UCRAINA IN FIAMME, luogo (ponte) naturale geografico per la CASA COMUNE EUROPEA – La rivolta dei giovani ucraini (una PRIMAVERA EST-EUROPEA?) contro una nebulosa “democrazia” filo-russa, e il riconoscersi nei miti di LIBERTA’ dei Paesi della UE; e che fanno rivivere l’antico (e ora in crisi) desiderio di “SENTIRSI EUROPEI”

PIAZZA MAJDAN, dell’Indipendenza, la piazza più grande del centro di KIEV in UCRAINA. E’ stata il cuore della Rivoluzione Arancione che nel 2004 portò al potere i filo-occidentali. Da novembre dello scorso anno è la piazza dei manifestanti “PRO UNIONE EUROPEA”
PIAZZA MAJDAN, dell’Indipendenza, la piazza più grande del centro di KIEV in UCRAINA. E’ stata il cuore della Rivoluzione Arancione che nel 2004 portò al potere i filo-occidentali. Da novembre dello scorso anno è la piazza dei manifestanti “PRO UNIONE EUROPEA”

UCRAINA IN FIAMME – BREVE RIEPILOGO DEI FATTI

– La tensione in UCRAINA è alta dal 24 novembre, quando decine di migliaia di persone hanno cominciato a manifestare contro la decisione del presidente JANUKOVIČ di non firmare l’ACCORDO DI ASSOCIAZIONE CON L’UNIONE EUROPEA al summit di VILNIUS del 28 e 29 novembre. La firma del patto avrebbe significato un allontanamento dall’influenza economica russa e un avvicinamento a Europa e Stati Uniti.

– In queste settimane e IN QUESTI GIORNI in particolare I MANIFESTANTI PROTESTANO CONTRO LA NUOVA LEGGE SULL’ORDINE PUBBLICO approvata il 16 gennaio dal parlamento ucraino. La riforma prevede il divieto di accamparsi nei luoghi pubblici senza autorizzazione, la responsabilità penale per chi diffama i funzionari governativi, per chi indossa maschere antigas o caschi e per chi distribuisce materiale di propaganda. La nuova legge obbliga tutte le ong che ricevono finanziamenti esteri a registrarsi come agenti stranieri. Inoltre limita la libertà d’informazione, reintroducendo il reato di diffamazione per giornalisti e obbligando tutti i siti che si occupano d’informazione a registrarsi.

– Il 19 gennaio il presidente ucraino VIKTOR JANUKOVIČ HA ACCETTATO DI APRIRE UN NEGOZIATO CON L’OPPOSIZIONE: ha annunciato la creazione di una commissione bipartisan per trovare un accordo con l’opposizione e risolvere la crisi politica.

– Ma gli scontri continuano più che mai: MERCOLEDÌ (22/1/2014) A KIEV le manifestazioni in piazza si sono concluse con LA MORTE DI QUATTRO PERSONE, e da domenica scorsa (19 gennaio) il bilancio dei feriti ha raggiunto quota 500. Se il governo pro-russo manterrà la sua posizione il conflitto potrebbe ulteriormente degenerare.

……………………………UCRAINA MAPPA

   L’Ucraina vive mesi, settimane, giorni, ore, drammatiche. Il 22 gennaio scorso nella capitale KIEV le manifestazioni in piazza si sono concluse con la morte di quattro persone (e in una settimana si sono avuti più di 500 feriti). E sono i primi morti da quando a fine novembre sono iniziate le proteste dopo la decisione del presidente VIKTOR YANUKOVICH di non sottoscrivere l’ACCORDO DI ASSOCIAZIONE con l’Unione europea, e di siglare invece un’intesa economica con Mosca: la sottoscrizione di un’UNIONE DOGANALE controllata dal Cremlino, creando una zona di influenza in cui le ex repubbliche sovietiche dovrebbero integrarsi volenti o nolenti.

   Senza l’Ucraina questo progetto (neo)imperiale sarebbe inevitabilmente condannato al fallimento, ed è per questo che Mosca ha fatto di tutto (tra ricatti economici e promesse di aiuti) per convincere il presidente ucraino a rinunciare alla firma del partenariato con l’Unione Europea lo scorso novembre. E questa cosa, l’andare verso Putin e la Russia da parte del governo di Kiev, ha scatenato la protesta, che da due mesi si fa sempre più violenta.

   MOTIVI POLITICI, STRATEGICO-ECONOMICI.… e sicuramente una questione fondamentale è data dai gasdotti che attra­ver­sano il paese e che sono un‘origine importante del controllo geopolitico, economico che la Russia “deve” esercitare (forse la prima motivazione, quella nella quale la Russia ha sentito la necessità di “controllare” l’Ucraina, riportarla stabilmente nella propria orbita…).

   Pertanto siamo in un contesto dove troviamo lo restaurarsi di una specie di nuova “Unione Sovietica” sotto il predominio russo di Putin, e dall’altra la debole presenza (meglio dire assenza) della “libertaria, incosciente” Unione Europea, nella quale invece aspirerebbero vivere i giovani ucraini stanchi di despotismi mascherati da pseudo-democrazia (come Putin ben rappresenta questo progetto imperiale e questa forma di controllo sulle persone e la società).

UCRAINA, KIEV - UN MANIFESTANTE PRO UNIONE EUROPEA
UCRAINA, KIEV – UN MANIFESTANTE PRO UNIONE EUROPEA

   Ricordate la rivoluzione pacifica di GORBACIOV? …quando nel luglio 1989 il presidente sovietico disse a Strasburgo che la Russia ormai sentiva di condividere la «CASA COMUNE EUROPEA» con i suoi “rivali” occidentali… Quella splendida apertura avvenuta con la caduta del muro di Berlino, si è trasformata in freddo nazionalismo e nel progetto neoimperialista di Putin.

   È ANCORA POSSIBILE TRASFORMARE L’UCRAINA IN UN PONTE TRA LE DUE EUROPE, NELLA REALIZZAZIONE DELLA “CASA COMUNE EUROPEA” DA OCCIDENTE AD ORIENTE DEL NOSTRO CONTINENTE?

l'UCRAINA nell'EUROPA
l’UCRAINA nell’EUROPA

   Uno dei quattro manifestanti morti (colpito da pallottole), il più giovane, Sergueï Nigoyan, un ragazzo di vent’anni, era diventato un volto noto della protesta e all’Ukrainska Pravda aveva spiegato che era in piazza «PER IL SUO AVVENIRE». Cosa fa pensare? …A noi viene in mente la Primavera Araba delle origini… A Kiev una “PRIMAVERA EST-EUROPEA”. I desideri di libertà e modernità sono gli stessi: giovani che non accettano più società che limitano le loro libertà; e l’influenza della Russia di Putin, agganciata a un regime ucraino superato, fanno sperare (a questi manifestanti, a questi giovani) nella “più libera” Europa occidentale, cioè all’Unione Europea… ma i manifestanti pro unione europea ucraini, non devono fare gli stessi errori dei giovani delle primavere arabe; è necessario un progetto politico per entrare nel governo del paese, perlomeno creare un’opposizione in grado di confrontarsi con quella “istituzionale”.

I manifestanti tirano pietre contro la polizia nel centro di Kiev  Genya Savilov Afp da WWW.INTERNAZIONALE.IT
I manifestanti tirano pietre contro la polizia nel centro di Kiev Genya Savilov Afp da WWW.INTERNAZIONALE.IT

   E GIA’ ADESSO LO SCONTRO SI FA DURO, e ai giovani libertari e pro-Europa, la PIAZZA INDIPENDENZA (“MAJDAN”) di Kiev si sta riempiendo delle spranghe dei neo-fascisti, di chi sa ben strumentalizzare le speranze dei sognatori e le loro sconfitte (e l’isolamento e non presenza dell’Europa) e va alla guerra con il regime.

   Su tutto l’inerme e debole Unione Europea sembra aver poche chance di guidare pacificamente questo processo, riuscendo tra l’altro a far sì che l’Ucraina sia un ponte di pace e sviluppo verso una politica di collaborazione (e riconoscimento dei diritti) con la Russia. Non si tratta quindi di “conquistare” l’egemonia su un paese strategico come l’Ucraina, ma di creare le premesse per riconoscere sì diritti e libertà al popolo ucraino, ma anche di inventare collaborazioni virtuose con il gigante russo.

   Pertanto l’Ucraina in fiamme chiede all’Unione Europea di avere più coraggio nelle sue scelte e in un politica unitaria, oltre i singoli stati nazionali. (s.m.)

