i 10 MILIARDI di euro per l’acquisto di 90 aerei militari F35: UNA SPESA DA NON FARE – costruiamo un unico ESERCITO EUROPEO, di difesa e capace di difendere popoli oppressi; ma anche che possa fare opera di MEDIAZIONE DI PACE e di diplomazia per la PREVENZIONE DEI CONFLITTI

Il Governo ha approvato il 6 aprile il disegno di legge delega sulla riforma della Difesa che prevede al 2024 il taglio di 33mila militari e 10mila civili: generali e ammiragli caleranno del 30%. Il piano del ministro Giampaolo Di Paola prevede la dismissione in cinque anni del 30% delle caserme e dei mezzi (blindati, sommergibili, elicotteri). La scure si abbatterà quindi sui programmi, in primis il più costoso, quello dei supercaccia F35 Joint Strike Fighter: invece dei 131 velivoli previsti, ne saranno acquistati 90, con una riduzione di spesa di 5 miliardi di euro

   Noi, nella cosiddetta lista “spending review” di forti tagli alla spesa pubblica che i governo si appresta a decidere, non abbiamo dubbi che vanno tolti (cioè indicati come “spesa da non farsi”) quei 10 miliardi di euro che si vogliono utilizzare per l’acquisto di 90 aerei “supercaccia” F35. Di per sé, precisiamo, nelle spese  militari con le quali un paese decide di dotarsi di un esercito, di armarsi, ci possono essere validi motivi, inoppugnabili, che tentiamo qui di indicare, di fare chiarezza.

   Premettiamo che nel 2012 le spese militari italiane ammontano, complessivamente, a circa 23 miliardi di euro (o 26 per alcuni). Secondo i dati del Governo (che depura dalla cifra spese “non dirette”, come quelle straordinarie delle missioni di pace, dell’Arma dei carabinieri, delle pensioni agli ex militari…) la spesa corrisponde allo 0,9% del PIL. Mentre per altre fonti autorevoli nazionali e internazionali (come il SIPRI Stockholm International Peace Research Institute – il prestigioso istituto svedese indipendente) il conto delle spese militari italiane arriverebbe all’1,7% del PIL. A fronte di una media dei paesi europei dell’1,8% (pertanto siamo nella media europea, un po’ meno).

   La spesa militare mondiale è di 1.738 miliardi di dollari in un anno (dati Sipri). Una cifra, detta così, poco quantificabile, ma che invece appare spaventosa nelle dimensioni: un’intera grande economia (di morte?, di difesa?, di potere nazionalista?… pensiamola in vari modi…) che mette in moto uomini, tecnologie, strategie di potere globale, che prescindono dalla nostra capacità di visione e di sintesi.

La SPESA MILITARE MONDIALE è di 1.738 MILIARDI DI DOLLARI in un anno (dati SIPRI – Stockholm International Peace Research Institute). A fare da locomotiva della spesa militare sono ancora gli STATI UNITI, con 711 miliardi, equivalenti al 41% del totale mondiale. La CINA resta al secondo posto all’8%. In rapido aumento anche la spesa della RUSSIA al terzo posto. Seguono GRAN BRETAGNA, FRANCIA, GIAPPONE, ARABIA SAUDITA, INDIA, GERMANIA, BRASILE e ITALIA. La spesa militare italiana viene stimata   dal Sipri, per il 2011, in circa 26 miliardi di euro annui

E nei conflitti internazionali di questi ultimi vent’anni non è vero che le pur dolorose e cruente guerre post-moderne, dall’Iraq alla Somalia, dai Balcani all’Afghanistan fino alla Libia di pochi mesi fa, non siano servite a niente. A volte il “non intervento” fa sì che si assista al martirio di popolazioni in balìa di cinici massacratori.

   Pensiamo a quel che è accaduto in Rwanda, uno dei più sanguinosi episodi della storia del XX secolo. In poco più di tre mesi (dal 6 aprile 1994 alla metà di luglio di quell’anno) vennero massacrate sistematicamente (a colpi di armi da fuoco e machete) si stima circa un milione di persone dell’etnia Tutsi (ad opera degli Hutu, altra etnia presente nel paese). E questo genocidio si concluse solo dopo una missione militare e umanitaria dei francesi con l’autorizzazione dell’ONU.

   Oppure va ricordato l’assedio di Sarajevo da parte dei serbi-bosniaci (dopo che un neocostituitosi governo bosniaco aveva dichiarato l’indipendenza della Bosnia dalla Iugoslavia), assedio che durò dall’aprile 1992 al febbraio 1996 (si stima che durante i 4 anni di assedio le vittime siano state più di 12.000, i feriti oltre 50.000, l’85% dei quali tra i civili), e nel quale proprio il blando intervento di forze dell’ONU (nel 1995: lasciarono in un’assenza complice che più di 8.000 bosniaci mussulmani fossero trucidati nella città di Srebrenica), proprio il blando intervento internazionale fosse risolto solo nel dicembre 1995 con il quasi sequestro americano dei leader nazionalisti contrapposti, il cessate il fuoco imposto dall’allora presidente Clinton e un accordo di pace (in un’isoletta militare statunitense del Pacifico, Dayton) che fermò definitivamente il massacro.

   Pertanto difficile non credere di aver bisogno di possedere anche mezzi militari, per fermare violenze, per difendersi o difendere: una forza di polizia internazionale di intervento in difesa di popolazioni che subiscono torti, che vengono attaccate. Ed è vero che ogni operazione di questo genere (di polizia internazionale) deve avere un placet condiviso (come l’approvazione alle “Nazioni Unite”), deve essere regolamentata, e non abusare oltre i limiti stabiliti della propria forza. Ed è anche vero che “ci piacerebbe” che se di esercito si debba parlare, si creasse un ESERCITO EUROPEO. Fatto anche di forze, persone, in grado di esercitare con capacità e competenza azioni di prevenzione, azioni di diplomazia fra le parti in guerra. Con grande capacità di conoscenza dei luoghi in cui si va a operare (conoscenza delle lingue, della religione, delle tradizioni…) (quasi sempre le forze di pace non hanno queste capacità, questa preparazione ai luoghi dove sono destinate…).

   La capacità di prevenire i conflitti (ad esempio per quasi tutti gli studiosi dell’area balcanica la guerra civile nella ex Iugoslavia si poteva evitare, con una sana preventiva e immediata interferenza internazionale, in primis europea, fin dall’inizio della crisi, nel 1991…); lo stabilire rapporti di reciproco scambio con tutti i popoli; il non assecondare dittatori sanguinari (che poi, oltre a massacrare il loro popolo, non si riesce più a “controllare”…); la capacità di fare da mediatori di pace tra i contendenti; l’incentivazione degli aiuti allo sviluppo dei paesi poveri con la cooperazione internazionale (che invece viene tagliata in questo periodo di crisi finanziaria) nel Mediterraneo, in Asia, in America latina, in Africa…. Tutto questo fa rivedere il non senso che hanno le spese militari in un mondo che si muove ancora su sempre più obsolete “tribù nazionaliste”. E in primis la spesa militare uccide sottraendo risorse vitali a miliardi di esseri umani.

