LA PASQUA DEL MARTIRIO IN EGITTO (e ancor di più in SIRIA) – Le stragi nelle due chiese dei COPTI, cristiani in un Egitto musulmano integralista (che aspetta l’arrivo del papa) – L’AGONIA DELLA SIRIA, il massacro chimico di bambini e civili a IDLIB e l’inaspettata reazione USA: quante SIRIE ci sono già adesso?

La base siriana colpita dai missili Usa (da http://www.ansa.it/) – Alle 4.40 (ora locale) del 7 aprile, gli STATI UNITI hanno lanciato 59 missili contro una base militare siriana di Shayrat. L’operazione è stata autorizzata dall’amministrazione Trump in seguito all’attacco chimico contro Khan Sheikhun, in cui sono morti almeno 70 civili. Secondo le autorità siriane nel raid sono morte nove persone.
L’attacco statunitense, il primo condotto contro il governo di Bashar al Assad dopo l’inizio della guerra civile, sei anni fa, è stato lanciato da due portaerei che stazionano nel Mediterraneo e ha colpito la BASE DI SHAYRAT, vicino a Homs, da cui si suppone siano partiti gli aerei che hanno colpito Khan Sheikhun. Finora gli Stati Uniti avevano bombardato solo obiettivi legati all’ISIS. (da INTERNAZIONALE DEL 7/4/2917 – http://www.internazionale.it/ )

   Un aprile di sangue e difficile in Medio Oriente: dalla MARTORIATA SIRIA dove il 4 aprile scorso nella città di KHAN SHEIKHOUN, nella provincia di IBLID (a nord ovest del Paese, provincia controllata dai ribelli antigovernativi) c’è stato un attacco aereo con armi chimiche (da tutti attribuito all’esercito del despota Assad) sconvolgente nella sua crudeltà che ha portato a più di 70 morti (tra cui molti bambini). E ha suscitato sorpresa, ma anche consenso, la reazione americana, del nuovo presidente Trump che il 7 aprile, a 3 giorni dalla strage chimica, ha fatto distruggere (con il lancio di 59 missili) la base aerea russo-siriana di SHAYRAT da cui erano partiti gli aerei del massacro (Trump così, in quest’occasione, ha contraddetto se stesso nel non voler interessarsi alla Siria se non per la lotta all’Isis).

MAPPA SU SIRIA, L’ATTACCO CHIMICO A KHAN SHEIKHOUN, E LA REAZIONE AMERICANA CON LA DISTRUZIONE DELLA BASE AEREA DI SHAYRAT – “(…) L’improvviso raid americano sulla BASE AEREA DI SHAYRAT il 6 aprile ha rimescolato le carte degli equilibri in Siria e del potere di Assad con l’appoggio russo. Per stessa ammissione di Trump, dopo la tragedia di Idlib «l’approccio verso la Siria e verso Assad è molto cambiato». Ora a Damasco regna la più grande incertezza. Assad non sa se quel raid rimarrà un unicum o sarà l’avvio di una vera e propria campagna militare (…) (Laura Mirakian, da “La Stampa” del 10/4/2017)

   Una politica internazionale confusa vede il Medio Oriente ancora come il punto irrisolto di equilibri mondiali fuori da ogni controllo. E che potenze come gli Usa, la Russia, la Cina, e tanti altri comprimari (Israele, l’Iran, la Turchia…. l’Europa invece è più che mai assente), mostrano di non riuscire a svolgere un ruolo chiaro e coerente. Questo, pare di capire, potrà portare a conseguenze ancora più gravi, se non si riesce a sciogliere il “nodo geopolitico” di una situazione così caotica. Perché su tutto predomina “l’onda terroristica” che, questa, preoccupa più che mai i Paesi occidentali, ma anche la Russia e un po’ tutti, perché colpisce città e luoghi al di fuori dei territori “tradizionali” di scontro (come è purtroppo il Medio Oriente).

LA STRAGE DEI BAMBINI IN SIRIA – IL MASSACRO CHIMICO IN SIRIA A KHAN SHEIKHOUN – “Non ci sono parole per descrivere l’orrore. Le testimonianze audio e video che raccontano quel che è successo a KHAN SHEIKHOUN, cittadina della SIRIA nella PROVINCIA DI IDLIB, il 4 APRILE scorso, le immagini sono sconvolgenti. (…) Sono gli EFFETTI DELL’ATTACCO CHIMICO che ha UCCISO 70 PERSONE (ma il numero sta salendo), tra cui 11 BAMBINI. Secondo i medici che operavano sul luogo probabilmente si tratta di SARIN, UN GAS NERVINO. Nei video fatti coi cellulari e caricati su Twitter parlano in inglese e implorano il mondo, i medici, di intervenire, di fermare questo scempio, almeno di interessarsene e investigare.” (da LINKIESTA /www.linkiesta.it/ 5/4/2017)

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IL MASSACRO DEI CRISTIANI COPTI IN EGITTO – Dopo il golpe IN EGITTO che nel luglio 2013 ha destituito il presidente islamista Mohammed Morsi, i jihadisti hanno lanciato un’ONDATA DI VIOLENZE CONTRO I CRISTIANI COPTI. Nel febbraio scorso, il ramo locale dell’Isis ha diffuso un video in cui minacciava la minoranza e prometteva che «il peggio» dovesse ancora venire • APRILE 2013: quattro fedeli sono uccisi in uno scontro con musulmani ad al-Jusus, a nord del Cairo. Gli scontri proseguono il giorno successivo durante il funerale, muoiono altre due persone • DICEMBRE 2016: una bomba esplode nella cattedrale cristiana copta al Cairo durante la messa: almeno 25 i morti e 49 i feriti. Isis rivendica l’attentato • APRILE 2017: doppio attacco nella domenica delle Palme, prima IN UNA CHIESA DI TANTA (120 km a nord del Cairo), poi vicino a UNA CHIESA DI ALESSANDRIA. Oltre 45 le vittime

A TANTA (città a 120 chilometri a nord del Cairo) è stata colpita la CHIESA DI SAN GIORGIO, gremita di fedeli per il rito che apre la Settimana Santa. L’esplosione è avvenuta nelle prime file dei banchi, mentre il coro cantava

   Sul caos di aprile “pre-pasquale” si innesta poi il MARTIRIO DEI CRISTIANI COPTI DI EGITTO: minoranza consistente (8 milioni) in un Paese mussulmano dove quasi sempre gruppi integralisti, terroristici, strutture anche filogovernative “ingovernabili”, portano a violenze e a un’impossibilità di un clima sociale-religioso pacifico. E’ sul massacro delle due chiese copte di Egitto (ad Alessandria e a Tanta) avvenuto domenica 9 aprile, che si guarda con preoccupazione alla visita di fine mese del papa, in un territorio incandescente, assai poco controllabile (speriamo bene).

AL SISI E IL PATRIARCA COPTO TEODORO II – Il presidente egiziano ABDEL FATTAH AL-SISI, musulmano, partecipa alla cerimonia di Natale nella CATTEDRALE COPTO-ORTODOSSA del Cairo accolto dal PATRIARCA TAWADROS II (Teodoro II) – CHI SONO I COPTI IN EGITTO – Almeno il 10% della popolazione in Egitto SONO CRISTIANI (COPTI): sono oltre 8 milioni, la più grande comunità cristiana in Medio Oriente – Perdura da 16 secoli il distacco della chiesa copta dalla chiesa latina e greca, per una disputa sulla natura divina e umana di Cristo: risale al Concilio di Calcedonia del 451 (v. “chi sono i COPTI”: https://it.wikipedia.org/wiki/Copti )

   E’ difficile fare previsione di quel che potrà accadere nei prossimi mesi, ma l’incapacità politica globale di trovare soluzione possibili al caos mondiale, fanno pensare che vivremo in uno stato di pericolo e insicurezza generale. Un accordo “minimo” fra tutti i soggetti in campo (grandi, medie, piccole potenze, organismi internazionali…) di essere perlomeno d’accordo di garantire chi è “indifeso” (semplici cittadini, popolazioni ora in guerra…) contro conflitti e terrorismo, servirebbe come misura minima per iniziare a progettare un mondo più ordinato, più giusto, senza violenza.