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LA POLVERIERA UCRAINA

di Bernard Guetta, da INTERNAZIONALE, 23/1/2014

   Sta accadendo tutto nel cuore del vecchio continente, in un paese più grande della Francia e conteso per secoli dalle potenze europee, martoriato da guerre senza fine e testimone degli  orrori del nazismo e dello stalinismo, devastato dalla carestia causata intenzionalmente dai sovietici e poi dai reparti speciali delle SS a caccia di ebrei.

   L’Ucraina, cuscinetto tra l’Unione europea e la Federazione russa e stritolato tra le due potenze continentali, si ritrova oggi sull’orlo dell’abisso. Gli scontri di mercoledì a Kiev (22/1/2014, ndr) si sono conclusi con la morte di quattro persone, e da domenica scorsa (19/1) il bilancio dei feriti ha raggiunto quota 500. I cecchini sparano sulla folla, mentre i manifestanti pro-europei sono bersagliati dai cannoni ad acqua nel gelido inverno ucraino e le loro barricate vengono distrutte dai mezzi corazzati. SCENE DA GUERRA CIVILE, insomma.

A Kiev, il 22 gennaio 2014 _ Vasily Fedosenko, Reuters_Contrasto_ DA WWW.INTERNAZIONALE.IT
A Kiev, il 22 gennaio 2014 _ Vasily Fedosenko, Reuters_Contrasto_ DA WWW.INTERNAZIONALE.IT

   La situazione è inquietante, anche perché le violenze non hanno fatto altro che GALVANIZZARE I SOSTENITORI DI UN RIAVVICINAMENTO CON L’UNIONE, che rifiutano di vivere in un paese riassorbito nell’orbita russa e sottomesso a quel genere di “democrazia” tanto caro a Vladimir Putin. Dando prova di enorme coraggio, mercoledì sera decine di migliaia di persone hanno ricostruito le barricate e promesso nuove manifestazioni per giovedì. Se il governo pro-russo manterrà la sua posizione il conflitto potrebbe ulteriormente degenerare.

   In questo momento bisogna assolutamente mettere fine al bagno di sangue prima che arrivi a minacciare la stabilità di tutto il continente. Ma come siamo arrivati a questo punto?

   I COLPEVOLI SONO SOSTANZIALMENTE DUE. IL PRIMO È SENZA DUBBIO IL PRESIDENTE RUSSO, che vorrebbe riportare in vita l’Unione sovietica sotto forma di UNIONE DOGANALE CONTROLLATA DAL CREMLINO, creando una zona d’influenza in cui le ex repubbliche sovietiche dovrebbero integrarsi volenti o nolenti.

   Senza l’Ucraina questo progetto imperiale sarebbe inevitabilmente condannato al fallimento, ed è per questo che MOSCA HA FATTO DI TUTTO (tra ricatti economici e promesse di aiuti) PER CONVINCERE IL PRESIDENTE UCRAINO A RINUNCIARE ALLA FIRMA DEL PARTENARIATO CON L’UE prevista per lo scorso novembre. Il voltafaccia di Kiev ha scatenato la protesta che da due mesi si fa sempre più violenta. Su una cosa però Putin ha ragione: così come gli Stati Uniti non possono accettare che il Messico faccia parte di un’alleanza dominata dalla Russia, allo stesso modo Mosca non può permettere che la vicina Ucraina entri un giorno nell’Alleanza atlantica.

   IL SECONDO COLPEVOLE del dramma ucraino È L’UNIONE EUROPEA. Pur senza avere alcuna ambizione imperiale, l’Ue HA DATO PROVA DI SCONFORTANTE LEGGEREZZA POLITICA, accettando il partenariato chiesto dall’Ucraina senza offrire vantaggi economici paragonabili a quelli paventati dalla Russia e soprattutto senza pretendere da Kiev una dichiarazione di neutralità per fugare i timori di Mosca.

   Non tutto è perduto, ed È ANCORA POSSIBILE TRASFORMARE L’UCRAINA IN UN PONTE TRA LE DUE EUROPE.  Ma è necessario che le tre entità coinvolte – Ucraina, Unione e Russia – trovino un accordo per evitare che la polveriera salti per aria. (Bernard Guetta – traduzione di Andrea Sparacino)

(Bernard Guetta è un giornalista francese esperto di politica internazionale. Ha una rubrica quotidiana su Radio France Inter e collabora con Libération)

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KIEV, I RIBELLI “ARMANO” LA PIAZZA

di Nicola Lombardozzi, da “la Repubblica” del 24/1/2014
– Tregua con il presidente. Ma ormai l’estrema destra guida la rivolta –
KIEV— Dimenticate le folle colorate e paciose che sognavano l’Europa, cantando sotto la neve. Dopo l’ultimo mercoledì di guerra, i quattro morti, le centinaia di feriti, i quasi mille arresti, la MAJDAN è diventata cattiva e si prepara al peggio mentre la rivolta si estende in altre città, a Leopoli, Cerkassy, Zhitomir.

   La piazza più grande di Kiev, occupata da due mesi da una folla di sostenitori della adesione alla Ue, ha mutato volto in una notte. Spariti i ragazzi con gadget e bandierine; prudentemente rintanate in casa davanti alla tv, le famigliole con bambini che venivano a curiosare; nessuna traccia dei pensionati, degli impiegati, della tanto entusiasta “gente comune”.

   ADESSO SI FA SUL SERIO. I colori dominanti sono diventati il nero delle giacche imbottite e il verde militare di centinaia di elmetti da soldato spuntati chissà da dove. A presidiare la piazza della rivolta sono uomini dall’aspetto truce, e dall’aria ben addestrata. Agitano bastoni di legno, manganelli rubati ai poliziotti durante gli scontri, gigantesche chiavi inglesi, piedi di porco. Indossano passamontagna, portano alle braccia e alle ginocchia ingegnosi paracolpi fatti in casa con cartone e nastro adesivo.

   Sul palco non si esibiscono più vecchi cantanti folk o pop star come Ruslana che invitava alla «pace e all’autocontrollo». Si recitano piuttosto antiche preghiere che consolavano gli eserciti prima delle battaglie, o si intonano cupe canzoni patriottiche. Perfino la disordinata, pittoresca, tendopoli è diventata un campo militare. Le trincee fatte con il ghiaccio e la neve sono state perfezionate con il filo spinato. E una fila interminabile di mattoncini divelti è pronta per essere lanciata contro un eventuale attacco della polizia.
LO SCONTRO APPARE INEVITABILE A TUTTI. Perfino ai tre leader della rivolta che ieri sera hanno chiesto una tregua per trattare con il presidente Yanukovich. CHIEDERE ADESSO UN’ADESIONE ALLA UE È OVVIAMENTE FUORI DISCUSSIONE. SI CERCA DI OTTENERE QUALCHE PICCOLA VITTORIA PER GIUSTIFICARE UNA RITIRATA DIGNITOSA: un rimpasto del governo, l’annullamento delle durissime leggi anti-dissenso appena votate e copiate pari pari dalle leggi imposte in Russia da Putin due anni fa; una massiccia scarcerazione dei tanti manifestanti imprigionati. Il presidente prende tempo, annuncia il dibattito in Parlamento per martedì e il possibile cambio della guardia nell’ufficio del premier. Accenna anche a un possibile ritocco delle ultime leggi. E intanto ieri ha ricevuto una telefonata dal vicepresidente Usa, Joe Biden, che lo ha «invitato al dialogo e al compromesso».
Ma AGLI IRRIDUCIBILI CHE ADESSO CONTROLLANO LA MAJDAN NON BASTA. VOGLIONO LA VENDETTA PER I QUATTRO MORTI, PRETENDONO ELEZIONI ANTICIPATE. Soprattutto non sembrano intenzionati a seguire i tre leader che fino ad ora hanno trattato anche in loro nome. Compattati in una nuova organizzazione battezzata “SETTORE DESTRO”, diverse centinaia di militanti di estrema destra, paramilitari, naziskin, hanno ormai deciso di continuare la rivolta a oltranza.

   ARTIOM SKOROPADSKIJ, che tra insegne e bandiere vagamente neonaziste distribuisce caschi da operaio e tubi di ferro, non ha dubbi: «Ballare e cantare per due mesi non è servito. Adesso è il momento di combattere».

   E la linea dura della nuova Majdan è servita intanto a tirare il peggio dalle forze di polizia che certo hanno usato la mano pesante come non mai. Pestato giornalisti, denudato e lasciato nella neve un ragazzo che li aveva aggrediti, sparato bombe “assordanti”, infierito con i manganelli. Hanno pure sparato ad altezza d’uomo sui manifestanti? Non è facile da capire e anche sulla Majdan ci sono molti dubbi.

