REFERENDUM SULL’ACQUA: un SI’ a entrambi, ma con l’impegno da subito di eliminare gli sprechi e i parassitismi della gestione dell’ “acqua pubblica” di questi decenni

referendum del 12-13 giugno

   L’introduzione forzata del “privato” (sicuramente dI multinazionali) nella gestione degli acquedotti (le società pubbliche devono, con il decreto Ronchi, aprire ai privati il loro capitale azionario almeno al 40 per cento, con l’obbligo però che siano i privati a gestire il tutto, perché il pubblico rimane solo a livello di capitale azionario), ebbene questo contesto “forzato”, appare perlomeno opinabile.

   Si dice che esso è dato da due necessità: 1) che la gestione sia più efficiente di quella finora, maldestra e parassitaria (verissimo!), che il pubblico ha quasi sempre rappresentato; 2) che si trovino risorse finanziarie sufficienti per ammodernare gli acquedotti (presi assai male, ed è verissimo anche questo): e per far questo, cioè mettere soldi per ammodernare, il privato qualcosa ci deve guadagnare dalla gestione (almeno il 7% dell’investimento, ”per legge”, dice la normativa che si vuol abrogare ora con il referendum.

I DUE REFERENDUM SULL’ACQUA - PRIMO QUESITO: Si propone l'abrogazione dell' art. 23 bis della legge n. 133/2008, così come modificato dal Decreto Ronchi del 2009, relativo alla privatizzazione dei servizi pubblici di rilevanza economica, che prevede una permanenza del pubblico solo attraverso la creazione di Spa. SECONDO QUESITO: Si propone l' abrogazione dell' art. 154 del decreto legislativo n. 152/2006, limitatamente a quella parte che consente al gestore di ottenere profitti garantiti sulla tariffa.

   Entrambe le esigenze dei fautori della privatizzazioni sono serie: ma lo stesso l’apertura a multinazionali di un servizio così importante e generalizzato “puzza di bruciato”, sa molto di corrispettivo o regalo (politico) a qualche gruppo finanziario-industriale (probabilmente straniero) magari in difficoltà e che potrebbe rigenerarsi dal nuovo campo di azione.

   E’ già accaduto nella seconda metà degli anni ’90 con un altro “decreto Ronchi” (quel “Ronchi” non era l’attuale parlamentare ex ministro: era un deputato dei “verdi”) che dall’oggi al domani regalò alle multinazionali la riapertura del mercato dell’incenerimento, della cosiddetta “termovalorizzazione”, con un decreto che permetteva (e tutt’oggi permette) di bruciare a (palesemente falsi) fini energetici rifiuti speciali spesso assai pericolosi (e che prima era assai costosi nello smaltimento).

   Detto questo ed esprimendo chiaramente il nostro voto per due SI’ sui referendum dell’acqua (oltre il SI’ alla, di fatto, abrogazione della nuova politica nucleare del Governo), ci lascia però assai dubbiosi che sulla GESTIONE ACQUA dovremo lasciare tutto com’è, com’era. Siamo in presenza di gestioni pubbliche parassitarie che in nessun altro settore dei servizi alla persona esistono: consigli di amministrazione (consiglieri di amministrazione di nomina partitica), con nessuna competenza, che vivono di “gettoni presenza” e altri indiretti vantaggi (nomine cui godono in altri enti e società annesse alla gestione impiantistica, possibilità di “raccomandare” e assumere propri parenti e amici “politici” nei consorzi da loro amministrati, affidamento di consulenze d’oro ad “amici degli amici”, etc.). Non a caso si è detto, per fare un solo esempio, che nei decenni passati il più grande mastodontico acquedotto del Paese, quello PUGLIESE (regione lunghissima e molto assetata), ha dato assai poco da bere ma moltissimo da mangiare…

   Pertanto se vogliamo votare “SI” (come molti di noi faranno) perché così esprimiamo un NO alla privatizzazione dell’acqua, un altrettanto NO deciso dev’esserci per gli sprechi finanziari e gestionali che il “pubblico” sta da sempre attuando (a parte qualche lodevole gestione, ma le eccezioni ci sono sempre…).

   E non crediamo neanche, come sostengono i fautori del “NO”, che solo il privato può tirar fuori i soldi, se remunerato con un utile sicuro, per ammodernare impianti dell’acqua obsoleti, A parte l’opinabilità dell’ “utile sicuro” (il 7% previsto in legge), che ogni fautore di politica liberista avrebbe da storcere il naso che si “faccia così” (l’utile si guadagna con capacità e virtuosità, e non per legge…), è poi probabile che i privati abbiano poco interesse a fare megainvestimenti su strutture così complesse e divaricate territorialmente come gli acquedotti… (investimenti su impianti decennali e più di durata che poi andrebbero oltre la loro possibile gestione).

… Per questo noi da sempre, in questo blog, diciamo che i servizi pubblici strategici (la distribuzione dell’acqua, il trasporto pubblico come i treni regionali, o ad alta capacità, la sanità, l’istruzione…) non possono ripagarsi con “la tariffa” al diretto “consumatore”, ma devono necessariamente rientrare nella fiscalità generale: nelle imposte sul reddito che ciascuno paga. Se così non accadesse arriveremo che in un biglietto ferroviario da Venezia a Milano dovremmo mettere in conto l’ammortamento dei binari, del costo del treno, la costruzioni delle stazioni… e ci vorrebbero 500 euro per una tratta di 300 chilometri, per ripagare tutto il costo (anche degli investimenti) in tariffa (cioè la fine del servizio…). Così per l’erogazione dell’acqua.