   Se rivediamo il sistema di difesa internazionale sotto altri occhi, in un contesto europeo che si fa ogni giorno più urgente, gli F-35 che il governo vuol acquistare sono inutili e dannosi. Una spesa da fermare. (s.m.)

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SPENDING REVIEW, CACCIATE I CACCIA

di Tommaso Di Francesco, da “Il Manifesto” del 1/5/2012

   Raccontano le rassicuranti cronache che Piero Giarda, ministro per i rapporti con il Parlamento, non riesca a dormire la notte nel tentativo di preparare il suo rapporto «Elementi per una revisione della spesa pubblica». Sostenuto nello sforzo dal viceministro dell’Economia Grilli e dal ministro della Funzione pubblica Patroni Griffi, si è avventurato nella missione spending review, vale a dire i tagli alla spesa pubblica dello stato e alla fine questo sforzo diventerà un provvedimento legge.

   Sempre per il «bene collettivo», si è insediata ieri una task force, una specie di soviet supremo dei tagli. E il tutto, con l’obiettivo dichiarato di disinnescare l’aumento dell’Iva al 23% e di trovare almeno un miliardo da destinare alla famosa «crescita» dell’economia.

   Già emerge che la forbice affonderà le lame nei settori della scuola, della giustizia, dell’Inps, della sicurezza dei cittadini, per razionalizzare le spese improduttive e cancellare o ridurre gli sprechi, proprio mentre la Bce preme perché vengano drasticamente ridimensionate le Province. Un’opera dolorosa, «necessaria» e «oggettiva» per la quale il ministro Giarda si muoverà, rassicura il Pd, con il «cacciavite, non con la mazza».
Noi, che abbiamo a cuore la salute del ministro «tecnico», ma che non pensiamo che una revisione di spesa sia un problema tecnico e tanto meno oggettivo, vorremo modestamente consigliarlo di tagliare la spesa più inutile, prevista in Finanziaria dallo schieramento bipartisan che sostiene il governo Monti: 10 miliardi di euro – quasi la metà dell’impegno di spesa dell’intera Finanziaria – per l’acquisto di ben 90 F-35, i cacciabombardieri di nuova generazione che possono armare testate nucleari e che sono programmati per colpire per primi.

   «Servono per la difesa», sostiene il ministro ammiraglio Di Paola, in realtà sono i più moderni strumenti della guerra d’offesa e, costi quel che costi, dovranno essere utilizzati nei nuovi, o non ancora terminati, conflitti che si annunciano: questa è la tesi che gli alleati della Nato saranno chiamati a sostenere al vertice strategico dell’Alleanza atlantica del 20 maggio prossimo a Chicago.
Non basta più, visto che siamo alla caccia degli sprechi, che il governo Monti risponda di avere già tagliato la spesa per gli F-35 che, inizialmente dovevano essere 131 per 15 miliardi di euro, così come la scelta di cancellare uomini e ruoli di comando nelle forze armate ma solo per aumentare e razionalizzare le spese per la tecnologia di guerra e di morte.
La sola spending review possibile è quella di rinunciare all’acquisto dei 90 cacciabombardieri F-35. E di cominciare ad interrogarci su quanto ci costa la Nato. Visto che nessuno è in grado di spiegare l’utilità dei risultati sanguinosi ottenuti con le tutte le guerre post-moderne alle quali abbiamo partecipato negli ultimi venti anni, dall’Iraq alla Somalia, dai Balcani all’Afghanistan fino alla Libia. Quali obiettivi abbiamo conseguito, visto che nessuna di queste realtà è stata pacificata dalla scorciatoia scelta della guerra che, al contrario, ha prodotto solo una seminagione di troppi odi e crimini che tali restano anche se saranno impuniti.

   La guerra si morde la coda, alla fine la sua unica utilità è quella di scrivere in bilancio nuovi e più adeguati strumenti di morte. Quando invece è la pace lo status ottimale della tenuta sociale, quello status che dovrebbe essere salvaguardato e «bandita» invece dovrebbe essere la guerra, recita ancora – per quanto tempo ancora? – la nostra Costituzione. (Tommaso Di Francesco)

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LE ARMI NON CONOSCONO RECESSIONE

di Francesco Palmas, da AVVENIRE del 28/3/2012

   L’industria di armamenti non conosce crisi. È l’amara constatazione che emerge dall’ultimo rapporto del Sipri (Stockholm international peace research institute), pubblicato lo scorso 19 marzo. I trasferimenti mondiali di armi continuano a crescere a doppia cifra: più 24% nel periodo 2007-2011 rispetto al quinquennio 2002-2006. La regione Asia-Oceania rappresenta ormai il 44% delle importazioni mondiali di armamenti, mentre i primi esportatori sono gli Stati Uniti (30%).
Il maggior cliente dei “mercanti di morte” si conferma l’India, che vale da sola il 10% delle importazioni mondiali. Crescono le spese militari del gigante asiatico: nel 2012-2013 aumenteranno del 17%, per raggiungere quota 40 miliardi di dollari, il doppio circa di quanto investa l’Italia. Delhi sta diversificando le fonti di approvvigionamento e sviluppando un’industria nazionale.
È sempre più esigente in materia di compensazioni industriali. Mosca è sua fonte privilegiata, con forniture di aerei ed elicotteri (Mig-29, Su-30), di carri pesanti (T-90, T-72), di sommergibili e altri materiali. I due Paesi cooperano anche nello sviluppo dell’aereo furtivo T-50 Pak-Fa e sul futuro aereo da trasporto multiruolo Mta.

