: pensiamo, per fare un esempio, alla prima formazione scolastica, alle piccole scuole elementari diffuse nei villaggi, con un unico maestro/maestra, in classi multiple (genialità del periodo giolittiano dei primi del novecento per iniziare il processo di alfabetizzazione del Paese).

3– PROFUGHI E IMMIGRATI, attori nel ridare vita ai luoghi ora deserti di popolazione – C’è il cosiddetto “Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati” (Sprar) che fa capo al Ministero dell’Interno, che prevede di mettere assieme enti locali che, attraverso il “Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo” ed altre risorse straordinarie (Protezione Civile, 8 per mille) (ne parliamo in questo post in un articolo da “Linkiesta” di Luigi Pandolfi), dando la possibilità di realizzare interventi di “accoglienza integrata” a favore di migranti che giungono nel nostro Paese da teatri di guerra o fuggono da regimi dittatoriali.

per le strade di RIACE in Calabria (foto da Linkiesta)
per le strade di RIACE in Calabria (foto da Linkiesta)

   E’ anche qui incredibile che i piccoli comuni in difficoltà non ne usufruiscano; perché, nella maggior parte dei casi, sono i comuni capoluogo a usufruire dei fondi, in generale grossi centri. L’unica eccezione “regionale” è la Calabria, dove ritroviamo coinvolti centri piccoli e piccolissimi. La loro accettazione di profughi è data proprio dall’esigenza di RIVITALIZZARE BORGHI IN DECLINO, abbandonati, soggetti a rapido spopolamento (casi calabresi di questo genere li ritroviamo a Riace, Badolato, Acquaformosa, Caulonia…).

   Va da se che persone profughe (ma anche immigrate per motivi di povertà assoluta), verificatane la bravura e serietà, sono assai motivate a farsi una vita in luoghi “da ricostruire della comunità”; e questo è certamente assai alternativo alla gestione segregante, disumana, dei migranti attraverso i centri d’accoglienza senz’alcuna speranza.

   Tra l’altro queste nuove iniziative di economia locale (rivitalizzazione di un borgo con gli immigrati) sono alquanto positive per la ripresa di tutto un territorio (per i lavori che si mettono in campo, piccole ristrutturazioni edilizie, richiesta di generi alimentari, formazione scolastica per i bambini…). Pian piano l’aiuto statale all’inserimento degli immigrati ne potrà fare a meno, individuando economie di ritorno (agricole, di allevamento, artigianali…) che permetterebbero forme di autosufficienza economica.

4 – il recupero dei territori abbandonati (il caso del RIPRISTINO DEI TERRAZZAMENTI nel Canale di Brenta, comune di Valstagna, in provincia di Vicenza) – L’abbandono delle attività agricole e pastorali della montagna, della mezza-montagna e di aree collinari pedemontane ha portato a far sì che artifici umani (come sono i terrazzamenti) costruiti e curati per tanti decenni (a volte secoli), nello stato di abbandono, siano stati sconvolti dall’espandersi della vegetazione selvatica, dal degrado per la mancata cura a eventi atmosferici dannosi, a volte per l’utilizzo di questi terreni a discariche o altri utilizzi impropri.

TERRAZZAMENTI IN VALSTAGNA, CON MASIERE (cioè muretti a secco, senza cemento)
TERRAZZAMENTI IN VALSTAGNA, CON MASIERE (cioè muretti a secco, senza cemento)

   E’ il caso di tanti TERRAZZAMENTI, cui è pieno il territorio italiano, spesso in stato di abbandono e degrado rovinoso. Il tentativo di un loro ripristino può proprio essere legato a fenomeni di ritorno all’abitazione ed alla coltivazione di aree montane in via di spopolamento, ad opera non solo di abitanti locali ma anche di cittadini provenienti da altre zone, sensibili a obiettivi quali la conservazione del territorio e una maggiore qualità della vita. In questo caso qualche studioso parla non di rapporto più vicino e nuovo tra città e campagna (i cittadini che si avvicinano alla natura…) ma di esempi di “neo-ruralismo” (van der ploeg, 2009) vero e proprio.

   Una via di mezzo, un tentativo assai interessante e che sta “facendo scuola” è quello di “Adotta un terrazzamento” campagna di recupero dei terrazzamenti, avviata 5 anni fa nel comune di Valstagna in provincia di Vicenza (in questo post potete leggere un articolo di Luca Lodatti, uno dei maggiori esperti sul tema terrazzamenti, e artefice tra i principali dell’esperienza di “Adotta un Terrazzamento” a Valstagna).

   Nel caso descritto non vi è una vera e propria ripopolazione del luogo causata dal ripristino dei terrazzamenti, perché l’opera di recupero è svolta da cittadini che vengono dalle vicine città (come Bassano del Grappa) ma anche da più lontano, per lavori periodici di coltivazione e manutenzione del terrazzamento (che prima era in degrado ed è stato recuperato).

   Il tema della montagna si connette comunque in modo spontaneo e naturale con la possibilità di “fare coltivazione”, agricoltura o pastorizia, allevamento…. Cioè di individuare attività in grado di essere remunerative, magari contornate da molteplici fonti di reddito che si compendiano tra loro (accoglienza di turisti, agriturismo, gestione del legname, trasformazione agroalimentare dei prodotti della terra, garanzia del mantenimento ambientale magari con piccoli finanziamenti pubblici – la regione, lo Stato… hanno tutto l’interesse a far sì che ci sia un controllo ambientale territoriale in certe aree di particolare delicatezza ambientale, geologica…).

   Partendo da piccole esperienze iniziali di attività spontanee di riuso dei terrazzamenti, a Vastagna queste prime esperienze hanno portato all’idea del progetto Adotta un terrazzamento che da circa 5 anni funziona con grandi risultati di recupero territoriale (per saperne di più vedi: www.adottaunterrazzamento.org/ ).

5 – LA CONCESSIONE GRATUITA DI EDIFICI (PUBBLICI O PRIVATI). La possibilità di ridare vita ai centri e borghi dimenticati, abbandonati dalla popolazione, è anche quella di dare la possibilità a chi vuole “provare” a vivere in questi luoghi che possa trovare abitazioni, edifici, strutture da ripristinare, da rendere accoglienti per poter viverci (previo la verifica della serietà del progetto e di chi lo propone, oltre garanzie a proprietari privati e pubblici con contratti di comodato o altre forme simili).

   Spesso il degrado e il declino dei territori, delle periferie urbane, delle città diffuse e confuse, delle aree di montagna impervie ad arrivarci… sono motivo di “piangerci addosso”. Ma c’è chi sta provando concretamente di mettere in piedi alternative, trovare modi per invertire i processi di abbandono dei luoghi. E’ sicuro che un luogo abbandonato è motivo di fotografare il passato, un certo fenomeno (economico, ambientale, sociale..) che ora non c’è più, e per questo vedere che tutto si è fermato (o quasi, nel degrado magari degli edifici che continua) è motivo di riflessione e presa di coscienza del procedere degli accadimenti nel nostro mondo….

…Però sarebbe altresì significativo impegnarsi a una nuova concreta ripresa di vita di quei posti in abbandono, farli rivivere a nuovi fasti, nuove possibilità… inventare il futuro. (s.m.)

BELLOTTI, frazione all'estremo nord i LAMON, paese del bellunese confinante con il Trentino - a BELLOTTI vivevano circa duecento persone fino agli anni sessanta: ora solo una
BELLOTTI, frazione all’estremo nord i LAMON, paese del bellunese confinante con il Trentino – a BELLOTTI vivevano circa duecento persone fino agli anni sessanta: ora solo una

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DAI PAKISTANI AGLI ETIOPI: QUEI NUOVI CITTADINI CHE DANNO UN FUTURO A RIACE

di Mimmo Gangemi, da “la Stampa” del 31/3/2016

– Viaggio nel Comune diventato simbolo di accoglienza. Per le stradine donne con il velo e arabi a cavallo –

   Incontro la tabella “Riace marina, la città dei Bronzi” nell’ora più accaldata di un inizio di primavera che sembra già volersi arrendere all’estate. Devio verso Riace superiore, in collina. Percorro una strada che serpeggia nel tagliare in due la campagna verde, a tratti ingentilita da un mantello giallo. Ai bordi, pareti di argilla, costoni con ammassi di fichidindia, querce, ginestre in fiore, qualche albero di ulivo. Arrivo. Non più “la città dei Bronzi”, ma “il paese dell’accoglienza”. Che è ancora meglio: ai due guerrieri capitò d’annegarsi in quel tratto di mare, l’accoglienza è invece un merito da ascrivere agli uomini. Il deserto nella piazza dove affaccia il Municipio.

Il sorriso

Poi, un ragazzo e una ragazza, sui sedici anni, lo zaino di scuola dietro le spalle. Entrambi belli e aggraziati. Entrambi neri. Lei di più, e ha un sorriso solare, occhi grandi, la pelle di un bronzeo dorato. Ci parlo. Rispondono in un italiano perfetto, più spigliata lei, più timido lui. Sono Etiopi. Vivono qui da tanto. Sono giunti con la famiglia dopo aver attraversato il Canale di Sicilia che ci separa dalla quarta sponda d’Italia di mussoliniana, e nefasta, memoria. Non trattengono ricordi di quel viaggio su una carretta del mare. Erano troppo piccoli. Per fortuna. Non avrebbero quel sorriso altrimenti, ne porterebbero ancora le stimmate. Mi mostrano l’anfiteatro. Accanto, c’è un grande parco giochi per bambini dove una donna, nera e dai capelli corti e crespi, fa divertire il suo piccolo. Parliamo allontanandoci assieme dalla piazza e penetrando le viuzze, diretti al Centro interculturale. Mehrét mi racconta che frequentano il liceo scientifico giù a Roccella – non le ho chiesto il nome, mi piace appiccicarle quello della dolce etiope del mio “La signora di Ellis Island”. Hanno acquistato casa, una delle tante abbandonate. Questo significa paesani per sempre.

La nuova terra

Dai vicoli spuntano uomini, donne e bambini con la carnagione dalle tinte più svariate e i passi sicuri di chi si trova a proprio agio, ha saputo far diventare sua la nuova terra. Si salutano affabili con tutti, scambiano battute scherzose, le etnie saranno pure diverse ma si sentono un unico popolo. Alcune donne portano il velo. Copre loro i capelli. Non fosse che accerchia il collo, sarebbe uguale alla veletta sempre in testa alle nostre nonne. I ragazzi mi salutano cordiali e se ne vanno. Io mi trattengo a parlare con due uomini. Li scopro Pakistani – “del Kashmir” mi dice orgoglioso uno, e si presenta «Jamil». Sono stati accolti anche loro. Hanno potuto attingere a uno dei progetti dell’accoglienza predisposti dal Comune e finanziati con fondi regionali. Per ora campano con una diaria. Sperano di trovare un lavoro duraturo. Tra i trecento e più ospitati alla marina e qui, sono parecchi i Pakistani, ci sono anche sei o sette famiglie intere.

   Locali, pochi. Qualche vecchio con la coppola e la pelle scurita dal lavorio del sole e rattrappita più d’un pomodoro essiccato, un paio di avventori nel bar. Ad animare le vie sono più gli stranieri. I loro bambini trasmettono l’idea di un futuro possibile, sono la continuità per questo piccolo borgo destinato altrimenti a diventare fantasma, con i vicoli muschiati di verde per i passi che vi mancano, com’è già capitato a tanti paesi dell’interno, svuotati dall’emigrazione e dall’abbaglio delle luci della marina e dell’orizzonte acquoso sullo sfondo.

   Il centro storico è ben tenuto, pulito. La piazza, le strade e i marciapiedi hanno il decoro di un gradevole lastricato con tagli rettangolari di pietra locale – basta con il porfido del Trentino, oltre che brutto, ci inchioda anche colonia, ne copiamo persino le geometrie. E le case sono quelle dei miei più antichi ricordi, l’espressione di una sana civiltà contadina, senza i guasti della modernità con i suoi rattoppi, le lamiere, il cemento. E non è un caso: la civiltà della conservazione e quella dell’accoglienza sono le facce di un’unica medaglia.

   «Jamil, vieni a prenderti il caffè» chiede al mio amico pakistano un “indigeno” seduto davanti al piccolo bar. Jamil ringrazia con un sorriso.

Larghi orizzonti

Riprendo la strada del ritorno. M’imbatto in un giovane arabo che monta a pelo un cavallo. Do un passaggio a un ragazzo del Mali con cui rinfresco il mio scarso inglese. Alla marina, una donna nera che parla al cellulare, qua e là altri paesani d’importazione intenti a chiacchierare con i locali, un paio in bicicletta. È l’integrazione. È la specie umana che si scopre uguale. È la civiltà. Prima d’andarmene, un’occhiata al lungomare. È in costruzione. Vi potranno accedere solo i pedoni e i ciclisti. Un altro segno di orizzonti larghi sul mondo che mi fanno capire perché qui è potuta succedere l’accoglienza.

   Chapeau a Riace: ha così reso onore anche ai nostri antenati che percorsero odissee simili pur di sfuggire alla fame e alla miseria. (Mimmo Gangemi)

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MIMMO U CURDU

di Massimo Gramellini, da “la Stampa” del 31/3/2016

   Per il settimanale americano «Fortune» c’è un solo italiano nella lista delle personalità che stanno cambiando il pianeta. Come è ovvio il suo nome comincia per M, ma inopinatamente si tratta di un Mimmo. Mimmo Lucano, detto U Curdu. Quando ne divenne sindaco, Riace era un paesino esausto della Locride abitato da quattrocento anziani a cui avevano tolto tutto, persino i Bronzi. Ma un giorno sbarcò un veliero di curdi e il sindaco ebbe l’idea balzana di ospitarli nelle case abbandonate del centro.

   Dopo 15 anni di cura-Mimmo, oggi Riace si ritrova duemila residenti, un quarto dei quali sono stranieri che hanno riaperto le botteghe artigiane di tessuti e ceramiche. Un modello di integrazione studiato in tutto il mondo.