   Togliere il “cemento amianto” cui sono “dotati” quasi tutti gli acquedotti italiani, eliminare le perdite (che a volte arrivano alla metà dell’acqua trasportata), costruire gli impianti e le case con doppia qualità dell’acqua (cioè non serve acqua potabile per usi non alimentari…), tutto questo sistema richiede investimenti che i fautori del SI’ ai due referendum sull’acqua (come siamo noi) devono già da subito saper dare risposte vere e credibili.

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NORD-EST E CENTRO TRAINANO IL QUORUM

di Tommaso Labate, da “il Riformista” del 9/6/2011

(…) Nell’ultima rilevazione demoscopica riservata (e non pubblicabile), effettuata subito dopo i ballottaggi delle amministrative, ci sono scritte più cose. Primo, il quorum rimane un’impresa. Che, però, è a portata di mano. Infatti nell’estremo “alto” della forbice dei sondaggisti c’è un numeretto che, se fotografasse davvero l’affluenza definitiva di lunedì 13, sancirebbe il raggiungimento dell’obiettivo.
Secondo, nel Nord-Est e al Centro Italia, l’affluenza stimata è ottima. Soprattutto nel Nord-Est dove, a sentire gli autorevoli istituti demoscopici che hanno lavorato alla rilevazione, «il grande lavoro delle parrocchie e una consistente fetta di elettorato leghista stanno facendo schizzare (per ora, solo virtualmente) le quotazioni dei quesiti. (…) Si tratta di un’impresa a rischio, soprattutto dopo il caos del Viminale sulle schede del nucleare della circoscrizione Estero (il testo è quello precedente alla sentenza della Cassazione).

   Circoscrizione che, comunque, peserà nel computo finale su cui verrà calcolata l’affluenza. Il costituzionalista Stefano Ceccanti ha preso il pallottoliere e ha messo tutto su Facebook: «In Italia gli aventi diritto sono poco più di 47 milioni e 300 mila; all’estero poco più di 3
milioni e 200mila. Il totale è 50 milioni e 500mila, quorum poco sotto 25 e 300mila
». E siccome «all’estero voteranno credibilmente in 800mila, per arrivarci devi aggiungere in Italia 24 milioni e 500. Questa cifra è pari a poco meno del 52%».
Strada in salita, tutti mobilitati. A Roma (c’è stata) la manifestazione di Piazza del Popolo, also starring Bersani e Di Pietro (che però non saliranno sul palco), con tanto di videomessaggi di Ligabue e Al Gore. (…)

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12-13 giugno

VOTO SULL’ ACQUA: ECCO COSA BISOGNA SAPERE

Due i quesiti a cui rispondere. Milano tra le città virtuose

   Si avvicina il momento (il 12 e il 13 giugno), in cui gli italiani decideranno come gestire la loro acqua. Un tema delicato, troppo spesso strumentalizzato e messo in ombra dall’altro quesito referendario, quello sul nucleare.

   Polemiche di maggioranza a parte, con il ministro Stefania Prestigiacomo che ha definito la consultazione sull’ acqua «inutile» e con il leader del Carroccio, Umberto Bossi, che lo trova invece «attraente», sul piatto ci sono due modelli di gestione di uno dei beni primari più consumati. Pubblico o privato.

   Lombardia «virtuosa». L’ acqua erogata in Lombardia ammonta a oltre 101 metri cubi per abitante, con tariffe tra le più basse in Italia e Europa. Se a Berlino, a Londra o a Parigi i prezzi oscillano infatti tra i 3 e i 5 euro al metro cubo, a Milano l’acqua costa 60 centesimi, a fronte di una media nazionale di 90.

   Il nodo della questione sta proprio nel tipo di gestione che viene applicata agli acquedotti. Nella maggior parte dei Paesi europei sono infatti le multinazionali a fare la parte del leone, con quelle francesi in testa. In Italia, dove invece la situazione è molto varia con società municipalizzate, enti pubblici e Comuni in campo, il decreto Ronchi del 2009 ha stabilito un’apertura definitiva al mercato «per evitare gli sprechi e disparità enormi sulle tariffe tra una città e l’altra dell’Italia».

   Un’ idea che non è piaciuta al quasi milione e mezzo di firmatari che si sta battendo per «mantenere l’acqua, bene primario, un bene di tutti». Per Roberto Fumagalli, referente della Lombardia per il referendum 2 «Sì per l’ acqua bene comune», «La nostra Regione è un esempio positivo di un pubblico efficiente, con tariffe basse e con una dispersione dell’acqua che si aggira al intorno al 20 per cento in tutta la Regione, al 10 a Milano e al 15 in provincia, a fronte di una media nazionale del 35».

   Se la legge non dovesse essere abrogata «avremmo invece un ingresso delle multinazionali. O, meglio, le società pubbliche, come la milanese Amiacque, dovrebbero aprire ai privati il loro capitale azionario almeno al 40 per cento. E sarebbero, da decreto, i privati a gestire il tutto, perché il pubblico rimarrebbe solo a livello di capitale azionario».

   Conseguenze? «Diventa difficile controllare la qualità dell’acqua. Consegnando ai privati le chiavi degli acquedotti è problematico accorgersi di eventuali violazioni». Problemi, sempre secondo Fumagalli, ci sarebbero anche con le sanzioni: «Oltre a un aumento delle tariffe, visto che le multinazionali devono fare profitti, per una multa da pagare verrebbe impiegato anche il capitale pubblico e dunque il cittadino aprirebbe il portafoglio due volte». Ultima osservazione: «La Lombardia è l’unica Regione che ha approvato a fine 2010 una legge per recepire il decreto Ronchi in tempi più stretti, per noi si tratta invece di difendere l’efficienza del pubblico».