   Di certo comunque, due ragazzi sono morti colpiti da armi da fuoco. L’autopsia parla di «colpi sparati dall’alto» e di pallettoni da fucili da caccia «non in dotazione alle forze di polizia». E allude a una provocazione. Ma gli infiltrati e i provocatori potrebbero benissimo essere stati guidati dal regime come è capitato tante altre volte in passato. Un terzo ragazzo è morto precipitando da una torre. Un attivista pro Europa è stato ritrovato morto in un bosco di periferia. Un testimone giura di essere stato sequestrato insieme a lui e di essere stato picchiato.

   Storie confuse ma orrende che evocano esecuzioni degne delle peggiori dittature sudamericane. E che rendono la situazione sempre più esplosiva. Mentre i tre leader, sempre meno credibili, invocano «pazienza e serenità» e gli altri rinforzano le difese. (Nicola Lombardozzi)

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MORIRE PER L’EUROPA: A KIEV È BATTAGLIA NELLE STRADE

di Marco Mongiello, da “l’Unità” del 23/1/2014

– Il pugno di Yanukovich: 5 morti, 300 feriti – L’opposizione: «O il presidente concede elezioni o passeremo all’attacco» – Prime sanzioni Usa, shock Ue –
BRUXELLES – Per ironia della sorte il giorno più tragico delle proteste in Ucraina è stato il giorno dell’unità nazionale, quello che commemora l’accordo del 1919 che unì l’est e l’ovest del Paese e che l’anno scorso è stato celebrato a Kiev con una festosa catena umana sul ponte sul fiume Dnepr.

   Quest’anno nessuno ha pensato di festeggiare. Ieri il centro della capitale ucraina, su cui ha continuato a cadere la neve, era un campo di battaglia: carcasse di autobus bruciati, barricate, scarpe, caschi, bastoni e sangue.

Un prete ortodosso cerca di fermare gli scontri a Kiev. _Sergei Supinsky_ Afp_DA WWW.INTERNAZIONALE.IT
Un prete ortodosso cerca di fermare gli scontri a Kiev. _Sergei Supinsky_ Afp_DA WWW.INTERNAZIONALE.IT

   Quello che resta dopo gli scontri tra polizia e manifestanti che da domenica hanno imboccato una spirale di violenza crescente e che sono continuati anche ieri, quando la città si è svegliata con la notizia di tre manifestanti morti negli scontri della notte. Notizia che le autorità provano a smentire, forse uno dei tre è ancora in vita. Ma nel pomeriggio fonti mediche segnalano che le vittime sono 5 e i feriti 300.
UNO SHOCK. Sono i primi morti da quando a fine novembre sono iniziate le proteste dopo la decisione del presidente Viktor Yanukovich di non sottoscrivere l’accordo di associazione con l’Unione europea e di siglare invece un’intesa economica con Mosca. Dopo due mesi di moniti internazionali, incentivi e discorsi diplomatici i timori sono diventati realtà e la situazione è precipitata.
Uno dei tre manifestanti morti è caduto da 13 metri d’altezza nello stadio della Dinamo. Gli altri due sono stati colpiti da pallottole. Lo hanno confermato i medici locali. Il più giovane Sergueï Nigoyan, un ragazzo di vent’anni, era diventato un volto noto della protesta e all’Ukrainska Pravda aveva spiegato che era in piazza «per il suo avvenire».

   I vertici delle forze dell’ordine hanno negato di aver utilizzato armi da fuoco, ma alcuni dimostranti sostengono che a sparare sarebbero stati i cecchini delle forze speciali Berkut, la polizia anti-sommossa. Martedì sera il premier ucraino Mikola Azarov aveva ammonito i manifestanti a non continuare con le «provocazioni» altrimenti avrebbe «utilizzato la forza». Yanukovich mette in guardia contro derive violente, ieri è stato comunicato che 167 poliziotti sono rimasti feriti.
24 ORE PER DECIDERE
LE VIOLENZE A KIEV GELANO LA COMUNITÀ INTERNAZIONALE. A Bruxelles in mattinata il presidente della Commissione Ue José Manuel Barroso ha iniziato la conferenza stampa sulla riduzione delle emissioni di gas serra parlando della situazione a Kiev: «Siamo scioccati dalle ultime notizie dall’Ucraina ha detto deploriamo nei termini più forti possibili l’uso della forza e della violenza e chiediamo a tutte le parti di astenersene immediatamente e di prendere provvedimenti che aiutino a calmare la situazione».

   Barroso non esclude il varo di sanzioni contro il regime di Yanukovich, anche se non entra in dettagli. Alle domande dei giornalisti si limita a rispondere che «se c’è una sistematica violazione dei diritti umani, come sparare su manifestanti pacifici o gravi attacchi alle libertà fondamentali allora dobbiamo ripensare le nostre relazioni con l’Ucraina e forse ci saranno delle conseguenze».

   L’Alto rappresentante Ue per gli affari esteri, Catherine Ashton, si è detta «molto preoccupata per gli attacchi ai giornalisti e per le notizie di persone scomparse». Gli Stati Uniti intanto sono già passati ai fatti e ieri l’ambasciata americana a Kiev ha annunciato che «in risposta alle azioni contro i manifestanti a piazza Maidan a novembre e dicembre dello scorso anno l’ambasciata Usa ha revocato i visti di diversi ucraini legati alle violenze». La lista è confidenziale ma si dice che questa includa il ministro dell’interno Vitaliy Zakharchenko e altri 19 alti funzionari.

   Secondo fonti diplomatiche europee gli Stati Uniti starebbero facendo pressioni sulla Ue affinché prenda una linea più dura, ma a Bruxelles alcuni sperano ancora di poter convincere Yanukovich a firmare l’accordo di associazione con la promessa di aiuti economici. Domani il commissario Ue per l’Allargamento Stefan Fule si recherà nuovamente a Kiev.
Di fronte all’escalation della violenza il presidente Yanukovich ha detto pubblicamente di essere «contro il bagno di sangue, contro l’uso della forza e contro l’incitamento alla violenza». Ieri per la prima volta dall’inizio delle proteste il presidente ucraino ha accettato di incontrare i tre leader delle opposizioni, ma al momento questi primi contatti non sembrano aver portato a nessuna conclusione. Se non ci saranno concessioni, ha detto uno dei tre leader dell’opposizione, l’ex campione di boxe Vitali Klitschko, dopo l’infruttuoso incontro con il presidente, «domani andremo all’attacco». L’opposizione chiede elezioni anticipate. (Marco Mongiello)

Il leader dell’opposizione ucraina Vitalij Klyčko parla con i manifestanti a Kiev DA WWW.INTERNAZIONALE.IT  - Vasily Fedosenko_ Reuters_Contrasto
Il leader dell’opposizione ucraina Vitalij Klyčko parla con i manifestanti a Kiev DA WWW.INTERNAZIONALE.IT – Vasily Fedosenko_ Reuters_Contrasto

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UCRAINA: L’ESILE VOCE DELLA UE

Anna Maria Merlo, IL MANIFESTO, 11/12/2013

(…..). Il primo mini­stro, Mykola Aza­rov, dopo la rinun­cia alla firma dell’Accordo di libero scam­bio e asso­cia­zione poli­tica con la Ue al ver­tice di Vil­nius a fine novem­bre — la causa sca­te­nante dell’ondata di mani­fe­sta­zioni in corso nel paese — ha chie­sto 20 miliardi di euro di aiuti euro­pei, come con­di­zione per un ripen­sa­mento.

Il pre­si­dente ucraino, Vik­tor Ianu­ko­vitch, in effetti naviga a vista, cer­cando di man­te­nere il potere (e i suoi grandi van­taggi). Dopo aver ceduto alla Rus­sia rifiu­tando la firma dell’Accordo di asso­cia­zione con la Ue, adesso cerca di ria­prire i canali con Bru­xel­les.

Aza­rov chiede ora che la Ue par­te­cipi a inve­sti­menti in pro­getti comuni “mutual­mente van­tag­giosi”, a comin­ciare dall’ampliamento e dalla moder­niz­za­zione delle reti di tra­sporti. Aza­rov fa così allu­sione ai GASDOTTI CHE ATTRA­VER­SANO IL PAESE E CHE SONO ALL’ORIGINE DI TUTTE LE TEN­SIONI CHE SOT­TO­STANNO ALLA CRISI ATTUALE.