    In Rete i connazionali di Mimmo hanno salutato il riconoscimento internazionale con la generosità consueta. I più moderati gli rinfacciano di avere confezionato il miracolo grazie ai soldi pubblici (avrebbe fatto meglio a sperperarli come certi suoi colleghi?). Altri sostengono che il plauso di «Fortune» è la prova di un complotto mondialista per garantirsi manodopera a basso costo a spese della popolazione locale (che a Riace era emigrata ben prima dell’arrivo dei profughi).

   Ma la reazione più appassionante è stata quella della politica. Silenzio assoluto, tranne Boldrini. Dagli altri Palazzi nemmeno un tweet. Anche il governatore della Calabria ha ritenuto più educato tacere. E non solo ieri. E non solo lui. Perché in questo Paese che spende miliardi in consulenze di ogni risma, nessuno si è mai degnato di chiedere un parere sul problema degli immigrati all’unico che parrebbe averlo risolto. (Massimo Gramellini)

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NEL PAESE DELLE CITTÀ FANTASMA

di Lidia Baratta, da LINKIESTA, 4/4/2015 (www.linkiesta.it/)

– L’Istat ne ha censite 6mila. Sono posti dove non abita più nessuno e che rischiano di morire ancora –

   Quando il 15 ottobre del 2000 il cuore di Teodora Lorenzo, detta zia Dorina, cessò di battere, il borgo di ROSCIGNO VECCHIA, nell’entroterra salernitano, concluse la sua storia secolare. Con zia Dorina se ne andava l’ultima presenza umana del posto. Roscigno diventava un paese fantasma.

   Ignorata dai navigatori satellitari e dalle reti dei cellulari, c’è un’Italia fatta di città, paesi e contrade come Roscigno. Senza più abitanti, da Nord a Sud restano gli scheletri di un passato perduto tra bassa natalità, emigrazione e spostamenti verso luoghi dove c’era più lavoro. Frane, terremoti e alluvioni hanno fatto tutto il resto, lasciando qua e là mucchi di case vuote. Solo d’estate si vede qualche proprietario che torna dalle città per prendere aria pura e togliere le ragnatele.

   Secondo l’ultima rilevazione dell’Istat, i paesi fantasma in Italia sono circa un migliaio, se si escludono stazzi e alpeggi, altrimenti si sale a 6mila. In Spagna ce ne sono circa 4.500. Negli Stati Uniti se ne contano fino a 15mila. «Il termine GHOST TOWN è stato coniato dal giornalista svedese Jan-Olof Bengtsson durante una visita alla città di Varosha a Cipro», spiega Fabio Di Bitonto, geologo e fondatore del sito “Paesi fantasma”. «Sono posti che agli occhi del visitatore appaiono come fantasmi, figure sfocate di quello che erano prima». Tutto in queste cittadine è rimasto fermo, non si sente nessuna voce e non si incontra più nessuno.

   Il giornalista napoletano Antonio Mocciola nel suo ultimo libro Le belle addormentate ha ritratto 82 delle città fantasma italiane, dall’Alto Adige alla Sicilia. Dopo dieci anni di viaggi in posti dimenticati da tutti, ha creato una sorta di guida per luoghi che nelle guide tradizionali non ci sono più, con tanto di foto e indicazioni per raggiungerli.redim

   Ogni paese nasconde la propria storia, ma ogni zona d’Italia ha i suoi motivi di spopolamento. I VECCHI ALPEGGI, ad esempio, sono stati abbandonati con il boom economico del secondo dopoguerra preferendo condizioni di vita migliori e più comode. Ci sono BORGHI ABBANDONATI perché TROPPO ISOLATI; altri perché distrutti da continui TERREMOTI, FRANE E ALLUVIONI; altri ancora spopolati dopo la morte di tutti gli abitanti.

   Come GALERIA, alle porte di Roma, falcidiata da un’epidemia di malaria. Ci sono anche RAGIONI ECONOMICHE, però: è il caso dei VILLAGGI MINERARI IN SARDEGNA, abbandonati dopo la chiusura delle attività estrattive, o della singolare storia di CONSONNO, ex borgo medievale raso al suolo per farne una Walt Disney della Brianza e poi di nuovo abbandonato a sé stesso.

   «La causa principale dell’abbandono sono i disastri climatici e gli eventi naturali», racconta Antonio Mocciola. «Molti paesi sono stati abbandonati perché diventavano scomodi da vivere».

FRANE, SMOTTAMENTI, TERREMOTI rendevano il territorio inospitale e pericoloso. Lungo l’Appennino, che è «l’osso dell’Italia», in particolare tra Basilicata, Campania e Calabria, il terreno friabile ha isolato e continua a isolare intere comunità. «Fino agli anni Cinquanta le popolazioni hanno resistito», spiega Mocciola, «poi le tentazioni delle valli, le maggiori offerte di lavoro e gli scali ferroviari hanno portato le persone a spostarsi».

   Finché non è rimasto più nessuno. E in molti di questi paesi oggi non potrebbe vivere più nessuno perché pericolanti o isolati dalle FRANE DI UN TERRITORIO IN GRAVE DISSESTO IDROGEOLOGICO. È il caso di CAVALLERIZZO DI CERZETO, o di ORIOLO, al confine tra Calabria e Basilicata, che ancora oggi continuano a venire giù come castelli di sabbia. Altri paesi sono difficilmente raggiungibili, costruiti in cima a una rupe o in fondo a un precipizio per non essere attaccati dai nemici. E che sono ancora inaccessibili ai più, mantenendo fede all’obiettivo iniziale.

   L’emblema delle città abbandonate italiane è CIVITA DI BAGNOREGIO, appoggiata da secoli su un colle di tufo, chiamata “la città che muore”. Per ogni frana (frequente), Civita perde un pezzo, restringendosi ogni giorno di più, cercando di sopravvivere abbarbicata a quel tufo. A collegarla con il resto del mondo, un ponte sospeso percorribile solo a piedi. Mai nessuna macchina ha varcato i confini del paese.

   SONO LUOGHI CHE APPARTENGONO A UN’ALTRA GEOGRAFIA. Come CASTIGLIONCELLO DI FIRENZUOLA, un paese abbandonato da tutti tanto da non essere collocato in nessuna regione, né in Emilia Romagna né in Toscana. SPESSO NON SI TROVANO NEANCHE SULLE CARTINE GEOGRAFICHE, COME BUONANOTTE, che pure Benedetto Croce aveva descritto come uno dei luoghi più nascosti d’Abruzzo.

   QUALCUNO DI QUESTI PAESI È ANCHE IN VENDITA, come l’isola di POVEGLIA, nella laguna di Venezia, adibita prima a lazzaretto per gli appestati e poi a manicomio durante il fascismo.

   Molto hanno fatto anche i COLLEGAMENTI MANCANTI. Strade statali asfaltate che aggirano i paesi anziché collegarli, linee ferroviarie minori tagliate a favore di investimenti sulle linee principali e più remunerative «hanno causato trasferimenti forzati», dice Mocciola. Per raggiungere le città fantasma bisogna percorrere strade di ciottoli e sassi appuntiti, superare ponti stretti a picco nel vuoto o arrancare lungo scale ripidissime. Come i “2.886 gradini verso il cielo” che separano da SAVOGNO, in VALTELLINA, dove ormai da decenni non vive più nessuno. «Chi abitava lì era abituato a percorrere tutti questi gradini», dice Mocciola, «oggi non lo siamo più».

   E a volte anziché risanare i vecchi centri storici SI È PREFERITO COSTRUIRE NUOVE CITTÀ NON TROPPO DISTANTE, spesso generando veri e propri scempi. «È quello che è successo a MATERA, Prima della riscoperta dei sassi, dove le amministrazioni locali hanno costruito una “finta Matera” a pochi chilometri dal centro, addirittura cercando di ricreare i sassi, senza tuttavia riuscirci». O nei paesi terremotati dell’Irpinia, dove anziché recuperare si è preferito radere al suolo per poi ricostruire. Lasciando in vita solo qualche chiesa, come ruderi inventati da tenere a distanza.

   Molti dei paesi fantasma vivono spesso accanto alle proprie NEW TOWN, come sorelle maggiori più brutte con le quali da anni non si rivolgono la parola. Frattura, in Abruzzo, che già nel nome porta la divisione tra vecchio e nuovo. Sotto, gli abusi edilizi degli anni Settanta e qualche pacchiano ristorante di pesce, sopra, in alto, il borgo abbandonato dopo il terremoto che devastò la Marsica nel 1915.

   Negli ultimi anni qualche imprenditore straniero si è innamorato delle città fantasma italiane. Uno di questi è lo svedese Daniel Kihlgren che si è messo in testa di far rivivere SANTO STEFANO DI SESSANIO, in Abruzzo, acquistandone una parte e realizzando un “ALBERGO DIFFUSO” nelle case prima abbandonate. E lo stesso progetto è in corso nella vicina BUONANOTTE, dove un re di passaggio con corte e scudieri trovò rifugio in una notte di vento e bufera chiamandola Malanoctem, salvo poi cambiare umore il giorno dopo. E anche il nome.

   «Un’altra soluzione per far rivivere questi borghi potrebbe essere quella di APRIRLI AGLI IMMIGRATI che hanno bisogno di un posto in cui stare», dice Antonio Mocciola. E qualche esempio già esiste in Calabria, dove i profughi di ogni parte del mondo stanno facendo rivivere borghi poco abitati come RIACE, ACQUAFORMOSA e CAULONIA, da cui i giovani fuggono verso il Nord Italia alla ricerca di un lavoro. «È già accaduto nel Cinquecento, quando le popolazioni arbëreshë hanno fatto rifiorire paesi morti, che tutt’oggi mantengono le tradizioni albanesi».

   Alcuni posti, come GALERIA, alle porte di Roma, sono diventati la location per giochi di ruolo in costumi medievali. Altri, come CASACCA, sono centri di ritrovo ideale per messe nere e riti satanici. La leggenda vuole che a Casacca un bambino venne murato vivo perché frutto di un’unione proibita tra un prete e una suora. Una maledizione che ha perseguitato i suoi abitanti tanto da accelerare l’abbandono del paese, fomentando così la fama di paese nero e maledetto.

   Molti di questi paesi hanno storie romantiche e crudeli che sembrano uscite dalle pagine di un libro di fantasia. A RENEUZZI, ad esempio, il giovane Davide Bellomo non sopportava l’idea di perdere la ragazza che amava. Pazzo d’amore, di rabbia e di solitudine, portò la sua amata nel bosco e la uccise a colpi di roncola e poi si suicidò con la stessa arma. Il borgo era troppo piccolo e debole per sopportare quel dolore. I fantasmi dei due giovani convinsero gli ultimi pochi abitanti a scendere a valle, lasciando Reneuzzi al suo destino. Era il 1961, l’Italia era in pieno boom economico mentre un paese di spegneva. Qualche anno dopo Dario Argento avrebbe girato lì una scena di Profondo Rosso.

   Tra le pieghe delle Alpi, invece, a MOGGESSA DI QUA E MOGGESSA DI LÀ, che non è una filastrocca ma il nome di un paesino friulano, si nasconde il segreto dei santuari à repit, del respiro, dove le madri portavano i neonati morti subito dopo il parto per cercare di salvarli. A TRIORA, in Liguria, torturavano le streghe accusate della morìa del bestiame. CA’ SCAPINI, nell’appennino parmense, nasconde invece la vergogna di sette bambini forse malati lasciati a morire nel secondo dopoguerra tra le case abbandonate.

   «Sono posti pieni di vita», dice Antonio Mocciola, «perché c’è la storia, che si sente mentre si passeggia nelle loro strade». Strade dove i navigatori satellitari non potranno guidarci. «Per trovarli bisogna usare ancora la parola, fermandosi a chiedere a qualcuno, una mappa o anche solo l’intuito. Al massimo ti perdi». Le intemperie del tempo e l’incuria, però, rischiano di risucchiarli per sempre nell’indifferenza generale. «Serve un piano di recupero e conservazione», dice Mocciola. «Un piano di riscoperta dell’Italia interna che oggi è solo l’ultima chance quando si decide dove passare un week end. Eppure le belle addormentate sono solo a poche curve da casa nostra». (Lidia Baratta)

ROSCIGNO, paese in abbandono in provincia di Salerno
ROSCIGNO, paese in abbandono in provincia di Salerno

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Il libro

I LUOGHI ABBANDONATI DI CARMEN PELLEGRINO: UN ROMANZO PER PORTARLI A NUOVA VITA

di Maurizio Di Fazio, da l’ESPRESSO, 18/2/2015

– L’autrice trova, studia e riporta in vita le “ROVINE”. Negli ultimi anni ha censito e visitato decine e decine di PAESI DIMENTICATI, in Italia e all’estero, al punto da indurre la Treccani a registrare un neologismo: ABBANDONOLOGO. Ora quelle storie sommerse  sono al centro del libro “Cade la terra”. Perché all’abbandono si reagisce anche riscrivendolo –

Carmen Pellegrino cerca, scova e ridà quindi vita ai paesi dimenticati, ai posti rovinati, feriti da generazioni di oblio. Con un ostinato lavoro di documentazione fotografica e rielaborazione di storie sommerse; un poema per frammenti, crepe, ruderi e brandelli, tutt’altro che epico, di un’Italia rurale troppo in fretta immolata sull’altare del “progresso”.libro

   Una Recherche della nostra cultura e poesia nazionale perduta. La sua professione ha generato anche un neologismo ad hoc, censito dalla Treccani: ABBANDONOLOGO. “Chi perlustra il territorio alla ricerca di borghi abbandonati, edifici pubblici e privati in rovina, strutture e attività dismesse (luna park, orti, giardini, stazioni, ecc.), di cui documentare l’esistenza e studiare la storia”.