   Luca Martinelli, del comitato referendario e autore di «L’acqua è una merce» (edizione Altreconomia), ricorda quanto accaduto in Francia dove, dopo le privatizzazioni, si è pensato di tornare al pubblico. «Le multinazionali, dopo essere andate all’assalto dell’acqua nel Sud del Mondo negli anni 90, hanno capito che i consumatori europei hanno più potere d’acquisto e spingono per la privatizzazione in modo da poter imporre le loro tariffe».

   Sul fronte del sì anche le associazioni ambientaliste. Per Paola Brambilla, presidente Wwf Lombardia «Il modello milanese è invidiato anche all’estero, quindi non si capisce perché debba cambiare». Ma non solo. «L’acqua è un diritto dell’uomo, come stabilito dalle Nazioni Unite, quindi vanno tutelati anche i cittadini che non possono pagare il canone». D’accordo anche Andrea Poggio, vicedirettore di Legambiente, che aggiunge: «È fondamentale fare passi in avanti con investimenti per il Lambro, per l’Olona e per ridurre gli sprechi. E prima di decidere dove trovare i soldi è necessario capire cosa va fatto».

Le ragioni del fronte del no. Le parole chiave dei «controreferendari» sono invece liberalizzazione, efficienza e apertura al mercato. «Milano non è rappresentativa, dobbiamo guardare alla situazione drammatica del Sud, dove sono necessari grandi cambiamenti». E cosa accadrebbe in caso di vittoria dei sì? «Salterebbe per aria un equilibrio precario nella gestione delle risorse idriche che si è raggiunto a fatica negli ultimi anni, riportando l’Italia a una gestione prevalentemente pubblica, con tutti i grossi limiti che questo comporta», sottolinea Carlo Stagnaro, direttore ricerche e studi dell’Istituto Bruno Leoni e membro del Comitato Acqualiberatutti.

   Importante anche che non si parli dell’acqua in termini ideologici per Walter Mazzitti, presidente del «Comitato per il no per i referendum sui servizi pubblici locali e tariffe dell’acqua»: «Noi speriamo che un privato dotato finanziariamente possa entrare nella gestione, unitamente al pubblico, e dare i risultati che tutti ci aspettiamo. I sessantacinque miliardi di investimenti necessari possono essere fatti solo in queste condizioni». (Marta Serafini)

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LEGGI CARENTI, MA IL NO È MEGLIO

DEMAGOGIA SULL’ACQUA

di Massimo Mucchetti, da “il Corriere della Sera” del 9/6/2011

   I due referendum sull’acqua affrontano in modo sbagliato e demagogico due problemi veri, aperti dal decreto Ronchi sulla privatizzazione dei servizi idrici convertito in legge dal governo Berlusconi con voto di fiducia, contrari Pd, Idv e Udc, e da un altro decreto del 2006.

   La propaganda referendaria denuncia la privatizzazione dell’acqua. Ma è una forzatura. Il decreto Ronchi, l’abbiamo scritto nel 2008 e lo ribadiamo oggi, non tocca la proprietà delle risorse idriche. L’acqua è un bene pubblico e tale resta. Il decreto mette in gioco il servizio e conferma la proprietà pubblica di acquedotti, fogne e depuratori, ancorché con qualche lacuna: i regolamenti d’attuazione, infatti, non chiariscono a quali condizioni le migliorie apportate dai gestori passino al concedente pubblico al termine della concessione e nulla dicono sulle infrastrutture già devolute alle municipalizzate e poi confluite addirittura in società quotate come A2A.

   Liberalizzare i servizi idrici, monopoli naturali come le autostrade, non è facile. Se ne possono solo dare in concessione la costruzione, lo sviluppo e la gestione per un congruo periodo attraverso gare trasparenti e successivi, severi controlli. Un Paese senza pregiudizi farebbe gare aperte a tutte le imprese di accertata solidità e competenza senza badare alla natura pubblica, privata o mista delle proprietà.

   L’articolo 23 bis del decreto e i successivi aggiornamenti, invece, tendono a privilegiare la mano privata. Con una certa confusione. Essi infatti dispongono l’affidamento dei servizi idrici a soggetti privati attraverso gara europea o l’affidamento a società a capitale misto nelle quali un socio industriale privato, scelto attraverso gara, abbia almeno il 40%.

   La norma costringe inoltre i Comuni azionisti di ex municipalizzate quotate in Borsa a interrompere la concessione, mettendo a gara il servizio idrico che già svolgono (e non sempre male). Oppure, se vogliono evitare la gara, a ridurre al 30% entro il 2012 la loro partecipazione all’intera azienda (che fa anche molto altro). Alla prima gara, tuttavia, possono partecipare anche i gerenti uscenti, in genere pubblici. Insomma, una Babele. Senza nemmeno il faro di un’Autorità degna.

   Il primo quesito referendario chiede l’abrogazione dell’articolo 23 bis. Potrebbe essere la classica materia su cui ciascuno si esprime secondo la propria filosofia e la propria percezione della gestione pubblica: diffusi fallimenti, specialmente al Sud; esempi non di rado eccellenti, per lo più al Nord. Ma c’è un dettaglio: la norma si applica ai 64 Ato (Ambiti territoriali ottimali) dove i servizi idrici sono ancora interamente pubblici. E negli altri 28 Ato che cosa si farà? Se vincono i sì, osserva Antonio Massarutto nel suo “Privati nell’acqua? Tra bene comune e mercato”, editore il Mulino, avremo un’Italia a doppio regime, pubblico e privato, e soprattutto un’Italia che non avrà più l’obbligo di mettere a gara il servizio.