   Questo porta a decidere, a pensare concretamente (anche per noi europei), di mettere nel conto momenti specifici in cui si considera giustificato il ricorso alle armi contro forze violente e crudeli come il terrorismo jiahidista (o dittature sanguinarie che stanno martoriando popolazioni, come accade in Africa)(per questo l’idea di queste settimane di un unico esercito europeo, poteva iniziare a far pensare anche a una partecipazione europea effettiva contro terrorismi e forze mondiali violente, crudeli, pericolose….). Non possiamo pensare che qualcun altro risolva problemi di pericoli che anche noi stiamo vivendo. (s.m.)

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EGITTO

LA PASQUA DEL MARTIRIO

di Enzo Bianchi (priore del monastero di Bose), da “la Repubblica” del 10/4/2017

   La domenica delle Palme, che il 9 aprile scorso i cristiani di tutte le confessioni celebravano, è chiamata anche “di passione” perché apre le liturgie della settimana santa, culminanti nella notte pasquale: raramente tale titolo è stato di così tragica pertinenza a TANTA e ALESSANDRIA D’EGITTO.

   Da tempo i COPTI in Egitto sono vittime di ripetute violenze e stragi: tensioni e conflitti, soprattutto nelle zone rurali; sono esacerbati dall’elemento religioso e conducono a distruzioni di luoghi di culto e a vessazioni e minacce; una vera e propria caccia all’uomo, e ai presbiteri in particolare, è in atto nella penisola del Sinai, obbligando intere famiglie a fuggire verso Ismailia e altre città nei pressi del canale di Suez; mentre negli ultimi tre anni attentati nei luoghi di culto in occasione delle maggiori feste cristiane, quando più numerosa è la partecipazione dei fedeli, hanno colpito famiglie intere, specialmente donne e bambini.

   Nonostante queste stragi e le perduranti minacce, i copti non rinunciano a testimoniare la loro fede anche pubblicamente,comunitariamente: non smettono di ritrovarsi in chiesa, di mandare i bambini a catechismo, di tatuare sulla pelle il segno della croce, di proclamare apertamente la loro fede. Incoscienza? Volontà di sfida? Vocazione al suicidio di massa? Niente di tutto questo. Solo la ferma, risoluta consapevolezza che, come dicevano i martiri cristiani durante la persecuzione di Diocleziano, “senza la domenica non possiamo!”, non possiamo essere quello che siamo, non possiamo vivere la nostra fede, non possiamo concepire il nostro futuro, non possiamo dirci discepoli del Signore.

   Celebrare comunitariamente la Pasqua – e quella “pasqua settimanale” che ricorre ogni domenica – per il cristiano non è una ricorrenza tra le altre, una commemorazione da viversi o meno a seconda di come consiglia la prudenza: si tratta di proclamare la ragione che il credente ha per vivere, quella ragione che lo porta anche ad accettare l’eventualità della morte violenta.

   Se osservassimo con attenzione la sofferta dignità con cui i parenti delle vittime hanno sempre reagito – si pensi ai familiari dei ventuno operai sgozzati dall’Isis in Libia – se ascoltassimo le loro parole di fiducia nel Signore, a volte persino di perdono verso i carnefici, se uscissimo dagli stereotipi di chi vuole registrare “a caldo” l’indicibile di un dolore umanamente straziante, ci dovremmo rendere conto della quotidiana “banalità della fede”: semplici cristiani come tanti, uomini e donne come ne incontriamo ogni giorno nelle nostre vite, trovano normale continuare a vivere la loro fede come sempre, anche in situazioni che normali non sono più.

   Certo, i cristiani in Egitto come in tutto il Medio Oriente e in altre regioni del pianeta conoscono da secoli il prezzo della loro appartenenza a Gesù di Nazareth, conoscono ostilità e persecuzioni che noi in occidente credevamo confinate nei libri di storia o alle estreme frontiere del nostro mondo. Forse anche per questo la recrudescenza di violenza di questi ultimi decenni li ha trovati spiritualmente più preparati, magari più prudenti, ma comunque mai disposti a rinunciare a ciò che ritengono essenziale per vivere e testimoniare la loro fede.

   In occasione dei tragici, ripetuti attentati nelle città del nostro occidente, sentiamo ripetere con convinzione il risoluto appello a continuare la nostra vita quotidiana nella convivenza civile: continuare a lavorare, a divertirci, a viaggiare, a incontrarci, a godere di quella libertà per la quale tanti nel secolo scorso hanno pagato un prezzo altissimo. Ecco, i copti ci ricordano che questo è altrettanto vero e decisivo anche per la vita di fede: nonostante tutto, nonostante la morte in agguato, continuare a fare ciò in cui si crede, a pregare insieme, a celebrare insieme gioie e dolori della vita, a trasmettere ai propri figli le parole e gli insegnamenti che si ritengono portatori di vita e di bene.

   Se entrambi gli attentati di domenica 9 aprile in Egitto (a Tanta e ad Alessandria) assumono una valenza e una risonanza mondiale particolari, in quanto tra una ventina di giorni papa Francesco sarà pellegrino di pace in Egitto, l’assalto mortale alla chiesa di San Marco ad Alessandria ha una caratteristica tutta propria: all’interno della chiesa, infatti, aveva appena finito di presiedere la celebrazione festiva IL PATRIARCA COPTO TAWADROS II, un uomo di pace e di dialogo sia con i musulmani che con gli altri cristiani, un pastore di grande apertura e spessore spirituale, in profonda sintonia con papa Francesco, un difensore non solo della sua chiesa e dei suoi fedeli ma anche dell’unità e della solidarietà del popolo egiziano. COLPIRE LUI SIGNIFICA VOLER COLPIRE UN ARTEFICE DEL DIALOGO e uno strenuo sostenitore delle religioni come fattori di pace e non di divisione e di violenza.

   Così i sempre più numerosi martiri della chiesa copta – che significativamente fa iniziare il computo degli anni dall’inizio della tremenda persecuzione di Diocleziano – ci ricordano che ci sono ancora uomini e donne fedeli alla loro testimonianza di vita cristiana e alla volontà di celebrare insieme la Pasqua, vittoria sulla morte e sull’odio. È a questi oscuri testimoni della speranza, semplici fedeli o presbiteri e vescovi – già uno di loro venne ucciso nell’attentato al presidente Sadat – che siamo tutti, cristiani e non cristiani, debitori di senso e di energia vitale. (Enzo Bianchi)

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SIRIA

LE TROPPE IPOCRISIE EUROPEE SU TRUMP, LA SIRIA E ASSAD

di Paolo Mieli, da “il Corriere della Sera” del 11/4/2017

Incertezza. I dirigenti dell’Ue hanno reagito all’iniziativa della Casa Bianca senza sentirsi in obbligo di chiarire quale debba essere la risposta all’uso di bombe chimiche – Obbiettivi. Bisogna aver chiaro che questa «guerra mondiale» va seguita senza partito preso – Comprensione. Occorrerà riconoscere che talvolta può capitare a Putin, o a Trump, di fare una scelta efficace –

   Che posizione ha l’Europa in merito alla guerra contro il califfato islamico? E su Assad? A voler essere meno generici, che posizione hanno su questi temi, uno per uno, i singoli Paesi europei?