   Ma da qualche anno l’India si sta rivolgendo sempre più spesso ai Paesi occidentali: ha acquistato dalla Francia caccia Mirage e Rafale, missili Mica e sottomarini Scorpène, ma non sono mancati materiali militari provenienti dalla Gran Bretagna (Sepecat Jaguar, Sea Harrier e Hawk) e dall’Italia.
Fortissima è la collaborazione con Israele nel campo dei droni, dei sistemi antimissilistici e dei radar. Ancora più a ovest, sono gli Stati Uniti la nuova frontiera del procurement indiano. Nel 2008, sono stati comprati a Lockheed Martin 6 velivoli da trasporto tattico C-130J e un anno dopo 6 aerei da sorveglianza marittima Boeing P8 Poseidon. Ma è l’anno scorso che è arrivata la commessa principale: più di quattro miliardi di dollari per 10 cargo C-17 Globemaster, capaci ciascuno di trasportare 102 paracadutisti.
Due ragioni spiegano i dati indiani: innanzitutto l’evoluzione del bilancio della difesa cinese, in crescita dell’11,2% nel 2012. I due Paesi spartiscono una frontiera comune di 2mila chilometri e hanno diversi contenziosi territoriali, uno dei quali legato al fiume Brahmaputra. L’altro motivo è legato all’ostilità ricorrente fra India e Pakistan, con la disputa sul Kashmir che data ormai dal 1947. Lo stato maggiore indiano ha elaborato una strategia del “duplice fronte“, che prevede di disporre delle capacità necessarie a condurre offensive multiple nel nord dell’Himalaya sia contro il Pakistan, sia contro la Cina. Gli acquisti d’armi vanno in questa direzione, come lo sviluppo del deterrente nucleare, dei missili balistici e di una flotta sottomarina strategica.
Per l’Istituto internazionale di studi strategici (Iiss), le spese militari asiatiche supereranno nel 2012 quelle dei Paesi europei: parliamo di oltre 180 miliardi di euro e non è un caso che tutti i maggiori importatori mondiali di armi siano asiatici. Dopo l’India, spiccano la Corea del Sud (6%), il Pakistan (5%), la Cina (5%) e Singapore (4%), la città-Stato che consacra alla difesa il 5% della sua ricchezza nazionale, uno dei tassi principali al mondo. L’aeronautica singaporegna allinea ben 422 aeromobili, fra cui 143 caccia F-15 (24) ed F-16 Block 52 (74). Si addestra negli Stati Uniti, in Australia e in Francia e riceverà dall’Italia 12 velivoli avanzatissimi: gli M-346 Master di Alenia-Aermacchi.
Fra le principali tendenze registrate dal Sipri, si segnalano le importazioni militari della Grecia, crollate del 18% dal 2002 ad oggi. Atene non è più il quarto importatore di armi convenzionali, ma il decimo. Colpa della crisi finanziaria che erode i bilanci della difesa pan-europei. Nei 16 Paesi membri della Nato si sono registrati cali superiori al 10% (2008-2010), ricorda l’analista John Chipman. È una tendenza destinata a peggiorare: le forze armate britanniche perderanno l’8% delle risorse nel prossimo quadriennio. La Germania seguirà, professionalizzando una Bundeswher dal formato ridotto. L’Italia ha già dovuto ridurre acquisti e uomini. Peggio ancora è andata a Belgio e a Paesi Bassi, ove la mannaia ha causato perdite irreversibili di capacità militari.
Se qualcuno risparmia (ed è difficile lamentarsene), altri spendono e spandono, anche se la loro economia nazionale non se la passa certo meglio; e così facendo sottraggono risorse a servizi ben più vicini ai cittadini. Nelle Americhe è il Venezuela di Chavez a distinguersi per la crescita delle importazioni belliche: più 555% dal 2002 ad oggi. Caracas ha ordinato alla Russia qualcosa come 6 miliardi di dollari di materiali militari, fra caccia, carri T-72, lanciarazzi multipli Smerch, elicotteri Mi-17 e sistemi di difesa aerea S-300. Il Nordafrica non è stato a guardare, con un incremento del 273% nell’import di armamenti. Il solo Marocco è cresciuto del 443%.
Una cosa è certa: se i Paesi asiatici primeggiano per spese militari, sono gli industriali dell’armamento statunitensi ed europei a beneficiarne. Secondo una recente classifica del Sipri, delle prime 100 aziende legate al settore della difesa solo 12 sono asiatiche e per gran parte fabbricano equipaggiamenti acquisiti su licenza dai rispettivi governi. Nel 2010, i grandi dell’armamento mondiale hanno fatto affari per 411,1 miliardi di dollari e le loro vendite sono cresciute del 60% nel periodo 2002-2010.
Nella top-100, 44 industriali sono statunitensi e realizzano una cifra d’affari di 246,6 miliardi di dollari. Occupano 7 delle prime 10 posizioni mondiali, con il gigante Lockheed Martin in testa. E valgono più della metà dei 411,1 miliardi di fatturato. Imprese non toccate dalla crisi economica: l’ultimo decennio è stato prodigo in guerre e le cifre d’affari sono esplose. I dieci leader, tre dei quali europei (Bae System, Eads e Finmeccanica) impiegano 1.138.310 persone. (Francesco Palmas)

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DIFESA, C’È IL VIA LIBERA ALLA RIFORMA. IN DIECI ANNI TAGLIATI 33MILA MILITARI

da “La Stampa” del 6/4/2012

– Il Cdm approva il ddl delega – «C’è la crisi, contenere lo spese» – Di Paola: non è lacrime e sangue –

   La crisi colpisce anche le spese militari: il Consiglio dei ministri ha approvato il disegno di legge delega che prevede in dieci anni un taglio di 33mila militari e di diecimila civili che lavorano nel settore: nel 2024 la Difesa italiana potrà contare dunque su 150mila soldati e 20mila civili.
Il perchè della riforma è presto detto: è necessario, afferma Palazzo Chigi, «contenere i costi, a causa dell’attuale congiuntura economica e finanziaria». Ed infatti l’Italia, oggi, può destinare al settore lo 0,84% del Pil a fronte di una percentuale che nel 2004 era dello 1,01% e che nei paesi europei è, in media, dell’1,61%. Dunque bisogna tagliare. «è un processo difficile – ammette il ministro Giampaolo Di Paola – ma credo possa rappresentare un segnale di grossa innovazione. E non sarà una riforma lacrime e sangue».
Quel che è certo è che accanto ai tagli è necessario un altro intervento: la razionalizzazione delle risorse a disposizione. Perch‚ il terrorismo internazionale ma anche l’instabilità di alcune aree del Mediterraneo e del Medio Oriente richiedono strumenti operativi qualitativamente e tecnologicamente avanzati. E le risorse, oggi, sono distribuite male se è vero, come dice palazzo Chigi nella nota al termine del Cdm, che il 70% è «assorbito dalle spese per il personale» mentre quelle destinate all’operatività e agli investimenti sono limitate rispettivamente al 12% e al 18%. L’obiettivo del ddl è dunque quello di consentire a Esercito, Marina e Aeronautica di riequilibrare i propri costi portando al 50% le spese per il personale e al 25% sia quelle per l’addestramento sia quelle per gli investimenti.
Nella nota al termine del Consiglio dei ministri si sottolinea inoltre che è prevista una «rimodulazione dei programma di ammodernamento tecnologico». La prima, l’ha riconfermato anche oggi Di Paola, riguarda il programma degli F35 per il quale l’Italia si era impegnata ad acquistare 131 aerei per una spesa di 15 miliardi. «Il programma va avanti con trasparenza – ha detto il ministro – ma con un significativo ridimensionamento». Significa che gli aerei che l’Italia comprerà non saranno più 131 ma 90, con un risparmio stimato attorno ai 5 miliardi.
Nei prossimi dieci anni, dunque, ci sarà una riduzione graduale degli uomini a disposizione. Si agirà sui reclutamenti, che verranno ridotti di circa il 20-30%, ma si punterà anche a favorire gli esodi. Per farlo si utilizzeranno la mobilità verso le altre amministrazioni pubbliche, centrali e locali, l’aspettativa per la riduzione quadri, forme di part-time per i dipendenti civili, norme per il reinserimento nel mondo del lavoro.  La forbice toccherà in misura maggiore generali e ammiragli, che subiranno un decremento di circa il 30%. Ma riduzione degli uomini significherà naturalmente anche tagli alle strutture ed ai mezzi: ci saranno cos meno basi militari, blindati, elicotteri, sommergibili. E le caserme diminuiranno del 30%.