   Il rischio degli extraprofitti monopolistici o, più spesso, dell’inefficienza clientelare aumenterebbe. Tanto consiglia di votare no, magari turandosi il naso.

   Il secondo quesito referendario invoca l’abrogazione «dell’adeguatezza della remunerazione del capitale investito», prevista dal decreto n. 152 del 3 aprile 2006. La storia delle privatizzazioni conta ripetute regalie, e questo giornale le ha ripetutamente denunciate. Anche sull’acqua, con l’Autorità debole e subordinata al governo e Comuni compiacenti o maldestri, possono darsi speculazioni.

   La soglia massima del 7% lordo alla remunerazione del capitale investito è inadeguata data la diversità delle situazioni e delle attività: depurare a Milano è più caro che a Lecce, trasportare a Trento costa meno che a Firenze. D’altra parte, la storia di Parigi, dove la gestione dell’acqua torna pubblica dopo 25 anni, insegna qualcosa a tutti. Ma pensare che la tariffa dei servizi idrici non debba remunerare il capitale è un azzardo.

   I promotori del referendum possono pur pensare a servizi idrici con tariffe pari ai costi o a carico della fiscalità generale. I politici di Pdl, Lega e Pd che sostengono il sì, molto meno. Sono gli stessi che hanno quotato le maggiori ex municipalizzate in Borsa, dove guadagnare si deve. E come fa Antonio Di Pietro a voler abrogare il principio della remunerazione del capitale che da ministro aveva controfirmato?

   Per fermare le dispersioni, assicurare acqua corrente ai 10 milioni di cittadini che l’hanno a intermittenza, collegare alle fogne e ai depuratori il 20-30% che è isolato, servono investimenti dai 65 ai 120 miliardi di euro. L’Italia con il debito pubblico al 120% del Pil non può caricare un simile onere sul bilancio dello Stato o aumentare le tasse per un pari importo.

   Servono soggetti capaci di attirare capitali privati, anche per rispettare i vincoli europei. Ma i capitali privati non arrivano senza remunerazione. Certo, la cosa si farà sentire in tariffa. Ma a fronte di un servizio migliore e, se ben temperata da una forte Autorità, non si farà sentire troppo: l’acqua resterà in fondo alla scala dei prezzi di un Paese che si svena serenamente per il telefonino. Perciò, e senza turarsi il naso, è consigliabile un altro no. (Massimo Mucchetti)

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IL FAR WEST DELL’ACQUA. PERCHÉ PRIVATIZZARE HA AVUTO RISULTATI NEGATIVI

di Paolo Rumiz, da Repubblica, 2 giugno 2011

   Quando a Milano nel 1888 fu costruito il primo acquedotto, tuttora uno dei migliori del Paese, si scrisse che l’acqua era un bene così fondamentale per la vita e la salute dei cittadini, che il servizio non poteva essere gestito da chi poteva trarne profitto. La firma sul provvedimento non venne apposta da un socialista rivoluzionario, ma da un sindaco-mastino della Destra storica, Gaetano Negri. Allora in Italia i conservatori erano ancora guardiani implacabili della cosa pubblica.
Oggi i tempi sono cambiati e il capitale privato – spesso straniero – è entrato nella gestione dell’acqua con lo scopo dichiarato di modernizzare una rete invecchiata o gestita in modo clientelare. Ma alla prova dei fatti l’esperimento – per mancanza di regole forti – ha dato pessimi esempi e le tariffe si sono alzate spesso in assenza di investimenti sulla rete. Un esempio? Velletri, dove la società ha fatto cassa con alti profitti ma non ha eliminato l’arsenico in rete. Troppo forte, anche qui, la tentazione di minimizzare persino i veleni facendo leva sulla pubblica sete e l’automatismo delle bollette.
Ora col referendum si chiede di fare macchina indietro, abrogando con un “Sì” due provvedimenti che – se applicati – renderebbero addirittura vincolante l’ingresso dei privati nelle acque italiane, offrendo loro per giunta un profitto del sette per cento garantito per legge. I due “Sì” non sono dunque contro il privato ma contro la sua imposizione dall’alto, anche laddove il pubblico funziona in modo esemplare. Il tutto con una mostruosità giuridica che va non solo contro l’interesse dei cittadini ma contro lo spirito stesso del capitalismo.
Il rischio finale è che acque “sane” siano fagocitate ex lege da acque “malsane”, e il grosso politicamente ammanigliato faccia un sol boccone del piccolo virtuoso. L’Italia è piena di consorzi anche privati ottimamente gestiti (vedi le acque della collina biellese) che non vedono alcuna necessità di farsi accorpare da vicini carichi di debiti, pronti a far leva su bollette maggiorate per far quadrare i loro conti. Il problema di fondo è dunque la democrazia della gestione, e di mantenere sul più fondamentale dei beni il controllo dal basso dei cittadini.
Perché poi, altrimenti, accade quanto è successo a Berlino, dove l’acqua è passata in gestione alla francese Véolia con fenomenali rincari del canone, e dove i cittadini sono stati obbligati a ricorrere a un referendum soltanto per poter accedere al contratto di affidamento, secretato dalla società. Un business sulla cui bontà erano obbligati a credere a scatola chiusa. Ma più clamoroso è il caso di Parigi, tornata al pubblico dopo anni di disastro privato, e ciò nella capitale del Paese che – con la Société Lyonnaise des Eaux, la Suez e la Véolia – è più presente nel business dell’acqua a livello mondiale.
Non a caso, il controllo pubblico sulle acque resta intoccabile anche nel cuore del capitalismo, gli Usa, dove sanno bene che perdere il controllo sulle acque equivale a perdere sovranità sul territorio. Nel Belgio francofono, fallita la privatizzazione, hanno appena deciso di affidarsi a una cooperativa sociale mutualistica. E oggi, col referendum, l’Italia, di fronte al rischio di un Far West tariffario, non cerca che di allinearsi a una tendenza globale di ripensamento del servizio. Il segno anche di una rivalutazione dell’acqua, bene non degradabile a merce, ricco di valori simbolici e identitari. (Paolo Rumiz)