   Per carità, conosciamo le chiacchiere sulla necessità di tavoli negoziali e di corridoi umanitari. Ma qualcuno ha messo nel conto momenti specifici in cui si considera giustificato il ricorso alle armi? E, per venire al caso di questi giorni, se unanimemente abbiamo definito disgustoso l’uso (comprovato) di armi chimiche da parte del dittatore siriano e qualcuno di noi rimprovera ancora adesso ad Obama di non aver tratto le dovute conseguenze dalla violazione della linea rossa nell’estate del 2013, se è vero tutto questo, che senso ha rinfacciare ora al presidente Trump il lancio di quei cinquantanove missili sulla base aerea siriana di Shayrat da cui avevano preso il volo gli aerei carichi, appunto, di quel tipo particolare di bombe destinate alla periferia di Idlib?

   Chiariamo subito: queste domande non sono rivolte a Nigel Farage, Beppe Grillo, Marine Le Pen, Matteo Salvini che una scelta di campo l’hanno fatta da tempo schierandosi dalla parte di Putin. E non sono rivolte nemmeno a quei compagni di strada del despota di Damasco impegnati a mettere in dubbio che ordigni chimici siano stati effettivamente sganciati sul piccolo centro della Siria in mano ai qaedisti. A modo loro i putiniani-salvinian-grillini sanno essere coerenti. Anche se da alcune smorfie si comprende che avrebbero volentieri evitato di trovarsi all’improvviso in contrasto con il nuovo presidente degli Stati Uniti.

   No, le domande sono rivolte a noi stessi, o comunque a coloro che non militano nel fronte antisistema (…). Bensì in quello opposto. A Jean-Claude Juncker e Federica Mogherini — per esempio — che hanno reagito all’iniziativa trumpiana con un balbettio e senza sentirsi in obbligo di rendere esplicita quale debba essere la risposta europea (o anche, ripetiamo, di qualche singolo Paese d’Europa) al lancio di bombe chimiche da parte di uno dei soggetti in combattimento.

   In particolare se quell’uno è Assad che proprio nel 2013 aveva preso l’impegno di distruggere l’intero arsenale di un tal genere di armi. «Dobbiamo evitare ogni ulteriore attacco», ha sentenziato il presidente della Commissione Ue. Anche se poi, bontà sua, si è sentito in dovere di fare dei distinguo tra attacchi militari e ordigni chimici sui civili.

   Giriamo le domande di cui all’inizio all’ex presidente del Consiglio Enrico Letta il quale si è così pronunciato: «Non dobbiamo pensare che Trump ci abbia levato le castagne dal fuoco con il suo attacco alla Siria, al contrario ce le ha messe… La verità è che Trump se n’è infischiato dell’Europa con un pericoloso unilateralismo… Non penso che si possa provare sollievo per un’azione così unilaterale».

   E quale avrebbe dovuto essere la risposta non unilaterale? A quel che sappiamo l’unica contromisura presa da Bruxelles è stata quella di vietare l’ingresso al Parlamento europeo al vice ministro degli Esteri di Damasco, Ayman Soussan. Efficace certo, ma non tale da creare preoccupazioni ad Assad.

   Le rivolgiamo, quelle stesse domande, al generale Franco Angioni, già comandante del contingente italiano in Libano, il quale ha definito quella di Trump «un’azione particolarmente imprudente, un comportamento rabbioso non degno del capo del più grande e importante Paese occidentale».

   E cosa avrebbe dovuto fare Trump? «Meglio sarebbe stato — ha risposto il generale Angioni — se il presidente degli Stati Uniti avesse assunto la guida dei Paesi moderati e profondi fautori della pace mondiale».

   Ah, ecco! E le giriamo anche al generale Vincenzo Camporini, ex Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica e della Difesa, che ha dichiarato di non riuscire a vedere «nessuna finalità politica all’attacco contro la base aerea siriana». Attacco che gli è parso, ha aggiunto, «soltanto un gesto punitivo». Soltanto!

   Qui non si capiscono molte cose. PUNTO PRIMO: come pensiamo sia possibile sconfiggere Daesh? E cosa intendiamo quando ci diciamo impegnati nella guerra all’Isis? Ad ogni evidenza dovrebbe voler dire che — a meno di mandar lì dei soldati — ai «nostri» aerei toccherà bombardare alcuni centri nevralgici finiti nelle doro» mani. Cercando di colpire obiettivi militari e di risparmiare, tutte le volte che è possibile, i civili. Ma sapendo, a non essere ipocriti, che alla fine tra le vittime, purtroppo, si conteranno molti non combattenti e altrettanti bambini.

   Se poi qualcuno che in questa specifica guerra si batte dalla «nostra» parte della barricata — è il caso di Assad — disattende provocatoriamente quest’ultima consegna, dovremmo impegnarci a punirlo nei modi più ostentati, ad evitare di doverci un giorno (ma già fin d’ora) considerare corresponsabili dei suoi crimini. Ed è quello che ha fatto Trump, con un’operazione chirurgica, mirata, che, per giunta, ha causato meno di dieci vittime.

   E se Trump fa una cosa giusta, come dovremmo reagire? Minimizzando, abbandonandoci a battute di spirito nell’attesa che ne faccia presto una sbagliata così da poter alzare la voce per rimetterci in pace con la nostra coscienza critica? No. A noi sembra più coraggioso quel che hanno fatto negli Stati Uniti alcuni leader repubblicani (John McCain, Lindsay Graham, Marco Rubio), gente che fino a poche ore prima a Trump non ne aveva perdonata una.

   Così come il capo dei senatori democratici Chuck Schumer e l’ex massimo responsabile della Cia obamiana Leon Panetta. Perfino il guru progressista del New York Times, Nicholas Kristof. Tutte persone che Trump lo hanno combattuto e combatteranno senza tentennamenti. Ma che per un giorno si sono fermate e gli hanno pubblicamente riconosciuto di essere dalla parte della ragione. Lo ha fatto addirittura Hillary Clinton.

   Andiamo tutti insieme a scuola da loro. Avremo chiaro che questa «guerra mondiale», anche a costo di violentare precedenti convinzioni, dovremmo seguirla senza partito preso, riconoscendo che talvolta può capitare a Putin di fare una scelta efficace e persuasiva, così come talvolta è capitato e capiterà a Trump.