   Quasi sempre chi se n’è andato da questi spazi ha lasciato la porta socchiusa, la finestra accostata, una piantina di fiori sul davanzale, delle collane di peperoni appese al soffitto, la legna sul caminetto: come se dovesse rincasare da un momento all’altro. Ma nessuno è mai tornato, e nessun altro ha più fatto dono di una visita pur fugace. Come se ne andasse di mezzo qualche maledizione inesprimibile. Nessuno, a parte Carmen Pellegrino: “Ho tratto dai ruderi una prospettiva capovolta, come un invito alla resistenza: ho visto una possibilità nelle cose lasciate a perdersi, nell’inutile. Così, prendermi cura di tutto questo puro e fittissimo nulla è divenuto un modo di stare al mondo, tra i tanti possibili”.

   “Cade la terra”, il suo primo romanzo (edito da Giunti; il titolo viene da Rilke), narra di tutti questi paesi abbandonati in cui tutto avviene e niente, in verità, accade; con la terra che slitta e, pur slittando, si tiene. Il borgo-fantasma del libro è quindi solo tecnicamente immaginario: si chiama ALENTO, “dove il buio è venuto sempre troppo presto” ed è sempre sul punto di sparire. La sua densità demografica è pari pressoché a zero. Quasi un rovesciamento semantico della Macondo di Garcia Marquez; realismo magico sì, ma tragico. Alento è “una malora che aveva le montagne da tutte le parti, incorruttibili guardiani di un buco dove si andava a morire, mai a nascere”.

   Alento è un piccolo groviglio cieco di case i cui balconi sembravano reggersi solo per i cespi d’edera che li tenevano da un lato all’altro. Alento è un covo di anime vinte e di nati morti, che vuole essere strappato alla terra pur essendone il frutto sincero. Alento è una congerie di scale pericolanti e muri sbrecciati, ma resistenti; qui il sole non scalda mai. Alento è un gorgo della geografia in cui gli anni strisciano con lentezza, “con tranquillità morbosa”, e dove la commedia umana si avvicenda senza gesti, senza grida, “piccioni azzoppati, con ali mai usate”.

   Nella penisola del dissesto idrogeologico, Alento, inesorabilmente, frana; alla “Madonna della Frana” è intitolata pure la festa del paese, e franano le anime degli spettri che Estella, la protagonista del libro, l’ultima irriducibile abitante, cerca, disperatamente, di mantenere in vita.

   Estella è una monaca svestita tornata a vivere nel fiore dei suoi diciott’anni ad Alento, in una grande  e bellissima casa dove veste, per qualche tempo, i panni dell’educatrice: “Era febbraio e nevicava il giorno in cui tornai. Per il resto, nulla faceva rumore”.

   In questa casa, nella più completa solitudine, calpestando mattonelle che si muovono, Estella trascorrerà tutti i suoi giorni a venire: “So bene che la casa non ci sarà per sempre, ne vedo le crepe, gli scoppi nella struttura. Se mi avvicino ai muri ne carezzo la grana, la tocco come una pelle ferita”. Tutti gli altri residenti della vecchia Alento si trasferiscono nel paese nuovo, più in alto, al sicuro dalla frana che incombe. Lei no. “Quando pure questa casa cominciò a diruparmi addosso, un frullio di calcinacci dietro l’altro, io ero già cotta e mi facevo sera da sola, senza più voler sapere in che punto preciso del tempo ero. Non chiedevo nulla: sedevo presso i muri che dilungavano il loro sibilo di vita e non chiedevo nulla. Aspettavo, questo sì, ma sapevo bene quanto l’attesa fosse vana, perché nulla poteva venire”.

   Attorno a Estella si muovono personaggi anch’essi animati da una rara intensità narrativa. Sono tutti depositari di una lingua riplasmata e ferma. Come il “suo” Marcello, dalla tenera crudeltà, figlio di “una tradizione centenaria di risentimenti che aveva compiuto su di lui la sua opera più riuscita”; come Lucia Parisi, che non voleva fare la fine della madre, “come passi in salita lungo le scale della rassegnazione” e decise di togliersi la vita nel momento esatto in cui arrivava la luce elettrica a casa sua; come l’anarchico e idealista Cola Forti, che stabilì, vittima di improvviso disincanto, di non uscire più di casa sedendo su una sedia a dondolo vita, innatural, durante.

   “Cade la terra” si conclude con una cena surreale, cinematografica, a metà tra Buñuel e Bergman. Nella Casa oramai decrepita, prossima al collasso, gli ex abitanti di Alento, compresi i morti, supplicano Estella: “Se non riuscite a fare a meno di noi, chiamateci pure, ma non per ricordarci chi siamo. Chiamateci per farci indossare abiti di vento. Toglieteci da questa pena di polvere, è insano lasciarci bocconi. Fateci camminare in mezzo a voi con passi burattini, leggeri e volubili. Chiamateci per cambiarci i destini”.

   Proprio quello che l’abbandonologa Carmen Pellegrino fa. Ritesse l’integrità morale di luoghi dove l’abbandono “ha livellato i destini, e ogni casa ora è un teatro, con le quinte in disfacimento, il palco che crepita sotto i passi, un teatro dove possono esibirsi anche quelli che una scena non l’hanno mai avuta”. Agisce contro l’abbandono riscrivendolo,  in modo magistrale. (Maurizio Di Fazio)

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Calabria

SONO I PROFUGHI A FAR RIVIVERE BORGHI ABBANDONATI

di Luigi Pandolfi, da LINKIESTA del 22/11/2014 (www.linkiesta.it/)

– I borghi calabresi abbandonati: I rifugiati sono i nuovi abitanti. E piccoli paesi come RIACE tornano a vivere –

   Sono lontani, lontanissimi, i tempi in cui la letteratura verista meridionale narrava di borghi e periferie urbane in cui l’elemento della povertà – spesso estrema – camminava gomito a gomito con la prolificità delle famiglie. Nondimeno fino all’alba di questo secolo, al netto di tutte le modificazioni registratesi nella struttura produttiva e nella realtà sociale del Paese, il sud “vantava” ancora un tasso di fecondità congiunturale (il numero medio di figli per donna) nettamente superiore a quello delle regioni centro-settentrionali. Poi il “sorpasso”, in verità del tutto inatteso, stando alle previsioni dei principali istituti di statistica e dei più accreditati osservatori demografici.

   Oggi l’elemento della denatalità occupa un posto di rilievo nella ricerca sociologica e nelle analisi economiche sulla condizione del Mezzogiorno, come dimostra, tra gli altri, l’ultimo Rapporto della Svimez. Proprio quest’ultimo, ha sottolineato come IL SUD RISCHI NEI PROSSIMI ANNI UN VERO E PROPRIO “PROCESSO DI DESERTIFICAZIONE UMANA”, a causa del saldo negativo tra decessi e nascite. Si è chiusa definitivamente un’epoca: prolificità e sottosviluppo non vanno più a braccetto. Di mezzo, poi, ci si mette la crisi, la nuova emigrazione giovanile, e la frittata è fatta.

   A risentirne di più sono ovviamente le aree interne, i “paesi” che hanno costituito per secoli l’ossatura, anche morale, del Mezzogiorno. SCRIGNI DI CULTURA, ARTE, MEMORIA, DI RESISTENZA COMUNITARIA ALLE AVVERSITÀ DELLA VITA, CHE VANNO INCONTRO, DI GIORNO IN GIORNO, AD UN DECLINO INESORABILE, cupo come le rughe degli anziani che ormai prevalentemente vi risiedono.

   In Calabria, periferia estrema di questo sud in sofferenza, la PIAGA DELLO SPOPOLAMENTO incomincia a far paura, se ne avverte ormai pienamente la portata funesta. D’altronde quale può essere il sentimento dominante in una comunità quando un giorno il problema si chiama mancanza di bambini per formare una classe alle elementari e l’altro rischio chiusura dell’ufficio postale? SENZA POSTE E SCUOLE NON C’È “PAESE”, C’È POCO DA FARE.

   A guardare i numeri sulla disoccupazione, sui consumi, sulla produzione e sul credito non c’è nemmeno da sperare per i prossimi anni, a meno che un massiccio intervento dello Stato (e dell’Unione europea) non faccia irruzione nello scenario attuale, col deliberato obiettivo di fermare la deriva in atto. Ma questa, direbbe qualcuno, è un’altra storia.

   Nel frattempo QUALCHE LABORATORIO DI RESISTENZA AL DECLINO SI È PURE APERTO. Beninteso, essi non possono risolvere i problemi legati alla crisi ed al crollo del quadro macroeconomico complessivo del Mezzogiorno, ma possono contribuire, in qualche modo, a mettere in sicurezza gli scrigni di civiltà di cui parlavamo più indietro.

   Stiamo parlando dei comuni che hanno deciso di aderire al SISTEMA DI PROTEZIONE PER RICHIEDENTI ASILO E RIFUGIATI (Sprar) che fa capo al Ministero dell’Interno, una rete degli enti locali che, attraverso il Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo ed altre risorse straordinarie (Protezione Civile, 8 per mille), realizza interventi di “accoglienza integrata” a favore di migranti che giungono nel nostro Paese da teatri di guerra o fuggono da regimi dittatoriali.

   I progetti territoriali dello Sprar, come spiega lo stesso Ministero, sono caratterizzati da un “protagonismo attivo, condiviso da grandi città e da piccoli centri, da aree metropolitane e da cittadine di provincia”. Andando però a vedere da vicino quali sono i comuni, regione per regione, che li gestiscono, balza subito agli occhi un dato: SI TRATTA NELLA MAGGIOR PARTE DEI CASI DI COMUNI CAPOLUOGO, in generale grossi centri. TRANNE IN CALABRIA, dove i comuni interessati, e soprattutto quelli “storici”, sono generalmente centri piccoli e piccolissimi. La ragione, evidentemente, sta nella diversa interpretazione che si dà del progetto e nelle diverse finalità che gli si attribuiscono a livello locale.

   Non c’è dubbio che in Calabria accanto all’idea dell’accoglienza, figlia della specifica sensibilità di chi ne è protagonista, abbia giocato a favore di un’apertura verso questi progetti L’ESIGENZA DI RIVITALIZZARE BORGHI IN DECLINO, ABBANDONATI, SOGGETTI A RAPIDO SPOPOLAMENTO. CASI COME QUELLI DI RIACE, BADOLATO, ACQUAFORMOSA, CAULONIA ne sono la testimonianza più lampante.

   Ma il discorso vale anche per tutti gli altri. Stiamo parlando di comuni di poche migliaia di abitanti, con centri storici pressoché disabitati, lasciati per anni all’incuria ed anche al degrado, che, grazie ai nuovi “cittadini”, hanno conosciuto una nuova fase di vita, dimostrando al contempo che PUÒ ESSERCI UN’ALTERNATIVA ALLA GESTIONE “SEGREGANTE”, DISUMANA, DEI MIGRANTI ATTRAVERSO I CENTRI D’ACCOGLIENZA.

   Un paio d’anni fa il sindaco di Riace Mimmo Lucano, intervistato da un noto quotidiano nazionale, ebbe a dire: «Cerchiamo di offrire ai profughi un’altra casa qui, e in cambio essi ci aiutano a tenere in vita questa casa». ESPERIMENTO RIUSCITO, che ha attratto la curiosità di giornali e televisioni, intellettuali e scrittori, di ogni angolo del pianeta. Il suo paese, che fino a qualche decennio fa contava più di tremila abitanti, alla fine degli anni novanta era sceso a poco più di ottocento. Con l’arrivo dei rifugiati (IRACHENI, SIRIANI, CURDI, AFGHANI, ERITREI, SOMALI, SERBI ROM, ecc.) è iniziata una nuova storia: il vecchio borgo è tornato a vivere, sono state aperte botteghe artigiane, si sono riaperte le scuole, sono state ristrutturate le case abbandonate. Oggi, con la competizione che si è aperta tra comuni a fronte di risorse sempre più scarse, Riace paga un prezzo molto alto per il trasferimento di una parte dei “propri” rifugiati verso altre località, ma gli effetti della politica fin qui seguita sono ancora ben tangibili.

   Sarà per questo che le candidature crescono, soprattutto tra i piccoli borghi. D’altronde i vantaggi non sono solo quelli legati al ripopolamento dei centri storici. QUESTI PROGETTI CREANO ANCHE UNA PICCOLA ECONOMIA LOCALE – a Riace e ad Acquaformosa accompagnata anche da MONETE LOCALI COMPLEMENTARI –, perché le risorse non vanno in tasca al singolo migrante (è previsto solo un “pocket money” per le piccole spese giornaliere), come la vulgata e certa propaganda xenofoba sostiene, ma servono per sostenere spese di vitto, alloggio, formazione, gestione amministrativa e logistica dei progetti.

   Ne consegue che parte di esse finiscono ad alimentare il commercio locale al dettaglio e un’altra parte consente di creare posti di lavoro tra italiani che, attraverso associazioni non profit, gestiscono materialmente le attività. Per dirla con Keynes, in breve, hanno un effetto “moltiplicatore” sull’economia del territorio.

   Ai tempi dell’austerity e dei tagli sistematici alla finanza locale questo non è poco. (Luigi Pandolfi)

vasai curdi a RIACE in Calabria (foto la Linkiesta)
vasai curdi a RIACE in Calabria (foto la Linkiesta)

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RITORNO ALLE “TERRE ALTE”: L’ADOZIONE DI TERRAZZAMENTI IN ABBANDONO NEL CANALE DI BRENTA

di Luca Lodatti,

da http://agriregionieuropa.univpm.it/

a Regione Veneto, Direzione Urbanistica e Paesaggio

INTRODUZIONE

Questo articolo descrive un progetto di recupero territoriale e insieme di ricerca sociale sviluppato nell’area di studio del Canale di Brenta (VI) fra il settembre 2010 e il febbraio 2013, denominato ADOTTA UN TERRAZZAMENTO, che ha coinvolto un gruppo di persone non originarie della valle nella coltivazione dei versanti montani, storicamente destinati all’agricoltura ma al momento attuale in stato avanzato di abbandono.    La ricerca ha affrontato le attività del progetto senza disconoscere il coinvolgimento che queste comportavano, facendo proprio un approccio operativo, che considera come in taluni ambiti la complessità e la mutabilità dell’oggetto di ricerca non consentano di intervenire solo su alcune variabili e […] si deve interagire con le variabili tutte insieme, essendo i gruppi con cui lavorare già precostituiti (Cardano, 2011).