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IL DIBATTITO SUL CACCIA MULTIRUOLO DI 5A GENERAZIONE F-35

da “Reporter 2.0” http://www.reporter2dot0.com/

(…) Si parla di una riduzione del personale militare di circa 30.000 unità – per la maggior parte non operativo. La decisione è stata presa nel tentativo di contenere i costi del personale. Tali costi incidono per il 70% sul budget annuo della Difesa che ammonta a 12 miliardi di euro. Anche il comparto tecnologico subirà dei tagli. Delle 10 fregate classe Fremm, costruite insieme coi francesi e destinate a sostituire le classi Lupo e Maestrale, ne saranno sacrificate 4. Mentre l’acquisto degli ormai noti caccia multiruolo F-35 scenderà da 131 a 90 unità.

   La decisione di acquistare 131 caccia F-35, e soprattutto i 13 miliardi di euro necessari, hanno suscitato in Italia non poche polemiche. L’Italia ha preso parte al progetto di ideazione e produzione del caccia multiruolo di 5ª generazione F-35 nel 2006 quando il ministro della Difesa, Beniamino Andreatta, aderì al progetto americano Joint Strike Fighter.

IL PROGETTO JOINT STRIKE FIGHTER

Il progetto Joint Strike Fighter è supportato a livello internazionale da 9 partner. Ci sono tre livelli di adesione che riflettono la partecipazione finanziaria al programma, la quantità di tecnologia trasferita (il c.d. know how) e l’ordine con il quale le nazioni possono ottenere esemplari di produzione. Il nostro paese, insieme alla Danimarca, è partner di “livello 2″ e contribuisce al progetto per più di 1 miliardo di dollari. La Gran Bretagna è l’unico partner di primo livello contribuendo per il 20% ai costi complessivi. Canada (440 milioni di $), Turchia (175 milioni di $), Australia (144 milioni di $), Norvegia (122 milioni di $) e Danimarca (110 milioni di $) sono invece partner di terzo livello.

   Il caccia F-35 è stato progettato per sostituire molti caccia di seconda e terza generazione attualmente in uso presso la United States Air Force, la Royal Air Force inglese, l’Aeronautica militare italiana e le varie componenti delle forze armate dei paesi aderenti al progetto. Oltre ad aggiornare le flotte degli stati partecipanti, i caccia saranno acquistati anche da altre nazioni.

LE CRITICHE AL PROGETTO

I costi di produzione, che a partire dal 2011 hanno cominciato a lievitare, hanno gettato non poche ombre sul successo del progetto. Il caccia F-35 è una macchina pensata per essere tecnologicamente all’avanguardia, in grado di adempiere a tutti e tre i ruoli operativi tradizionali del caccia: intercettore, attacco al suolo, ricognizione. Oltre all’aspetto economico vi è poi la questione della competitività.

   Da molte parti sono state mosse accuse circa l’effettiva capacità del caccia F-35 di competere con il russo Su-35 in un combattimento aereo. Il maggiore Richard Koch dell’USAF, capo dell’ufficio di superiorità aerea del “USAF Air Combat Command”, ha dichiarato: “mi sveglio la notte con i sudori freddi al pensiero che l’F-35 avrà solo due armi per la superiorità aerea“.

   La presunta ridotta competitività del veivolo è significativa sotto un duplice profilo. Come ho detto l’aereo deve essere competitivo nel senso che, in un eventuale scenario di guerra, deve poter garantire il più efficacemente possibile la superiorità aerea. Oltre a questo fondamentale requisito, il caccia deve essere competitivo anche a livello economico. L’F-35 dovrà infatti misurarsi sul mercato mondiale con rivali come il Saab JAS 39 Gripen svedese o il Dassault Rafale francese. La sua efficienza e il suo costo, se competitivi, garantiranno ai paesi produttori quelle commesse necessarie per poter aspirare al riequilibrio dei costi di produzione.

IL DIBATTITO PUBBLICO

La questione dell’acquisto dei caccia F-35 ha creato un’intenso dibattito nel nostro paese. Il governo del premier Monti si è dichiarato a favore di un ridimensionamento dell’acquisto delle unità ma non ha mai messo in discussione il progetto nella sua essenza.

   Coloro i quali si dichiarano favorevoli al progetto adducono che la costruzione dei 90 esemplari che batteranno bandiera italiana e una quota significativa delle eventuali commesse europee è affidata ad aziende italiane; si spera quindi in una possibile ricaduta occupazionale e ad un vantaggioso trasferimento di know how; i costi di produzione oltre ad essere spalmati nell’arco di 14 anni verranno in parte recuperati dalle future commesse straniere, come quelle olandesi (per il momento sospese); gran parte degli Harrier a decollo verticale che prestano servizio sulle portaerei “Cavour” e “Garibaldi”, dei caccia multiruolo Panavia Tornado, dei caccia da attacco al suolo AMX, e degli F-16 Falcon presi in leasing dall’Usaf, che compongono la nostra flotta aerea, sono macchine che nel giro di 15 anni termineranno il proprio ciclo di vita e devono essere sostituite.

   Dall’altra parte, le ragioni dei critici possono essere così brevemente riassunte: i costi di produzione e di manutenzione dei veivoli sono eccessivamente alti; le priorità in tempo di crisi e con una incombente recessione devono essere altre; la ricaduta occupazione sarà minima dato che le componenti del caccia costruite su suolo italiano saranno per lo più realizzate da Alenia Aeronautica, la cui forza lavoro era occupata nell’ormai dismesso programma Eurofighter.

   E’ vero che i dettami costituzionali prevedono la partecipazione italiana alle organizzazioni internazionali predisposte al mantenimento della pace, consentendo quelle “limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni” (art. 11, comma secondo), come è vero che “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali” (art. 11, comma primo). A fronte di quanto stabilito dalla Costituzione viene posto l’accento sul dato oggettivo che gli F-35 sono sì caccia multiruolo ma con un pesante sbilanciamento per operazioni di attacco al suolo, operazioni di tipo offensivo, contrarie ai dettami costituzionali.

