L’ITALIA manda una MISSIONE militare in NIGER, per controllare la ROTTA DEI MIGRANTI che parte dal SAHEL – E’ una svolta alla politica italiana nel voler essere per l’Africa un volano di pace e sviluppo? O è solo un controllo e repressione di migrazioni di poveri affamati, in guerra in terre con un ambiente inospitale?

L’Italia schiererà UNA MISSIONE MILITARE IN NIGER, nel cuore dell’Africa. Un contingente che nel corso del prossimo anno arriverà a contare 470 soldati con 130 veicoli. E che non si occuperà solo di ADDESTRARE LE FORZE LOCALI ma anche di “concorrere all’attività di SORVEGLIANZA e di CONTROLLO del territorio del Niger”. Un impegno diretto, quindi, per PRESIDIARE LA ROTTA CHIAVE DEI MIGRANTI diretti verso le coste del Mediterraneo (foto da “Il Sole 24ore”)

   Dal 17 gennaio (con il voto alla Camera dei Deputati) anche l’Italia ha una sua missione in Niger, nel cuore del Sahel, il Paese da cui transita la maggior parte dei migranti diretti in Libia e poi in Italia. La stabilità di Paesi come il NIGER e il BURKINA FASO è decisiva per l’Africa occidentale, ma anche per l’Italia e l’Europa.

Il risultato della votazione alla Camera dei Deputati del 17 gennaio scorso per la missione in NIGER

Il Niger non è un Paese semplice: numerosi sono stati e sono tuttora gli attentati terroristi degli integralisti islamici. L’Isis ha proclamato la volontà di creare uno Stato islamico nei vasti spazi desertici degli Stati saheliani. E Il controllo delle autorità locali nigerine è scarso, soprattutto lungo i confini, specie in quello strategico con la Libia: lì è una terra di nessuno, dove convivono mercenari, gruppi jihadisti, trafficanti di petrolio…

“…TRAFFICANTI DI UOMINI. NARCOTRAFFICANTI. JIHADISTI. Il loro crocevia è LA FASCIA DESERTICA CHE DALLA MAURITANIA SI DISTENDE FINO AL SUDAN: IL SAHEL. La FRANCIA da luglio guida con 4 MILA SOLDATI una missione per «stabilizzare» la regione. «Bisogna vincere la guerra contro i terroristi», diceva il presidente EMMANUEL MACRON a NIAMEY, capitale del NIGER, a dicembre. Parigi guida una coalizione di cui fanno parte i Paesi del “G5 SAHEL”: Mali, Niger, Burkina Faso, Ciad e Mauritania. (…) Lorenzo Bagnoli 19 gennaio 2018 da https://www.osservatoriodiritti.it/

E’ così che il Niger e gli altri Stati saheliani restano fragili, senza frontiere, e con una difficile convivenza tra musulmani e i minoritari cristiani (colpiti quest’ultimi da attentati tragici).

NIGER: militari Usa approntano un campo di addestramento

L’obiettivo della missione italiana è di fornire un supporto al governo nigerino rafforzando la sua capacità di controllo del territorio per contrastare i traffici illegali, con la sorveglianza delle frontiere anche con aerei militari. L’Italia porterà in Niger un contingente di 256 soldati, che potranno salire fino a 470, e ha un mandato di operare, oltre che in Niger, anche in Mauritania, Nigeria e Benin.

(MAPPA SAHARA E SAHEL) – IL SAHEL (dall’arabo Sahil, “bordo del deserto”) È UNA FASCIA DI TERRITORIO DELL’AFRICA SUB-SAHARIANA CHE SI ESTENDE TRA IL DESERTO DEL SAHARA A NORD E LA SAVANA DEL SUDAN A SUD, e tra l’OCEANO ATLANTICO a ovest e il MAR ROSSO a est. Essa costituisce una zona di TRANSIZIONE TRA L’ECOZONA PALEARTICA E QUELLA AFROTROPICALE, ovvero un’area di passaggio climatico DALL’AREA ARIDA (STEPPICA) DEL SAHARA A QUELLA FERTILE DELLA SAVANA ARBORATA SUDANESE (asse nord-sud). Il Sahel copre i seguenti stati (da ovest a est): GAMBIA, SENEGAL, la parte sud della Mauritania, il centro del MALI, BURKINA FASO, la parte sud dell’ALGERIA e del NIGER, la parte nord della NIGERIA e del CAMERUN, la parte centrale del CIAD, il sud del SUDAN, il nord del SUD SUDAN e l’ERITREA

Ma è un mandato assai limitato: non potranno debellare i jihadisti né bloccare i trafficanti di esseri umani (manca un accordo col Niger per arrestarli e consegnarli alla giustizia); e difficile sarà pattugliare efficacemente il tratto di confine ipotizzato, sia per l’accordo limitato con il governo del Niger che per il contingente militare a disposizione che non è numeroso.

Rotte dell’immigrazione

   Quel che (pare) si farà, sarà addestrare le forze nigerine. Come è finora accaduto con i curdi in Siria, e altre parti del mondo dove in questi anni c’è stata una presenza di contingenti “di pace” italiani.

NIGER – (5/12/2017 da Limes) – IL PIÙ ESTESO E PIÙ POVERO PAESE DELL’AFRICA OCCIDENTALE ha un sottosuolo ricco di risorse. ECONOMIA, JIHADISMO E QUESTIONE MIGRATORIA attirano gli interessi di numerosi attori stranieri, tra cui l’Italia. (CARTA INEDITA DELLA SETTIMANA, – mappa da Limes, carta di Laura Canali)

Però, se la vogliamo vedere positivamente (senza sospetti di interessi nazionalistici), va rilevato che è la prima volta che “si va a vedere” a Sud, “oltre il Mediterraneo” e “oltre la Libia”, quel che accade nel formarsi di quelle rotte di migranti. Migranti quasi sempre disperati, in miseria economica e provenienti da guerre e violenze, e abitanti terre sempre più aride, in condizioni ambientali di vita impossibili.