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REFERENDUM SULL’ACQUA: LE DOMANDE GIUSTE

di Andrea Boitani e Antonio Massarutto, da http://www.lavoce.info/ del 17.05.2011

   Domande e risposte sui referendum numero 1 e 2. Non si prevede alcuna privatizzazione dell’acqua, ma la legge non mette in discussione neppure la natura pubblica del servizio, l’universalità dell’accesso, il diritto soggettivo dei cittadini a riceverlo a condizioni accessibili. Non è l’ingresso dei privati nella gestione dei servizi idrici a far salire i prezzi. E in ogni caso la tariffa dovrà continuare a coprire gli investimenti. Da evitare invece che contenga extraprofitti.

1- Il quesito referendario n. 1 – modalità di affidamento e gestione dei servizi pubblici di rilevanza economica – così recita: Volete Voi che sia abrogato l’art. 23-bis (Servizi pubblici locali di rilevanza economica) del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 “Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e finanza la perequazione tributaria”, convertito, con modificazioni, in legge 6 agosto 2008, n. 133, come modificato dall’art. 30, comma 26, della legge 23 luglio 2009, n. 99, recante “Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia”, e dall’art. 15 del decreto-legge 25 settembre 2009, n. 135, recante “Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della corte di giustizia della Comunità europea”, convertito, con modificazioni, in legge 20 novembre 2009, n. 166, nel testo risultante a seguito della sentenza n. 325 del 2010 della Corte costituzionale?

PRIVATIZZAZIONE DELL’ACQUA?

   I promotori del quesito hanno giustificato la richiesta di abrogazione sostenendo che l’articolo 23-bis prevede la privatizzazione dell’acqua. In
realtà, la proprietà della risorsa idrica non viene messa in discussione dalla legge, ma questo è addirittura banale.

   Ciò che conta davvero è che la legge non mette in discussione neppure la natura pubblica del servizio, l’universalità dell’accesso, il diritto soggettivo dei cittadini a riceverlo a condizioni accessibili: la responsabilità della fornitura continua a essere pubblica e sono i piani di gestione approvati da soggetti pubblici a decidere quali servizi offrire, quanti investimenti fare, quali obiettivi di miglioramento perseguire.

   L’eventuale coinvolgimento del privato è una scelta che si può descrivere così: il “condominio cittadino” ha bisogno di un idraulico per far funzionare il sistema di servizio, e deve decidere se assumerne direttamente uno alle sue dipendenze (affidamento “in house”) oppure affidare il compito a un professionista esterno.

   La legge non richiede che il professionista esterno sia un privato, ma richiede che la scelta venga effettuata tramite una gara pubblica. L’idraulico, chiunque esso sia (azienda pubblica o azienda privata), non è e non sarà mai il “padrone dell’acqua”: l’acqua appartiene ai cittadini, le infrastrutture appartengono ai cittadini, le modalità di accesso alle infrastrutture per approvvigionarsi del bene essenziale sono decise dal soggetto pubblico, le tariffe sono approvate dal soggetto pubblico.

   L’idraulico ha solo il compito di recapitarci l’acqua a casa, con le caratteristiche qualitative richieste affinché la possiamo usare e poi riprenderla per restituirla all’ambiente. Però, l’idraulico costa: il vincolo per il comune, qualunque modello scelga, è che le tariffe pagate dai cittadini coprano questi costi.

CON I PRIVATI ACQUA PIÙ CARA?

   Uno dei leit-motiv dei referendari è che, con l’ingresso dei privati nella gestione dei servizi idrici, il prezzo dell’acqua non potrebbe che salire. Ma il prezzo dell’acqua sale non perché la gestione sia privata, ma semmai perché è stata, per così dire, “defiscalizzata” a partire dal 1994, quando venne approvata la Legge Galli (legge 36/1994, forse la legge ad attuazione più ritardata della storia nazionale).

   In passato, e in parte ancora oggi, è stata la finanza pubblica a farsi carico (poco) degli investimenti, mentre la tariffa a stento copriva i costi operativi. Se il contributo della fiscalità generale viene meno, il gestore (chiunque esso sia, pubblico o privato) deve ottenere le risorse finanziarie dal mercato, o sotto forma di prestiti (capitale di terzi) o di equity (capitale proprio). Le regole tariffarie sono uguali per tutti e prevedono che la tariffa copra i costi di gestione, gli ammortamenti e il costo del capitale investito: questo vale sia per le gestioni pubbliche che per quelle dove c’è una qualsiasi forma di coinvolgimento privato.

CON I PRIVATI ACQUA PEGGIORE?

   Un altro tema su cui insistono i referendari è che, con l’ingresso dei privati, non potremmo più essere sicuri della qualità dell’acqua che beviamo e che, quindi, le gestioni private metterebbero in pericolo la nostra salute. Ma la qualità dell’acqua – in tutti i sensi, compreso quello relativo agli scarichi depurati – è decisa dal regolatore pubblico.