La Rus­sia ricatta l’Ucraina sulla for­ni­tura di gas, Mosca ha più vote accu­sato Kiev di “rubare” il gas, è arri­vata al punto di tagliarli a volte i rifor­ni­menti, ha gio­cato con i prezzi. Ma Bru­xel­les, pur rico­no­scendo “l’ambizione e l’aspirazione eur­ro­pea dell’Ucraina”, ha respinto la richie­sta di soldi di Kiev, non intende pagare per con­vin­cere l’Ucraina a fir­mare: “gli accordi sono buoni per la pro­spe­rità dell’Ucraina – ha pre­ci­sato uno dei por­ta­voce della Com­mis­sione, Oli­vier Bailly – non gio­chiamo con le cifre. La pro­po­sta ucraina non puo’ essere oggetto di una gara d’appalto dove chi pro­pone il minor prezzo vince”.

ucrainaPer la Com­mis­sione, “l’accordo resta sul tavolo, la Ue è pronta a discu­tere” con Kiev sulla sua “appli­ca­zione”, ma rifiuta di “ria­prire il nego­ziato” sull’associazione, che è stato messo a punto nel 2012 e poi “sospeso” da Bru­xel­les in attesa di una mag­giore demo­cra­zia in Ucraina, che poi ha finito per rifiu­tare di fir­marlo a fine novembre.

LA STO­RIA DEL GAS ILLU­STRA BENE SIA IL RUOLO POTEN­ZIALE DELL’UCRAINA, CHE LE INDE­CI­SIONI E PUSIL­LA­NI­MITÀ DELLA UE, OLTRE­CHÉ IL POTERE DELLA RUS­SIA. Attorno alla que­stione del gas si gioca la rela­zione tra Ue e Rus­sia: che è prima di tutto eco­no­mica, poi­ché Bru­xel­les non ha una poli­tica estera nei con­fronti dell’altro “grande” d’Europa.

CON IL GASDOTTO NORD-STREAM IL GAS RUSSO PUO’ ARRI­VARE IN GER­MA­NIA SENZA PAS­SARE PER L’UCRAINA, via il Mar Bal­tico. CON IL PRO­GETTO SUD-STREAM, CHE DOVREBBE ESSERE OPE­RA­TIVO NEL 2015, IL GAS RUSSO POTRÀ ARRI­VARE IN ITA­LIA EVI­TANDO DI NUOVO L’UCRAINA, pren­dendo la strada del Mar Nero.

Il trat­tato di asso­cia­zione pro­po­sto a Kiev è stato pre­pa­rato pra­ti­ca­mente senza tener conto delle pre­ve­di­bili rea­zioni russe, cioè non per­mette all’Ucraina di difen­dersi dalle pres­sioni di Mosca. L’economia con­tri­bui­sce a spie­gare la situa­zione: l’export dell’Ucraina va al 30% verso la Rus­sia, men­tre l’Unione euro­pea ne assorbe solo il 2% (l’Ucraina rap­pre­senta l’1% dell’import Ue). Nella Ue, il prin­ci­pale part­ner dell’Ucraina è la Ger­ma­nia (il 26% dell’export Ue verso Kiev), seguita dalla Polo­nia (18%). L’Italia è invece il primo impor­ta­tore Ue di pro­dotti ucraini della Ue e ne assorbe il 19% del totale, seguita dalla Bul­ga­ria (13%) e dalla Ger­ma­nia (11%).

ANCHE LA STO­RIA HA UN PESO NELLA COM­PLESSA RELA­ZIONE TRA UCRAINA E GLI EURO­PEI. La Polo­nia ne ha con­trol­lato una regione nella parte occi­den­tale, nel XIV secolo, e con­tro i cat­to­lici si sono levati i cosac­chi orto­dossi dell’est nel ‘600. Cate­rina di Rus­sia recu­pera l’Ucraina a metà del XVIII secolo, men­tre la Gali­zia è con­trol­lata dall’Austria-Ungheria. L’UCRAINA, PER RAGIONI DI GEO-POLITICA, OSCILLA OGGI TRA UE E RUS­SIA. POTREBBE RAP­PRE­SEN­TARE UN PONTE, ma per il momento è ter­reno di scon­tro, in man­canza di un’idea chiara da parte della Ue, che ha una sola cer­tezza: non ci saranno allar­ga­menti in un futuro pros­simo (vale per la Tur­chia, oltre che per l’Ucraina). (Anna Maria Merlo)

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IL SOGNO DI PUTIN E LE SPERANZE DEI GIOVANI UCRAINI

di BILL KELLER, dal New York Times del 24/1/2014 (ripreso da “la Repubblica”)
AL MONDO SERVONO I NELSON MANDELA. INVECE GLI TOCCANO I VLADIMIR PUTIN. Mentre si svolgevano i funerali dell’eroe sudafricano, il presidente russo forzava l’Ucraina ad aderire ad una nuova unione doganale e rafforzava il controllo sui media statali con la creazione di una nuova agenzia di stampa del Cremlino sotto la guida di un falco nazionalista e omofobo.
NON SI TRATTA DI INIZIATIVE ISOLATE. Le mosse di Putin rientrano in uno schema di comportamento che da un paio d’anni a questa parte porta la Russia a prendere le distanze dall’Occidente: leggi che autorizzano ufficialmente gli ATTI DI INTIMIDAZIONE VERSO GLI OMOSESSUALI, la DEMONIZZAZIONE DELLE ORGANIZZAZIONI PRO-DEMOCRATICHE, NUOVE LEGGI CHE ESTENDONO IL REATO DI TRADIMENTO, LIMITI IMPOSTI ALLE ADOZIONI DALL’ESTERO.
Non è solo una prova di forza: PUTIN STA CERCANDO DI CONTRAPPORSI ALL’EUROPA, di tornare indietro di 25 anni. Sulle possibili motivazioni di questo atteggiamento ci sono varie teorie: Putin è il ragazzo difficile che indossa l’uniforme del KGB per rivalsa e non se la toglie più. E’ il campione della realpolitik, cinico e calcolatore. E’ l’Uomo Sovietico, che continua a combattere la guerra fredda.
Da quando ha assunto la presidenza, nel 2012, Putin ha avuto sempre più l’impressione che le sue aperture nei confronti dell’Occidente non fossero accolte con il dovuto rispetto. La sua umiliazione e il suo risentimento si sono trasformati in un’antipatia ideologica che non è prettamente sovietica, ma profondamente russa. Non si lagna più dell’influenza politica e della supremazia economica dell’Occidente: la sua ostilità ha carattere profondamente spirituale.

   Negli ultimi due anni Putin è diventato più conservatore a livello ideologico, più propenso a considerare l’Europa decadente e estranea al mondo slavo orientale, cristiano ortodosso, cui appartengono sia la Russia che l’Ucraina. «E’ tolleranza senza limiti», dice Dmitri Trenin, del Carnegie Endowment for International Peace. «E’ laicismo. Putin giudica l’Europa post-cristiana, con la sovranità nazionale soppiantata dalle istituzioni sovranazionali».
Per valutare la portata dell’azione di Putin è utile fare un passo indietro. Nel luglio 1989, il presidente sovietico Mikhail Gorbaciov disse a Strasburgo che la Russia ormai sentiva di condividere la «casa comune europea» con i suoi rivali occidentali. Il rapporto tra loro doveva fondarsi sul rispetto e sul commercio, non più sul confronto e la deterrenza. «Il lungo inverno del conflitto mondiale sembra giungere al termine», scrisse all’epoca Jim Hoagland, inviato del Washington Post. Era opinione comune.
QUANDO L’UNIONE SOVIETICA SI SFASCIÒ, QUALCHE ANNO DOPO, L’UCRAINA ERA LA PIÙ GRANDE DELLE 14 REPUBBLICHE LIBERATE DAL DOMINIO RUSSO e molti ucraini vollero seguire la Russia sul cammino di Gorbaciov. «Lo slogan era “In Europa con la Russia”», spiega Roman Szporluk, ex direttore dell’Ukrainian Research Institute di Harvard. «Quest’idea ormai è superata».
A quasi 25 anni di distanza dalla «casa comune» di Gorbaciov, sembra che Putin voglia rovinare la famiglia europea: è vero che con gli ultimi anni di recessione e austerità l’Europa ha perso un po’ del suo fascino. Ma resta sempre allettante rispetto alla logora economia dell’Ucraina.