   E un giorno, forse, capiterà all’Europa, fino ad oggi specialista nel versare ettolitri di lacrime su questo o quel misfatto e nel definire «inaccettabili» le non poche imprese criminali compiute da qualcuno dei contendenti, senza poi sentirsi in dovere di trarre le conseguenze da quella mancata accettazione. Mai, neanche una volta. (Paolo Mieli)

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EGITTO

EGITTO, LA DOMENICA DI SANGUE – LA STRAGE NEL GIORNO DELLE PALME: L’ISIS COLPISCE LE CHIESE DEI COPTI

di Francesco Battistini, da “il Corriere della Sera” del 10/4/2017

– La strage nel giorno delle Palme: l’Isis colpisce le chiese dei copti al Cairo e ad Alessandria e rivendica le azioni. – La visita di papa Francesco fra 20 giorni – Kamikaze a Tanta e Alessandria, in Egitto: il primo tra i banchi, il secondo all’ingresso: oltre 45 morti – Il presidente Al Sisi proclama l’emergenza e dispiega i corpi speciali – Illeso il Patriarca Teodoro II, che stava celebrando la messa a San Marco: «Non ci faremo intimidire» – Padre Kuzman finisce l’omelia sempre allo stesso modo, racconta: «Questa è la terra dell’Esodo e dei Profeti, noi cristiani non possiamo andarcene» –

IL CAIRO – «Ho sollevato voi su ali di martiri…». Sta cantando il coro. La messa è appena iniziata, a Tanta la chiesa di San Giorgio è stracolma. Le palme della domenica, simbolo del martirio che verrà. La mozzetta rossa del celebrante, presagio del sangue che scorrerà. Nessuno nota il kamikaze nei banchi davanti, e anche dopo ce ne vorrà per identificarlo dalla testa mozzata.

   La prima esplosione intorno alle 10: «Fortissima — dice alla tv egiziana una donna scampata —. II fuoco e II fumo hanno riempito le navate, a terra gridavano feriti molto gravi. Sangue dappertutto. Ho visto budella di gente colpita e gambe staccate dai corpi».

   I tg non fanno neanche in tempo a interrompere le trasmissioni, dare i 29 morti e l’ottantina di feriti dal Delta del Nilo, ed ecco il secondo suicida ad Alessandria. Punta al bersaglio grosso, stavolta: Tawadros, TEODORO II, il centodiciottesimo patriarca di tutti i Copti d’Egitto, che per l’ultima domenica di quaresima sta celebrando in San Marco. L’uomo che fra venti giorni accoglierà Bergoglio al Cairo, una visita che sta già sconvolgendo gli islamici duri.

Il kamikaze nervoso

II suicida è nervoso, si fa notare, alla fine non ce la fa: un video di sorveglianza lo mostra mentre s’avvicina al controllo, felpa blu, i poliziotti che lo bloccano e lo mandano al metal detector, l’uomo che s’accosta a una donna in divisa e poi a un’altra, quindi passa sotto la macchina del controllo elettronico. È allora che si fa saltare, lì davanti al sagrato, portando con sé tre agenti e 14 cristiani, 78 i feriti. II colpo è forte, dentro la chiesa papa Teodoro s’interrompe, le guardie prendono il prelato e lo trascinano di corsa nella canonica: «Restiamo uniti, non ci faremo intimidire», ha appena il tempo di dichiarare.

La rivendicazione

«Due nostri gruppi hanno colpito gli infedeli», fa sapere l’Isis attraverso una delle agenzie, Amaq, che usa per rivendicare. Ci avevano già provato l’anno scorso, proprio ad Alessandria era stato bloccato un gruppo che progettava l’attentato: «Così vicini però — dice ora la polizia — non erano mai arrivati». E’ subito emergenza nazionale. La rabbia si sente poche ore dopo, nelle strade di Tanta, i cristiani che accusano gli scarsi controlli, l’abbandono.

   Al Sisi proclama tre giorni di lutto e tre mesi di stato di emergenza, dimissiona i capi della polizia locale, poi convoca il consiglio per la difesa e dispiega i corpi speciali in tutte le grandi città. L’ultima volta l’aveva fatto per i cinque anni di piazza Tahrir e fu un incubo: i giorni dell’uccisione di Giulio Regeni. «Oltraggio che ha per obbiettivo tanto i copti quanto i musulmani», accusa il presidente, riferendosi al ritrovamento di due bombe inesplose in una moschea di Tanta.

La visita di Bergoglio

La gravità dell’attacco si legge nelle condanne di sauditi, qatarini, turchi, emiratini, di solito asciutti se si tratta di cristiani ammazzati. Anche lo sceicco dell’università Al Azhar, Mohammed al Tayyib, il grande imam sunnita che ha invitato Bergoglio al Cairo, punta il dito sull’Islam deviato che uccide gli innocenti.

   «Sono sicuro che Al Sisi saprà affrontare la situazione», dice Donald Trump, che solo una settimana fa aveva ricevuto il generale del Cairo ostentando quella stretta di mano negata alla Merkel. Saranno tre settimane di coprifuoco: Bergoglio non è il primo Papa atteso in Egitto, ma quando venne Wojtyla era prima dell’11 settembre, un’altra epoca, e da giorni al Cairo sono comparsi controlli molto più stretti. L’Isis avverte che non è finita qui, altre stragi seguiranno.

Quell’amicizia con i rais

Dacci oggi il nostro morto quotidiano. «Ce l’aspettavamo», ci dice l’abuna Kuzman, vescovo scappato dal Sinai al Cairo: «C’è stata una escalation negli ultimi mesi, a dicembre la strage nella cattedrale di San Marco, i 30 uccisi sono stati il segnale che ricominciavano gli attacchi. Però pensavamo di essere più protetti dal governo».

   Al Sisi non manca mai a una messa natalizia, promette la ricostruzione delle chiese, una volta ha perfino riconosciuto che l’Egitto ospita l’unica chiesa nazionale del Nord Africa, nove milioni di fedeli, il 10 per cento della popolazione, una delle comunità religiose più antiche del mondo. Basta? No. Orafi, impiegati, farmacisti: i cristiani egiziani vantano anche illustri cognomi, dal Boutros Ghali che fu segretario generale dell’Onu al miliardario Sawiris padrone di Orascom, ma scontano l’amicizia troppo stretta coi rais, Mubarak un tempo e Al Sisi oggi.

La paura della comunità

Celebrare questa Pasqua di sangue, sarà qualcosa che somiglia al martirio. Non che non si sappia: alle chiese del Cairo si consiglia sempre di non suonare le campane e il prossimo venerdì santo, per non turbare i muezzin, molte funzioni si faranno in un’ora che non coincida con la preghiera musulmana. Vietato aspettare i fedeli all’ingresso, come si faceva una volta, niente fiori o immaginette, e pure i manifesti per l’arrivo di Francesco si tengono rigorosamente dentro le chiese, nessuno s’azzarda a esporli.

   In certi villaggi di Minya, area piena di salafiti, la messa si celebra con una croce disegnata sul muro, facile da cancellare. Anche Gesù nacque profugo, irrise una volta lo sciita iracheno Moqtada Al Sadr, guardando i cristiani che scappavano: dal Sinai, è un esodo inarrestabile, solo a febbraio sono arrivate a Suez e al Cairo un centinaio di famiglie.

   Le cronache settimanali raccontano di commercianti bruciati vivi, vecchie denudate sulla strada, ragazzini puniti per qualche video sul telefonino. Ci vuol poco a diventare blasfemi, nell’Egitto che aspetta il Papa. La chiesa dedicata ai Martiri della Sirte, i venticinque copti sgozzati in un terribile video che per primo minacciò la marcia su Roma delle bandiere nere, quella chiesa è ferma: nessuno osa raccogliere il milione d’euro che serve a costruirla.

   Padre Kuzman anche ieri ha recitato la sua omelia, che finisce sempre allo stesso modo: «Questa è la terra dell’Esodo e dei Profeti, dell’Alleanza e dei Dieci comandamenti. Noi cristiani non possiamo andarcene». (Francesco Battistini)

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SIRIA

LA SOLITUDINE DEL RAISS DI DAMASCO

di Laura Mirakian (ex ambasciatrice a Damasco), da “La Stampa” del 10/4/2017

   Che Bashar al-Assad non sia uno stratega è ampiamente provato dai sei anni di guerra civile in cui ha perso oltre metà del territorio, sei milioni di siriani rifugiati all’estero e quasi mezzo milione di vittime, ritrovandosi legato a filo doppio con una potenza straniera come la Russia di Putin che persegue i suoi propri interessi e lo farà fino al punto di sua convenienza; il secondo asse è la dipendenza dalle assonanze con il vicino Iran, che pure muove da una propria strategia di consolidamento della direttrice mediterranea.