   A partire da questo approccio, la ricerca ha sviluppato un percorso di riflessione che è partito dai dati relativi agli esiti sia territoriali che sociali del progetto e si è allargato a trarre considerazioni sui FENOMENI DI RITORNO ALL’ABITAZIONE ED ALLA COLTIVAZIONE DI AREE MONTANE IN VIA DI SPOPOLAMENTO, ad opera NON SOLO DI ABITANTI LOCALI MA ANCHE DI CITTADINI provenienti da altre zone, sensibili a obiettivi quali la conservazione del territorio e una maggiore qualità della vita (Guiseppelli, 2005). Questa tematica di ricerca è stata affrontata negli ultimi anni da studi a livello internazionale (Cipra, 2008), che hanno di volta in volta descritto le esperienze di ritorno come degli ESEMPI DI NEO-RURALISMO (Van Der Ploeg, 2009) PIUTTOSTO CHE COME L’ISTAURARSI DI UNA RINNOVATA RELAZIONE FRA CITTÀ E CAMPAGNA (Donadieu, 2006; Convenzione delle Alpi, 2010).

   Anche in Italia negli ultimi anni si è avviata una ricognizione delle esperienze di RITORNO ALL’ABITARE NELLE VALLI ALPINE E AL NUOVO UTILIZZO PRODUTTIVO DEI TERRENI IN ABBANDONO (Corrado, 2011; Dematteis, 2011; Varotto, 2013), i cui esiti hanno offerto al progetto sperimentale qui descritto elementi di confronto e prospettive d’interesse per esaminare le attività realizzate e i risultati riscontrati.

PRESENTAZIONE DELL’AREA DI STUDIO

L’area montana in cui le attività si sono sviluppate è quella del CANALE DI BRENTA, una stretta valle con orientamento Nord-Sud della lunghezza di circa 25 km situata nelle Prealpi Venete, in Provincia di Vicenza.

In epoca antica la valle si caratterizzò soprattutto come luogo di passaggio fra la pianura veneta e l’area tridentina (Signori, 1981; Signori, 1995). A partire dal ‘400 la valle ospitò attività di produzione manifatturiera e commercio del legname (Perco e Varotto, 2004).

   Lo sviluppo territoriale della valle ebbe una svolta a partire dal XVIII secolo, con la concessione da parte della Repubblica di Venezia per la COLTIVAZIONE DEL TABACCO, che andò ampliandosi nel corso dell’Ottocento fino a assumere il ruolo di monocultura (Vardanega, 2006). La tabacchicoltura indusse gli abitanti alla costruzione di estesi TERRAZZAMENTI AGRICOLI sui versanti per ricavarne superficie coltivabile, portando nel tempo ad una nuova configurazione territoriale.

FOTO LUCA LODATTI
FOTO LUCA LODATTI

   L’estensione dei terrazzamenti andò allargandosi fino agli inizi del ‘900, accompagnando la crescita demografica, improntando il sistema di vita delle comunità locali (Perco e Varotto, 2004).

   La coltivazione del tabacco è rimasta l’attività produttiva dominante fino al secondo dopoguerra, quando si verificò un crollo diffuso della produzione, che non si prestava alle nuove forme di agricoltura estensiva e meccanizzata. Nell’arco di alcuni decenni (1960-1990) il numero delle coltivazioni diminuiva fino quasi a scomparire (del 90% nel Comune di Valstagna; fonte Istat, cit. in Tres e Zatta 2006). La popolazione si riduceva in misura minore (34% in media; Tres e Zatta 2006), ma gli abitanti della valle hanno trovato impiego estesamente nell’industria, rafforzando la dipendenza economica della valle dalla pianura antistante.

   ALLA FINE DEGLI ANNI ’90 È EMERSO UN INTERESSE PER LE AREE TERRAZZATE DA PARTE DEL MONDO DELLA RICERCA SCIENTIFICA, di cui si è andati a studiare quello che è stato definito un paesaggio dell’abbandono (Varotto, 2000). I terrazzamenti si presentavano ormai in prevalenza ricoperti dal bosco, con le strutture in rovina e minacciate da crolli. In questa prospettiva sono stati sviluppati alcuni progetti di ricerca promossi dalle Università di Padova e di Venezia, dal Club Alpino Italiano e della Regione Veneto, nel periodo che va dal 2000 fino al 2010 (Fontanari e Patassini, 2008; Scaramellini e Varotto, 2008).

Il progetto di recupero territoriale a uso produttivo

   La sperimentazione di Adotta un terrazzamento si collega al lavoro di ricerca svolto dall’Università di Padova nel progetto europeo Alpter (Fontanari e Patassini, 2008). Durante l’ultimo anno di tale attività è stata registrata una richiesta pervenuta all’amministrazione comunale di Valstagna per l’affidamento di un terreno incolto di pubblica proprietà da parte di due abitanti del vicino centro urbano di Bassano del Grappa; dopo che la richiesta era stata accolta il riuso produttivo dei terrazzamenti ha dato un esito positivo, portando al recupero e alla nuova coltivazione dei terreni, e in seguito anche un’associazione Scout ha avanzato una richiesta analoga.

   La ricerca ha seguito con interesse queste attività spontanee di riuso dei terrazzamenti (Salsa, 1998; Varotto, 2009). Tale esperienza è stato considerato come un punto di partenza che ha condotto a sviluppare l’idea del progetto Adotta un terrazzamento, volto ad allargare la pratica messa in atto da un caso isolato ad un progetto di recupero territoriale.    Nell’elaborare il SISTEMA DI GESTIONE PER L’AFFIDAMENTO DEI TERRENI si è andati a identificare i soggetti necessari allo svolgimento delle attività, che si possono sintetizzare nell’elenco che segue:

– LE ISTITUZIONI LOCALI, al fine di inserirsi nel quadro delle attività di manutenzione del territorio esistenti;

– GLI ABITANTI URBANI, che costituivano il bacino in cui reperire i partecipanti alle attività di recupero;

– LA COMUNITÀ LOCALE, il cui ruolo di accompagnamento e supporto al progetto appariva fondamentale;

infine – L’UNIVERSITÀ, che ha svolto un ruolo di facilitazione dell’iniziativa per la sua gestione e monitoraggio.

   Rappresentanti di questi soggetti si sono riuniti il 31 agosto 2010 per costituire un comitato denominato ADOTTA UN TERRAZZAMENTO IN CANALE DI BRENTA, allo scopo di dare una riconoscibilità e una forma giuridica alla struttura gestionale del progetto (Margheri 2008).

   Il comitato ha assunto anzitutto la funzione di contattare i proprietari locali per acquisire in affidamento i terreni incolti. A tale scopo con la collaborazione del Dipartimento di Diritto privato e del lavoro di Padova è stato sviluppato un modello di Contratto di comodato d’uso modale, che prevedeva la concessione gratuita dei terreni per 5 anni, a fronte dei lavori che garantissero il loro recupero e manutenzione.

   D’altra parte il comitato andava ad accogliere al suo interno coloro che intendevano avviare le attività di ricoltivazione dei terrazzamenti. La struttura di gestione ha così assunto il suo ruolo definitivo, raccogliendo i terreni in abbandono (con un’estensione totale che è cresciuta fino a circa 4 Ha) e andando a valorizzarli come un patrimonio territoriale a disposizione dei nuovi coltivatori.

   Il comitato si è riunito quindi nel settembre del 2010 per identificare i luoghi dove dare inizio ai lavori, prendendo in considerazione alcuni criteri relativi alle aree terrazzate:

– la rilevanza dei siti sotto il profilo storico, culturale e paesaggistico;

– la necessità di un intervento per la stabilità dei versanti, legata al loro stato di conservazione;

– l’idoneità dei terreni ad un recupero produttivo, legata alla presenza di acqua e alla vicinanza da una strada, nonché all’identificabilità dei proprietari. (Luca Lodatti)

Per saperne di più:

http://www.adottaunterrazzamento.org/

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NODEST E AREE METROPOLITANE

IL CORAGGIO DI ABBATTERE I VECCHI CONFINI

di ULDERICO BERNARDI, da “il Gazzettino” del 10/4/2012

   «L’Italia offre gran varietà di paesaggio, di uomini, di ricordi, di costumi e di parlate. Dieci miglia in Italia permettono maggior diversità d’incontri che non cento miglia negli Stati Uniti». Così Giuseppe Prezzolini ottant’anni fa.

   E nel profondo, nonostante industrializzazione, omologazioni, mondializzazione e quant’altro, lo spirito nazionale resta segnato dalla sua storia. Questo significa riconoscere la persistenza e la forza del regionalismo nel nostro Paese. Che ancora fatica a districarsi dalla cappa di centralismo sabaudo e totalitario.

   Tutti sanno che le province sono solo un’invenzione burocratica. Saranno cancellate, ma l’importante è che non si pretenda di sostituirle con altri imbrogli simili. L’occasione potrebbe essere offerta dalla creazione delle città metropolitane, forse.

   Il dubbio resta, perché c’è il rischio che il nuovo assetto non consideri le vocazioni native e spontanee delle aree interessate, e gli interessi politici o addirittura elettoralistici dei partiti, disegnino ripartizioni conformi a un rinnovato manuale Cencelli e non alle esigenze di dare respiro alla vitalità dei territori.

   Prendiamo la montagna. Cariche di problemi, stremate per gran parte dalla monocoltura turistica, le terre alte hanno estremo bisogno di recuperare l’autostima, di frenare l’abbandono, di riconoscere che il loro futuro sta nel passato. Hanno bisogno di libertà per opporsi alla logica che tende a ridurle solo a parco giochi per il tempo libero della pianura.

   Nell’Altopiano dei Sette Comuni cimbri nacque, prima ancora della Svizzera, una Confederazione delle autonomie che rispondeva alla condizione specifica dei luoghi. Venezia Serenissima la riconobbe e sostenne, ricevendone fedeltà. Tutta la montagna veneta e friulana ripete le stesse necessità economiche, antropologiche, sociali. Perché i giovani non se ne vadano, le famiglie non si sentano abbandonate, i paesi recuperino servizi primari e civiltà identitaria. UN ABBOZZO DI CITTÀ METROPOLITANA AD ALTA QUOTA.

   Per la pianura, stravolta dallo scialo di territorio, il riassetto spontaneo delle municipalità deve avvenire avendo in mente le particolarità di queste nostre regioni. Dove lo spirito di campanile (non già il campanilismo che ne è la degenerazione, come tutti gli ismi) diventa un’opportunità per la coesione sociale.

   E qui torna utile citare il nostro grande Nicolò Tommaseo, che aveva idee chiarissime sul valore delle autonomie e sulle ossessioni del centralismo: «Pare che la regione sia tanto piccola, da star tutta rannicchiata all’ombra del campanile, – scriveva – altra parola faceta, di quelle che ripetendo a ogni tratto, il secolo beato si reputa originale (…) Io dico dunque, se la nazione volesse (dovrebbe volere), potrebbe in regioni distinguersi senza dividersi in sé medesima, anzi più fortemente costituirsi nel tutto, lasciando i suoi nervi e i suoi muscoli e i suoi umori ben distribuiti alle parti».

   Veneto e Friuli, ormai lanciate nel lungimirante progetto dell’Euregione Alpe-Adria, possono consentirsi una ricomposizione del mosaico territoriale secondo una logica che ho altrove definito “AGROPOLITANA”, cioè rispettosa delle culture e delle colture, non subalterna alle esigenze di un tardo industrialesimo da capannoni sparsi a man salva, ma orgogliosa insieme delle potenzialità della sua tradizione rurale e dell’altrettanto incredibile emancipazione innovativa sperimentata nei decenni ultimi.

   Non siamo Los Angeles, l’uniforme città diffusa. Siamo i mille paesi tra Mincio e Timavo che custodiscono ciascuno tesori di urbanità, d’arte, di archeologia, di sapienza artigiana. La morte delle undici province nelle due regioni a Nordest può generare molto frutto, come il seme di grano evangelico.

  Sempre che siano rimossi limiti micragnosi e meschinerie partigiane. (Ulderico Bernardi)

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STAZIONI ABBANDONATE CONCESSE GRATIS. “COSÌ SI SALVANO LUOGHI FANTASTICI”

di Giorgio Ruta, da “la Repubblica” del 9/10/2014

– Le Fs le dà in comodato d’uso gratuito alle associazioni che ne fanno richiesta. La Onlus  Cuore di mamma ha realizzato una casa accoglienza e vacanze per bambini in cura. Ci sono già 500 esperienze attive. E c’è chi crea teatri e luoghi d’incontro –

   Stefano Mecali è il filo che unisce il passato al futuro. Nella stazione di ANGUILLARA SABAZIA, a due passi dal lago di Bracciano, lui ci è cresciuto: figlio dell’ex capostazione, da quando è stata assegnata all’associazione ambientalista Terra Tua, è responsabile della struttura.

   Quella di Anguillara è una delle 500 stazioni “impresenziate” che il Gruppo Ferrovie dello Stato ha dato in comodato d’uso gratuito ad associazioni ed enti locali. “L’abbiamo salvata dal degrado con la nostra presenza – racconta Stefano – per me è importantissimo, ci vivo da quaranta anni”.

   I volontari dell’associazione puliscono ogni giorno i locali e hanno aperto un punto d’informazione per i turisti: da qui partono tour per i laghi di Bracciano e Martignano. “Ci occupiamo di turismo responsabile. Cerchiamo di valorizzare una zona stupenda. Ma non solo, tra poco apriremo un centro d’ascolto per gli adolescenti”, dice Maria Elena Riccioni, presidente dell’associazione.

SONO 1.900 LE STAZIONI DISPONIBILI

Da quando le Ferrovie dello Stato hanno applicato un sistema centralizzato di controllo del traffico, molte stazioni sono rimaste senza personale: sono 1900 quelle abbandonate e attualmente disponibili. “È un’opportunità per tutti. Non facciamo morire dei presidi presenti in tutta Italia. Li diamo nelle condizioni in cui sono, in cambio chi le riceve deve effettuare gli eventuali lavori di ristrutturazione e quelli di manutenzione”, spiega Ilaria Maggiorotti del gruppo Rfi, proprietaria degli immobili ferroviari.