   I dimostranti di Piazza Indipendenza a Kiev rappresentano una generazione che ha studiato, lavorato e viaggiato in Polonia da quando quest’ultima è entrata in Europa, e che non vuole ritirarsi in una qualche reincarnazione dell’impero russo. Alle spalle hanno una fetta significativa dell’imprenditoria.
Può darsi che Putin riesca a catturare l’Ucraina, ma potrebbe finire per rammaricarsene: potrebbe soffermarsi sull’esperienza di Josef Stalin, che annesse l’Ucraina occidentale sottraendola alla Polonia. Stalin pensò di aver avuto una buona idea, ma finì per raddoppiare i suoi problemi: portò gli ucraini politicamente inquieti nella tenda sovietica lasciando la Polonia più forte e più omogenea, libera dai fermenti delle minoranza ucraina.
Analogamente se Putin fa entrare di prepotenza l’Ucraina nella sua alleanza, dovrà pacificare l’opinione pubblica del nuovo paese membro profondendo doni che non può permettersi di fare. Anche in questo caso gli animi dei giovani ucraini eurofili si inaspriranno, alimentando lo scontento già ampio tra la giovane generazione russa. Putin potrebbe imparare che un’Ucraina prigioniera è più un problema che un vantaggio.
(dal “New York Times” News Service, ripreso da “la Repubbica” — Traduzione di Emilia Benghi)

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STORIA DEL NAZIONALISMO IN UCRAINA

di ANDREA FRANCO, 17/1/2014, da “LIMES, rivista italiana di geopolitica”

   Se oggi Kiev appare divisa tra un fronte russofilo e uno filo-occidentale, è anche a causa di ciò che successe 8 secoli fa.

   In Ucraina, polemiche politiche e manifestazioni di piazza stanno polarizzando da settimane l’opinione pubblica in due fazioni contrapposte: una “filo-occidentale”, l’altra “filo-russa”. Le origini di tale faglia politica e culturale sono ricostruibili attraverso la storia degli avvenimenti che, dopo una genesi comune, vennero a distinguere l’elemento nazionale ucraino da quello russo.

UCRAINA
UCRAINA

Fu la Rus’ di Kiev che nell’antichità riunì le tribù slavo-orientali(1) irradiatesi dalle paludi del Pripjat, incentrandosi per l’appunto su quella che sarebbe divenuta la capitale dell’odierna Ucraina. Il passaggio dalla “preistoria” alla luce della civiltà, per tradizione, viene fatto coincidere con il 988, anno in cui San Vladimir, dopo aver vagliato le principali tradizioni religiose del mondo coevo, decise di optare per la cristianità constantinopolitana, reputata la più adatta allo “spirito delle genti della Rus´”: in seguito al suo stesso battesimo, a quello dei suoi sudditi e della terra, avrebbe creato un vincolo sacrale fra i 3 soggetti costituenti lo Stato (autocrazia, popolo, e territorio).

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Lo Scisma d’Oriente (per gli ortodossi, d’Occidente) non fece altro che suggellare la già chiara appartenenza della Rus´ alla sfera spirituale e culturale bizantina. Rispetto all’origine comune, i primi elementi di discontinuità all’interno della Rus´ sopraggiunsero nel corso del XIII secolo, quando la parte orientale dello Stato (la futura Russia) fu soggiogata dai tataro-mongoli, mentre quella occidentale (in seguito, Ucraina) subì l’invasione polacco-lituana. È con questo duplice avvenimento che si possono ravvisare le fondamenta di uno dei pregiudizi che, a partire dalla metà dell’Ottocento, avrebbe caratterizzato il sentimento anti-russo dei nazionalisti ucraini, per i quali i moscoviti sarebbero stati corrotti dai costumi “asiatici” dei loro dominatori, assunti per effetto del plurisecolare contatto con i tatari.

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Sarebbe stata l’eroica resistenza offerta da Aleksandr Nevskij(2) contro gli svedesi, prima, e dai Cavalieri portaspada di Alberto da Riga, poi, a garantire la continuità dello Stato erede della Rus´. Il fulcro del potere si sarebbe trasferito più a Nord rispetto a Kiev, culla d’origine della Slavia-orientale. A partire dal 1378-80, le vittorie ottenute da Dmitrij Donskoj contro i tatari fecero di Mosca, sino a quel momento centro di minore importanza, il nuovo epicentro slavo-orientale, mentre i territori occidentali dell’antica Rus´ rimanevano parte del regno di Polonia-Lituania: i tragitti storici delle due aree slavo-orientali finirono così per divergere chiaramente.

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Un ulteriore importante motivo di cesura si ebbe nel 1596, questa volta in ambito confessionale. I vertici del regno di Polonia, sino a quel momento realtà fra le più tolleranti dell’Europa del XVI secolo, decisero infatti di varare una politica tesa alla cattolicizzazione delle comunità slave-orientali site all’interno dei propri confini (le progenitrici degli odierni ucraini occidentali), con l’ausilio della Compagnia di Gesù. Per effetto di tale politica, tali genti, già cristiano-ortodosse, furono costrette (stando alla vulgata ortodossa) a riconoscere il “primato di Pietro” in cambio del mantenimento del rito slavo-bizantino(3) e del diritto a contrarre matrimonio in favore del clero secolare. Nacque così la maggiore delle Chiese uniate d’Europa, diffusasi con tale forza in Ucraina occidentale da attrarre in seguito gli strali dello zar Nicola I (nel 1839) e successivamente di Stalin (1945). L’ortodossia moscovita, elevata nel 1589 al rango di patriarcato (4), per tutta risposta creò a Kiev l’Accademia Mogiliana. Sorta come baluardo culturale a protezione dell’ortodossia, avrebbe permesso la penetrazione dell’umanesimo latino in territorio kieviano e, di qui, anche verso Mosca, secondo una declinazione mediata dagli influssi culturali polacchi. La Chiesa uniate rimane la più grande pietra di scandalo gravante sui rapporti fra Santa Sede e patriarcato di Mosca: era considerata dalla prima un’espressione di una cattolicità mai pienamente realizzata, dalla seconda uno sgradito tentativo ordito da Roma di fare proseliti in un territorio già cristianizzato da oltre un millennio. Sarebbe stata proprio l’esistenza di tale Chiesa il principale ostacolo alla missione pastorale di papa Woitiła in Russia.

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Alla frattura religiosa se ne sarebbe sovrapposta un’altra, di natura politico-territoriale. Nel 1654, nel contesto delle guerre fra il Gran principato di Mosca e la Polonia, rispetto a cui il Cosaccato ucraino(5) costituiva un territorio parzialmente autonomo, Bohdan Chmielnicki sottoscrisse con Aleksej Michajlovič, secondo sovrano della dinastia Romanov, il trattato di Perejaslav, che sancì il passaggio della parte orientale(6) del Cosaccato sotto il controllo moscovita. Ancora oggi la storiografia russa, discendente in linea diretta da quella sovietica, e quella ucraina(7), di tendenze nazionaliste, si accapigliano sul significato di tale accordo: se per i primi era il compimento di un percorso ineluttabile, per i secondi non era altro che un patto fra pari sancito temporaneamente in mera funzione anti-polacca.

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In seguito alla terza spartizione della Polonia (1795), l’Impero zarista acquisì anche la parte orientale delle terre polacche, ovvero la pravoberežnaja Ukraina (quella sita sulla sponda destra del fiume Dnepr), entrando così in diretto contatto con le regioni dell’Europa centrale, mentre la Galizia orientale entrava a far parte dell’Impero austro-ungarico, seguendone le sorti sino al 1918. Da quel momento, sino alla rinascita di una Polonia indipendente, gli sciovinisti polacchi avrebbero rivendicato con forza i cosiddetti kresy wschodnie (le marche orientali dell’area da essi identificata come di propria appartenenza storico-culturale), mere zapadnye krajia per l’Impero russo, regioni occidentali già appartenute alla Rus´(8), dando così vita a un contrasto ideologicamente insanabile. Per quanto riguarda i territori “piccolo-russi” (termine ottocentesco per definire i gubernija sud-occidentali, popolati in maggioranza da ucraini), non vi sarebbero stati altri sconvolgimenti sino agli anni della Rivoluzione d’ottobre e della guerra civile, che avrebbero trasformato l’Ucraina in autentico campo di battaglia.

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La breve parentesi indipendentista ucraina(9) al termine della prima guerra mondiale, permessa dalla sconfitta russa e dalla pace di Brest-Litovsk con gli Imperi centrali (1918), sarebbe stata brutalmente interrotta dall’intervento dell’Armata Rossa che, nel 1922, avrebbe ricondotto l’Ucraina all’Unione Sovietica in qualità di repubblica federata, mentre la Galizia orientale, assurta a culla del nazionalismo ucraino, diveniva parte del rinato Stato polacco.

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Nei primi anni della seconda guerra mondiale, sulla base del patto Molotov-Ribbentrop, i territori ucraino-occidentali e moldavi furono annessi all’Unione Sovietica sino al giugno del 1941, quando la Wehrmacht tedesca scatenò l’operazione Barbarossa. Fu solo nel 1944 che questi territori furono nuovamente “liberati” (secondo l’ottica ufficiale sovietica), nonostante l’accanita resistenza offerta dai nazionalisti dell’Esercito insurrezionale ucraino (Upa) di Stepan Bandera che condussero la guerriglia sino al principio degli anni Cinquanta(10). Con la vittoria contro il nazi-fascismo, Stalin incamerò i beni della Chiesa uniate per devolverli al patriarcato di Mosca: si tratta degli stessi beni di cui i sostenitori della Chiesa dell’Ucraina occidentale si sarebbero reimpossessati nel 1991, dopo la caduta dell’Urss.