   Non uno stratega, Assad, semmai un tattico. Si diceva così anche di Milosevic, e sappiamo come è finita. Il suo istinto lo ha portato a non aprire un tavolo negoziale fin dalla ribellione di Dara’a nel marzo 2011, quando forse era ancora in tempo, non calcolando che non vi sarebbe stato motivo per la Siria di rimanere indenne dal malessere profondo che stava investendo altre società arabe.

   Un malessere che veniva da lontano, almeno una decina d’anni, e che in Siria si riassumeva in quel famoso passaggio della Costituzione che sanciva il partito unico, il Baath, rigidamente dominato dalla minoranza al potere. Un sistema chiuso, esclusivo, che relegava ai margini la classe media emergente a maggioranza sunnita.

   Assad ha immaginato che un alleato come la Russia lo avrebbe posto al riparo dalle strategie di altri attori del vicinato, e che l’Iran avrebbe volentieri compensato con le sue milizie l’erosione di consensi tra le sue stesse Forze Armate. Per qualche tempo ha funzionato.

   Da ultimo, le propensioni filo-russe di Trump, la sua proclamata priorità alla demolizione di Isis e jihadisti, hanno rafforzato in lui la convinzione che lo scenario di «regime change» fosse sventato e la continuità del suo potere assicurata.

   Per contro, l’improvviso raid americano sulla base aerea di Shayrat il 6 aprile ha rimescolato le carte. Per stessa ammissione di Trump, dopo la tragedia di Idlib «l’approccio verso la Siria e verso Assad è molto cambiato».

   Ora a Damasco regna la più grande incertezza. Assad non sa se quel raid rimarrà un unicum o sarà l’avvio di una vera e propria campagna militare. Non sa come Mosca reagirà, se si impegnerà in un confronto con Washington oppure verrà a patti, in tal caso abbandonandolo. Né può contare sui Paesi del vicinato a lungo antagonisti, che hanno inneggiato con manifesto sollievo al ritorno degli Stati Uniti in area.

   Ad eccezione dell’Egitto, il più tiepido, ma impegnato a sua volta in un difficile scenario interno. Né ha idea se la breve alleanza intessuta con i curdi del Rojava reggerà oppure saranno proprio loro a determinare alla fine lo smembramento del territorio, o se l’opposizione rivendicherà, come fatto finora, la fine del regime e la sua definitiva esclusione dal negoziato e dal potere.

   In questa totale incertezza, Bashar Al Assad non ha veri amici. I fantasmi di altri leader arabi scomparsi di scena anche violentemente devono essergli ben presenti. Potrebbe allora essere tentato di tornare a rivolgersi agli europei, con cui negli scorsi anni ha negoziato un accordo di associazione purtroppo mai concluso e ratificato. Loro sono i primi a subire così pesantemente le conseguenze della crisi siriana in termini di terrorismo e insicurezza alle frontiere, ed ora, pur con diverse sfumature, uniscono ad un misurato plauso per l’iniziativa militare americana una forte raccomandazione per una soluzione politica della crisi e la ripresa dei negoziati di Ginevra.

   Lo schema del negoziato è quello che risale al Piano di Kofi Annan del 2012, partecipazione di tutte le forze in campo incluso quindi anche Assad, periodo transitorio da utilizzare per l’elaborazione di una nuova Costituzione, e a termine elezioni pluripartitiche. Un percorso che, nelle circostanze date, potrebbe rivelarsi una vera risorsa. (Laura Mirakian, ex ambasciatore a Damasco)

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SIRIA

LA STRAGE IN SIRIA

TRUMP INVIA MISSILI TOMAHAWK SULLA ‘BASE DEI RAID CHIMICI CONTRO IDLIB’

da www:ansa.it del 8/4/2017

   Gli Stati Uniti, su ordine del presidente Donald Trump, hanno sferrato il primo attacco militare diretto contro la Siria dall’inizio della crisi sei anni fa.

   Una svolta maturata in poche ore, nella convinzione del commander in chief che una risposta per l’attacco con armi chimiche attribuito ad Assad non potesse più attendere.

   Una pioggia di missili è piovuta nella notte tra giovedì e venerdì (5/6 aprile) sulla base dalla quale sarebbero decollati i jet siriani per il micidiale raid del 4 aprile, scatenando la durissima reazione di Mosca, che ha parlato di una “grave aggressione” e di “danni notevoli” ai rapporti con gli Stati Uniti”.

   Gli Usa sono arrivati “ad un passo dallo scontro con la Russia”, ha minacciato il premier Dmitri Medvedev. Ira anche del presidente siriano, che ha accusato gli Usa di comportamento “spericolato e irresponsabile”, promettendo che ci sarà una “reazione”.

   Intanto da Mar-a-Lago, dove il presidente Trump incontrava il leader cinese Xi Jinping, il segretario al Tesoro, Steven Mnuchin, ha annunciato che gli Usa vareranno a breve nuove sanzioni contro la Siria.

   La tensione tra Casa Bianca e Cremlino è alle stelle. Tanto più che, intervenendo in Consiglio di sicurezza, l’ambasciatrice Usa Nikki Haley è stata chiara: “Siamo pronti a fare di più se si renderà necessario”. Mentre da Mosca il ministero della Difesa ha annunciato al Pentagono la chiusura della linea diretta con gli Usa per prevenire incidenti tra aerei russi e americani nei cieli della Siria.

   La ritorsione Usa (da Trump definita “vitale per la sicurezza nazionale”) apre adesso diversi scenari, con l’incognita sui prossimi passi e le prossime scelte del presidente americano. Il segretario di Stato Tex Tillerson ha ribadito che il futuro dipenderà dalla reazione della Siria.

   E gli Stati Uniti stanno verificando anche l’ipotesi che la Russia possa aver avuto un qualche ruolo nell’attacco chimico in Siria.. Per Trump il punto di non ritorno lo hanno segnato quelle immagini dell’ennesima atrocità di Assad: “Nessun bambino dovrebbe soffrire così”, ha detto parlando alla nazione da Mar-a-Lago dopo l’attacco sferrato poco dopo le 20.30 ora di Washington – le 3.30 del mattino a Damasco – con il lancio di 59 missili Tomahawk da due cacciatorpedinieri americani nel Mediterraneo orientale (VIDEO).

   Obiettivo la base aerea di Shayrat, nel centro del Paese, non lontano dalla città di Homs martoriata da sei anni di guerra. La stessa base da cui, secondo fonti di intelligence, sarebbero partiti i jet di Assad che martedì hanno scaricato agenti chimici sulla provincia di Idlib. Tutti i 59 missili Cruise hanno centrato gli obiettivi, ha fatto sapere la Casa Bianca: piste, velivoli, punti di rifornimento. Una “risposta proporzionata”, l’ha descritta il Pentagono, che ha “ridotto la capacità del governo siriano di utilizzare armi chimiche”. Un attacco “mirato e limitato”, di cui Washington aveva preavvertito diversi Paesi, tra cui anche la Russia, circa un’ora prima.