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FAVOREVOLI – Opinione di ARDUINO PANICCIA

FACCIAMO POCA DEMAGOGIA, GLI F35 CI SERVONO E RISCHIAMO DI PERDERLI

dal sito LINKIESTA (http://www.linkiesta.it/ ) del 22/2/2012

   I problemi tecnici non sono pochi e la lista delle defezioni dal progetto del F35, il supercaccia che l’Italia sta comprando, si allunga, scrive Arduino Paniccia docente di Studi Strategici all’Università di Trieste. La più dannosa è quella della Us Navy, che ha declinato il proprio interesse nell’F35B, una delle due versioni a cui è interessata l’Italia, lasciando solo ai Marines e alla nostra Marina l’insostenibile onere di portare avanti questa versione. Se anche i Marines dovessero chiamarsi fuori, l’F35B verrebbe cancellato, rendendo impossibile per la nostra Marina rimpiazzare i suoi Harrier AV8B, ormai obsoleti. Ma se il paese vuole una forza armata capace di proiettarsi all’estero (unico scenario plausibile) l’F35 è indispensabile.

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Qualche tempo fa, ad un cronista televisivo che raccoglieva i commenti dei cittadini nella Roma travolta dalla neve, una signora intervistata ha sentenziato «Perché non hanno subito chiamato i soldati? Tanto stanno lì a fare niente tutto l’anno!». Alcuni giorni prima una professoressa in una scuola media inferiore sempre di Roma ha suggerito alla scolaresca che «dietro la tragedia della Concordia ci sono sicuramente i militari». In un contesto paese che partorisce scempiaggini di tale magnitudine è evidente che parlare di una spesa di circa 15 miliardi di euro per acquistare 131 aerei da combattimento è un suicidio in termini di consenso e costituisce un invito a nozze per i soliti noti per i quali, da sempre, per risolvere i problemi del Paese occorre “tagliare le spese militari”.

Questa è una posizione condivisa da molti italiani in buona fede, anche se si tratta in realtà di un banale luogo comune, niente più di un irrealistico slogan ideologico privo di valenze pratiche. Infatti, se mantenere l’apparato militare italiano costasse non lo 0,9 del bilancio dello stato (il budget difesa più basso d’Europa e della Nato) ma lo 0,009, comunque troveremmo in Parlamento e ai microfoni dei talk show qualcuno che ci spiega che la soluzione delle nostre grane sta nel ridurre le spese militari. Premesso questo, va osservato che la vicenda del Joint Strike Fighter F35 resta una gatta da pelare per il nuovo ministro della Difesa Di Paola. Non solo per i preconcetti ideologici e culturali accennati, ma anche perché esistono obiettivi problemi tecnici oltre che di finanziamento.

Proviamo a riassumerne i termini a grandi linee: l’Italia si trova nella necessità di mandare in pensione la vetusta flotta aerea della sua Aeronautica e della sua Marina Militare, costituita dai vecchissimi Tornado, dai mediocri Amx e dai sorpassatissimi Harrier. Focalizzato il proprio interesse su un progetto della Lockheed Martin, Grumann e Bae Systems battezzato F35, l’Italia ha deciso di partecipare alla sua realizzazione investendo fino ad oggi assieme ad altri sette paesi (Inghilterra, Paesi Bassi, Canada, Turchia, Australia, Norvegia e Danimarca) circa 5 miliardi di dollari, mentre gli Usa mettono gli altri 35 dei 40 necessari a portare a termine la gestazione dell’aereo. Nel frattempo si sono presentati altri acquirenti (solo pochi giorni fa il Giappone).

Tuttavia l’iter del progetto va a rilento: il primo prototipo ha volato nel 2006 ma la mole di problemi riscontrati è tale che i tempi stanno diventando lunghissimi, i costi lievitano (81% in più per esemplare) e le perplessità dei partecipanti all’impresa e dei potenziali compratori aumentano. Esistono tre versioni di questo velivolo stealth multiruolo di quinta generazione in grado di effettuare missioni di interdizione in profondità, di soppressione dei sistemi di difesa aerea nemica, di guerra elettronica, di supporto aereo ravvicinato, di bombardamento tattico e di raccolta di intelligence. Una prima variante è a decollo e atterraggio convenzionale (F35A), una è a decollo corto e atterraggio verticale (F35B) e la terza è per l’uso sulle portaerei (F35C). All’Italia interessano solo le versioni A e B, la prima per l’Aeronautica (inizialmente richiesti 110 velivoli) e la seconda per la Marina (21 aerei da imbarcare sulla Cavour).

Senza addentrarci troppo nel dettaglio delle problematiche fino ad oggi emerse, basti accennare che molti addetti ai lavori hanno sollevato diverse critiche, secondo le quali l’F-35 non può competere con aerei di pari categoria come il russo Su-35 perché non è in grado di manovrare con sufficiente velocità ed è troppo pesante, sovraccarico com’è di funzioni legate alla sua configurazione multiruolo. Fonti informate spiegano che sussistono gravi problemi di vibrazione, di scarsa capacità di elaborazione dati e di visione notturna e di adeguato sviluppo del software. Data la situazione già ci sono state le prime defezioni, la più dannosa quella della Us Navy, che ha declinato il proprio interesse nell’F35B, lasciando solo ai Marines e alla nostra Marina l’insostenibile onere di portare avanti questa versione, proprio quella che ha presentato maggiori criticità. Se anche i Marines dovessero chiamarsi fuori, l’F35B verrebbe cancellato, il che renderebbe impossibile per la nostra Marina rimpiazzare i suoi obsoleti Harrier AV8B, ormai vecchi e più che usurati dalle recenti e numerosissime missioni in Libia.

Il ministro Di Paola sta cercando di salvare il salvabile riducendo la domanda a “soli” 90 aerei in totale e sottolineando che la partecipazione dell’Italia a questo progetto si traduce in un investimento che «darà occupazione a 1.500 persone e che, in prospettiva, sono previsti 10mila posti di lavoro, con oltre 40 imprese che contribuiscono alla crescita economica, tecnologica e industriale del Paese».

Peccato questo non sia un argomento in grado di intaccare la quasi genetica repulsione del paese per tutto ciò che è militare, se fosse così facile basterebbe impostare un paio di navi da guerra per allontanare i cassaintegrati della Fincantieri dalla disoccupazione. Ma così non è, ai militanti dalla bandierina iridata dell’occupazione degli italiani interessa pressoché nulla e la verità è che il Ministro Di Paola si trova a fronteggiare un problema che va aldilà dei riflessi pavloviani degli anti-militaristi o della crisi economica contingente, finendo per costringere il paese ad interrogarsi su quale debba essere il ruolo delle nostre Forze Armate e se abbia un senso averle. Ovvero quale debba essere il “modello di Difesa” che si intende mantenere.

Il Consiglio dei Ministri ha appena approvato il progetto di ristrutturazione presentato da Di Paola che impone tagli senza precedenti, resi possibili solo dalla competenza del più “tecnico” dei ministri tecnici, un professionista che ha indossato l’uniforme della Marina e a 15 anni entrando in Collegio Navale e se l’è levata ieri, dopo quasi cinquanta anni di lavoro continuativo nello stesso “business”, il che fa di lui l’unico tecnico di Governo con una esperienza di mezzo secolo nella stessa attività. Paradossalmente e non sorprendentemente proprio un ex-militare imporrà i sacrifici maggiori agli uomini con le stellette. Infatti Di Paola sa esattamente dove tagliare, meglio e più draconianamente di ogni suo predecessore.