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L’ultima modifica agli assetti territoriali risale al 1954, quando Nikita Chruščëv, primo segretario del Partito, cedette la Crimea alla Repubblica federativa sovietica di Ucraina, a memento dei 300 anni della (pretesa) dedizione di Chmielnicki alla Moscovia. Crollata l’Unione Sovietica, tale cessione avrebbe dato adito a una nuova contesa, dal momento che Sebastopoli era l’ancoraggio più importante per la flotta russa (già sovietica) del Mar Nero. Non meno importante, la diffusione della lingua ucraina in Crimea appariva marginale, quantomeno nei confronti di quelle preponderanti: russa e turco-tatara.

In virtù di questa storia è possibile individuare, in Ucraina, una forte polarizzazione che corre sulla base dei meridiani: nell’Est russofono (quando non autenticamente russo), la maggioranza della popolazione guarda ancora a Mosca, depositaria di formidabili legami storici, religiosi e spirituali, corroborati dai numerosi legami familiari con i russi d’oltreconfine(11). Viceversa, le regioni occidentali del paese appaiono tendenzialmente nazionaliste, ucrainofone e uniate. Il baricentro delle due aree corre lungo le anse del fiume Dnepr, che segna la zona di trapasso degli orientamenti politici e – tendenzialmente – anche fra il prevalere dell’uno o dell’altro idioma(12). Se è vero che le terre a Est del Dnepr, più la città di Kiev, sono (ri-)entrate a far parte dell’orbita russa nel 1654, è anche vero che l’ingresso nella sfera russa della pravoberežnaja Ukraina, che ha nella Volinia la sua regione principale, risale al 1795, mentre la Galizia orientale è stata annessa all’Urss solo nel 1945. La Crimea, infine, fu l’ultimo territorio entrato a farne parte, in piena guerra fredda. Questa periodizzazione è utile per determinare i diversi gradienti dell’efficacia della penetrazione della cultura e della lingua russa nello Stato ucraino: a ciò corrispondono gli orientamenti politici tendenzialmente filorussi dei cittadini delle regioni orientali(13) oppure quelli filoeuropei degli abitanti delle aree occidentali, storicamente posti in più stretto contatto (benché da posizioni spesso di subalternità) con la Polonia, l’Austria e l’Ungheria.

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La partita che si è giocata a Vilnius il 28 e il 29 di novembre fra la Russia e l’Unione Europea, de facto, ha avuto come posta in palio il controllo di alcune delle repubbliche ex sovietiche e la loro inclusione nell’area d’influenza europea, piuttosto che in quella dell’Unione eurasiatica guidata dalla Federazione Russa. L’Unione Europea, già tanto gravata da pesanti problemi interni, poteva ragionevolmente sperare di estendere la propria influenza all’Ucraina, la seconda delle repubbliche ex sovietiche per potenzialità economiche e popolazione? Com’era noto a Catherine Ashton e, più in generale, ai vertici dell’Unione, sarebbe stato molto difficile riuscire a convincere Yanukovich ad accettare gli aiuti economici promessi da Bruxelles in cambio della richiesta di un rinnovamento del sistema politico per mezzo di riforme volte ad accentuare la trasparenza delle istituzioni ucraine. D’altra parte, Mosca ha potuto mettere sul tavolo la sua grande influenza geopolitica, oltre che il peso delle proprie elargizioni, specialmente in ambito energetico. Inoltre, Putin non chiedeva a Kiev di mettere mano al proprio sistema politico. Perché tanta magnanimità? Dal punto di vista del Cremlino, l’Ucraina non solo è parte del suo “estero vicino” nonché culla della nazione russa(14), ma rappresenta un considerevole mercato, peraltro estremamente recettivo nei confronti delle proprie indicazioni(15).

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La situazione attuale è dunque assai complessa, anche perché l’Ucraina, in quasi tutte le analisi politiche, viene percepita come area di frizione fra la sfera d’influenza europea e quella russa. E se fosse invece considerata quale ponte funzionale all’avvicinamento fra la Federazione Russa e l’Unione Europea(16)? Magari la Russia tornerebbe a esser considerata parte dell’Europa(17), a dispetto della tradizione di pensiero eurasista che, gemmata dal pensiero slavofilo, tanto ha pervaso le coscienze dei russi. Se l’Unione Europea considerasse i rapporti con Mosca non più un fatto di ostpolitik ma di autentica politica interna – o quantomeno rientranti nell’ambito di una relazione fra soggetti apparentati, potrebbe svolgere nei confronti dell’Ucraina un’azione più attrattiva e, al contempo, renderebbe più improbabile uno scenario di spaccatura interna. (ANDREA FRANCO, 17/1/2014, da “LIMES, rivista italiana di geopolitica”)

Per approfondire: La difficile partita della lingua russa in Ucraina
Note:
(1) Questo Stato era popolato prevalentemente da slavi-orientali, benché non esclusivamente: molte erano infatti le tribù finniche, in una buona misura assorbite dagli stessi slavi; inoltre, a dar credito alla “teoria normanna”, sviluppata da vari storici ottocenteschi e in particolare da Pogodin, furono i Varjagi (normanni svedesi) a fornire le élite a una società ancora esclusivamente contadina, poco articolata o stratificata da un punto di vista sociale. Gli scandinavi vennero presto assorbiti nello Stato che aveva tributato loro tanta generosa accoglienza, pur lasciarono in eredità, ad esempio, una forte influenza sull’onomastica: Oleg e il suo corrispettivo femminile Ol´ga derivano da Olaf, mentre Igor´ da Ingvar.

(2) Su questo soggetto storico, nel 1938, Ejzenštejn avrebbe per l’appunto dedicato il suo capolavoro, censurato l’anno successivo per effetto dell’avvicinamento alla Germania hitleriana imposto dal patto Molotov-Ribbentrop.

(3) Con l’introduzione, successivamente, di minime varianti, a opera dal sinodo di Zamość nel 1720; cfr.: A. M. Ammann S.J., Storia della Chiesa russa e dei paesi limitrofi, U.T.E.T., Torino, 1948, pp. 359-365.

(4) Tra l’altro, ciò comportò il superamento gerarchico da parte di Mosca nei confronti della Matropolia kieviana, rispetto alla quale in origine Mosca dipendeva.

(5) I cosacchi furono percepiti dagli storiografi e scrittori dell’Ottocento, e in particolare da Kostomarov e Ševčenko, quali progenitori degli ucraini moderni. L’immagine stereotipata del cosacco nella letteratura polacca fu essenzialmente creato da Sienkiewicz, nel suo romanzo Con il fuoco e con la spada (Ogniem i mieczem, 1884). In Sienkiewicz è molto forte il sentimento contrastante di passione e repulsione provato nei confronti dell’Ucraina; cfr.: K. Konstantynenko, La minoranza di una minoranza: gli ucraini nell’opera di Sienkiewicz, in Le minoranze come oggetto di satira, A. Pavan, G. Giraudo (a cura di), Padova, E.V.A., 2001, Vol. I, pp. 208-213. All’opposto, nella letteratura russa, la più celebre rappresentazione della figura del cosacco è quella rappresentata dal racconto gogoliano di Taras Bul´ba (1834), racconto lungo che nasce sulla base degli studi di storia ucraina condotti da Gogol´, e che ha conosciuto numerose trasposizioni cinematografiche, anche in Occidente.

(6) I territori a Est del fiume Dnepr, più la città di Kiev, che sorge lungo la sponda alla sinistra idrografica del fiume stesso. La parte occidentale del Cosaccato rimase sotto il controllo del regno di Polonia.

(7) Sostenuta da quella della diaspora canadese, un autentico potentato.

(8) Sin dal tempo della riscossa di Mosca, il potere autocratico aveva giustificato le conquiste dei territori occidentali collocandole nell’egida della “raccolta delle terre della Rus´”, pretese come slave-orientali da sempre, e perciò, per l’effetto di un corto circuito logico che il centro si concedeva, da sempre “russe”.

(9) Una mirabile rappresentazione, realizzata da un punto di vista insieme nazionale e bolscevico, delle piazze di Kiev nelle mani degli indipendentisti, si ha nel film “Arsenal”, di Oleksandr Dovženko, del 1929.