   Avvertito anche il personale russo presso la base colpita, allo scopo di evitare vittime collaterali.. Il bilancio dell’agenzia ufficiale siriana Sana è di 15 morti: 6 soldati e 9 civili, tra cui 4 bambini. La reazione del Congresso Usa alla decisione del presidente è stata in generale di sostegno, ma si invoca adesso un maggiore coinvolgimento del ramo legislativo per i passi successivi.

   Il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres ha invocato “moderazione” per “evitare di peggiorare la sofferenza del popolo siriano”, ribadendo che non c’è altra via di quella politica alla soluzione della crisi siriana. Ma la voce di Mosca si è alzata anche a Palazzo di Vetro: “L’aggressione Usa in Siria è illegittima e rafforza il terrorismo”, ha tuonato il vice ambasciatore russo all’Onu, Vladimir Safronkov.

   Uniti, per una volta, anche gli europei nella forte condanna all’uso di armi chimiche. In un comunicato congiunto, il presidente francese François Hollande e la cancelliera tedesca Angela Merkel hanno sottolineato come “l’intera responsabilità pesi su Assad”, auspicando “sanzioni appropriate delle Nazioni Unite” per l’uso delle armi chimiche. Il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, ha parlato di “risposta motivata” e “limitata” ad un “crimine di guerra”, ribadendo l’importanza dell’impegno comune “perché l’Europa contribuisca alla ripresa dei negoziati” con Onu e Russia. A sostegno dell’azione americana si sono schierati anche i nemici storici del regime di Assad, da Israele all’Arabia Saudita, alla Turchia di Erdogan.

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SIRIA

5 aprile 2017 da IL POST.IT http://www.ilpost.it/

L’ATTACCO CHIMICO IN SIRIA, SPIEGATO

Cosa sappiamo del bombardamento che martedì 4 aprile ha ucciso decine di persone nella provincia di Idlib, e perché è credibile pensare che sia stato compiuto dall’aviazione di Assad

Martedì mattina nella provincia siriana di Idlib è stato compiuto un bombardamento chimico che ha ucciso almeno 74 persone, la maggior parte delle quali civili. La notizia è stata raccontata e ripresa dalla stampa di tutto il mondo: anche in quei paesi dove la guerra in Siria ha smesso di essere una notizia da tempo, per stanchezza e per generale mancanza di interesse. L’attacco di ieri, infatti, è stato il peggiore da anni: è stato raccontato dai video e dalle foto fatti dalle persone colpite dal bombardamento, dai testimoni e dai medici che hanno soccorso i feriti.

Diverse organizzazioni internazionali e singoli governi, tra cui Unione Europea e Stati Uniti, hanno accusato il regime del presidente siriano Bashar al Assad di essere il responsabile dell’attacco, e non sarebbe la prima volta. Si è mosso anche il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che però è immobilizzato dal veto della Russia, alleata di Assad. Ma nessuno, e questo è un punto importante, ha chiesto ad Assad di andarsene, perché negli ultimi anni le cose in Siria sono cambiate parecchio e oggi il regime siriano può fare praticamente quello che vuole senza temere serie rappresaglie.

Cosa sappiamo dell’attacco

Il bombardamento chimico è cominciato poco dopo le 6 di mattina ora locale e ha colpito la città di Khan Shaykhun, a una settantina di chilometri a sud di Idlib. I testimoni hanno raccontato di avere capito subito che non si trattava di un bombardamento con armi convenzionali, e nemmeno di un attacco con il cloro, di cui Assad ha fatto largo uso negli ultimi anni. I sintomi – difficoltà respiratorie, schiuma alla bocca, vomito, pupille ridotte a un puntino – erano compatibili con quelli già riscontrati nei casi di attacchi compiuti con il gas sarin, un tipo di gas nervino che agisce rapidamente ed è molto più letale del cloro. Non si sa ancora con certezza che tipo di sostanze siano state usate: Medici Senza Frontiere dice che molto probabilmente le vittime sono state esposte a due sostanze chimiche diverse. Qualche ora dopo un altro attacco, questa volta con armi convenzionali, ha colpito l’ospedale che aveva accolto la maggior parte dei feriti fino a quel momento. In molti hanno parlato di un attacco “double tap”, che significa bombardare i soccorritori che si stanno prendendo cura delle persone rimaste ferite in un primo bombardamento: è una tattica che serve a massimizzare i danni e i morti e che in passato è stata usata diverse volte dal regime di Assad.

Il governo russo ha detto che l’attacco è arrivato via terra ed è stato compiuto dagli stessi ribelli; poi ha confermato che l’aviazione siriana ha colpito la città di Khan Sheikhoun, ma ha detto che gli attacchi sono stati diretti contro un deposito di sostanze chimiche e non contro la popolazione civile. Secondo la versione russa, le sostanze chimiche colpite si sarebbe disperse e avrebbero provocato i morti e i feriti. La ricostruzione russa non sembra stare in piedi e non corrisponde però alle testimonianze delle persone presenti nel luogo dell’attacco e nemmeno alle conclusioni di diverse organizzazioni internazionali e dei governi occidentali, che hanno parlato di un attacco aereo compiuto dal regime di Assad.

Perché la versione russa sull’attacco chimico non torna

Qui ci sono almeno due precisazioni da fare.

Primo: l’area colpita è l’ultima provincia della Siria ancora sotto il completo controllo dei ribelli che si oppongono ad Assad. L’espressione “ribelli” è molto generica e oggi difficilmente definibile, perché si riferisce a una miriade di gruppi diversi – jihadisti, islamisti e moderati – che per ragioni di opportunità hanno deciso di unire le forze per combattere il regime siriano. Nella provincia di Idlib la fazione preponderante si chiama Tahrir al Sham, che è una coalizione di forze jihadiste la cui componente principale è Jabhat Fate al Sham, l’ex divisione siriana di al Qaida (la scorsa estate Jabhat Fate al Sham si staccò formalmente da al Qaida, per essere meglio accettata dagli altri ribelli siriani non particolarmente entusiasti di essere associati a un’organizzazione jihadista e terroristica di quella fama: qui la storia in breve). Nella provincia di Idlib vivono però anche centinaia di migliaia di civili, molti dei quali provenienti da altre zone della Siria e già costretti a lasciare le loro case dopo avere subìto le conseguenze degli assedi militari delle forze alleate ad Assad. Il regime siriano e i suoi alleati sono le uniche forze coinvolte militarmente in Siria che hanno mostrato l’interesse e la volontà a bombardare i ribelli e di usare le morti dei civili come un’arma strategica finalizzata a distruggere il morale della popolazione.

Secondo: le bombe su Khan Shaykhun sono state presumibilmente sganciate da aerei militari, nonostante la smentita russa, e questo riduce il numero dei possibili responsabili dell’attacco. I ribelli siriani non dispongono dell’aviazione: non sono in grado di compiere un attacco di questo tipo. Ed è completamente inverosimile pensare che le bombe siano state sganciate dalla coalizione internazionale che combatte in Siria e che è guidata dagli Stati Uniti, perché il suo obiettivo è lo Stato Islamico, e lo storico dei bombardamenti compiuti fin qui lo conferma. Altrettanto inverosimile è pensare che l’attacco sia stato compiuto unilateralmente dagli Stati Uniti o da qualche suo alleato, nonostante la presenza di gruppi jihadisti nella zona: l’impiego di armi chimiche sui civili lo esclude. Considerando tutte queste cose, le testimonianze dei presenti e i precedenti in Siria, si può dire con un ragionevole livello di certezza che il responsabile dell’attacco sia stato Assad.