(FOTO: la nave AQUARIUS della organizzazione umanitaria italo-franco-tedesca SOS MEDITERRANÉE, opera in partenariato con MSF (Medici senza frontiere) “….Era pieno di BAMBINI, alcuni dei quali neonati, quel GOMMONE sul quale i TRAFFICANTI LIBICI avevano ficcato 120 PERSONE. E così, quando ha cominciato a sgonfiarsi e ad affondare, le mani di tante giovani mamme si sono tese verso il cielo provando a tenere su i loro piccoli. Quando la AQUARIUS di SOS MEDITERRANÉE è arrivata, in acqua c’erano decine di persone, molti ormai in stato di incoscienza, i polmoni pieni di acqua. Ma almeno UNA TRENTINA, stando al racconto degli 83 superstiti, sono I DISPERSI……” (Alessandra Ziniti, “la Repubblica”, 29/1/2018)

E forse, accanto alle poche e difficili presenze in questi decenni di qualche centro missionario cattolico, o di organismi di volontariato laico (organizzazioni non governative con medici e cooperatori), forse l’aggiungersi di un pur limitato contingente militare, può accrescere la sensibilità italiana ed europea verso queste aree d’Africa.

Controllo francese nell’africa centrale (foto da http://www.comedonchisciotte.org/)

Africa centro-settentrionale che per noi è diventata “importante” solo in questi ultimi anni, perché da lì si formano le rotte dei tanti migrati verso l’Italia e l’Europa (prima non ce ne importava granché di fame, miseria, guerre e malattie cui quei luoghi e quelle popolazioni soffrivano).

I CAMPI DI DETENZIONE IN LIBIA – «Le statistiche non descrivono tutto. Al di là dei numeri, dietro le 119 mila persone arrivate in Italia dal Sud del Mediterraneo nel 2017 ci sono storie individuali: il calo degli sbarchi nel vostro Paese SIGNIFICA, IN LIBIA, AUMENTI DELLE TORTURE, DEGLI STUPRI, DI VITE IN CONDIZIONI DI FAME. Non voglio immaginare che cosa succede. DOPO CIÒ CHE HO VISTO È TROPPO DURO»…JOANNE LIU, presidente internazionale di MEDICI SENZA FRONTIERE (da Maurizio Caprara, “Il Corriere della Sera”, 1/2/2018)

Qualcuno dice che l’Italia in quelle aree non può altro che essere di supporto (subordinata) alla presenza della missione francese nel Sahel, nazione (la Francia) sempre molto interessata all’Africa e alla sua storica influenza (post)coloniale. In primis potrebbero interessare le risorse minerarie: in Mauritania, Mali, Burkina e Chad le compagnie francesi hanno in mano uranio, carbone, ferro, fosfato e petrolio.

AFRICA: La fascia del Sahel

Ma vogliamo credere (e sperare) che non sia questo il contesto? Che ci sia invece la volontà sì di porre un freno all’immigrazione, ma con “altri metodi” e senza “sfruttamenti di risorse” a questi paesi e a queste popolazioni? E senza che i migranti subiscano violenze nel deserto, nei campi di concentramento libici, e poi rischiando la vita nei barconi dei trafficanti nel Mediterraneo? E che si inizi, proprio dal Sahel, dal Niger e dagli altri Paesi, un percorso di collaborazione allo sviluppo e di pace (contro le forze jihadiste)?

SAHEL

E’ pur vero che la Francia in quest’Area saheliana si è impegnata e si sta impegnando molto nella lotta al terrorismo dell’estremismo islamista: e che forse la presenza italiana diventerà strategica e importante se sarà di supporto all’ “antiterrorismo” francese.
In ogni caso una pacificazione (dal terrorismo) e sviluppo dell’area, con possibilità di creare benessere nelle popolazioni africane, se questo è il “compito italiano” che ci si prefigge con questa pur ridotta missione in Niger, lo potremmo chiamare un “sano egoismo”: il controllo delle rotte dei migranti può ridurre le difficoltà europee (e italiane) nell’accogliere l’arrivo in modo incontrollato di sempre più persone; allo stesso tempo incominciamo a interessarci (come italiani e francesi, come europei…) all’Africa, contribuendo a dare ad essa pace e sviluppo (possiamo essere fiduciosi una volta tanto, e vedere positivamente questa missione in Niger?) (sm)

da WWW.osservatoriodiritti.it/

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EUROPA E AFRICA UN DESTINO COMUNE

di Andrea Riccardi, da FAMIGLIA CRISTIANA del 21/1/2018
– DOPO ANNI DI DISTACCO, FINALMENTE L’ITALIA HA RIAPERTO AMBASCIATE IN BURKINA FASO E IN NIGER: LE NOSTRE FRONTIERE VANNO OLTRE IL MEDITERRANEO – DIPLOMAZIA INTERNAZIONALE EUROPA E AFRICA, UN DESTINO COMUNE –
Economia, politica e sicurezza del Continente nero influiscono direttamente sul nostro futuro. Le frontiere di un Paese, nel mondo globale, non si identificano con i confini geografici. Al contrario, i “sovranisti” credono che blindare i confini offra sicurezza. È la logica del muro per fermare migranti e rifugiati, com’è avvenuto quando questi salivano disperati per i Balcani.
L’Italia, circondata dai mari, per geografia e storia non è portata alla blindatura delle frontiere, anche se qualcuno spinge in questo senso e promette impossibili sicurezze. Ho sempre pensato che le frontiere meridionali dell’Italia siano oltre il Mediterraneo. Quello che accade in AFRICA, specie nel SAHEL e nel SAHARA, ci interessa da vicino. Qui è ricettacolo di molti traffici illeciti e di presenze terroriste. Qui passano le rotte dei migranti.
La stabilità di Paesi come il NIGER e il BURKINA FASO è decisiva per l’Africa occidentale, ma anche per l’Italia e l’Europa. Ma la politica italiana li ha a lungo ignorati. Si pensi che l’ambasciata italiana in COSTA D’AVORIO copriva anche Niger e Burkina, così lontani, riducendo la presenza italiana a poco.
Poi in Africa si chiudevano le ambasciate con l’insensata politica dei tagli che faceva risparmiare qualcosa in bilancio, ma in realtà faceva perdere tanto. Così, qualche anno fa, è stata chiusa l’ambasciata italiana in GUINEA CONAKRY. Un’ambasciata in Africa è molto importante: rappresenta un centro di relazioni politiche, di cooperazione, commerciali.
Oggi l’Africa subsahariana e saheliana è entrata nell’orizzonte italiano. La prima spinta in questo senso è venuta dalla cooperazione: fu il Governo Monti ad aprire un ufficio della cooperazione italiana a OUAGADOUGOU, capitale del Burkina. POI SONO VENUTE LE PREOCCUPAZIONI PER LE ROTTE DEI MIGRANTI.
Oggi finalmente SI SONO APERTE NUOVE AMBASCIATE ITALIANE IN BURKINA E NIGER (e si è RIAPERTA QUELLA IN GUINEA).
Non si tratta di interpretare questa presenza contro i migranti. La presenza militare italiana in Niger non va enfatizzata, ma discussa in quest’orizzonte d’impegno. Sono convinto che, per fermare l’immigrazione illegale e i trafficanti di esseri umani, bisogna agire su due piani: APRIRE CANALI LEGALI di accesso PER LA PROTEZIONE UMANITARIA, ma anche PER LA CRISI DEMOGRAFICA E IL MERCATO DEL LAVORO; aiutare i Paesi africani a motivare i loro giovani perché restino in Africa.
Gli Stati saheliani sono fragili, senza frontiere, terre di convivenza tra musulmani e cristiani (minoritari). Daesh ha proclamato la volontà di creare uno Stato islamico in questi vasti spazi desertici.
Un grande Paese come il Burkina Faso, con 19 milioni di abitanti, è chiave nella regione e va sostenuto. Il Niger, con 20 milioni di abitanti, ha sofferto le ricadute della guerra e della crisi in Libia. Lo sviluppo, la solidità della democrazia, la sicurezza di questi Paesi sono parte integrante di un futuro migliore anche per l’Europa. Si conferma, ancora una volta, che Europa e Africa sono inscindibilmente legate. (Andrea Riccardi)