(10) Un aspro contrasto oppone ancora oggi i nazionalisti ucraini, molto forti soprattutto in Galizia, e i russi in merito alla memoria della seconda guerra mondiale, chiamata dai secondi la “grande guerra patriottica”. Echi di ciò si hanno, oltre che in ambito politico e nella discussione storiografica, anche nelle arti. Ad esempio, sul medesimo tema, sono imperniati su valori antitetici il film del regista ucraino-sovietico Boris Ivčenko “Annyčka” (1968), ligio al sistema di valori sovietico, e le opere del regista Oleksandr Jančuk, caratterizzate da un orientamento nazionalista e favorevole all’Upa come ad esempio “Neskorennyj”, del 2000.

(11) A questo proposito è esemplificativa una vignetta satirica comparsa nella stampa ucraina all’indomani del 1991: mamma e papà sono seduti in camera da letto in compagnia dei due figlioli, mentre è stato tracciato un nuovo (innaturale) confine che passa proprio per il letto; la signora chiede al marito “Ivan, è stato segnato il nuovo confine. Per quale cittadinanza opteremo, la mia o la tua?”, in A. Wilson, The Ukrainians. Unexpected Nation, New Haven and London, Yale University Press, 2000, p. 188.

(12) Va aggiunto che, nelle aree centrali, i prostonarod´e, ossia “la gente semplice”, si esprime in suržik, un dialetto avente per base il russo ma fitto di idiotismi ucraini.

(13) In questo frangente storico, alcuni fatti potrebbero contraddire tale tendenza: parte delle comunità dell’Ucraina orientale e persino alcuni magnati dell’economia, strattamente dipendenti dal gas russo, avrebbero infatti adottato un atteggiamento favorevole al movimento di opposizione “Euromajdan”; cfr.: F. Dragosei, Paura del Cremlino. Gli oligarchi ucraini scelgono l’Europa, Corriere della Sera, 13/12/2013, p. 19.

(14) Per comprendere appieno il significato del profondo legame che lega i russi al territorio ucraino, cfr.: A. Solzenicyn, La «questione russa» del secolo XX, Torino, Einaudi, 1995, pp. 98-101. È interessante notare che l’edizione italiana reca in copertina una famiglia di Gidzivka (Ucraina).

(15) Considerato il fatto che la Federazione Russa rimane di gran lunga il paese dalle relazioni commerciali più forti con l’Ucraina, va detto che il volume dei rapporti con la Polonia sta aumentando significativamente. Cfr.: A.M. Merlo, Accordo di associazione in sospeso, in “Il Manifesto”, 11/12/2013.

(16) Questione, tra l’altro, in agenda negli anni di Elcin, ma poi accantonata in seguito ai successi conseguiti da Putin nell’ambito di una politica estera prettamente eurasiatica.

(17) In termini geopoltici, la configurazione del soggetto derivato da tale associazione potrebbe essere chiamato “Paneuropa”, o “Eurussia”, cfr.: M. Armellini, L’Europa del futuro sarà Eurussia o non sarà. Le occasioni mancate del ’68 e dell’89, in L’Europa del disincanto. Dal ’68 praghese alla crisi del neoliberismo, F. Leoncini (a cura di), Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino, 2011, pp. 151-174.

(17/01/2014)

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UCRAINA, ULTIMATUM A YANUKOVICH: «ELEZIONI O PALLOTTOLE IN FRONTE»

da http://www.corriere.it/esteri/  23/1/2014

Klitschko: «Presidente, evita spargimenti di sangue». Appelli dei Nobel Gorbaciov e Walesa. Proteste estese ad altre città

   In Ucraina si avvicina la resa dei conti tra le forze d’opposizione e il presidente Viktor Yanukovich. Le manifestazioni di piazza che proseguono incessanti da domenica, dopo la prima ondata a dicembre, quando il capo di Stato ha cancellato il processo di adesione del Paese all’Unione europea in favore di un accordo con la Russia, vanno avanti nonostante i divieti. Mercoledì sera i leader dell’opposizione hanno spiegato alla folla che un incontro con il presidente non aveva avuto esito positivo perché Yanukovich «non ha saputo fornire risposte concrete alle richieste», avvisando i manifestanti di prepararsi a una nuova offensiva della polizia. Poi è arrivata una breve tregua, concordata, ma la tensione rimane alta.

L’ULTIMATUM – Ora i protestanti hanno fissato un ultimatum, con scadenza alle 20, le 19 italiane: Yanukovich deve indire elezioni anticipate o le proteste saliranno di tono. Il presidente, però, ha reagito indicendo una sessione parlamentare speciale sull’argomento per la prossima settimana, martedì. E il premier Mykola Azarov, al momento a Davos per il World economic forum, in un’intervista all’agenzia Interfax, ha parlato di «tentativo di colpo di stato», di «circolo ristretto di estremisti», pur ritenendo che, «per il momento», non ci sia bisogno di uno stato d’emergenza. E ha assicurato che il governo «è in grado di ripristinare l’ordine con tutti i mezzi possibili».

LE VITTIME E LA TREGUA – Nei giorni scorsi si sono registrate almeno due vittime – secondo gli oppositori sono cinque – e oltre 150 feriti (con 104 poliziotti in ospedale e ulteriori 150 feriti tra gli agenti), con il governo che minaccia di usare la forza dopo aver emanato una legge che impedisce cortei e manifestazioni. Intorno alle 13 Yanukovich ha ricevuto l’ex pugile Vitali Klitschko, uno dei leader della protesta, per un colloquio.

LA PALLOTTOLA IN FRONTE – Prima dell’incontro Klitschko ha invitato le migliaia di manifestanti ancora in piazza a Kiev a rimanere nel principale campo di protesta, in piazza dell’Indipendenza, in pieno centro, e ad astenersi da ogni violenza almeno fino alla scadenza dell’ultimatum. «Tu, signor presidente, hai l’opportunità di risolvere questa vicenda – aveva tuonato nella notte – Le elezioni anticipate cambieranno la situazione senza spargimento di sangue e noi faremo di tutto per ottenerle. Domani (giovedì sera, ndt), se non saranno state concesse, andremo avanti insieme. E se sarà una pallottola in fronte, sarà una pallottola in fronte, ma in una onesta, corretta e coraggiosa maniera». Mercoledì sera testimoni hanno riferito di almeno 40.000 manifestanti ancora in piazza, a dispetto delle temperature rigide.

ALTRE CITTÀ – Se a Kiev la tregua regge, per la prima volta si registrano manifestazioni importanti anche in altre città. A Leopoli, secondo centro dell’Ucraina, circa 2.000 persone hanno invaso l’ufficio del governatore regionale Oleh Salo costringendolo alle dimissioni, successivamente ritirate. I manifestanti minacciano di protestare in tutto il paese, unendosi così idealmente a Kiev. Leopoli è anche la città del sindaco Andriy Sadovy, il primo ad assicurare che non applicherà mai le norme che vietano le manifestazioni.

ARRESTATO GIORNALISTA RUSSO – La polizia ucraina ha arrestato un giornalista russo della testata online Lenta.ru, Andrei Kiselev, durante gli scontri di mercoledì a Kiev. Secondo la testata il giornalista «è stato picchiato» e «non si hanno informazioni su dove sia».

MOSCA: NO A INGERENZE STRANIERE – Mosca dimostra la sua alleanza con Kiev deplorando l’«evidente ingerenza straniera» nella crisi politica e assicurando che non interverrà «in alcun modo» negli affari interni del Paese «fratello». Il Cremlino si è affidato al suo portavoce, Dmitri Peskov, con una intervista alla Komsomolskaia Pravda: «Non pensiamo di avere il diritto di intervenire negli affari interni dell’Ucraina in alcun modo. È assolutamente inaccettabile per noi interferire negli affari interni di un altro Paese». La Russia si è detta «dispiaciuta e sdegnata» per l’attivismo dei Paesi occidentali.

GLI APPELLI DI GORBACIOV E WALESA– Il premio Nobel per la pace Mikhail Gorbaciov , di origini ucraine da parte di madre , ha lanciato un appello a Vladimir Putin e Barack Obama per una loro mediazione nella crisi politica ucraina, evitando una «pericolosissima escalation» che può portare ad una «catastrofe». «Vladimir Vladimirovich, signor Obama, vi prego di trovare la possibilità per fare un passo risoluto per aiutare l’Ucraina a tornare sulla via dello sviluppo pacifico – riporta l’agenzia Interfax– Sono convinto che è nelle vostre forze raggiungere questo obiettivo. Le parti contrapposte devono mettersi al tavolo delle trattative. Ripongo le speranze in voi». Un altro Nobel, l’ex presidente polacco Lech Walesa, si è reso disponibile ad andare in Ucraina a fare da mediatore: «Entrambe le parti – ha detto Walesa alla televisione polacca Tvn24– usano argomenti sbagliati. I protestanti dovrebbero ammorbidire le loro richieste, solo così sarà possibile avviare un dialogo».