Ma perché un attacco chimico?

In molti si sono chiesti che bisogno ci fosse per il regime di Assad di fare un bombardamento chimico contro la popolazione civile, visto che negli ultimi mesi le cose in Siria gli stavano andando molto bene mentre ora rischia di inimicarsi diversi governi occidentali. La risposta probabilmente è più semplice di quanto si pensi: lo ha fatto perché gli serviva per mandare un messaggio politico, e perché poteva farlo.

Come ha spiegato Daniele Raineri oggi sul Foglio, l’area dove è avvenuto l’attacco non è così lontana dalla zona dove alcuni gruppi armati avevano appena tentato e fallito un’offensiva per spingersi verso sud e conquistare la città di Hama, un’operazione nella quale l’esercito di Assad aveva comunque perso molti uomini e mezzi militari. Il bombardamento chimico potrebbe essere una rappresaglia per quell’offensiva, e allo stesso tempo un modo per mandare un monito ai ribelli: ogni attacco verrà punito duramente, anche con reazioni sproporzionate. Non sarebbe un fatto nuovo: come si era già visto nelle ultime settimane della battaglia di Aleppo, finita con la vittoria del regime e la sconfitta dei ribelli, le forze di Assad e i loro alleati avevano usato una violenza mai vista fino a quel momento. Diversi analisti avevano interpretato quel livello di violenza – bombardamenti frequenti sui civili e sugli ospedali e massacri compiuti dalle milizie sciite sul terreno di battaglia – come una scelta strategica: la violenza era usata non solo per piegare la resistenza del nemico, ma anche per mandare un messaggio forte a tutti i suoi oppositori: se non vi arrendete, vi massacriamo. L’impressione è che questo schema sia stato ripetuto nell’attacco chimico di ieri a Khan Shaykhun. (…..)

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SIRIA

LA STRADA OBBLIGATA CONTRO LA JIHAD

di Ugo Tramballi, da “il Sole 24ore” del 8/4/2017

   Le bombe erano per Bashar Assad ma il messaggio politico era destinato a Vladimir Putin: la Russia non avrebbe più avuto la libertà di manovra di questi ultimi due anni e sarebbe stata responsabile dei comportamenti dei suoi alleati sul campo di battaglia.

Ma servono ancora messaggi di questo genere mentre il terrorismo colpisce a Stoccolma, San Pietroburgo e Londra; a San Bernardino, California come a Mosca?

   È evidente che l’ultimo attentato in Svezia fosse stato preparato prima che i missili americani cadessero sulla base siriana. E che anche senza l’atto di forza di Donald Trump, quel mondo informe e inafferrabile di ritornati, indottrinati, falliti, singoli o padri di famiglia, analfabeti o universitari, prima o poi avrebbe colpito di nuovo, ovunque.

   Ma l’ultimo attentato, solo pochi giorni dopo quello alla metropolitana di San Pietroburgo, suscita una constatazione banale quanto inattaccabile: alla fine siamo tutti sulla stessa barca. Dunque ai più sembra sempre meno comprensibile la logica della difficile collaborazione che diventa competizione fra russi e americani a Raqqa, il fronte siriano della lotta all’Isis, dove vincere, almeno tecnicamente, non sarebbe un’impresa impossibile.

   Non occorre essere degli specialisti del Levante mediorientale per capire quanto il caos siriano sia in grado di produrre quasi a getto continuo instabilità, terroristi e imitatori. Ma l’attentato a Stoccolma e nemmeno i prossimi prevedibili in qualsiasi posto fra le coste dell’Atlantico alla catena degli Urali, non trasformeranno la sfida fra Mosca e Washington in sincera collaborazione.

   Il confronto fra loro continua a essere un gioco a somma zero: uno vince l’altro perde, senza compromessi. Una delle leggende metropolitane di maggior successo è che Vladimir Putin sia l’unico a combattere il terrorismo e che il regime di Assad sia l’unica alternativa al caos del Paese. Solo da pochi mesi i russi si sono applicati un po’ di più nel bombardare i terroristi dell’Isis, continuando comunque a colpire come prima gli oppositori al regime di Damasco.

   Quanto ad Assad, la sua brutalità è una delle principali cause del moltiplicarsi del terrorismo. Dall’altra parte del fronte continua l’ondivago comportamento americano: dalla riluttanza di Barack Obama che considerava non prioritario per gli Usa un caos come quello siriano diventato una miniera di terrorismo e dal quale milioni di profughi fuggono in Europa; all’imprevedibilità di Trump che nel giro di pochi mesi ha proclamato l’uscita americana dal Medio Oriente, il suo ritorno ma solo per combattere una specie di guerra santa contro il terrorismo ed ora, come i suoi predecessori, si fa coinvolgere direttamente.

   Per lui è la sua prima guerra, un battesimo del fuoco­ nel grande caos del Levante. Il bombardamento americano non migliorerà né peggiorerà lo stato della Siria: domani tutto tornerà “normale” come il giorno precedente. Russi e americani, votati alla concorrenza anche in tempo di pace, continueranno a spiarsi come ai vecchi tempi della Guerra fredda quando forse avevamo meno paura del nostro futuro. (Ugo Tramballi)

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SIRIA

SE L’AMERICA TORNA PROTAGONISTA

di Maurizio Molinari, da “La Stampa” del 8/4/2017

   Con il lancio di 59 missili cruise contro la base siriana di Shayrat, Trump ha punito il regime di Assad per l’uso dei gas contro i civili, dimostrando la volontà di far tornare l’America protagonista in Medio Oriente ostacolando i piani della Russia di Putin.

   Il declino dell’influenza Usa nella regione è iniziato nel novembre 2013 quando Obama ammonì Assad a non superare la «linea rossa» dell’uso dei gas contro i suoi cittadini minacciando un intervento militare che poi però non avvenne.

   A dispetto di molteplici attacchi con i gas da parte del regime di Damasco. Con quella marcia indietro Obama indebolì la credibilità americana, minando ciò che più conta in Medio Oriente: la capacità di proiettare deterrenza. E generando un vuoto di potere nel quale, due anni dopo, la Russia si è inserita intervenendo proprio in Siria per consentire ad Assad di restare al potere e costruire attorno a tale successo strategico un nuovo equilibrio regionale con Mosca protagonista.

   Al disegno di Putin manca poco perché Assad ha quasi terminato la riconquista della Siria Occidentale – sua roccaforte – con l’eccezione però della provincia di Idlib, roccaforte dei ribelli islamici sostenuti dai Paesi sunniti.

   E’ nell’assalto a Idlib che gli aerei di Assad hanno usato il gas sarin commettendo l’errore che ha consentito a Trump di rimettere in gioco l’America riportando le lancette al 2013, ovvero usando la forza militare per far rispettare la «linea rossa» proclamata da Obama.

   Basta guardare a cosa è avvenuto nelle ore seguenti per accorgersi dell’immediato impatto strategico. I Paesi mediorientali tradizionali alleati di Washington – Turchia, Arabia Saudita, Israele, Giordania, Egitto, Emirati del Golfo hanno fatto quadrato attorno alla Casa Bianca come non avveniva dal 2011, anno d’inizio delle rivolte arabe, e ciò ha coinciso con il sostegno da parte di Londra, Berlino, Parigi e, pur con un linguaggio più prudente, Roma.

   Ovvero: se l’America torna a impegnarsi in Medio Oriente, la sua alleanza risorge nello spazio d’un mattino, riconoscersi nella capacità di Washington di proiettare stabilità e garantirla con la forza della maggior potenza militare del Pianeta. Ma il ritorno dell’America avviene al prezzo di una prova di forza con Mosca dalle imprevedibili conseguenze.