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MISSIONI MILITARI: ITALIA E FRANCIA SI CONTENDONO LIBIA E NIGER

di Lorenzo Bagnoli 19 gennaio 2018 da https://www.osservatoriodiritti.it/
– Montecitorio dà il via libera a nuove missioni militari in Africa. L’obiettivo è fermare migranti, trafficanti di uomini e jihadisti. La Francia è già nel Sahel. Partner e competitor allo stesso tempo, cercano il primato europeo nella rotta dei migranti. In palio c’è l’influenza sulle risorse –
Trafficanti di uomini. Narcotrafficanti. Jihadisti. Il loro crocevia è la fascia desertica che dalla Mauritania si distende fino al Sudan: il Sahel. La Francia da luglio guida con 4 mila soldati una missione per «stabilizzare» la regione. «Bisogna vincere la guerra contro i terroristi», diceva il presidente Emmanuel Macron a Niamey, capitale del Niger, a dicembre. Parigi guida una coalizione di cui fanno parte i Paesi del “G5 Sahel”: Mali, Niger, Burkina Faso, Ciad e Mauritania.
PRESIDIARE IL CUORE DEL SAHEL PER BLOCCARE I MIGRANTI
Dal 17 gennaio anche l’Italia ha una sua missione in Niger, il cuore del Sahel, il Paese da cui transita la maggior parte dei migranti diretti in Libia e poi in Italia. Non è un Paese semplice: a ottobre, un commando del jihadista Adnan Abu Walid al-Sahraoui, promotore dello Stato Islamico del Sahel, ha ucciso quattro militari americani, in missione insieme ai nigerini.
Il controllo delle autorità locali è scarso: soprattutto lungo i confini, imperversano personaggi come il ciadiano Barka Chidimi, comandante della brigata Suqur al-Sahara (le Aquile del Sahara). Visto che la strategie europea, come insegna la Libia, sembra stringere alleanze con i trafficanti e pagarli per “non lavorare”, l’uomo si sarebbe proposto con una lettera a inizio ottobre come cacciatore di trafficanti (come lui) lungo i confini tra Niger e Libia. Una terra di nessuno dove convivono mercenari, gruppi jihadisti, trafficanti di petrolio.
Ma ogni operazione di contrasto a trafficanti di uomini passa dal Niger. L’importanza strategica, di conseguenza, si è alzata al punto di attirare promesse da istituzioni internazionali come Unione europea, Banca Mondiale, fondi sovrani di Paesi del Golfo, per aiuti da oltre 23 miliardi di dollari da qui fino al 2021.
L’ITALIA IN NIGER: UNA MISSIONE MILITARE DA 470 SOLDATI
L’obiettivo della missione italiana, si legge nell’ultimo decreto missioni militari, è «fornire supporto al governo nigerino rafforzandone le capacità di controllo del territorio al fine di incrementare il contrasto ai traffici illegali; concorrere alla sorveglianza delle frontiere e allo sviluppo della componente aerea».
In media, l’Italia porterà in Niger un contingente di soldati che in precedenza si trovavano in Afghanistan. Sarà composto in media da 256 soldati, numero che può aumentare fino a 470, e avrà mandato per operare anche in Mauritania, Nigeria e Benin.
I mezzi impiegati saranno due aerei e 130 terrestri, per un costo totale, previsto da gennaio a settembre, di oltre 30 milioni di euro, 49,5 milioni in un anno. A questa si aggiungono altri due militari per la missione Eucap Sahel, una missione civile di supporto alle guardie di frontiera di Mali e Niger da 244 mila euro. La loro autorizzazione è stata votata a camere sciolte, a un mese e mezzo dalle elezioni.
UNA CONTESA TUTTA EUROPEA: ROMA, PARIGI E L’UE
Francia e Italia si contendono il primato in Africa. Parigi vuole rafforzare la sua presenza in Niger, colonia ricca in particolare di uranio e vuole guadagnare spazio anche in Nord Africa, soprattutto in Libia e Tunisia.
Roma, da parte sua, vuole guidare il contrasto all’immigrazione irregolare (nella speranza, anche, di farlo pesare in Europa) e confermare il suo ruolo in Libia, dove storicamente ha vie privilegiate per lo sfruttamento di gas e petrolio.
In questo scontro europeo, in mezzo ci sono i migranti. L’alto commissario europeo Federica Mogherini ha detto in più occasioni che vuole «evacuare» quelli che si trovano in Libia e bloccare le rotte per nuovi ingressi nel Paese. Intervistato da il manifesto, il viceministro degli Esteri Mario Giro ha dichiarato: «Andiamo in Niger per evitare una nuova Libia».
Nonostante a febbraio siano previste le prime elezioni libere in Libia, il Paese è lontano dalla stabilità, nonostante qualche timido tentativo di riconciliazione. Serraj ha promesso a dicembre agli sfollati di Tawergha, città vicino a Misurata fedele a Gheddafi nella rivoluzione del 2011, di poter rientrare a casa.
VOTO IN LIBIA: ELEZIONI NEL CAOS TRA HAFTAR E SERRAJ
Il prossimo voto in Libia è tra le cause dell’escalation di violenza nel Paese. Non c’è entità che sia in grado di esercitare il monopolio nell’uso della forza, prima condizione per costruire esercito e polizia ed evitare abusi dei diritti umani, oggi all’ordine del giorno sia contro i migranti, sia contro la popolazione civile.
Da un lato c’è il generale Khalifa Haftar, che si sente il leader in pectore del Paese, come una sorta di nuovo Gheddafi. Dall’altra, c’è Fayez Serraj, il primo ministro nominato dalle Nazioni Unite. Haftar controlla la Cirenaica, l’est del Paese. Serraj, invece, è sempre più debole, anche a Tripoli.
IMPOSSIBILE CONTROLLARE LE PARTENZE DEI MIGRANTI
A sud e a ovest il Paese è completamente spaccato. Le Nazioni Unite hanno lanciato l’allarme per il rischio di violenze sui civili dopo che nell’area metropolitana di Tripoli si sono accesi gli scontri per il controllo dell’aeroporto di Mitiga. Secondo un comunicato del Governo di Serraj si tratta «di terroristi» vicini a Isis o Al Qaeda, ma secondo analisti e giornali locali è più probabile che si tratti del Benghazi Shura Council, una coalizione di rivoluzionari e jihadisti in contrasto con lo Stato Islamico e vicini ad Haftar.
L’instabilità ha reso impossibile anche un controllo delle partenze, che nel 2017 sono scese di molto rispetto agli anni scorsi. Secondo i dati Unhcr, dalla Libia sono partite nei primi 17 giorni del 2018 quasi 3 mila persone, una cifra in linea con i dati del 2015. Per altro, le milizie con le quali collaborava il governo di Serraj a Zuara e Sabratha, nel nord ovest del Paese, sono state sconfitte da gruppi armati rivali nel corso dell’estate.
LE MISSIONI IN LIBIA
In questo contesto esplosivo, l’Italia ha confermato nel decreto missioni il supporto alla Guardia costiera libica – nonostante le critiche – con 3,5 milioni di euro per l’addestramento dei locali; offre un sostegno economico e militare alla missione Onu in Libia da 1,1 milioni di euro; supporta il governo Serraj in missioni di contrasto all’immigrazione irregolare e formazione di militari per 35 milioni di euro circa. E questo è solo lo sforzo economico a terra, a cui si aggiungono altri 120 milioni per Mare Sicuro, missione per proteggere le piattaforme petrolifere Eni al largo della Libia. (Lorenzo Bagnoli)