   Non solo l’eventuale ingresso dei privati non farà peggiorare la qualità, ma potrà farla sensibilmente migliorare, anche tenendo conto del maggiore antagonismo tra regolatore e regolato. Con le gestioni pubbliche, il regolatore pubblico chiude più facilmente un occhio e anche l’opinione pubblica è spesso disposta a tollerare dal pubblico disfunzioni che mai tollererebbe da un privato.

   Basti citare la vicenda dell’arsenico: le gestioni coinvolte si dividono esattamente a metà tra pubbliche e private, ma quando capita ad Acea la si sbatte in prima pagina, quando invece capita alla gestione pubblica di Viterbo stranamente non ne parla nessuno. L’acqua del sindaco, chissà perché, è sempre ottima e abbondante, anche quando fa schifo.

   Va anche considerato che le tariffe sono congegnate in modo da premiare chi fa investimenti: il privato, se vuole guadagnare, deve investire. E infatti, i dati dimostrano che le gestioni privatizzate investono di più di quelle pubbliche, che invece sono più vincolate dall’obiettivo politico di tenere basse le tariffe.

EFFETTI COLLATERALI?

   I referendari pensano all’acqua, però l’abrogazione della legge riporterebbe in vigore le normative pre-vigenti non solo per i servizi idrici, ma anche per la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti, i trasporti locali, eccetera. Secondo quelle normative, la possibilità di affidamento dei servizi “in house”, al di fuori di un chiaro quadro di regolazione, era assai più ampia.

   L’articolo 23-bis, infatti limita l’affidamento “in house” a “situazioni che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso al mercato”. In ogni caso, la legge che col referendum si potrebbe abrogare richiede che la scelta dell’affidamento “in house” vada motivata e trasmessa con una relazione all’Antitrust e all’autorità di settore (se esiste) che devono esprimere un parere (purtroppo non vincolante).

   Qualcuno, facendo spallucce, dice che, per i settori diversi dall’acqua, si potrebbe intervenire nuovamente ad abrogazione eventualmente avvenuta. Ma il quesito referendario riguarda un intero articolo di legge, che si occupa di tutti i servizi pubblici locali. Dovessero vincere i sì, la manifesta volontà degli elettori riguarderebbe tutti i servizi e non solo l’acqua. Perché il legislatore dovrebbe rispettare l’esito del referendum per l’acqua e tradirlo per altri settori?

2- Il quesito referendario n. 2 – determinazione della tariffa del servizio idrico integrato in base all’adeguata remunerazione del capitale investito – chiede: Volete voi che sia abrogato il comma 1, dell’art. 154 (Tariffa del servizio idrico integrato) del Decreto Legislativo n. 152 del 3 aprile 2006 “Norme in materia ambientale”, limitatamente alla seguente parte: “dell’adeguatezza della remunerazione del capitale investito”?

SE IL PROFITTO VENISSE ABOLITO, L’ACQUA COSTEREBBE DI MENO?

   Il quesito sembra motivato dall’idea una “adeguata remunerazione del capitale investito” comporti inevitabilmente prezzi dei servizi idrici maggiori. Se fosse vero che il prezzo aumenta per colpa del profitto, sarebbe vero anche per qualsiasi altra attività economica: anche le case, le automobili, il pane e gli abiti costerebbero di meno se fossero prodotti da un soggetto pubblico che non remunera il capitale investito. Ma la storia
dell’Unione Sovietica smentisce questa credenza.

   Dobbiamo intenderci sul significato di “profitto”. In un mercato concorrenziale, rappresenta il costo-opportunità del capitale e il premio per l’imprenditore che riesce a produrre lo stesso valore degli altri con costi più bassi (o un valore più alto agli stessi costi). In un mercato monopolistico non regolato, il profitto è gonfiato dalla rendita di monopolio. Nel settore idrico le possibilità di sfruttare la concorrenza sono limitate alla fase di affidamento del servizio (da quattro a dieci volte in un secolo, diciamo), ma una buona regolazione può aiutare non poco.

   Del resto, non basta non fare profitti per costare poco: un’impresa che non remunera il capitale, ma ha personale in eccesso o affida consulenze d’oro agli amici dell’assessore, alla fine, potrebbe costare di più.  Se la regolazione è costruita in modo che il profitto rappresenti l’eventuale premio per l’impresa che si dà da fare per ridurre i costi, il cittadino ne può trarre beneficio.

   Attualmente il “metodo normalizzato” per il calcolo della tariffa idrica prevede che il costo del capitale da imputare alla tariffa sia calcolato in modo forfetario al 7 per cento del valore del capitale investito: questa scelta è arbitraria e discutibile.

   Quel 7 per cento non è “profitto”, ma ingloba in sé gli interessi passivi sui finanziamenti che l’azienda riceve dal mercato, e copre in parte il rischio di impresa. Viene riconosciuto a tutte le gestioni e non solo a quelle private. È vero che il valore del 7 per cento, fissato arbitrariamente nel 1996, quando ancora c’era la lira, rappresenta un valore ormai privo di qualsiasi riferimento con il “vero” costo del capitale che le gestioni sostengono.

   Ad ogni modo, il quesito referendario abolirebbe l’inciso relativo alla “adeguatezza della remunerazione del capitale investito”, ma non il principio, stabilito dallo stesso articolo 154 comma 1 una riga dopo, in base al quale la tariffa deve garantire la copertura dei costi, comprensivi degli investimenti.

   Dire che la tariffa deve coprire gli investimenti significa che, in ogni caso, il costo del capitale dovrà essere coperto: con cosa si ripagherebbero i debiti contratti con le banche, altrimenti? E se questo capitale fosse capitale di rischio (equity), il suo costo è rappresentato dall’utile netto aziendale. Quello che dovrebbe invece essere evitato (ma non serviva certo il referendum per ribadirlo) è che la tariffa contenga “extraprofitti”, ossia remunerazioni eccessive rispetto al costo-opportunità del capitale e al premio per il rischio.