Occorre premettere che oggi in Italia più del 70% del budget difesa serve alle spese d’esercizio e a pagare stipendi, uno squilibrio inaccettabile, considerato che la media europea è del 51% per le spese fisse ed del 49% per investimenti e rinnovo delle tecnologie. Per avvicinarci a quelle proporzioni il “nuovo modello di Difesa” prevede una riduzione drastica del personale di circa 40mila degli attuali 183mila militari e civili appartenenti alle nostre Forze Armate e investimenti in nuove tecnologie che garantiscano l’operatività dei pochi selezionati che rimarranno a servire il paese in uniforme.

L’F35 rientra appunto in questo piano, ma il suo costo verrà spalmato in diversi anni (i primi F35 saranno schierati in Italia nel 2018) e soprattutto esso rappresenta una spesa indispensabile a rimpiazzare aerei che ormai cadono in pezzi. Soprattutto serve a mantenere la posizione dell’Italia nel contesto di organizzazioni multinazionali all’interno delle quali i nostri militari giocano il ruolo cruciale di supplenti allo scarso peso economico, industriale e politico della nazione. Se oggi possiamo credibilmente sedere al tavolo dei grandi (Onu, Nato, Ue, etc.), è anche grazie alla credibilità della nostra macchina militare ed al sacrificio dei nostri soldati, che ovunque nel mondo hanno “messo una pezza” alla mediocrità delle nostre risorse politiche e produttive.

Se intendiamo continuare a sfruttare questa risorsa, l’acquisto di tecnologie adeguate come l’F35 è indispensabile. A meno che non si decida di privarci tout court della nostra macchina militare. In fondo anche il Costarica vive benissimo senza Forze Armate, forse anche l’Italia potrebbe vivere altrettanto bene. Ammesso che in futuro si accetti di avere nello scacchiere internazionale lo stesso peso del Costarica. Ma se le nostre ambizioni sono diverse, allora occorre riconoscere che le nostre Forze Armate sono funzionali a consentire all’Italia di dire la sua negli scenari geo-politici odierni e futuri. Oggi la difesa dei confini e degli interessi nazionali non si fa solo lungo le nostre coste e sull’Arco Alpino, data la natura della minaccia terroristica o delle armi di distruzione di massa, ma necessita di una capacità di schieramento e di gestione delle operazioni all’estero, di solito in teatri remoti.

Per fare questo occorre una forza armata che disponga di una capacità di proiezione realistica, non già di legioni di Alpini che trascinano cannoni su per i dirupi delle nostre montagne. Piuttosto occorrono buoni aerei, buone navi, buoni sistemi d’arma, buoni soldati e una efficiente logistica che consenta di portare il tutto laddove la tutela dell’interesse nazionale lo richieda.

Sostenere che in Italia si spenda troppo per la Difesa è una verità parziale, nel senso che avere a libro paga più generali ed ammiragli delle forze armate americane è certamente una incongruenza alla quale il Ministro deve mettere mano velocemente, ma affermare che l’F35 sia inutile è altrettanto fuorviante: se il paese intende avere una forza armata capace di proiettarsi all’estero (unico scenario plausibile) l’F35 è indispensabile.

Oppure riscriviamo la Costituzione e sciogliamo Esercito, Marina e Aeronautica. Potremo finalmente vivere felici come in Costarica e guardare al telegiornale altre nazioni che decidono del nostro destino nel chiuso di stanze nelle quali non avremo accesso. (Arduino Paniccia è docente di Studi Strategici all’Università di Trieste). Con la collaborazione di Andrea Castelli Leggi il resto:

http://www.linkiesta.it/caccia-f-35#ixzz1tkYGHz9u

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 LE SPESE MILITARI UCCIDONO

di Manlio Dinucci, da “il Manifesto” del 19/4/2012

   Nel tempo che impiegherete a leggere questo articolo, nel mondo si saranno spesi altri 10 milioni di dollari in armi, eserciti e guerre. La spesa militare mondiale ammonta infatti a 3,3 milioni di dollari al minuto. Ossia 198 milioni ogni ora, 4,7 miliardi ogni giorno. Il che equivale a 1.738 miliardi di dollari in un anno.

Sono i dati relativi al 2011, pubblicati ieri dal Sipri, l’autorevole istituto internazionale con sede a Stoccolma.

   A fare da locomotiva della spesa militare sono ancora gli Stati uniti, con 711 miliardi, equivalenti al 41% del totale mondiale. L’annunciato taglio di 45 miliardi annui nel prossimo decennio è tutto da vedere.                              I risparmi dovrebbero essere effettuati riducendo le forze terrestri e restringendo i benefit (compresa l’assistenza medica) dei veterani.

   Obiettivo del Pentagono è rendere le forze Usa più agili, più flessibili e pronte ad essere dispiegate ancora più rapidamente. La riduzione delle forze terrestri si inquadra nella nuova strategia, testata con la guerra di Libia: usare la schiacciante superiorità aerea e navale Usa e far assumere il peso maggiore agli alleati.

   Ma non per questo le guerre costano meno: i fondi necessari, come è avvenuto per quella contro la Libia, vengono autorizzati dal Congresso di volta in volta, aggiungendoli al bilancio del Pentagono. E a questo si aggiungono anche altre voci di carattere militare, tra cui circa 125 miliardi annui per i militari a riposo e 50 per il Dipartimento della sicurezza della patria, portando la spesa Usa a circa la metà di quella mondiale.

   Nelle stime del Sipri, la Cina resta al secondo posto rispetto al 2010, con una spesa stimata in 143 miliardi di dollari, equivalenti all’8% di quella mondiale. Ma il suo ritmo di crescita (170% in termini reali nel 2002-2011) è maggiore di quello della spesa statunitense (59% nello stesso periodo). Tale accelerazione è dovuta fondamentalmente al fatto che gli Usa stanno attuando una politica di «contenimento» della Cina, spostando sempre più il centro focale della loro strategia nella regione Asia/Pacifico.

   In rapido aumento anche la spesa della Russia, che passa, con 72 miliardi di dollari nel 2011, dal quinto al terzo posto tra i paesi con le maggiori spese militari. Seguono Gran Bretagna, Francia, Giappone, Arabia Saudita, India, Germania, Brasile e Italia. La spesa militare italiana viene stimata dal Sipri, per il 2011, in 34,5 miliardi di dollari, equivalenti a circa 26 miliardi di euro annui. L’equivalente di una grossa Finanziaria.