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NIGER: I MILITARI ITALIANI E LE CONSEGUENZE CHE NON VOGLIAMO VEDERE
By Rete degli Studenti Medi – 23 gennaio 2018 – www.retedeglistudenti.it/
Il 17 gennaio la Camera dei Deputati ha approvato con larga maggioranza il Decreto sulle missioni militari internazionali che l’Italia intraprenderà nel 2018, con voto favorevole di Partito Democratico, Forza Italia e Fratelli d’Italia, l’astensione della Lega Nord e il voto contrario di Movimento 5 Stelle e Liberi e Uguali.
Un voto chiamato a Camere ormai sciolte, connotato da un carattere d’urgenza esemplificativo delle priorità di questa maggioranza di Governo: la stessa maggioranza che, neanche un mese fa, è riuscita a far mancare in Senato il numero legale di presenze necessarie a procedere con la votazione dello Ius Soli, che avrebbe garantito la cittadinanza a 800.000 bambini e ragazzi giuridicamente stranieri che vivono e studiano nel nostro Paese, ponendo a conclusione di questa legislatura una triste pagina di inciviltà. Questione di priorità.
Questa volta, invece, l’asse con la destra di Berlusconi e Meloni ha garantito l’approvazione di un decreto che ha suscitato interesse e critiche a causa del via libera all’intervento militare italiano in Niger, Stato dell’Africa occidentale che rappresenta una delle fondamentali zone di transito dei migranti che dall’Africa subsahariana tentano di raggiungere la Libia.
Il contingente italiano in Niger, costituito da 470 militari che alterneranno la loro presenza sulla zona per garantire un media annuale di circa 250 soldati, si aggiunge a operazioni internazionali già presenti che coinvolgono principalmente Francia e Stati Uniti. La missione italiana in Niger ha l’obiettivo dichiarato di contrastare il traffico di esseri umani e il terrorismo, potenziando i controlli militari al confine sud con la Libia, spingendo i migranti ad affrontare un viaggio ancora più pericoloso, fuori dai percorsi battuti che saranno presidiati dai militari.
I risvolti geopolitici di questa operazione portano tuttavia a galla motivazioni che vanno oltre la solidarietà internazionale, evidenziando la ricerca di un equilibrio con le altre potenze coinvolte e in particolar modo con la Francia, che porta avanti su quella zona interessi deliberatamente economici, legati alla presenza di miniere di uranio fondamentali per il sostentamento del suo fabbisogno energetico.
La questione ovviamente non si esaurisce qui: la presenza italiana in un contesto tradizionalmente lontano dalla propria politica estera è la dimostrazione di una volontà di collaborazione con la Francia in merito al controllo dei flussi migratori ai quali entrambi i paesi sono esposti. Convergenza trovata nonostante i due Paesi si siano spesso trovati su posizioni divergenti rispetto alla questione libica, con l’Italia schierata a sostegno del Governo di Tripoli mentre la Francia provava a giocare un ruolo di mediatore tra al Serraj e il generale Haftar, leader della Libia orientale.
Con l’approvazione del decreto, l’Italia consente alla Francia di ritirare parte dei propri militari e risparmiare risorse, inserendosi al contempo in un’area che sta acquistando grande centralità, tanto per la presenza di importanti risorse energetiche, quanto perché il Niger rappresenta un fondamentale retrovia del conflitto libico.
Di fatto, lo schieramento dei militari italiani sul confine del Niger è un modo indiretto per controllare i confini meridionali della Libia, area decisamente più pericolosa e insicura.
Lo sfruttamento delle risorse locali e lo stanziamento di contingenti militari a controllo di territori strategici sembrano dunque rappresentare, dietro al pretesto del controllo dei flussi migratori e della lotta al terrorismo, interessi di carattere neocolonialista, denunciati da attivisti e analisti, nonché da parte del Parlamento.
Del resto, le politiche messe in atto dal Governo Italiano d’intesa con la Libia in merito al contenimento dei flussi non possono certo richiamarsi ai principi di solidarietà internazionale e difesa dei diritti umani, viste le conosciute e documentate condizioni disumane in cui i migranti sono tuttora detenuti nelle carceri libiche.
In fin dei conti, anche questo intervento risponde alla stessa logica di esternalizzazione delle nostre frontiere, per seguire la quale continuiamo a chiudere gli occhi sulle ritorsioni del nostro supporto a Paesi che mettono in scena violenza e repressione contro i più deboli, accettando il compromesso di avere la coscienza sporca pur di garantire una miope parvenza di sicurezza ai nostri Paesi.
Così in molti paesi dell’Africa, tra i quali il Niger rientra a pieno titolo, va in scena il paradosso per cui il contenimento dei flussi operato dalle potenze europee crea disoccupazione in tutte quelle aree che hanno fatto del traffico dei migranti una fonte di arricchimento, facendo pagare a caro prezzo tutti i servizi offerti da chi transita su quelle tratte.
Ed è proprio l’Onu a confermare, in un recente studio sull’estremismo in Africa, che gran parte delle reclute delle organizzazioni terroristiche si arruolano per motivazioni economiche più che per motivazioni religiose, provenendo da aree caratterizzate da estrema povertà e presenza di governi corrotti e autoritari.
È quindi del tutto evidente che la repressione e l’impoverimento messi indirettamente in atto per mezzo del nostre azioni politiche, economiche e militari costituiscano un tentativo di tamponamento a breve termine, che non incentiva l’emancipazione politica ed economica di territori la cui instabilità continuerà a fomentare la crescita del terrorismo e dell’emigrazione della popolazione.
In sostanza, l’intervento militare italiano in Niger non rappresenta altro che un’azione in continuità con le politiche messe in atto fino ad ora. L’ennesimo modo per sperare di contenere un fenomeno che andrà inevitabilmente accrescendosi nel corso dei prossimi anni, evitando ancora un volta di mettere in campo azioni di prevenzione utili a evitare che fuggire dalle proprie terre sia l’unica possibilità per sperare in un futuro migliore.
Per questo come Rete degli Studenti Medi e Unione degli Universitari siamo contrari a queste operazioni e rivendichiamo la necessità di un ruolo radicalmente diverso per l’Italia e per l’Europa, come attori principali della promozione e della garanzia dei diritti umani nei confronti di chi fugge dalle guerre, dalla povertà e dalle conseguenze devastanti dei cambiamenti climatici.    Chiediamo quindi ancora una volta la creazione di corridoi umanitari e di canali di accesso legali nel nostro Paese, partendo dal superamento della Bossi-Fini, e nell’UE. (Rete degli Studenti Medi – www.retedeglistudenti.it/)