I primi esempi sono degli anni ’90

Ma nell’ultimo periodo le concessioni sono aumentate. Nel 2012 sono state 43, 58 l’anno successivo e già 47 nel 2014. “È un progetto interessante perché da un lato diamo una mano a delle realtà sociali molto importanti e dall’altro sconfiggiamo il degrado a cui sarebbero destinati questi luoghi”. E così le stazioni si trasformano: diventano teatri, case d’accoglienza, ospitano radio e orti. Una di queste è quella di MONDOVÌ, nel Cuneese.

   La gente aveva paura di questo posto fino a poco tempo fa: non si sentiva sicura. “Qualcuno aveva pure raccolto le firme, c’erano troppi migranti che si riunivano in questo posto”, dice Claudio Boasso dell’associazione Mondo qui. Oggi grazie a Claudio e ad altri suoi amici è diventata un punto di riferimento: qui, dove c’era la sala d’attesa di prima classe, si balla la break dance, si tengono conferenze e si proiettano film. E al centro di queste attività ci sono proprio i migranti. “Stiamo contrastando il rischio emarginazione, contrapponendo l’integrazione”, spiega Claudio.

C’è di tutto

Da sud a nord, le stazioni rifioriscono in sempre più comuni. Come a COTIGNOLA, nel Ravennate, dove le note di Nicola Piovani hanno riempito il teatro Binario. Lì tutta quella gente nessuna l’aveva mai vista. I camerini e il bagno sono stati realizzati all’interno di un antico vagone affiancato all’edificio centrale della stazione. Presto ci saranno anche il foyer e un bar, sempre all’interno di vecchi vagoni non più utilizzati.

   C’è di tutto nelle nuove stazioni: dalla salute al turismo, alla musica, come dimostra una ricerca fatta da Ludovica Jona dell’agenzia Redattore sociale per Fs. A MARZABOTTO, nel Bolognese, dove prima c’era il magazzino merci, oggi c’è Radio frequenza Appennino, una web radio gestita da una decina di ragazzi. Negli stessi locali ci sono una sala prova e un laboratorio di musica. Nell’ex spogliatoio c’è un centro giovanile autogestito: laboratori, corsi, eventi.

L’ambiente in primo piano

“Stiamo puntando molto sul tema ambientale. Per esempio, grazie a LEGAMBIENTE, le stazioni di POTENZA e PESCARA sono diventate delle “GREEN STATION”: centri di sviluppo della cultura ambientalista, con progetti che vanno dalla biodiversità alla mobilità sostenibile”, spiega Fabrizio Torella, responsabile attività sociali di Fs holding.

   E poi c’è il turismo: “La stazione di RIOMAGGIORE, per esempio, è diventata la sede del parco delle CINQUE TERRE  –  racconta Torella -. Abbiamo stipulato un accordo con l’associazione turismo responsabile”.

   Le stazioni si tingono di verde. Soprattutto quella di ORTA MIASINO, in Piemonte, dove c’è un ORTO SEGRETO. Così lo chiamano, in quello che era lo spazio verde della stazione crescono 45 varietà di ortensie e tantissime rarità piemontesi.

A Ronciglione

Dentro la stazione di RONCIGLIONE, invece, ci sono giocattoli e letti. L’Associazione Cuore di mamma ha realizzato tra queste mure una casa accoglienza e vacanze per bambini in cura. “È il progetto che mi ha colpito di più – dice Maggiorotti – sono davvero contenta di questa esperienza”.

   Ma qualcuno se ne approfitta e non rispetta i patti: “Abbiamo avuto anche esempi negativi – racconta Maggiorotti – c’è chi non ha migliorato le stazioni, ma le ha completamente affossate, non facendo lavori di ristrutturazione o manutenzione. Ma in generale questa è una grande esperienza che sta riqualificando tantissimi luoghi importantissimi. Perché si sa la stazione è il centro di ogni città”. (Giorgio Ruta)

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FARM CULTURAL PARK: FAR RIVIVERE UN PAESE ATTRAVERSO LA RIGENERAZIONE URBANA E CULTURALE

di Francesca Battistoni, da SMARTINNOVATION del 3/3/2014 – http://smartinnovation.forumpa.it/

– Siamo nel centro storico di Favara, Andrea e Florinda decidono di tornare dall’estero per mettere a posto le case abbandonate del centro storico, per trasformarle in una galleria d’arte contemporanea, una residenza per artisti di tutto il mondo, un museo d’arte contemporanea per bambini, un centro d’innovazione internazionale. Ma come hanno fatto? Il loro progetto oggi è tra i semi-finalisti di Che fare. Ve lo vogliamo raccontare attraverso un’intervista ad Andrea Bartoli. –

Andrea, ci racconti com’è nata Farm Cultural Park?

Farm Cultural Park è un Centro Culturale e Turistico Contemporaneo diffuso, insediato nella parte più antica del Centro Storico di FAVARA, PAESE SICILIANO A 6 KM DALLA VALLE DEI TEMPLI DI AGRIGENTO. È un’esperienza abbastanza unica che abbraccia mostre temporanee e permanenti, residenze per artisti, workshop, presentazioni di libri, concorsi di Architettura e molto altro. In questo progetto l’arte e la cultura si mettono a servizio del territorio per valorizzare e dare un futuro alle persone che vivono in Sicilia. A gennaio del 2010  è successo un evento tragico: il crollo di una palazzina del centro storico in cui morirono due bambine. Questo fatto ha accelerato il processo di realizzazione del nostro progetto. A quel tempo ci trovavamo all’estero e su Favara si cominciò a concentrare una grande attenzione mediatica. L’amministrazione, allora, decise di buttare giù le case del centro storico e di costruirne uno nuovo. Noi ci siamo precipitati e da allora abbiamo cominciato a ristrutturare piano piano le case del centro storico come spazi culturali da restituire alla città e lo abbiamo fatto soprattutto per ridare speranza agli abitanti di Favara.

Cosa è oggi Farm Cultural Park?

Oggi è un’istituzione Culturale privata, impegnata in un progetto di utilità sociale e sviluppo sostenibile: dare alla città di Favara e ai territori limitrofi una nuova identità connessa alla sperimentazione di nuovi modi di pensare, abitare e vivere. Tanta gente viene visitarci da fuori, tante persone si innamorano di questo posto e comprano delle case a bassissimo prezzo che poi piano piano ristrutturano e entrano a far parte della comunità.

Oggi stiamo ristrutturando un palazzo del 700 grazie ad alcuni fondi europei che diventerà un centro dedicato ai bambini con vocazione legata alla creatività, al gioco e al sogno tramite laboratori di teatro, architettura ecc.

Il territorio e la comunità di Favara come hanno accolto questa esperienza?

Ci sono diversi livelli di comunità. La comunità stretta ossia quella di Favara è fatta di giovani che ci supportano e a cui abbiamo dato l’orgoglio di appartenere al loro territorio, poi alcune persone sono tornate qui a Favara a vivere, ma certo non tutta Favara usufruisce dei nostri spazi ed è appassionata al nostro progetto. Chi non si è mai mosso da Favara fa fatica a capire perché noi perseguiamo con forza questo progetto e fa fatica a capire che noi non ci guadagniamo a livello economico ma ci mettiamo il nostro tempo e tutte le nostre energie.

Siete stati aiutati da fondi pubblici?

Ciò che è stato fatto è stato fatto senza fondi pubblici a parte la ristrutturazione del palazzo di cui parlavo prima per cui abbiamo ottenuto fondi europei. Abbiamo investito noi e chi ci ha creduto. Oggi la sfida è trasformare questa comunità attorno a FARM in una comunità che genera valore e che possa essere sostenibile.

E come pensate di fare?

Stiamo ragionando sui modelli organizzativi e giuridici, per esempio sul modello Fondazione di Comunità. Stiamo mettendo in atto partnership importanti come per esempio quella con la facoltà di Economia e Commercio di Catania, o con the HUB Catania, stiamo chiedendo consiglio ad altri progetti di rigenerazione urbana come per esempio Ex Fadda in Puglia con cui c’è uno scambio continuo di idee e modi di lavorare. Inoltre, vogliamo fare una chiamata alle armi per capire chi c’è e chi condivide i nostri valori e vuole mettersi in gioco come noi.

Parlando di Che fare, voi siete uno dei progetti semifinalisti candidati al premio. Ci raccontate il progetto che avete proposto?

Per Che fare abbiamo deciso di dare una mano ad altri territori che hanno bisogno di rinascere. Favara è orami un centro conosciuto ed è ora di capire come fare a ridare vita ad altri luoghi. FARM Regeneration è una possibilità per i comuni di Gela e Lampedusa che hanno già accettato di partecipare al progetto di intraprendere un percorso di valorizzazione del territorio.

Vogliamo far partire un processo che possa poi camminare con le proprie gambe. Grazie al contributo di artisti, designer e professionisti del settore ci si adopererà per la riqualificazione di uno spazio attraverso un processo di arte partecipata che si concentra in tutte le sue fasi di realizzazione sul diretto coinvolgimento di chi vive la città.

Le attività progettuali avranno inizio, per ogni città, con un sopralluogo del Team di Farm Cultural Park nel territorio, al fine di rafforzare i legami con le istituzioni e le associazioni locali. In concerto con queste, sarà individuato un luogo da adibire a sede del progetto, destinato ad essere rigenerato e convertito ad un nuovo uso.

Si procederà quindi ad uno studio approfondito dei problemi e dei desiderata; le proposte della popolazione locale saranno raccolte tramite interviste dirette e tramite una piattaforma on-line.
Al termine del percorso partecipato di selezione, verrà scelta una tra le proposte che avranno riscosso maggiore interesse per essere presentata al pubblico.

Che cosa offre, secondo te, un processo di progettazione partecipata e quanto costa un processo del genere in termini di risorse fisiche, di tempo ecc.?

Noi a Favara ci troviamo in un buon momento ma la montagna da scalare è molto alta. Il processo è fortemente impegnativo e mette sul campo i valori, prima di tutto la fiducia, la manutenzione dei rapporti, in poche parole le relazioni. All’inizio ci sono grandi entusiasmi e poi bisogna avere la forza di ridarsi gli obiettivi, di motivare sempre la squadra. Nell’ambito della rigenerazione urbana le esperienze sono tante ma sono piccole e non possono fare scuola. Non esiste una ricetta definitiva, esistono diverse esperienze tutte singolari e significative. Tutto è da provare ma l’importante è fare e provarci! (Francesca Battistoni)

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MANUALE PER IL RECUPERO DEI CENTRI COMMERCIALI DISMESSI

Data di pubblicazione: 30.08.2005 (da EDDYBURG)

Kenneth M. Chilton, Greyfields: The New Horizon for Infill and Higher Density Regeneration, Southeast Regional Environmental Finance Center, EPA Region 4, University of Louisville, 2005

– Estratti e traduzione per Eddyburg a cura di Fabrizio Bottini Introduzione I greyfields sono vecchie aree commerciali e terziarie obsolete e abbandonate, in particolare centri commerciali [ mall].

Basta percorrere in auto qualunque arteria principale di qualunque città, per vedere centri commerciali un tempo attivi e ora sottoutilizzati. Molte di queste ex strutture base urbane ora subiscono un processo di disinvestimento. Gli inquilini si sono spostati verso il suburbio e i nuovi corridoi commerciali dotati della “giusta” demografia di mercato, del complesso di attività insediate e forme architettoniche. Si lasciano dietro migliaia di metri quadrati di spazio commerciale, circondato da un mare di asfalto grigio. Comunemente note come greyfields, queste brutture sono i simboli di una radicata modalità di sviluppo casuale. Questi greyfields pongono una particolare sfida immobiliare e di sviluppo urbano. Sono difficili da definire. Alcuni ricercatori chiamano greyfield solo i centri commerciali chiusi ad aria condizionata contenenti un minimo di 40.000 metri quadri di superficie commerciale. Altri prendono in considerazione anche le fasce commerciali aperte, i power center (complessi dominati da pochi grossi anchor come Kmart o Wal-Mart), o anche complessi di quartiere a servizio di piccole zone, abitualmente basati su un negozio alimentare. L’entità del problema varia a seconda del tipo di definizione utilizzato. Per la comunità circostante un complesso commerciale abbandonato, fa poca differenza il tipo di definizione usato: quello spazio abbassa i valori immobiliari, scoraggia nuovi investimenti e non produce sufficiente gettito fiscale e posti di lavoro. Molte fasce commerciali aperte abbandonate risalenti agli anni ’50, ’60, ’70, non vengono qualificate come greyfields se si considerano solo i “centri commerciali” chiusi. Ma queste aree che un tempo ospitavano supermarkets, altra grande distribuzione e ristoranti, sono piuttosto comuni nei suburbi delle fasce più interne, colpite dallo sviluppo suburbano più esterno. Indipendentemente dalle dimensioni di questi complessi, ciascuna area rappresenta una possibilità di rafforzare la comunità se solo si trovano investitori sufficientemente capaci di comprendere i bisogni del mercato.

Una obsolescenza non pianificata Il declino dei vecchi malls si può attribuire ad una varietà di fattori. I movimenti di popolazione e il nuovo insediamento suburbano hanno modificato l’ambiente commerciale in modi che ricordano il declino delle aree centrali urbane. Le città hanno perso molta della propria attività commerciale con la “centrocommercializzazione” degli anni ’60. Ora, con le tendenze ad un insediamento sempre più esterno al centro, si ripete un processo simile di dismissione. Gli analisti del settore indicano come motivo primario di declino del mall i gusti dei consumatori in rapida evoluzione che alimentano la domanda per nuove esperienze di shopping. Il mall è considerato “artificiale” e il consumatore sceglie invece nuovi formati più interessanti e vari. Con sempre più tempo dedicato agli spostamenti pendolari, il consumatore cerca possibilità commerciali più comode. A seconda di come si guarda la questione, il problema cambia. In alcuni casi, sono gli stessi centri commerciali a non essersi organizzati al meglio per la concorrenza. Devono dare parte della colpa della propria crisi ai mancati investimenti per restare sulla cresta dell’onda.