   Nella ripartizione regionale, Nord America, Europa e Giappone totalizzano circa il 70% della spesa militare mondiale: è quindi la triade, che finora ha costituito il «centro» dell’economia mondiale, a investire le maggiori risorse in campo militare. Ciò ha un effetto trainante sulle regioni economicamente meno sviluppate: ad esempio, l’Africa conta appena il 2% della spesa militare mondiale, ma il Nord Africa ha registrato la più rapida crescita della spesa militare tra le subregioni (109% in termini reali nel 2002-2011) e anche quella della Nigeria è in rapida crescita.

   La spesa militare continua così ad aumentare in termini reali. Secondo le stime del Sipri, è salita a circa 250 dollari annui per ciascuno dei 7 miliardi di abitanti del pianeta. Una cifra apparentemente trascurabile per un cittadino medio di un paese come l’Italia. Ma che, sommata alle altre, diventa un fiume di denaro pubblico che finisce in un pozzo senza fondo. Prima ancora di uccidere quando viene convertita in armi ed eserciti, la spesa militare uccide sottraendo risorse vitali a miliardi di esseri umani. (IlManifesto.it)

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Ecco i settori che creano più posti di lavoro.

CRESCITA DELL’OCCUPAZIONE: CONVIENE INVESTIRE NEL SETTORE MILITARE?

da PEACELINK del 10/12/2011 (http://www.peacelink.it/ )

– Secondo uno studio dell’Università del Massachusetts, il finanziamento di priorità nazionali in ambito civile crea almeno il 50% in più di posti di lavoro rispetto alla spesa per le forze armate –

di ALI GHARIB (giornalista di ThinkProgress)

Fonte: http://www.truth-out.org/study-funding-progressive-domestic-priorities-creates-least-50-percent-more-jobs-military-spending/1 – 05 dicembre 2011

   Messi di fronte alla necessità di ingenti tagli alle spese militari, il Ministero della Difesa, il Segretario Leon Panetta e le associazioni di settore hanno espresso il timore che i tagli alla sicurezza possano aumentare il tasso di disoccupazione. E pur attenendosi alla (dubbia)cauta linea di pensiero che le spese governative non siano in grado di creare posti di lavoro, esponenti della destra come il Repubblicano Buck McKeon (R-CA) insistono sul fatto che le spese militari debbano rimanere elevate per impedire una crescita del tasso di disoccupazione.

   Ma un nuovo studio dell’Università del Massachusetts, Amherst, a cui fa riferimento l’economista Dean Baker mostra che, contrariamente a quanto ritengono i conservatori, le spese non militari possono creare più occupazione di quanto lo facciano quelle per i programmi di difesa.

   Gli autori dello studio, gli economisti Robert Pollin e Heidi Garret-Peltier dell’Istituto di Ricerca di Economia Politica, si sono avvalsi di statistiche del Ministero Statunitense del Commercio, dell’Ufficio delle Statistiche del Lavoro e di altre fonti per capire quanti impieghi venissero creati dalla spesa pubblica in vari settori. E hanno potuto rilevare che le spese per il comparto militare creavano meno occupazione per miliardo di dollari spesi di quanta ne creassero quelle per il settore civile.

   Facendo una media tra i risultati degli investimenti in energia pulita, sanità pubblica e educazione, queste tre aree creano circa il doppio di posti rispetto alla spesa dedicata al comparto militare. I risultati inferiori di energia e sanità riescono purtuttavia a creare il 50% di posti in più rispetto al settore militare, mentre i risultati degli investimenti nel campo dell’educazione indicano la possibilità di maggiori opportunità di impiego.

   Il documento analizza anche la distribuzione della creazione di posti di lavoro in base a diverse fasce di reddito. Se si considerano i benefici, la spesa nel settore civile crea più impieghi con fasce di reddito differenziate (bassa, media e alta). E dato che la spesa per le priorità domestiche crea tanti posti in più, saranno di conseguenza molti anche gli impieghi ad alto reddito.

   Gli autori concludono affermando che “gli investimenti in energie rinnovabili, sanità ed educazione saranno quelli maggiormente positivi per l’occupazione, a tutti i livelli di reddito, al contrario dei risultati degli investimento nel settore militare”.

L’economista Dean Baker, co-direttore del Center for Economic and Policy Research, commenta nel suo blog lo studio dell’Università del Massachusetts: “In altre parole, se lo scopo della spesa è quello di creare occupazione, allora investire nel settore militare è l’ultima cosa che vorremmo fare. Ma purtroppo sono in molti a Washington a credere alla favola che i dollari spesi nel settore militare creino più occupazione che in qualsiasi altro settore, cosa che non ha fondamento secondo le normali analisi economiche”.

   E dunque risulta evidente che la spesa militare non sia l’unica alternativa per la spesa pubblica, ai fini della creazione di occupazione. Anzi, è molto lontana dai risultati di alternative migliori quali la spesa per energia pulita, sanità e educazione, che raggiungono l’obiettivo in modo più brillante. (Pubblicato originalmente su ThinkProgress)

Note: ALI GHARIB scrive per THINKPROGRESS e si occupa di politica estera statunitense per il Medio Oriente, e in particolare per l’Iran. Prima del suo ingresso nel Center for American Progress, ha scritto per l’Inter Press Service e per il sito del Columbia Journalism Review, di ForeignPolicy.com, e di AlterNet. Ali possiede una laurea in filosofia del Boston College, un master in filosofia e politiche pubbliche della London School of Economics, e un master in giornalismo della Columbia University. – Tradotto da DANIELE BURATTI per PEACELINK

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Sbilanciamoci. Info (www.sbilanciamoci.info)

SPESE MILITARI IN ITALIA, IL GOVERNO TECNICO DÀ I NUMERI

da “Il Manifesto” del 28/4/2012

   Nel documento sui cento giorni del governo Monti si sostiene che la spesa per la Difesa in Italia, in rapporto al Pil, è la più bassa d’Europa. Da un governo fatto di tecnici e professori ci si aspetterebbe, almeno, che sappiano “far di conto”. Invece in questo caso, come sul costo dei caccia-bombardieri F35 e sulle ricadute occupazionali del programma, stanno “dando i numeri”.

   Con un’operazione contabile che ricorda molto la “finanza creativa”, con la quale si è portato il nostro debito pubblico al 120 per cento del Pil, nel documento si afferma – con “bocconiana” altezzosità – che le spese militari in Italia sarebbero solo lo 0,90 per cento del Pil contro una media Ue del 1,61 per cento. Peccato che sia proprio la Nato (e non Anonymous) a smentire quel numero. La Nato nel suo report, “Financial and Economic Data Relating to Nato Defence” pubblicato il 10 marzo 2011 e accessibile a chiunque, confronta la spesa militare dei paesi che partecipano all’Alleanza atlantica dal 1990 al 2010. Che cosa è evidente dai dati forniti dalla Nato?
1. La spesa militare in Italia in rapporto al Pil (a prezzi correnti) non è la più bassa dell’Unione europea, come scritto nel documento ufficiale della Presidenza del Consiglio, “Governo Monti: attività dei primi cento giorni”. Non solo è maggiore del “magico” 0,9%, ma è superiore al dato di Germania e Spagna (per restare ai paesi territorialmente comparabili al nostro).