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NIGER: AL RUOLO MILITARE DEVE CORRISPONDERE UN NOSTRO RUOLO POLITICO
di Romano Prodi, da “Il Messaggero” del 31/12/2017
Riflettendo sui nostri obblighi e sui nostri interessi di lungo periodo, la decisione di inviare un contingente di 470 militari italiani in Niger appare opportuna. È infatti conveniente concentrare le nostre forze operanti all’estero in uno scacchiere più vicino e più utile alla nostra sicurezza.
La presenza italiana in Iraq (e ancora più in Afghanistan) è stata infatti dettata più dall’appartenenza ad un’alleanza internazionale che non da un interesse diretto dell’Italia, dato che questi paesi gravitano in un contesto abbastanza distante dal nostro.
Nel caso del Niger le cose stanno diversamente perché, fra terrorismo e migrazioni, l’Africa sub-sahariana è ormai la frontiera sud dell’Europa e preme direttamente su casa nostra. Anche una media potenza regionale, come è oggi è l’Italia, deve perciò prendersi cura di quanto le accade intorno.
Credo quindi che, nei dovuti modi e nei dovuti tempi, la nostra presenza dovrà ancora diminuire e poi annullarsi in Afghanistan e in Iraq e trasferirsi maggiormente verso le aree di nostro interesse.
Entrando in modo specifico nelle caratteristiche della missione in Niger, dobbiamo precisare che, almeno in questa prima fase, ci limiteremo, insieme ai tedeschi, ad una funzione di addestramento delle forze militari e di polizia e a un’attività di sorveglianza e protezione della capitale. Il lavoro prettamente militare continuerà, almeno nel prossimo futuro, ad essere svolto da forze americane e, soprattutto, francesi.
Ciò non toglie che il nostro contingente sia fornito delle più moderne dotazioni di armi. Nei commenti dei media italiani (per ovvie ragioni di politica interna) si è lanciato il messaggio che il contrasto migrazione clandestina sia l’obiettivo dominante della nostra presenza in Niger mentre lo scopo dell’intera missione è invece il contenimento delle milizie terroristiche che, dopo il disfacimento della Libia, estendono la loro influenza in tutto il sub-Sahara. Milizie naturalmente rinforzate dal trasferimento dei combattenti in fuga dal disfacimento dello stato Jhadista in Medio Oriente.
Una maggiore presenza nel Territorio del Niger è certamente utile anche per l’azione di controllo dei flussi di emigrazione clandestina, ma è sufficiente osservare quanto siano numerose le vie alternative che gli emigranti già oggi praticano per capire come quest’obiettivo, pur dominante per noi, sia di secondaria importanza rispetto allo scopo principale della missione in Niger.
Germania e Italia si muovono quindi principalmente in aiuto all’azione militare della Francia azione che si estende lungo l’intero Sahel, dove la sua presenza e i suoi interessi sono davvero cospicui: dalle imprese produttive alle miniere, dagli ospedali alle scuole, dagli alberghi ai servizi pubblici.
Grande è lo sforzo militare francese nell’area smisurata in cui si esprime: solo in Mali sono oltre 3.000 i militari francesi che si affiancano ai 12.000 caschi blu dell’Onu per arginare i terroristi, eredi di una notevole parte degli arsenali di Geddhafi.
Relativamente modesto è per ora l’impegno tedesco e italiano. Esso è tuttavia suscettibile di rafforzamento se la presenza militare a livello europeo sarà affiancata da una parallela strategia politica. Se cioè l’African Peace Facility dell’Unione Europea, approfondendo la cooperazione con i cinque paesi del Sahel, si affermerà come valido strumento per affrontare il terrorismo. Finora la Francia ha fatto fronte a quest’incombenza sostanzialmente da sola e per questo motivo ha comprensibilmente gestito in esclusiva il rapporto con i cinque paesi del Sahel per mezzo della missione Barkhane.
Mi rendo conto che al nostro contributo militare minore non può che corrispondere un ruolo politico minore ma non vorrei che capitasse anche in questo caso quello che è avvenuto recentemente in Libano, dove da dieci anni portiamo la massima responsabilità del mantenimento della pace e della sicurezza in una delle più delicate aree del paese, con un numero di militari notevolmente superiore a quello francese.
Ebbene, nell’ultima crisi politica avvenuta in Libano, il presidente francese ha gestito il tutto in esclusiva, senza alcuna consultazione. Certo, come si dice in Francia, “Chapeau” al suo dinamismo e alla sua abilità, ma non è bello sentirmi chiedere da un mio antico collega politico libanese “Et l’Italie? Ou est elle?” e sentirmi poi aggiungere, con un misto di rimpianto ed ironia, che, forse, l’Italia ha scelto di essere semplicemente “la Croix Rouge de la Mediterranee”.
Sono personalmente colpito dal grande compito che la Croce Rossa svolge, ma non accetto che questo sia il ruolo esclusivo dell’Italia nel Mediterraneo e in Africa. Al nostro doveroso aiuto alla Francia nel Sahel deve perciò corrispondere un nostro ruolo politico, finalmente nel quadro di una comune politica europea. (Romano Prodi)