INDIVIDUAZIONE DEL PROBLEMA

I dati attuali Al momento esiste un’informazione limitata sull’entità del problema greyfield. Non se ne conosce il numero esatto. Secondo il Congress for New Urbanism (CNU), circa il 7% dei centri commerciali regionali è da considerarsi in situazione greyfield, con un altro 12% avviato a diventarlo. In generale il CNU stima che il numero dei complessi commerciali in queste condizioni sia di oltre 2.000. Lo International Council of Shopping Centers, utilizzando una definizione più ristretta, stima la quantità di greyfields in 1.200 unità. Secondo un articolo recente, i centri commerciali “morti” o morenti rappresentano circa il 19% del totale nazionale. Il centro studi privato RetailForward, calcola che per ogni supercenter della Wal-Mart inaugurato in futuro, chiuderanno due punti vendita alimentari nelle vicinanze. Da quando Wal-Mart ha saturato il mercato dell’area, a Oklahoma City ha chiuso un totale di 30 grocery stores. Il Mall of Memphis, Tennessee, ha chiuso la vigilia di Natale del 2003 dopo 21 anni di esistenza. La crescita dei mega-negozi e il continuo sprawl suburbano indicano che quello dei complessi commerciali dismessi sarà un problema di lungo periodo. In media un greyfield occupa 18 ettari, una superficie sufficiente a realizzare varie possibilità, come residenza, commercio e altre funzioni di servizio. Diciotto ettari ad esempio potrebbero servire a 400 alloggi su una densità di oltre venti abitazioni ettaro. Quindi i greyfields rappresentano una possibilità di ridimensionare l’ondata di insediamento diffuso. I vantaggi di queste zone sono parecchi, essendo di solito dotate di:

• buona localizzazione lungo arterie di traffico

• superfici notevoli in zone a insediamento consolidato • infrastrutture disponibili • assenza di contaminazioni, visto l’uso precedente

• una certa densità di popolazione circostante

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La localizzazione

L’investimento originale che ha creato il complesso commerciale si basava su analisi di fattibilità tradizionali. L’area aveva propri valori localizzativi che la rendevano matura per l’edificazione. Purtroppo, mentre le città continuavano a svilupparsi verso l’esterno, i costruttori hanno continuato a cercare spazi ben posizionati da edificare, ovvero terreni su strade di grande traffico, incroci o svincoli autostradali. Il fatto che crescano nuovi insediamenti non rende i vecchi malls obsoleti. Al contrario, essi e le strisce commerciali sono ottimamente collocati. Molti sono vicini a fermate del trasporto pubblico, con grande movimento connesso di traffico automobilistico. Nel corso degli anni i quartieri sono cambiati, ma si tratta di localizzazioni vitali per le città che ospitano i greyfields.

Le dimensioni

Uno degli argomenti più diffusi fra i costruttori che esitano a intervenire nei vecchi quartieri, è la mancanza di spazio. La superficie di molti complessi commerciali dismessi è un’enorme opportunità, per un investitore attento. A ben vedere, alcuni greyfields sono nei pressi di quartieri in corso di rinascita, con gli abitanti in cerca di possibilità per case a prezzi accessibili vicine al centro città. Gli ex spazi commerciali potrebbero essere una risorsa di spazi per case del genere e catalizzare investimenti più ampi e diffusi. In questi quartieri il potenziale di intervento sui greyfields è molto alto. La sfida è di progettare complessi che siano adeguati a gusti dei nuovi residenti, anziché offrirsi al ribasso ad una nicchia di mercato non più sostenibile nell’area.

Le infrastrutture

I siti già urbanizzati possono essere meno dispendiosi per l’intervento, dato che non necessitano di grandi spese di infrastrutturazione. Esistono giù i collegamenti alle reti idriche, elettriche, di comunicazione e fogne. Spesso esiste anche quello al servizio di autobus. Comunque, nei casi di interventi che richiedono sostanziali modifiche all’assetto esistente, i costi infrastrutturali possono essere elevati. Ad esempio, la trasformazione di uno spazio a funzioni mixed use richiede molti interventi in termini di strade, marciapiedi, verde, edifici.

Contaminazione

Alcuni investitori preferiscono evitare i quartieri esistenti e spazi urbanizzati a causa dei pericoli di contaminazione. Nel caso degli spazi dismessi commerciali, questo non è un problema. I greyfields non hanno una vicenda di usi industriali, e a meno che il mall non ospitasse un garage per i trasporti o una lavanderia secco, non c’è alcun bisogno di occuparsi di contaminazione. Un problema in più può essere l’amianto. Questi problemi possono essere facilmente ridimensionati verificando prima dell’intervento sia la documentazione sugli usi precedenti, sia tramite sopraluogo sul sito.

La densità di popolazione

I greyfields tendono a collocarsi in aree densamente popolate. Spesso il declino del complesso commerciale è in parte connesso ai mutamenti demografici. La popolazione resta stabile, ma il potere d’acquisto o i gusti dei consumatori sono cambiati. L’incapacità del mall di produrre reddito è spesso connessa a quella della proprietà degli immobili di rispondere ai mutamenti del mercato.

Se i complessi commerciali dismessi hanno tutti questi vantaggi, perché mai restano vuoti o sottoutilizzati? È un paradosso a cui si trovano di fronte sia la proprietà che i residenti del quartiere. È difficile credere che questi centri commerciali un tempo fossero luoghi all’ultimo grido. La chiave per capire questo paradosso è ricordarsi sempre che mercati e città sono cambiati. Le caratteristiche che facevano di un mall un buon investimento possono essere ancora valide, ma in condizioni diverse. Così come il quartiere che la ospita, anche il sistema funzionale della superficie ora greyfield deve cambiare, per rispondere alla domanda di oggi. Uno dei maggiori ostacoli al riuso è quello di insistere nell’usare il sito per lo scopo originario: il commercio. Gli operatori tendono ad irrigidirsi sull’uso commerciale di uno spazio a mall. Di conseguenza, vengono spesi milioni di dollari per restaurare facciate o aggiungere nuovi punti vendita. Purtroppo, si tratta di una pratica inutile, perché a pochi chilometri di strada è possibile trovare ambienti commerciali più nuovi, più grandi, con proposte migliori. Il vecchio mall di solito non può competere con le strutture più nuove. Eppure spesso i complessi più vecchi tentano proprio di rispondere all’obsolescenza attraverso la competizione, anziché tentare di ridefinire il proprio ruolo urbano.

Tendenze dei centri commerciali

Un tempo considerati l’esperienza di shopping più avanzata, i centri commerciali soffrono da un decennio. Le nuove tendenze prediligono gli spazi aperti, dove i clienti non devono camminare attraverso l’intero complesso per raggiungere i negozi che desiderano. I complessi Lifestyle centers e quelli che uniscono commercio e attività per il tempo libero sono sorti come risposta a una nuova domanda, così come i malls “all’aria aperta”, attorno a un padiglione o ad altro elemento. Secondo lo International Council of Shopping Centers (ICSC): “Si prevede vengano realizzati 13 centri regionali/sovraregionali per un totale di 1,4 milioni di metri quadrati di superficie commerciale lorda [ gross leasable area] (GLA), dal 2003 al 2005”. In più, lo ICSC stima che nello stesso periodo si inaugureranno altri tre centri ibridi (a pianta chiusa combinata con un formato all’aria aperta) e tre value-oriented (gestori commerciali con temi per il tempo libero). Complessivamente, ciò significa oltre 2 milioni di metri quadrati di GLA, circa 100.000 metri quadrati per centro. Nel 2000-2002, hanno aperto 12 centri regionali/sovraregionali, 11 ibridi, e cinque value-oriented. Questi 28 grossi complessi coprono oltre 3 milioni di metri quadrati, vale a dire in media oltre 100.000 metri quadri a centro. Lo scopo di queste cifre, è di mostrare le tendenze nella costruzione di nuovi centri commerciali. I malls più vecchi e in declino hanno diversi svantaggi competitivi paragonati al numero crescente dei lifestyle centers. Di conseguenza, gli operatori di greyfields devono analizzare le potenzialità dei siti nel contesto di queste tendenze del mercato. La scelta è fra il proseguire nella concorrenza per il capitale mobile – il denaro dei consumatori – o il ripensare al proprio ruolo urbano secondo modi diversi.

Sfide e incentivi

IL RUOLO DELLA PIANIFICAZIONE L’amministrazione municipale di Charlotte ha intrapreso un’approfondita analisi dei propri problemi riguardo ai greyfields. Deborah Currier, esperta immobiliare che ha condotto stime riguardo al commercio big box, calcola che Charlotte – città con circa a 550.000 abitanti – possieda oltre 200.000 metri quadri di superfici big-box vuote. La Currier individua i seguenti ostacoli al riuso dei greyfields:

• trasformazione della demografia commerciale

• l’alterazione di una vecchia struttura potrebbe innescare processi costosi

• trasformazione del sistema stradale e del traffico

• superfici troppo ristrette

• incapacità del mercato di sostenere così tanti tipi dello stesso negozio

• commercianti che richiedono solo il proprio prototipo, e nessun altro

• siti lasciati vuoti volontariamente, per proteggere un bacino di mercato Molti di questi problemi possono essere risolti attraverso una pianificazione creativa. Ciò richiede un coordinamento fra il settore pubblico e quello privato in termini di pianificazione dei trasporti, zoning, interventi mirati e nuove regole per promuovere lo infill development.

Gli incentivi necessari a sostenere il riuso dei siti commerciali dismessi devono controbilanciare le forze del mercato attraverso la pianificazione urbanistica. Per esempio, le municipalità potrebbero approvare regole di riuso che non sovraccarichino i costruttori di interventi costosi. Detto semplicemente, le amministrazioni locali devono rendere facile a chi interviene il riuso attraverso le cosiddette clausole grandfather. Una norma grandfather è una regola di zoning che esenta dall’adeguamento alle norme attuali: nel caso dei greyfields, ciò significa continuare a basarsi sull’uso precedente degli spazi. Ciò consente di intervenire senza rispettare i requisiti dell’azzonamento corrente per quanto riguarda arretramenti, spazi aperti e altri vincoli che potrebbero rendere quel sito meno competitivo sul mercato di oggi. Le città potrebbero istituire un ufficio di “facilitazione” col compito di rimuovere gli ostacoli burocratici che si incontrano nel corso di un progetto edilizio di riuso. In questo modo, la realizzazione potrebbe attraversare tutto l’iter urbanistico senza rinvii. Gli urbanisti devono essere creativi, e capire che molte ordinanze di zoning riescono a impedire il riuso dei vecchi complessi. I greyfields potrebbero trarre beneficio da standards di parcheggi ridotti. Nello stesso modo l’esenzione dalle norme su arretramenti e alberature consentirebbe ai costruttori di aumentare al massimo la superficie edificata. Si potrebbero concedere premi di densità per i costruttori interessati al riuso dei greyfields a scopi residenziali. In più, si potrebbero usare incentivi finanziari come riduzioni fiscali o beautification grants per promuovere gli investimenti sui siti commerciali in disuso. Come chiarisce l’esempio di Charlotte, gli incentivi da soli sono solo un parte dell’equazione.

Un’attenta pianificazione della crescita futura può diminuire le conseguenze negative dello sviluppo suburbano, a utilizzare le risorse interne alle aree urbanizzate.

È necessaria un’attenzione maggiore alla pianificazione generale verso lo sviluppo sostenibile. Gli esperti di trasporti devono collaborare coi funzionari dello sviluppo economico, i comitati cittadini, le agenzie ambientali e gli operatori immobiliari. Altrimenti, l’attuale problema dei greyfields potrebbe perpetuarsi e diffondersi sempre più lontano dal centro della città. … Molte città di tutto il paese stanno limitando le dimensioni dei big box – grandi edifici commerciali isolati come Home Depot o Wal-Mart – usando norme di tipo smart growth. In più alcune amministrazioni richiedono un versamento cauzionale per la demolizione nel momento dell’edificazione di un grosso complesso commerciale. Se in futuro gli edifici dovessero rendersi vacanti queste somme sarebbero utilizzate per demolirli. Un’altra tattica è quella di introdurre standard edilizi minimi. Si richiede ai costruttori di complessi commerciali l’uso di mattoni, o di particolari stili architettonici, ad esempio, nella realizzazione di nuovi centri. Le amministrazioni proseguono con la lotta sui due fronti, della crescita in nuove aree e del declino di quelle di più antica urbanizzazione, e si realizzano nuove collaborazioni fra gruppi abitualmente ignorati dal r processo edilizio. Le scuole stanno diventando attori sempre più importanti, e potenziali beneficiari degli spazi greyfield riutilizzati. I distretti scolastici del Maine e Wisconsin stanno spendendo milioni di dollari in nuove costruzioni scolastiche, mentre sperimentano una contemporanea bassa crescita demografica. Sia le scuole che i governi potrebbero rivolgersi ai siti commerciali in disuso, prima di iniziare i lavori su nuove aree. Sono necessari nuovi approcci, per consentire il riuso de greyfields su larga scala. Ciò richiede nuove collaborazioni, un nuovo modo di pensare, e incentivi strategici progettati per integrare forze di mercato e tecniche di pianificazione.

Commercio, o Mixed Use ?

I greyfields sono un elemento di interesse per gli analisti di problemi urbani, perché si adattano bene ad altre tendenze di riuso. Sono collocati in modo ideale per promuovere sia lo infill development che un’edificazione sostenibile. Infill development significa letteralmente riempire le aree urbane non utilizzate o abbandonate in fasi successive. Il processo di riempimento reinserisce la città nei nuovi mercati e crea occasioni per la comunità. L’edificazione sostenibile è un tentativo di crescita in modo ambientalmente consapevole, che promuove un riuso del suolo in alternativa all’edificazione di nuovi terreni suburbani, boschi, aree agricole.