   Il Cremlino difende Assad a spada tratta, rafforza la presenza navale nel Mediterraneo orientale e minaccia contromosse sul fronte della sicurezza perché Putin non vuole rinunciare allo spazio strategico conquistato durante gli anni di Obama. La realtà tuttavia è che al suo fianco Putin si ritrova solo gli ayatollah di Teheran, gli Hezbollah libanesi e il regime di Assad: ovvero è praticamente nell’angolo, addio ambiziosi piani per basi ed affari da Suez al Golfo.

   Inizia così la partita fra Trump e Putin sul riequilibrio di forze in Medio Oriente: entrambi hanno interesse a demolire il Califfato dello Stato Islamico ma, come avvenne nel cuore dell’Europa nel 1945, sono in gara per conquistare la capitale del nemico comune e assumere la leadership della ricostruzione regionale.

   E’ una sfida che ha sullo fondo quanto matura nella West Wing della Casa Bianca: Trump riduce il ruolo dell’anima ideologica e populista del suo team, incarnata da Steve Bannon, e si affida ad una falange di pragmatici – il consigliere per la sicurezza H. R. McMaster, Jim Mattis al Pentagono, Rex Tillerson al Dipartimento di Stato e Steven Mnuchin al Tesoro – per rimettere l’America sui binari.

   E’ una direzione di marcia che spiazza tutti coloro che vedevano in Trump solo lo spregiudicato leader populista della campagna elettorale sottovalutandone il carattere da tycoon della Grande Mela: il risveglio per Putin è arrivato con un pioggia di cruise e il presidente cinese Xi Jinping lo ha vissuto in diretta nel resort di Mar-a-Lago in Florida mentre il Pentagono si affrettava a far sapere a Pyongyang e Teheran che le rispettive armi di distruzione di massa non erano più al sicuro di quelle di Assad.

   Resta da vedere se Trump riuscirà a trasformare questo blitz in una svolta strategica sufficientemente stabile e credibile da poter riportare l’America a guidare con fermezza l’alleanza di nazioni frettolosamente dismessa da Obama. In attesa di sapere se ciò avverrà, conviene riflettere sul suggerimento che Henry Kissinger suole ripetere ai visitatori d’Oltremare: «Mai prendere sotto gamba un Presidente degli Stati Uniti». (Maurizio Molinari)

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SIRIA/TRUMP

LA RABBIA DELLO ZAR FERITO

di Lucio Caracciolo, da “la Repubblica” del 8/4/2017

   I MISSILI scagliati da Trump contro una base aerea siriana hanno un doppio bersaglio geopolitico: Russia e Cina. Messaggio forte e chiaro: l’America c’è e fa sul serio. L’avvertimento è particolarmente umiliante per Xi Jinping, colpito mentre era a tavola con il presidente, ospite nella sua residenza in Florida. Al leader di Pechino Trump ha comunicato brutalmente che se non si sbriga a mettere la museruola alla Corea del Nord, che fra pochi anni potrebbe essere in grado di colpire gli Stati Uniti con una bomba atomica lanciata da un missile balistico intercontinentale, gli Stati Uniti agiranno per primi, vetrificando Pyongyang con un attacco preventivo. A pochi chilometri dalla frontiera cinese (e russa). Prima le parole, poi i missili hanno mandato di traverso la cena a Xi Jinping, ricordandogli che, almeno per ora, il Numero Uno resta l’impero a stelle e strisce.

   Ma il segnale più immediato Trump l’ha mandato a Putin. Al quale è stato ricordato che gli Stati Uniti sono la superpotenza globale. Punto. Quel “Dio benedica l’America e il mondo” con cui il leader della Casa Bianca ha concluso il suo videomessaggio non poteva essere più esplicito circa raggio e intensità della missione universale che la “nazione indispensabile” si attribuisce. Se il Cremlino immaginava di scalfire, con l’intervento in Siria, il rango e l’impegno americano anche in una regione non più centrale per gli interessi di Washington qual è oggi il Medio Oriente, si sbagliava di grosso.

   La principale ragione della esibizione di forza russa in Siria e più in generale nel Mediterraneo – incluse Egitto e Libia – era di smentire l’assunto di Obama per cui Putin presiede una mera potenza regionale. E affermare che Mosca ha suoi interessi e propri “figli di puttana” da proteggere ben oltre il canonico spazio imperiale, quello ex sovietico. A partire dall’universo islamico.

   Marcando così la differenza con Washington, che a partire dall’ultimo biennio della presidenza Bush e per l’intero ottennato di Obama aveva cercato di districarsi dal pantano mediorientale. Con l’attacco missilistico Trump ha inteso frenare la ritirata, anche per rassicurare i suoi storici alleati nella regione – Israele in testa, Arabia Saudita e suoi satelliti del Golfo a seguire – sull’impegno americano a proteggerli.

   La svolta a 180 gradi della Casa Bianca, che fino a pochi giorni fa assicurava di considerare Assad una realtà inaggirabile per la soluzione della guerra siriana, è maturata nelle ore in cui Trump incontrava il monarca giordano, che per primo ha denunciato la minaccia del “crescente sciita” guidato da Teheran, con al fianco Damasco e alle spalle l’ombrello di Mosca. Uno spettro che incombe sulle entità arabo-sunnite tra Mediterraneo e Golfo.

   Ma con questa mossa Trump ha voluto soprattutto affermare il suo status di comandante in capo, per riunire una nazione divisa attorno alla figura del suo portabandiera. E lo ha fatto attaccando indirettamente l’impero nemico dal quale sarebbe stato aiutato a conquistare la Casa Bianca. Il fatto di aver preavvertito Putin – come altri leader politici di minor calibro – aggiunge la beffa al danno.

   Tradotto nel gergo diretto che distingue The Donald, il messaggio suona così: «Io faccio quel che mi pare e tu non puoi farci niente». Da sospetta quinta colonna del Cremlino a belligerante anti-russo, il testacoda non poteva essere più drammatico. Colpito, Putin ha incassato con fredda rabbia, denunciando “l’aggressione” americana alla Siria e mettendo la sordina ai già modesti abbozzi di cooperazione russo-statunitense nella guerra contro lo Stato Islamico. Dopo nemmeno tre mesi, l’annunciato reset trumpiano delle relazioni con Mosca appare compromesso. Per la resistenza degli apparati della forza americani, abituati a trattare la Russia da nemico, del Congresso e dell’opinione pubblica, per quel poco che s’interessa del resto del mondo.

   Certo, per ora siamo al puro colpo di teatro. È possibile che Trump si accontenti dell’effetto scenografico, senza rischiare un’escalation. Il caos sul terreno siriano è tale da sconsigliare – se mai qualcuno a Washington l’immaginasse – una campagna di terra per intestarsi la liberazione di Raqqa dal “Califfo” e di Damasco da Assad.    Avendo la quasi certezza dello scontro diretto con Russia e Iran. Ma nella fresca veste militare Trump può sorprenderci.

   L’obiettivo strategico suo, come di qualsiasi altro presidente in carica, è di essere rieletto.

   Se le fragili fondamenta della sua amministrazione fossero ulteriormente minate dalla resistenza dello “Stato profondo” (intelligence e Pentagono in testa) e di buona parte degli stessi repubblicani – che al di là delle forme non sono il suo partito – la tentazione di una guerra vera potrebbe rivelarsi irresistibile. (Lucio Caracciolo)

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