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Migranti, riprendono sbarchi e stragi in mare

SBARCHI E STRAGI DI MIGRANTI. IL CAOS LIBICO RIAPRE LE ROTTE

di Alessandra Ziniti, da “la Repubblica” del 29/1/2018
Il bambino è seminudo, gelido, non respira, ma il polso batte flebile. Avrà sì e no quattro anni. La catena umana a bordo della Aquarius tira fuori dall’acqua, uno dietro l’altro, una decina di bambini. I medici del team di Msf sono tutti impegnati e quel bimbo finisce tra le braccia di Lauren King. Lei è la coordinatrice della comunicazione a bordo, non è medico, ma non c’è tempo, tocca a lei. Trentacinque infiniti minuti di respirazione bocca a bocca per salvare quella vita. Al telefono, dalla nave, parla con la voce ancora spezzata dall’emozione: «È stata una cosa terribile, non lo avevo mai fatto prima, la vita di quel bambino affidata a me, era incosciente, non respirava. Gli ho buttato dentro tutto il flato che avevo, spingevo sul suo petto… e poi ha aperto gli occhi, ha ripreso a respirare».
Era pieno di bambini, alcuni dei quali neonati, quel gommone sul quale i trafficanti libici avevano ficcato 120 persone. E così, quando ha cominciato a sgonfiarsi e ad affondare, le mani di tante giovani mamme si sono tese verso il cielo provando a tenere su i loro piccoli. Quando la Aquarius di Sos Mediterranée è arrivata, in acqua c’erano decine di persone, molti ormai in stato di incoscienza, i polmoni pieni di acqua. Ma almeno una trentina, stando al racconto degli 83 superstiti, sono i dispersi.
Due donne, entrambe giovanissime mamme, sono morte a bordo. Viaggiavano da sole con i loro bambini adesso rimasti orfani. Il più piccolo, sei mesi, è diventata la mascotte della Aquarius, altri sei bambini sono stati portati d’urgenza da un elicottero della marina italiana nell’ospedale più vicino, a Sfax, dove ieri mattina è spirata un’altra giovane donna. Una morte che porta a tre le vittime accertate di questo naufragio.
Almeno 230 morti in mare, 3.579 migranti sbarcati nel 2018, compresi gli 850 salvati nella tragica giornata di sabato in cinque diverse operazioni. Numeri persino di poco superiori a quelli degli anni peggiori per l’emergenza immigrazione, il 2016 e il 2017, numeri che allertano il Viminale sia per la ripresa dei flussi dalla Libia (che avevano segnato un nettissimo arresto nella seconda metà dello scorso anno) sia per le tante vittime delle traversate causate, oltre che dalle pessime condizioni delle imbarcazioni utilizzate, anche dall’assottigliarsi dello schieramento dei soccorsi nel Mediterraneo che non riesce a coprire le 300 miglia di zona Sar e ad arrivare sempre tempestivamente.
I sanguinosi scontri in Libia, nelle zone di Zuwarah e di Gars Garabulli (proprio quelle da cui partono più gommoni), e l’assalto armato all’aeroporto di Tripoli dei giorni scorsi, preoccupano il ministero dell’Interno perché accentuano l’instabilità del governo garante degli accordi con l’Italia e potrebbero creare le condizioni per una ripresa dei flussi in un Paese dove, tra centri di detenzione ufficiali e carceri in mano ai trafficanti, si stimano tra 700.000 e un milione di persone pronte a partire.
«Il tragico salvataggio di sabato 27 gennaio — dice Valeria Calandra, presidente di Sos Mediterranée Italia — dimostra che l’emergenza continua e c’è urgente bisogno di più mezzi di soccorso nel Mediterraneo. Noi proseguiamo nella nostra missione ma rinnoviamo il nostro appello all’Europa a mettere in atto azioni concrete per porre fine a queste tragedie».
Il 27 gennaio, nella zona interessata dalle traversate, mentre la sala operativa della Guardia costiera di Roma, riceveva una segnalazione dietro l’altra e cercava mezzi di soccorso, c’erano le tre sole navi delle Ong che continuano nei soccorsi, una nave militare spagnola e una motovedetta della Guardia costiera libica, protagonista dell’ennesimo “incidente” con una nave umanitaria, proprio la Aquarius. «Avevamo appena avvistato un gommone con un centinaio di persone a bordo, potevamo vedere i volti spaventati delle persone e sentirle gridare e chiedere aiuto — denuncia Klaus MerIde, coordinatore dei soccorsi di Sos Mediterranée — ma la Guardia costiera libica ci ha ordinato brutalmente di lasciare la zona e ha categoricamente rifiutato qualsiasi offerta di assistenza». (Alessandra Ziniti)