Le tendenze attuali verso enormi centri commerciali regionali, localizzati nei punti chiave degli svincoli autostradali, incoraggiano uno sviluppo meno sostenibile, auto-dipendente nelle fasce più esterne. Il riuso dei greyfields è un valido strumento nello sforzo di arginare lo sprawl urbano. Uno dei tipi più interessanti di riuso è la riconversione di vecchi malls in complessi mixed-use. L’elemento centrale di questo genere di progetti è la trasformazione del complesso commerciale in un sistema orientato al trasporto pubblico contenente una miscela di funzioni commerciali, di servizio e residenziali. Mixed use è un termine noto fra gli urbanisti, ma non è diffusamente accettato dal mondo dell’impresa immobiliare: specialmente quando si tratta di ristrutturare un mall chiuso o in crisi. Ad ogni modo, il fatto che un centro commerciale sia in decadenza può essere un’indicazione che gli scopi che l’hanno fatto nascere non sono più validi. La soluzione del problema richiede di riorganizzare il complesso orientandolo ai bisogni della comunità, degli affari e dell’amministrazione. Ovvero, ricostruire l’area in un modo che generi profitto per gli operatori, realizzi obiettivi comunitari e contribuisca al gettito fiscale locale.

Da spazi commerciali in disuso a piazze urbane? Qualche volta un centro commerciale fallisce perché ha perso la propria ragion d’essere economica. Ma ogni città ha bisogno di qualcosa. Smettiamola di pensare a questi spazi come shopping centers decaduti, e iniziamo a considerarli potenziali complessi mixed-use. [Victor Dover, Architetto]. Come è possibile riutilizzare i centri commerciali per promuovere città migliori? Uno dei maggiori ostacoli all’edificazione mixed use sono le attuali norme di zoning. Lo zoning corrente tende a separare gli usi dello spazio anziché mescolarli. La maggior parte dei costruttori e dei modelli di pianificazione urbanistica lavorano secondo questi principi tradizionali. Ne consegue che si creano involontariamente vaste zone dipendenti dall’automobile, dove le funzioni residenziali sono separate da commercio e servizi. Gli urbanisti in città come Nashville stanno tentando di sviluppare un nuovo tipo di aree omogenee, che rendano più facile ai costruttori realizzare quartieri di tipo tradizionale. Come sottolinea il responsabile per l’urbanistica di Nashville, Rick Bernhardt, “Si pensa di solito che ciascuna comunità abbia un nucleo centrale, con le zone funzionali collocate attorno”. Molti insediamenti suburbani mancano di un nucleo centrale, e i greyfields sono grandi a sufficienza per svolgere questa funzione, se configurati opportunamente. I complessi commerciali in disuso sono un’enorme occasione per le città, perché si ridefiniscano attorno a un nucleo centrale. Possono essere progettati sistemi di strade che colleghino il mall ai quartieri circostanti. È possibile incorporare le fermate del trasporto pubblico, a offrire un’occasione di spostamento da e per i posti di lavoro. Spazi pubblici come biblioteche, uffici pubblici, strutture scolastiche o agenzie di servizio possono contribuire a rendere più attrattivo il complesso. Come già detto, le dimensioni della maggior parte dei greyfields li rendono adatti anche all’insediamento residenziale. Una certa varietà di usi dello spazio li rinforza l’uno con l’altro, in modo da sostenere la vitalità del luogo a tutte le ore, tutti i giorni della settimana. Non tutti questi spazi commerciali dismessi sono buoni candidati a un riuso multifunzionale. I costruttori desiderano un ragionevole ritorno economico ai propri investimenti, ed esitano di fronte a progetti rischiosi. Ma anche il settore pubblico può giocare un ruolo centrale in questi processi di riuso. Dimensioni e localizzazione dei greyfields li rendono spazi adatti per scuole, campus di istituti superiori, parchi, uffici governativi e di associazioni. Trovare le funzioni più adatte per uno spazio del genere richiede una capacità di visione che vada oltre il “riconfezionare un ambiente commerciale”. Il resto di questo manuale, è dedicato alle raccomandazioni per il riuso di un greyfield. Particolare attenzione è posta al comprendere le dinamiche urbane, di quartiere, e i bisogni del mercato.

… ALCUNI ESEMPI

Si chiama demalling il riuso di un ex centro commerciale a nuove funzioni. Come già accennato nei paragrafi precedenti, le possibilità comprendono funzioni miste, usi civici, o altro commercio. Anche se il riuso dei greyfields appare perfettamente logico in teoria, la realtà pratica è molto più complessa. I progetti coinvolgono numerosi soggetti interessati, milioni di dollari, complesse collaborazioni, e il consenso della comunità. Gli elementi esposti di seguito, secondo un ordine casuale, sono essenziali a facilitare il passaggio di un progetto greyfield dalla teoria alla pratica.

La comunità e la partecipazione pubblica Per questa guida, sono stati intervistati diversi professionisti del campo immobiliare, architetti e funzionari pubblici, al fine di compilare un elenco dei passi necessari al riuso dei malls obsoleti. Una delle affermazioni ricorrenti fra chi è interessato ai greyfields è che sia essenziale conoscere la relazione fra centro commerciale e città. Che ruolo ha giocato nello sviluppo locale? Quanto è profondo il radicamento di questa struttura? Come può, un piano di riuso, equilibrare bisogni comunitari e interessi economici? per rispondere a queste domande, è necessario coinvolgere nel piano i residenti. La maggior parte delle persone conoscono il termine NIMBY (Not In My BackYard). Per molte comunità, un ex centro commerciale è meglio di un intervento sconosciuto. Gli abitanti spesso temono i cambiamenti, e istintivamente oppongono resistenza a progetti che possano modificare l’ambiente locale. Quindi, la partecipazione pubblica è un punto irrinunciabile nel riuso dei greyfields. Senza il coinvolgimento della comunità, gli sforzi per il recupero di questi spazi probabilmente saranno vani. Il Continuum Group di Denver è stato il protagonista del positivo piano di riuso per il complesso Villa Italia di Lakewood, Colorado. Il centro aveva funzionato come polo commerciale dagli anni ’60, soffrendo però di mancati investimenti nel corso degli anni. Seguendo alcuni principi New Urbanism, il piano di riuso ha trasformato i circa 50 ettari del sito da solo commercio a struttura mixed-use con 1.300 case, 80.000 metri quadrati di superficie commerciale, un albergo con 250 stanze, 1,5 ettari di giardini, piazze e altri spazi verdi, un grosso negozio alimentare e 9.000 posti auto. Il progetto è stato eletto a modello per il riuso dei greyfields, ma non è stato per niente facile realizzarlo. Ha richiesto una grande quantità di partecipazione del pubblico. Come spiega uno degli architetti responsabili del progetto: ”Quello spazio aveva una storia di idee e proposte, tutte respinte dalla comunità locale. Per superare questa sfiducia, abbiamo dovuto costruirci approvazione e sostegno. Non siamo arrivati lì con piani e progetti. Abbiamo lavorato con la città per capire i fatti, il potenziale del mall, le caratteristiche desiderate del luogo, le funzioni future più adeguate e abbiamo passato molto tempo con le persone in modo che capissero cosa stavamo facendo e cosa volevamo ottenere”. Questo tipo di approccio ha costruito comprensione, credibilità e fiducia. L’amministrazione locale ha anche coinvolto i cittadini organizzando un comitato consultivo che rappresentava uno spaccato sociale della comunità. Grazie a questo percorso, il pino di riuso ha evitato le potenziali trappole delle paure dei cittadini.

Il governo degli interessi immobiliari

Come molte operazioni immobiliari, anche il riuso può essere reso complesso dagli obiettivi contrastanti di vari proprietari. In molti casi, affittuari, proprietari del mall, proprietari degli immobili adiacenti, possono sabotare i piani di recupero. Alcuni occupanti, per esempio, hanno potere di veto sui progetti che riguardano il complesso. A meno che un unico ente non riesca ad avere in qualche modo un efficace controllo sulla proprietà, un piano può restare paralizzato. I contratti di affitto contengono clausole che proprietari e occupanti usano come merce di scambio. La contrattazione rappresenta la chiave per superare questo ostacolo, ma può essere necessaria la minaccia di esproprio da parte dell’ente pubblico, per i rappresentanti più ostinati di alcuni interessi. Tom Dujan, architetto del progetto Villa Italia, spiega che “la volontà e una buona idea non bastano, perché alcuni sotto-interessi riescono ad impedire che le cose succedano. Nel nostro caso l’amministrazione locale era disponibile a usare il potere di esproprio, per assicurare unità di intenti”. Ciò richiede una considerevole spesa, di tempo e denaro. Anche nel caso del Bayshore Mall vicino a Milwaukee, Wisconsin, l’amministrazione locale era disponibile a utilizzare il potere di esproprio. Il vecchio mall era troppo piccolo per interessare il mercato, e doveva espandersi da circa 50.000 a 100.000 metri quadrati. Sinora, il progetto ha realizzato 35.000 metri quadrati di commercio, 10.000 di uffici, e 20-40 edifici residenziali del tipo town house in un ambiente pedonale. Una volta completato, comprenderà ristoranti, palestra, strutture sanitarie, un teatro, un negozio alimentare di categoria superiore.

Un impegno pubblico/privato

Come già accennato, i progetti mixed use per i complessi commerciali in disuso possono essere dispendiosi. Aumentare la densità e promuovere i collegamenti richiede investimenti sostanziosi in infrastrutture. L’organizzazione e realizzazione di strade, verde, piazze, marciapiedi è costosa. In più, la maggior parte di questi spazi non possono essere sottoposti a tariffa, vista la collocazione suburbana della maggior parte dei centri commerciali. Per finanziare questi interventi tanto radicali, ci deve essere la volontà del settore pubblico di investire nel progetto. Costruttore, comunità locale e amministrazione cittadina devono collaborare alla creazione di una struttura pubblica di finanziamento finalizzata alla realizzazione di uno spazio pedonale. I sostenitori del progetto devono convincere i potenziali associati del vantaggio economico dell’investimento. Dunque è necessario un alto livello di complessità per coordinare i meccanismi di finanziamento e gli interessi di lungo termine di tutti gli associati al programma.

Conoscenza

La maggior parte degli intervistati è stata cristallina riguardo al bisogno di cominciare il processo da zero, evitando qualunque approccio rudimentale a questi spazi. In primo luogo, i costruttori devono sapere se prodotti e servizi si collocheranno bene in quel luogo. Ciò dipende dalle condizioni del mercato locale e dai modi di intervento. La forma fisica ideale dell’ambiente può variare a seconda delle dimensioni della proprietà, degli stili architettonici circostanti, delle caratteristiche accettabili dalla comunità. Esiste il pericolo di un approccio per formule rigide al riuso dei greyfields. Per esempio, la definizione di un piano generale corretto richiede una conoscenza approfondita degli spazi pubblici, delle sezioni stradali adeguate e dimensioni dei marciapiedi, che non sono uguali per qualunque intervento. I costruttori devono sapere cosa funziona, e cosa no, in termini di architetture e spazi pubblici. Saranno centinaia di scelte sulle dimensioni, il rapporto fra edifici strade, l’animazione dei marciapiedi, la facilitazione dei collegamenti fra punti diversi, a determinare il funzionamento o meno del complesso. In alcuni contesti, ciò significa che non bisogna risparmiare su edifici, arredi, arte pubblica. E naturalmente tutte queste cose hanno impatti sui costi del progetto. Ciascun caso deve essere trattato come unico, con una propria logica interna. Si tratti di un progetto mixed use o di riconversione commerciale, la mancanza di conoscenze su progetto, tendenze locali del mercato o bisogni della comunità può condannare al fallimento. Il modo migliore di evitarlo, è di avvicinarsi al problema tenendo conto del contesto, e partire da zero.

Miscela di funzioni

Una delle sfide principali è quella di ottenere la giusta miscela di occupanti dei nuovi spazi. L’ambiente fisico deve essere strutturato in modo attraente per i potenziali inquilini (il progetto non deve essere un “ripensamento”). Per un complesso a funzioni miste, il problema è di attirare una base commerciale insieme ad altre attività economiche, con persone che abitano all’interno, non semplicemente nelle vicinanze. Quella miscela di occupanti, è quella giusta? Molto spesso, è necessario un equilibrio fra catene nazionali e operatori locali. Le attività locali possono contribuire a dare carattere inconfondibile e unità al progetto, ma i vari ristoranti, boutiques, gallerie, devono essere economicamente validi. Nello stesso modo, un eccessivo sbilanciamento verso le grandi catene produce un ambiente commerciale facile da ritrovare in altri complessi concorrenti della regione. La residenza aggiunge vitalità ed energia a un progetto. Gli abitanti rendono gli spazi vivi ventiquattro ore al giorno. Si tratta di residenti che ricercano un ambiente unico, il che significa che gli affitti possono essere elevati. La sfida e di costruire un ambiente vivo, non facile da riprodurre nel suburbio tradizionale. A sua volta, questo vuol dire che alcune fasce di reddito possono non essere in grado di sostenere gli affitti delle case. Per una vera riuscita, occorre comunque verificare costantemente l’atteggiamento della comunità per i nuovi arrivati.

Gestione

Molte delle idee esposte sinora possono sembrare ottime, ma qualunque progetto si decida, deve avere alla base un solido e funzionante modello economico. Si devono creare valori immobiliari, e ottenere affitti dagli occupanti. I progetti mixed-use sono per propria natura ambienti che necessitano di molta gestione. Un’attività distribuita su tutte le 24 ore richiede più sicurezza, manutenzione e sorveglianza. Dall’acquisizione originaria ai contratti d’affitto, deve essere sostenibile l’impianto finanziario. Per questo obiettivo, va creata una forte struttura di gestione. Il ruolo del management è egualmente importante anche per i progetti diversi dal mixed-use. La costruzione di alleanze di quartiere, collaborazioni pubblico-private, attrazione di capitali, richiede fiducia in un modello di intervento e gestione. Senza una forte leadership, la maggior parte dei progetti troveranno difficile andare oltre la fase di studio.