2. Anche i dati per l’anno 2010 (i più recenti in ambito Nato) confermano che la spesa militare in Italia in rapporto al Pil (a prezzi correnti), pur escludendo la quota destinata all’Arma dei Carabinieri, non è la più bassa dell’Ue. L’Italia è al 1,4%, come la Germania e più della Spagna (1,1%), mentre la media Nato dei paesi europei è al 1,7% di poco superiore a quella italiana.

3. Infine, se compariamo non i valori statici, ma il trend – cioè la variazione nel tempo – l’Italia è uno dei paesi europei che meno hanno ridotto il peso delle spese militari in rapporto al Pil nell’arco di venti anni: in Francia questo rapporto si è ridotto del 30%, in Germania del 38%, in Grecia del 28%, nel Regno Unito del 32%, in Spagna del 25%, mentre in Italia solo del 20%.
Se permangono dei dubbi sulle fonti, consiglio di verificare non il sito della Rete italiana disarmo, ma quello della Central Intelligence Agency (Cia). Nella sua pubblicazione “The World Factbook”, c’è l’elenco della spesa militare di ciascun paese (non solo Nato) in rapporto al proprio Pil. L’Italia – secondo la Cia – spende l’1,8% del proprio Pil.

   Dello stesso parere è il Sipri (Stockholm International Peace Research Institute) – il prestigioso istituto svedese indipendente – che nel monitorare le spese militari nel mondo, secondo una metodologia corretta, include o esclude le stesse voci di spesa nei dati di ciascun paese. Nel recente rapporto appena pubblicato sull’andamento delle spese militari, il Sipri certifica che l’Italia ha speso nel 2010 l’1,7% del Pil, mentre la media nel periodo 2005-2009 era del 1,8%. È solo lo 0,2% in più dei dati Nato riportati nel grafico 1 (1,6%), ma un valore doppio rispetto a quello dichiarato dal governo italiano.
Com’è possibile un divario così ampio? La ragione è semplice. Lo 0,9% è il risultato di una manipolazione contabile che sottrae dal calcolo delle spese militari le voci del bilancio del ministero della Difesa destinate alle pensioni provvisorie, alle funzioni esterne (es. l’impiego dei militari in interventi di protezione civile) e all’Arma dei Carabinieri (in totale più di un terzo del budget).
Testo integrale su www.sbilanciamoci.info

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vedi, per approfondimenti:

http://www.disarmo.org/nof35/docs/4013.pdf

3 risposte a "i 10 MILIARDI di euro per l’acquisto di 90 aerei militari F35: UNA SPESA DA NON FARE – costruiamo un unico ESERCITO EUROPEO, di difesa e capace di difendere popoli oppressi; ma anche che possa fare opera di MEDIAZIONE DI PACE e di diplomazia per la PREVENZIONE DEI CONFLITTI"

  1. lucapiccin venerdì 4 Maggio 2012 / 12:11

    Vergogna.

  2. FABIO domenica 11 novembre 2012 / 18:31

    IL LUPO CAMBIA IL PELO MA NN IL VIZIO, CI HANNO DISTRUTTO UN AEREO CIVILE, CI HANNO SPARATO CONTRO UN MISSILE, CI SEQUESTRANO IMBARCAZIONI, CI BLOCCONO LE NAVIMERCI,E INFINE SORVOLANO ICIELI NOSTRI COME SE NN FOSSERO DI NESSUNO, E NOI VOGLIAMO DIMINUIRE GLI ARMAMENTI, MA , QUI VA’ A FINIRE COME AI TEMPI DI MUSSOLINI CHE SEMBRAVA CHE AVEVAMO UN ESERCITO DI 8 MILIONI DI BAIONETTE , INSOMMA TUTTO FUMO E NIENTE ARRTOSTO, FATE COME VI
    PARE TANTO NN CAMBIEREMO MAI, SENZA CONSIDERARE CHE VERRANNO MESSI IN DISOCCUPAZIONE PIU’ DI 30.000 OPERI E NN SO QUANTI RAGAZZI MILITARI. AUGURI

  3. Michele Bortone lunedì 15 luglio 2013 / 15:15

    PRIMAVERA BALCANICA
    Non sono stelle filanti
    non sono stelle cadenti
    ma sono bombe e missili che cadono.
    Amico Baldi
    Non fiorisce più la bianca betulla a Sarajevo
    tu sei cieco, non poi vedere le atrocità di questo mondo,
    ma puoi ascoltare, sentire le persecuzioni, il genocidio di popoli.
    Non sono stelle cadenti
    Ma bombe cadute su Belgrado, Pancevo, Pristina Skopie.
    Non sono stelle filante ma bombe
    Per distruggere un’altra torre di Babele

    Michele Bortone

    Basta guerre, basta bombe, missili: echeggiano le grida dei bimbi e donne che fuggano dagli orrori Balcani. E come se non bastasse, ancora emergenza Nord Africa e alla presunta invasione di popolazioni che, salpate dalla Libia, dalla Tunisia o dall’Egitto incendiati dalle primavere arabe. Nel 2011 34 mila richiesta d’asilo e cercavano fortuna sulle coste italiane, il 240% in più rispetto all’anno precedente. Oggi il Medio Oriente e il Nord Africa, non spengono le fiamme della loro crisi, ciò lo dimostra l’approdo di 4599 profughi tra l’8 e nove luglio.

    È un esodi di massa, dall’Africa sub-sahariano alla Siria, dalla Somalia all’Egitto. L’anno 2013 può essere l’ennesima estate di chi, fugge dalla guerra, carestia e povertà, costretta ad attraversare l’insidia del Mediterraneo in cerca di un luogo sicuro.
    In tutto questi anni l’esperienza non ci ha insegnato niente, mentre gli italiani fanno fatica ad arrivare a fine mese, i nostri governanti si permettono di fare un investimento di una cifra astronomica.

    L’acquisto dei “F35- Joint Fight Striker”, per la modica cifra di 17 miliardi per un caccia ultramoderno pieno di difetti.
    Altro che centrare il pareggio di bilancio, di questo passo gli italiani dovranno aspettarsi un altro giro di vite, altre tasse e con la sorpresa di chissà cosa bolle nella pentola.
    A conti fatti, questa spesa era già preventivata, per cui all’America non ci resta altro che dire: “SISSIGNORE”. Concludendo, chi ha investito in questo progetto oltre ad un po’ di amaro in bocca e la delusione del valore di 17 miliardi di euro, un cifra non ancora del tutto definita. Per abbassare le tasse i soldi non ci sono, si tagliano le pensione ma si spendono soldi a gogò dove proprio agli italiani fare la guerra non glie ne importa un fico secco.
    Michele Bortone

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