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LIBIA IL MONITO DI LIU (MSF): «IL CALO DEGLI ARRIVI VUOLE DIRE PIÙ TORTURE»
intervista di Maurizio Caprara, da “Il Corriere della Sera” del 1/2/2018
«Le statistiche non descrivono tutto. Al di là dei numeri, dietro le 119 mila persone arrivate in Italia dal Sud del Mediterraneo nel 2017 ci sono storie individuali: il calo degli sbarchi nel vostro Paese significa, in Libia, aumenti delle torture, degli stupri, di vite in condizioni di fame. Non voglio immaginare che cosa succede. Dopo ciò che ho visto è troppo duro», dice JOANNE LIU, la presidente internazionale di MEDICI SENZA FRONTIERE, organizzazione non governativa formata da 23 sezioni nazionali che assiste in 70 Paesi feriti e malati senza distinzione di idee politiche, etnie e fedi.
Pediatra che ha lavorato in Mauritania, Haiti, Darfur e altrove, canadese di origini cinesi, Joanne Liu fornisce sulla diminuzione degli ingressi di migranti e rifugiati in Italia un punto di vista poco considerato. Con l’aria di chi procede determinata per una propria strada senza cercare applausi, in questa intervista al Corriere della Sera fa presente che il filtro alle traversate di barconi in partenza dalla Libia, diventato più consistente l’anno scorso per scelta italiana ed europea, ha conseguenze non soltanto rimosse. Feroci.
Che cosa ha visto nei centri libici per la detenzione di migranti e rifugiati?
«Ne ho visitati due vicino Tripoli nel settembre scorso. Non li chiamerei campi. Sono depositi di persone. Nei miei 22 anni in Medici Senza Frontiere non avevo mai incontrato un’incarnazione così estrema della crudeltà umana».
Quali immagini le sono rimaste impresse?
«Ricorderò sempre un uomo robusto con un bastone in mano: “Vuole vedere dov’è la gente?”. Io: “Sì”. L’uomo ha aperto la porta che aveva alle sue spalle e ha agitato il bastone: dentro un locale delle dimensioni di una palestra, centinaia di persone sono indietreggiate impaurite. Mi sono trovata davanti tanti occhi che mi guardavano da visi emaciati. Le persone hanno cominciato a protendere le mani verso di me e a sussurrare: “Aiutatemi”, “Portatemi via di qui”».
Chi erano?
«In maggior parte maschi, neri, provenienti da altri Paesi. Così tanti che non potevano stendersi per terra. Molti, seduti, trattenevano con le mani le ginocchia piegate».
Ufficialmente il posto cos’era?
«Un centro di detenzione per migrazione illegale. Ma in Libia non esiste un governo capace di controllare l’intero territorio, in ogni zona prevale una milizia diversa. Nessuno sapeva come andavano gestite queste persone. Ognuna di loro cercava un modo per uscire. In genere provano a partire. Se vengono fermate in mare – e se non muoiono in acqua – ritornano in un centro del genere. Qui sta una particolarità della Libia».
Quale differenza ha riscontrato rispetto ad altri Stati nei quali si concentrano flussi di profughi e migranti?
«Che quanti raggiungono la Libia entrano in un circuito di sofferenza senza fine. Vede, poco fa sono stata in Bangladesh: in un campo con migliaia di profughi fuggiti dalla Birmania, tutti venivano da villaggi messi a fuoco o erano sopravvissuti a stragi. La maggior parte delle donne era stata violentata. Tante mogli erano state separate da mariti, molti figli dai genitori. Dopo la fuga però questo non accadeva più. In Libia per la gente che scappa da guerre, persecuzioni e miseria da altri Paesi invece continua. Diventano merce».
Ha in mente un esempio?
«Una mia paziente, moglie di un atleta. L’hanno rapita, portata in una casa con altri sequestrati. È stata torturata affinché il marito pagasse. Se non riescono ad ottenere soldi, trascorso qualche tempo le bande di rapitori ritengono i prigionieri un peso, dunque li passano a un centro di detenzione. E da lì i detenuti tentano di fuggire per partire dal mare verso l’Europa. Con il rischio di tornare indietro».
Dal primo al 31 gennaio, gli arrivi in Italia dalla Libia sono stati 3.143. Il 26,6% in meno rispetto ai 4.251 dell’anno precedente. Secondo chi ne ha favorito il calo cambiando disposizioni per le navi nel Mediterraneo e contribuendo a riattivare la Guardia costiera libica, come il ministro dell’Interno Marco Minniti, se i flussi non fossero regolati potrebbero aumentare intolleranza e xenofobia tra i cittadini italiani.
«Non ho commenti in materia. Io mi occupo di assistenza umanitaria. E in Libia il costo umano è troppo alto».

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NIGER, COSÌ SARÀ LA MISSIONE ITALIA
DALL’ISIS AL SAHEL: COSÌ CAMBIANO LE NOSTRE SPEDIZIONI (E COSTANO DI PIÙ)
di Anna Lombardi, da “la Repubblica” del 18/1/2018
Il 17 gennaio scorso il Parlamento ha approvato le missioni all’estero 2018, decidendo di concentrare i futuri sforzi militari e di cooperazione nel Nordafrica e nel Sahel, con nuove missioni in Niger e Tunisia e rinforzando quella in Libia.
Si rimoduleranno le due principali missioni in cui siamo impegnati oggi: la sconfitta dell’Isis in Iraq e Siria permetterà di spostare circa 700 militari dall’Iraq e ritirare i mezzi pesanti. In Afghanistan verranno “liberati” 200 uomini (ne resteranno 700).
In cosa consiste il nuovo impegno in Niger e Libia? In Niger saranno inviati 470 militari «nell’ambito di uno sforzo congiunto europeo e statunitense per la stabilizzazione dell’area». Obiettivo: combattere i trafficanti di uomini e limitare i flussi verso la Libia. Saranno utilizzati 130 mezzi terrestri e 2 mezzi aerei, per una spesa di 30 milioni di euro.
Circa 400 uomini, invece, forniranno assistenza e supporto al Governo di Accordo nazionale libico: sostegno umanitario e sanitario, addestramento di forze di sicurezza e Guardia costiera, lavori in infrastrutture. Verranno utilizzati 130 mezzi terrestri, oltre a navi e aerei dell’operazione “Mare sicuro”. Costerà 34,98 milioni.
A quanto ammonteranno le spese nel 2018? E quanto abbiamo speso nel 2017? La spesa complessiva per tutte le missioni all’estero nel 2018 sarà pari a un miliardo e mezzo circa di euro, in aumento rispetto a 1,427 miliardi del 2017. Il 26,5% di quest’ultimo budget (380 milioni) ha finanziato la missione in Iraq, mentre 174 milioni sono andati alla missione afgana.
Quante sono le missioni italiane all’estero? L’Italia è oggi impegnata in 37 missioni di cui 35 internazionali. Mobilitati circa 14mila uomini, 7200 impiegati in operazioni nazionali e 6800 in quelle internazionali.
Quali sono le più importanti? L’impegno principale finora è stato quello IRACHENO, nella Coalizione dei volenterosi anti Isis, con 1500 uomini sul campo. Segue l’AFGHANISTAN dove sono impiegati 900 uomini,148 mezzi terrestri, 8 aerei e un’unità navale.
In cosa consistono le altre missioni? Gli scenari sono vari — dalla lotta al terrorismo al contrasto della pirateria in mare — e con diversi partner, dalla Nato all’Onu fino all’Ue. Siamo, fra gli altri, in LIBANO, KOSOVO, TURCHIA, LIBIA, SOMALIA, LETTONIA e EMIRATI ARABI (Eau).