L’ACQUA DIVENTERÀ UN BENE DI LUSSO?

   Gli effetti distributivi non vanno mai trascurati: è giusto preoccuparsene, ma senza allarmismi e senza confusioni. Oggi spendiamo circa 90 euro/anno pro capite e a regime potrebbero diventare il 20 per cento in più, con l’attuazione dei piani di gestione esistenti.

   Volendo proiettare a lungo termine le tariffe davvero necessarie per un equilibrio di lungo periodo si potrebbe arrivare a 140-150 euro pro-capite. Non sono cifre irrisorie, sebbene si tratti pur sempre di 50 centesimi al giorno. Oltre tutto, questi valori medi oscillano da una realtà all’altra e l’incidenza sui redditi può essere molto diversa, considerando che poiché l’acqua è un bene essenziale, i ricchi ne consumano quanta i poveri.

   Il tema dell’incidenza tariffaria non va certamente banalizzato, ma può essere affrontato in modo adeguato, costruendo strutture tariffarie diverse da quella attuale. Un conto è dire che i ricavi da tariffa (complessiva) devono coprire i costi totali, un altro conto è discutere di come costruirla. Ad esempio, si potrebbero introdurre quote fisse significative parametrate ai valori catastali in modo da ridurre l’incidenza sulle fasce sociali più deboli. Si può anche pensare a forme integrative di intervento della finanza pubblica, finalizzate a garantire che l’accesso al mercato dei capitali avvenga a condizioni più vantaggiose, e quindi con un minore impatto sulla tariffa. (Andrea Boitani e Antonio Massarutto)

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«PIÙ CHE UN’AUTHORITY SERVE UNA POLITICA PER L’ACQUA»

di Giorgio Santilli, da “il Sole 24ore” del 7/5/2011

   «L’instabilità normativa nel settore idrico non nasce dalla regolazione debole, che pure c’è, ma dall’assenza di una politica dell’acqua in Italia. Ora si dice che la soluzione a tutti i problemi sia questa nuova Agenzia o Authority e si dimentica che la commissione di vigilanza che presiedo ha già cambiato tre volte in cinque anni nome e grado di indipendenza. Alla presentazione della nostra ultima relazione al Parlamento, la sala era gremita, ma c’erano solo sei parlamentari. In quella relazione ci sono analisi e proposte per chi voglia risolvere oggi i problemi dell’acqua in Italia».

   Non nasconde un forte senso di solitudine istituzionale Roberto Passino, 78 anni, presidente della “piccola autorità” sull’acqua, la Conviri (Commissione nazionale di vigilanza sulle risorse idriche), che dovrebbe uscire trasformata e rafforzata dal decreto legge sullo sviluppo approvato dal Governo. La nuova Agenzia avrà più indipendenza e prenderà decisioni su tariffe, qualità del servizio e difesa degli utenti senza dover passare necessariamente dalla firma del ministro dell’Ambiente.
Professor Passino, pensa che la nuova Agenzia serva a depotenziare i referendum?
I referendum distolgono l’attenzione dal vero problema, che resta le difficoltà di finanziamento e il ritardo nell’attuazione degli investimenti programmati per migliorare il servizio, ma un milione e 600mila firme ricordano che in Italia oggi sull’acqua c’è un grave conflitto sociale. Rischia di fare danni seri chi dice che bisogna depotenziare il referendum con misure che rischiano di penalizzare gli utenti senza coinvolgerli a pieno in questo processo decisionale che riguarda le tariffe ma anche la qualità del servizio. L’acqua non è il gas o l’energia, ha una valenza sociale e ambientale altissima e non bisogna mettere ancora i gestori contro gli utenti.
C’è o no un problema di debolezza della regolazione?
Il problema c’è, ma è un errore pensare che sia il problema numero uno. La maggior parte delle decisioni, comprese quelle tariffarie e sulla qualità del servizio, oggi sono prese da autorità di ambito territoriale dove siedono i rappresentanti politici degli enti locali. Sarebbe forse meglio rafforzare i poteri sostitutivi delle Regioni, mi pare improbabile che un’Autorità o un’Agenzia possa intervenire su decisioni degli enti locali che hanno una valenza politica.
Si comprende che la nuova Agenzia non le piace. Ha paura di perdere il posto?
La mia età e la certezza che sono all’ultimo giro mi consentono una serenità nel valutare la realtà. Mi auguro non si traduca tutto in una pagliacciata. È utile rafforzare i poteri del Conviri, ma dentro una politica dell’acqua.
Cosa farebbe se fosse lei a decidere?
C’è bisogno di un momento di confronto fra tutte le parti, a partire dalle rappresentanze degli utenti. Farei quello che fece il presidente del Senato
Fanfani negli anni 70: una conferenza nazionale dell’acqua.
Lei è qui da quattro anni. Non sarà anche responsabilità sua?
Ho sempre fatto proposte a chi deve decidere. Ho anche suggerito per tempo iniziative per una politica dell’acqua. Inascoltate. Anche la riforma del decreto legislativo 152, che rivedeva il regime delle concessioni, è finita nel nulla. Mi pare prevalga l’indifferenza. Non basta svegliarsi quando c’è il referendum.
Quali iniziative risolverebbero i problemi principali?
Alcune di queste iniziative le abbiamo già formalizzate come Conviri: la convenzione-tipo con regole che consentano di acquisire i finanziamenti bancari necessari agli investimenti; la riforma del metodo per calcolare la tariffa, ferma dal 2008; la definizione dei nuovi indicatori sulla qualità del servizio per misurare le prestazioni dei gestori.
Che cosa prevede la convenzione-tipo e perché è così importante?
È l’atto fondamentale per far ripartire il settore. Prevede strumenti di attuazione del piano di ambito per i gestori del servizio, nuovi indicatori della qualità del servizio, ma soprattutto disciplina il caso di squilibrio economico-finanziario, introducendo meccanismi automatici di correzione. Questo impedisce agli enti locali di prendere tempo sulle misure di risanamento e tranquillizza le banche che concedono il prestito.
I referendari auspicano il ritorno a un sistema di finanziamento pubblico.
Non mi pare che le casse pubbliche oggi possano sostenere lo sforzo dell’investimento necessario. Il ritardo degli investimenti coperti da fondi pubblici è molto più alto di quelli finanziati dal sistema creditizio e bancario. (Giorgio Santilli)