Traffico

Quelli che ora sono greyfields a suo tempo sono stati progettati per gestire grossi volumi di traffico. Una delle considerazioni che può promuovere flussi più tranquilli è quella relativa a un’organizzazione funzionale tale da evitare picchi di utenza. Un cinema, ad esempio, attira flussi serali. I momenti di punta del commercio sono di solito i fine settimana. Il momento massimo del traffico residenziale sono l’ora di punta del mattino e quella serale. Con una sana mescolanza di occupanti degli spazi, l’insediamento può limitare i propri impatti sul sistema di mobilità interno ed esterno.

Realismo

Costruttori e operatori devono essere flessibili. Non tutti gli spazi si prestano a diventare ambienti mixed-use tali da attirare inquilini di fascia superiore. Acquisizione, demolizioni e ricostruzioni sono costose. Di fatto, molti greyfields dovranno adattarsi a qualcosa in meno dell’ideale. I complessi commerciali in disuso rappresentano la possibilità di riutilizzare una struttura urbana in modo corrispondente ai bisogni degli abitanti. Dopo una valutazione realistica delle possibilità di intervento, è possibile che il riuso debba orientarsi esclusivamente a residenza, giardini pubblici, strutture scolastiche, uffici amministrativi o altre funzioni. L’utilizzo finale è in gran parte determinato dagli obiettivi del progetto. Se sono di generare profitti da vendite e relativo gettito fiscale, allora la funzione da preferire è quella commerciale. Se si tratta di offrire servizi alla città, allora sarà preferibile l’opzione per qualche tipo di struttura civica. La lezione, è che i greyfields possono essere anche qualcosa di diverso da semplici grandi magazzini.

Le possibilità del commercio

Non tutti i malls in difficoltà devono abbandonare il commercio a favore del concetto di mixed use. Wal-Mart, Target, Kohls e altre grandi catene stanno cominciando a considerare i centri commerciali in disuso come localizzazioni interessanti. Negli ultimi tre anni, Wal-Mart ha aperto vari negozi urbani a San Diego, Los Angeles, Dallas, Houston, Milwaukee, e a 30 chilometri da New York City. Sempre la Wal-Mart di recente ha inaugurato un punto vendita in un ex Macy’s che fa parte di un centro commerciale da 80.000 metri quadrati a Baldwin Hills Crenshaw (notizia dal National Real Estate Investor, 25 giugno 2003). Uno dei fattori chiave della decisione di aprire il negozio è stata la densità di popolazione: oltre 360.000 residenti in un raggio di cinque chilometri dal centro. Con l’opposizione suburbana ai big box in crescita, gli operatori potrebbero rivolgere lo sguardo ai greyfields nei centri città o nelle fasce suburbane più interne. Uno studio di consulenza commerciale ha calcolato che le catene discount occuperanno 300 spazi come anchor entro centri commerciali entro il prossimo decennio (Business Week, 14 agosto 2003). Un’altra possibilità commerciale nelle città in corso di trasformazione demografica, è quella del mall etnico. La maggior parte dei complessi commerciali degli anni ’60 e ’70 erano progettati per una clientela bianca di ceto medio. In alcuni casi, l’immigrazione di afroamericani, americani di origine asiatica e latini ha cambiato la composizione sociale degli spazi urbani attorno ai greyfields. Alcuni operatori commerciali, senza capire nel nuove nicchie di mercato, si sono semplicemente allontanati nel corso degli anni. Eppure, in molti quartieri, i centri commerciali si sono evoluti in complessi a orientamento etnico per servire i bisogni degli abitanti secondo modi che costruiscono fedeltà e forte domanda. A chi non conosce le culture locali, alcuni di questi centro possono apparire poco attraenti o degradati. Ma agli abitanti del posto questi complessi offrono un insieme di prodotti e servizi che mancano al centro commerciale classico. Anche la pubblica amministrazione può intervenire, affittando spazi per servizi sociali di cui c’è il bisogno, e rivolgersi ai nuovi membri della comunità.

Possibilità di re-investimeno sociale urbano

Un eccellente esempio di realizzazione di un autentico elemento urbano è rappresentato dal Jackson Medical Mall di Jackson, Mississippi. Nel contesto di un accelerato sviluppo di tipo suburbano a Jackson, il centro commerciale aveva iniziato la propria crisi nel 1987 rimanendo in gran parte vuoto per dieci anni. Il mall (80.000 metri quadrati) è circondato da una popolazione afroamericana a basso reddito, che dipende per gli spostamenti in gran parte dal trasporto pubblico. Oggi, la struttura è un ottimo esempio del potenziale rappresentato dai greyfields anche per l’investimento pubblico. Il Medical Mall offre servizi sanitari, molto richiesti, da una popolazione altrimenti sottoservita. Oltre a questo, la miscela funzionale comprende negozi di alimentari, sedi di organizzazioni comunitarie, ristoranti, parrucchieri, negozi di calzature, uffici dei servizi sociali, un’agenzia di credito e scuole private. Anche la Jackson State University, la University of Mississippi (tramite la scuola di medicina) e il Tougaloo College hanno spazi per la ricerca e la didattica al Medical Mall. L’Ufficio Sanitario della Hinds County, alcuni uffici locali e vari servizi sociali operano all’interno del centro. Il caso del Medical Mall è un esempio di come il riuso dei complessi commerciali dismessi possa avere successo anche in ambienti a basso reddito. L’intero passaggio da uno shopping mall regionale obsolescente, ad una struttura di servizio urbana ha richiesto oltre dieci anni. Il successo dell’operazione si può attribuire ad una forte capacità di visione, alla valutazione realistica dei bisogni sociali, e alla capacità di costituire un gruppo di persone orientate al reinvestimento comunitario. La miscela di servizi sanitari, università, organizzazioni locali, commercio, uffici pubblici cittadini e statali, è stata tenuta insieme dall’obiettivo di servire la città.

Cosa limita le possibilità dei greyfields

I progetti come Villa Italia mostrano che i complessi commerciali in disuso possono essere convenienti per gli investitori. Ma, per ogni Villa Italia, c’è un Cloverleaf Mall di Richmond, Virginia. Il Cloverleaf occupa uno spazio di circa 90 ettari con un valore calcolato a 65 milioni di dollari nel 1995, caduti a 12 milioni nel 2003. Le tasse immobiliari generate dal mall sono cadute da 700.000 a 130.000 dollari nello stesso periodo. Negli anni, gli abitanti più agiato hanno abbandonato il quartiere, i negozi anchor se ne sono andati, e la zona è considerata pericolosa. Questo spazio certo potrebbe non produrre ritorni economici tali da attirare il commercio trendy, ma potrebbe essere più utile alla comunità dal punto di vista dell’istruzione, dei servizi sociali, dei bisogni residenziali degli abitanti.

CONCLUSIONI

Gli esempi esposti in questo manuale rappresentano un punto di partenza. Sono desunti da casi studio in ambienti diversi. Probabilmente, dimostrano come è possibile sfruttare la “miniera” rappresentata dai complessi commerciali in disuso in modi che contribuiscano alla qualità della vita locale. A seconda delle condizioni specifiche di mercato, il riuso dei greyfields deve essere flessibile e rispondere ai bisogni del quartiere. La Atlanta Regional Commission (ARC) si è impegnata attivamente per coinvolgere rappresentanti della comunità nell’ambito del riuso dei greyfields. La ARC si è concentrata sul ruolo del settore pubblico nello stimolare il riuso, e si rivolge soprattutto alle agenzie pubbliche che intendono sviluppare piani per greyfields. La ARC ha individuato alcune variabili fondamentali per il successo di questi progetti, come:

• Identificare i siti greyfield maturi per l’intervento

• Coinvolgere i soggetti interessati

• Costruire collaborazioni pubblico-privato

• Organizzare gruppi di lavoro interdisciplinari

• Impegnare risorse economiche per l’attuazione

Molte città hanno fatto esperienze valide seguendo questo percorso per il recupero di zone industriali dismesse [brownfields]. Molti aspetti sono applicabili anche ai greyfields. Costruire un elenco di disponibilità, ad esempio, è indispensabile per individuare i siti che necessitano di sostegno finanziario pubblico. La costruzione della società pubblico-privata con partecipazione della cittadinanza e l’attivazione dei gruppi multidisciplinari sono pure essenziali, e molte città possiedono programmi modello che possono essere utilizzati a stimolare il recupero. Le informazioni di questo rapporto offrono una cornice generale. Iniziando da nuove prospettive, le comunità e il mondo economico possono iniziare nello stimolante lavoro di convertire i greyfields a elementi di valore urbano.

Nota: il testo originale, integrato a tutti gli altri capitoli della manualistica, al sito della University of Louisville; qui su Eddyburg, due studi del Congress for the New Urbanism sulle “zone grigie” commerciali, uno analitico, e uno di proposta; di seguito, links ad alcuni casi citati nel testo, e il file PDF scaricabile di questa traduzione. Per la (scarsa) bibliografia faccio riferimento al testo originale (f.b.)

6 risposte a "PAESI DIMENTICATI: quale destino? – PROPOSTE di ritorno alla vita dei luoghi abbandonati: con AREE METROPOLITANE in ogni territorio; con la CONCESSIONE GRATUITA DI EDIFICI a immigrati; ritorno dei SERVIZI ESSENZIALI; RECUPERO AMBIENTALE (come la proposta di ripristino dei TERRAZZAMENTI)"

  1. Raffaele lunedì 28 settembre 2015 / 12:44

    Considerando il basso livello di competenze, esperienze e apertura mentale della classe politico-amm.va che governa i piccoli comuni d’Italia, il lavoro che dovrebbe stare alla base di tutte queste magnifiche idee é anzitutto pedagogico. Educare gli amm.ri e, indirettamente, gli abitanti residui che popolano questi borghi é il primo passo. Creare una sorta di “agenzia” a livello nazionale, con basi regionali, mi sembra quasi un passo obbligato. Quindi, prima ancora, c’é bisogno di una presa di coscienza, di una sensibilizzazione di chi ci governa. Poiché, in alcuni casi, bisognerebbe quasi passare dalla coercizione per costringere amm.ri locali e popolazioni autoctone residue ad accettare, promuovere e aderire a un sistema di “ritorno alla vita”. Svegliarli dal torpore in cui da anni sono calati non é cosa agevole…

  2. ANTONIO martedì 16 febbraio 2016 / 21:15

    Intanto ringrazio gli autori dei libri di ricerca sui posti isolati d’Italia e nel mondo perché hanno fatto un gran lavoro che merita di essere apprezzato in ogni suo punto di vista.
    Solo persone come questi scrittori e narratori possono esprimere sentimenti di ricerca cosi preziosi che non hanno nulla a che vedere con i guadagni facili dell’umanità di questo secolo.
    Rimanendo nell’ambito del perché in questi decenni le popolazioni hanno abbandonato i loro luoghi di nascita e di crescita si puo’ sintetizzare in due aspetti.
    Il primo aspetto è che da dopoguerra chi ha preso in mano i poteri dell’economia ci ha convogliato in un sistema di consumismo che oggi ci sta uccidendo. Il secondo aspetto è che la politica la quale dovrebbe comportarsi come un buon padre di famiglia ne ha approfittato per suoi interessi personali lasciando ad ognuno di deturpare l’ambiente e arricchirsi in modo forsennato, costringendo appunto certe popolazioni ad abbandonare tali luoghi.
    E’ vero che non è colpa solo della politica in quanto anche noi nel nostro piccolo abbiamo fatto ben poco per fermare questo sistema di fare economia che oggi è finito e secondo me andremo sempre peggio.
    La risoluzione non la troviamo certo con l’inserimento degli stranieri nei luoghi abbandonati in quanto verrà il giorno in cui loro entreranno in conflitto con i nostri usi e costumi e religione della nostra storia.
    Dobbiamo piuttosto cambiare modo di vivere, di mangiare, di bere, di lavorare, di arricchirsi ritornando ai tempi dei nostri genitori e vivere con umiltà, con saggezza e con parsimonia.
    Dobbiamo smetterla di dire che il mondo deve andare avanti perché ormai l’Europa è fallita come è fallito il mondo: abbiamo perso la fede in Dio o per chi non crede la fede nella nostra coscienza, quella pulita, quella sana e al suo posto abbiamo inserito i valori del denaro, della prostituzione, della falsità.
    In cinquant’anni di storia economica abbiamo prodotto per circa 300 o quattrocento anni saturando tutti i mercati e tutto il sistema e oltretutto inquinando il pianeta per i nostri squallidi comodi.
    Abbiamo sterminato gran parte del regno animale e vegetale e stiamo facendo la stessa cosa verso gli esseri umani e parliamo che bisogna aumentare la ricchezza.
    Bisogna che abbandoniamo il consumismo e torniamo a vivere non dico come una volta ma cibandosi di quello che ti offre la terra perché siamo suoi ospiti e prima o dopo l’abbandoneremo magari nel peggiore dei modi.
    Antonio della Provincia di Treviso.

  3. angelo montesin lunedì 18 aprile 2016 / 12:04

    Salve
    A me è sempre piaciuto andare vivere in montagna.
    Per lo più ora non sono messo bene economicamente,ecc..
    Vorrei andare in montagna nel nor o nor est.
    Se qualcuno mi potesse aiutare per qualsiasi informazione
    Grazie

    angelomlavoro@virgilio.it

  4. giusy martedì 10 Maggio 2016 / 16:41

    come posso fare per avere informazioni vorrei vivere in uno dei paesi in abbandono anche con la coltivazione

  5. Flavio mercoledì 7 settembre 2016 / 23:04

    Buonasera,
    Molto interessante l’articolo.
    Uno dei problemi più grandi è l’immobilità delle istituzioni e la poca voglia di concordare riqualificazioni di borghi e aree abbandonate.

    Nel ultimo periodo ho mandato almeno 10 email tra comuni e provincie (nel lazio), dicendo di essere interessato a riqualificare il borgo ed avere maggiori informazioni, e non ho avuto neanche una risposta.

    Se un investitore vuole comprare/riqualificare/ristrutturare un borgo, come fa?
    Purtroppo in Italia fa fatica anche rispondere ad una mail e concordare degli interventi (con i soldi di un privato).

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