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QUEI RISCHI NELLA GUERRA DEL DESERTO
CALDO, SABBIA E TERRORISTI: IN NIGER MISSIONE AD ALTO RISCHIO
di Gianluca Di Feo, da “la Repubblica” del 18/1/2018
«Nel Sahara siete i benvenuti, ma ricordatevi: noi lì facciamo la guerra…». Nei colloqui con il governo Gentiloni i francesi non hanno usato mezzi termini. E adesso che la missione italiana in Niger ha ottenuto il voto della Camera è bene non dimenticare questo avvertimento.
La parola guerra non fa paura ai nostri militari: è dallo sbarco a Mogadiscio del 1993 che vanno nei posti più pericolosi del pianeta. In un quarto di secolo si sono guadagnati sul campo il rispetto di alleati e avversari. Ma negli atti ufficiali tutte le operazioni continuano a restare sempre avvolte nell’ambiguità.
Sia ben chiaro: l’Italia non ha disegni bellici né coloniali, che d’altronde non si potrebbero realizzare con un contingente di 470 fanti in un Paese di oltre un milione di chilometri quadrati. E non c’è neppure l’intenzione di accodarci a Parigi: la nostra missione sarà autonoma. Tutti i ministri hanno però sottolineato come in Niger ci occuperemo solo di formare le forze locali, mentre nella relazione al Parlamento si cita anche un altro compito: «Concorrere alle attività di sorveglianza delle frontiere e del territorio». Ossia agire in armi per fermare trafficanti e terroristi.
Negli scorsi anni i francesi si sono concentrati solo sulla seconda minaccia, che è sempre più forte: l’offensiva jihadista sta aumentando nelle regioni a cavallo del confine tra Mali e Algeria, con altri fuochi in prossimità della Nigeria infestata da Boko Haram. Noi però andremo altrove. Alle porte della capitale Niamey, per fare scuola alle reclute nigerine. E a Madama, l’ultimo fortino della Legione Straniera nel deserto prima di arrivare in Libia, crocevia di ogni traffico e della strada percorsa da mezzo milione di migranti.
Anche i terroristi passano da quella rotta, cercando di evitare i controlli: gli serve per trasferire uomini e armi in Libia, sfruttando depositi di benzina nascosti tra le dune e rifugi nelle caverne a ridosso dell’Algeria. I francesi li hanno presi di mira con pochi raid di parà, lanciati di notte contro questi presidi. I piani della spedizione italiana non sono stati dettagliati, ma è difficile che i nostri incursori rinuncino a questa “attività di sorveglianza del territorio”. La stessa che la Task Force 45 tricolore ha condotto nel segreto totale in Afghanistan per sei anni, catturando o uccidendo leader e artificieri dei Taliban in azioni ad alto rischio.
L’INCOGNITA MAGGIORE SONO LE CONDIZIONI CLIMATICHE, veramente estreme: ad aprile si superano sempre i 40 gradi. Il caldo infernale non spaventa i soldati italiani. A Nassiriya si andava in pattuglia per otto ore con il termometro a 50 gradi: uomini e donne partivano chiusi in blindati senza climatizzazione, con addosso giubbotti antiproiettile pesanti 8 chili e un fucile da 4 chili. Bisognava bere 7 litri di acqua al giorno per evitare la disidratazione. Il record risale però al Mozambico: nel 1993 gli alpini, piemontesi e aostani di leva, rimasero in servizio per un mese a 60 gradi. Li guidava Claudio Graziano, oggi comandante in capo delle Forze armate che ha insistito per migliorare gli equipaggiamenti: peso dimezzato, aria condizionata sui veicoli, gli strumenti che permettono di agire nell’afa di Mosul.
Ma NEL DESERTO ROSSO DEL NIGER È PIÙ PERICOLOSA LA SABBIA, che limita le prestazioni dei motori e soprattutto degli elicotteri.
Ostacoli che vengono studiati da tempo e saranno risolti con hangar gonfiabili per la manutenzione, già sperimentati in Iraq. Sul terreno, il contingente italiano dovrà coordinarsi con i francesi, con gli americani – che lì hanno appena ottenuto il permesso di usare droni dotati di missili – e nel futuro con altre truppe europee.
La crescente presenza straniera comincia ad essere accolta con diffidenza, un malcontento cavalcato dall’opposizione, anche quella di matrice islamica. A fine ottobre la capitale NIAMEY è stata scossa dalle proteste contro le misure economiche del governo, accusato di pensare solo ai ricchi, senza che gli aiuti internazionali raggiungano la popolazione.
Non solo limitare le carovane di migranti, che nell’ultimo anno si sono già drasticamente ridotte, e combattere il terrorismo: l’obiettivo principale presentato dal premier è quello di creare le condizioni per lo sviluppo della regione, con un grande piano di investimenti, distribuiti a pioggia e non incamerati dalla cleptocrazia locale. Un disegno molto più ambizioso, complesso e costoso dell’invio di un battaglione. Si tratta di un impegno che si può realizzare soltanto con un accordo europeo: quello che è stato raggiunto da Gentiloni con Macron e Merkel, ottenendo le risorse dalla Ue. E che starà al prossimo governo portare avanti. (Gianluca Di Feo)

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