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–  TEMA GIA’ DA NOI TRATTATO IN:

https://geograficamente.wordpress.com/2009/09/12/la-privatizzazione-dell%e2%80%99acqua-e-altri-servizi-alla-persona-e-di-fatto-avvenuta-come-ora-la-comunita-puo-garantire-i-cittadini-nella-tutela-di-servizi-fondamentali/

2 risposte a "REFERENDUM SULL’ACQUA: un SI’ a entrambi, ma con l’impegno da subito di eliminare gli sprechi e i parassitismi della gestione dell’ “acqua pubblica” di questi decenni"

  1. paolomonegato sabato 11 giugno 2011 / 19:48

    Come al solito articolo equilibrato che raccoglie più voci. Stavolta però devo fare qualche appunto sull’introduzione.
    Dove è scritto che il pubblico rimane solo a livello di capitale azionario? Ho letto l’intero articolo 23/bis (quello che il referendum vuole abrogare) e non ho trovato traccia di questa informazione…
    Non vedo nemmeno l’introduzione forzata del privato. C’è l’obbligo di fare delle gare pubbliche per la gestione dei servizi. A queste gare possono partecipare anche società miste o interamente pubbliche (la legge dice testualmente “società in qualunque forma costituite”). Nella legge sta anche scritto che le gestioni pubbliche virtuose, se dimostrano alle autorità competenti di avere un bilancio in attivo, avere una tariffa bassa e reinvestire l’utile in migliorie della rete, possono continuare nella loro gestione (“in house”) senza effettuare la gara pubblica.

    Detto questo alcuni aspetti della normativa vigente sono criticabili: ad esempio la soglia minima del 40% ai privati nelle società miste oppure la parte riguardante le partecipate quotate in borsa (in queste la % pubblica deve calare fino al 30%)…

    Aggiungo un’ulteriore osservazione sulla gestione dei servizi pubblici e sui capitali necessari. Difficilmente gli interventi necessari sulle infrastrutture verranno effettuati dallo stato (alzano ancora le tasse? tagliano altri servizi? fanno nuovo debito?). Già oggi questi servizi rientrano nella fiscalità generale ma i risultati sono sotto gli occhi di tutti: in alcune aree l’acquedotto perde metà di ciò che trasporta, un 20-30% dei cittadini non è ancora collegato alla rete fognaria… Purtroppo, a differenza dei sostenitori del NO, ho poca fiducia però anche nei privati, conoscendo i grossi imprenditori del “be paese” nella maggior parte dei casi si piazzano nella società di gestione e si prendono il guadagno garantito senza investire…

    Ad ogni modo ricordo che in caso di bocciatura servirà comunque una normativa che recepisca quella europea (che prevede se non sbaglio le gare pubbliche): non si potrà lasciare la situazione com’era prima del decreto Ronchi, anche se piacerebbe ai gestori di clientele, ai politici trombati e a quelli non trombati che però “tengono famiglia” (parlo di nepotismo)… Ricordo altresì che il primo quesito non si riferisce solamente all’acqua ma a tutti i servizi pubblici locali (eccetto tutto quanto riguarda ENI, ENEL e Trenitalia…). Quindi anche rifiuti, trasporto pubblico locale etc..

    PS: per quanto scritto sopra, e per altre ragioni (tra cui lo scandalo per alcune evidenti falsità della propaganda del SI), rifiuterò le schede dei due primi quesiti (mentre ritirerò le altre due).

  2. lucapiccin lunedì 13 giugno 2011 / 18:24

    L’acqua è un bene pubblico e in quanto tale va gestito come “res publica”. Il privato puo’ anche gestirla con efficacia, ma viste come vanno le cose nel mondo, temo che la massimizzazione dei profitti sia ancora più importante della responsabilità sociale delle imprese. In Francia lo hanno capito, come il caso di Parigi, citato nel post, insegna (e anche se esistono casi in cui il privato gestisce bene, ma questi sono una minoranza ; il modello francese delle autorità di bacino è un modello internazionale).
    Il nucleare è stato bocciato una seconda volta e anche qui troviamo nei vicini svizzeri e tedeschi degli esempi virtuosi ; c’è da augurarsi un effetto domino verso gli altri paesi europei, per un’altra europa. Dopo l’EURATOM che ha fatto da collante tra i paesi fondatori da oggi possiamo forse sperare in nuove collaborazioni per un’europa sostenibile, più attenta a ecologia e società ?
    Ad ogni modo, questo è un bel giorno e dopo diversi anni all’estero oggi posso finalmente vantarmi con un certo orgoglio di essere italiano.
    Quanto all’ultimo quesito, visto il risultato mi viene da chiedermi se più della metà degli italiani sono comunisti…

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