L’UE , MERKEL E HOLLANDE– Il presidente della Commissione Ue, José Manuel Barroso,ha parlato al telefono con Yanukovich e giovedì il Commissario per l’allargamento, Stefan Fuele, sara a Kiev «per parlare con le autorità e i leader dell’opposizione» per chiedere che le violenze diminuiscano. Se questo non avverrà «trarremo le conseguenze nel rapporto con l’Ucraina», ha spiegato un portavoce della Commissione. Anche la cancelliera tedesca Angela Merkel ha sollecitato il governo ucraino a «garantire le libertà fondamentali e, in particolare, il diritto di manifestare pacificamente, nonché di proteggere la vita (dei dimostranti) senza fare ricorso alla violenza». In ogni caso la Germania non considera al momento l’ipotesi di sanzioni: «Riteniamo che per ora le sanzioni non siano all’ordine del giorno». François Hollande ha affidato a una nota la sua totale condanna delle violenze «contro le manifestazioni pacifiche», ricordando che l’Ue rimane «pienamente disponibile alla firma dell’accordo d’associazione con l’Ucraina».

L’AMBASCIATA AMERICANA – Nel frattempo centinaia di persone hanno circondato l’ambasciata americana a Kiev lanciando uova contro la targa all’ingresso e cantando con cartelli che invitavano Washington a non immischiarsi negli affari interni dell’Ucraina. Secondo alcuni media si tratterebbe di «titushki», così come vengono chiamati i presunti provocatori pagati dal governo. Per l’agenzia Interfax, invece, la protesta sarebbe stata organizzata da un gruppo costituitosi di recente, denominato «Cittadini di Kiev per una città pulita» e contrario alle barricate in centro dei manifestanti antigovernativi. Mercoledì gli Stati Uniti avevano annunciato di aver revocato il visto ai «responsabili delle violenze» negli scontri.

23 gennaio 2014

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KIEV, DOPO GLI SCONTRI VARATA LEGGE ANTI-PROTESTE

di Sonia Renzini, da “l’Unità” del 22/1/2014
– La diplomazia russa accusa l’Ue – Yulia Tymoshenko ai dimostranti dal carcere: «Siete eroi, se fossi libera sarei con voi» – Duecento i feriti di cui 120 poliziotti e almeno 35 giornalisti –
   Dopo due giorni di scontri ininterrotti tra polizia ucraina e 10mila manifestanti pro Ue ieri è stato il giorno della tregua a Kiev. Ma non c’è da farsi illusioni, la tensione rimane altissima. E non solo perché piazza MAIDAN è ridotta a un vero e proprio campo di battaglia che ha prodotto il triste bilancio di 32 arresti e 200 feriti, di cui 120 poliziotti e almeno 35 giornalisti.
Ma anche perché ciò che avviene a Kiev rischia di trasformarsi in UNA MICCIA IN GRADO DI INFIAMMARE E NON POCO LA DIPLOMAZIE DELLE CANCELLERIE ESTERE. A cominciare da quella russa. «La situazione sta sfuggendo ad ogni controllo», dice senza mezzi termini il ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov che assicura l’impegno della Russia per evitare la destabilizzazione del Paese, mette in guardia dalle «interferenze esterne» e accusa senza girarci troppo intorno l’Occidente di fomentare le proteste da quando il presidente VIKTOR YANUKOVYCH ha respinto l’accordo di coooperazione con l’Unione europea a favore di uno con la Russia.
«Preferiremmo che alcuni dei nostri colleghi europei evitassero di agire in modo indelicato, rispetto alla crisi ucraina» ha ribadito con riferimento esplicito alla partecipazione «dei membri di alcuni governi a manifestazioni anti-governative in un Paese, col quale hanno relazioni diplomatiche» che ha prontamente definito «indecente». Non ha fatto nomi, ma non è un mistero per nessuno che il capo della politica estera dell’Unione Europea CATHERINE ASHTON e l’allora ministro degli Esteri tedesco GUIDO WESTERWELLE abbiano fatto visita ai dimostranti a dicembre, così come ha fatto il segretario di Stato VICTORIA NULAND.
Di segno opposto il giudizio della Casa Bianca che si dice preoccupata per le violenze, ma punta il dito sulle responsabilità esercitate dal governo ucraino in relazione all’intensificarsi delle tensioni, ritenute «una conseguenza diretta del fallimento del governo di riconoscere le legittime richieste del suo popolo». E aggiunge: «Al contrario ha agito per indebolire le fondamenta della democrazia ucraina inasprendo le pene per le proteste pacifiche e togliendo alla società civile e all’opposizione politica le protezioni giuridiche di base della democrazia».
NUOVE NORME
Ora, nel mirino degli Stati Uniti, così come dell’Ue, ci sono proprio quelle LEGGI ANTI-MANIFESTAZIONI firmate venerdì scorso da Yanukovich e pubblicate ieri sulla Gazzetta ufficiale che prevedono pene fino a 5 anni di carcere per chi occupa un edificio pubblico e l’arresto per i dimostranti che utilizzano maschere ed elmetti.

   Norme che hanno già sollevato le proteste dell’opposizione interna così come di alcuni paesi, come Usa e Ue che ne hanno chiesto il ritiro (ma Ashton esclude che Bruxelles stia pensando a sanzioni nei confronti di Kiev), nonché una manifestazione di 200 mila persone che non a caso ha segnato l’inizio degli scontri delle ultime 48 ore: fuochi d’artificio e bombe molotov sono state lanciate dai manifestanti contro la polizia che ha risposto con granate stordenti, gas lacrimogeni e proiettili di gomma, smantellando perfino una catapulta e una barricata, ma non riuscendo neppure per una manciata di minuti a svelenire il clima politico.
Il leader dell’opposizione ed ex pugile Vitali Klitschko ha accusato il governo di aver pagato persone perché si mischiassero alle proteste e le delegittimassero con azioni violente, tanto che alcuni dimostranti pare siano stati costretti a cacciarli dopo che questi avrebbero iniziato a «frantumare finestre e dare fuoco a veicoli».

   E certo non usa toni concilianti nemmeno la sua alleata, la ex premier YULIA TYMOSHENKO, che dal carcere continua a invitare i cittadini a scendere in piazza: «Proteggete l’Ucraina e non abbiate paura di nulla. Voi siete gli eroi e se fossi libera sarei con voi». Dunque se di tregua si tratta è di sicuro armata, non a caso nonostante il freddo siderale migliaia di persone continuano a restare attorno alla zona di via Grushevsky, che conduce al parlamento ucraino.

   Il leader di opposizione VITALI KLITSCHKO ha informato i manifestanti di aver cercato di vedere senza successo il presidente perché occupato e ha annunciato di essere in attesa in attesa di una telefonata del capo dello Stato. In compenso Yanukovich ha discusso della situazione del Paese con il premier Mykola Azarov e il vice premier Serhiy Arbuzov e pare anche che ci sia stato un primo contatto tra opposizione e governo. Per sapere con quali esiti non resta che aspettare. (Sonia Renzini)

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da wikipedia:

L’oblast’ di TRANSCARPAZIA (in ucraino Zakarpat’ska oblast’, Закарпатська область, in ungherese Kárpátalja) è una delle 24 province dell’Ucraina. Corrisponde alla regione storico-geografica della RUTENIA SUBCARPATICA. Fino al 1939 faceva parte della Cecoslovacchia, dal 1939 al 1944 è stata occupata dall’Ungheria.

LA TRANSCARPAZIA SI TROVA ALL'ESTREMO OVEST DELL'UCRAINA
LA TRANSCARPAZIA SI TROVA ALL’ESTREMO OVEST DELL’UCRAINA

La TRANSCARPAZIA: le frontiere si spostano, le popolazioni restano –Ucraina e minoranza ungherese

VIAGGIO AI MARGINI DI SCHENGEN

dai nostri inviati speciali LAURENT GESLIN e SÉBASTIEN GOBERT, da “LE MONDE DIPLOMATIQUE” di aprile 2013

L’integrazione dei paesi dell’Est nell’Unione europea, nel 2004, e la scomparsa progressiva delle barriere di confine dovevano attenuare la rinascita delle identità nazionali osservata agli inizi degli anni ’90. Eppure, in Ungheria e in Slovacchia, come dall’altro lato del «muro» di Schengen, in Ucraina, le popolazioni restano prigioniere di strategie politiche che strumentalizzano le questioni identitarie. –

   «MIO NONNO HA VISSUTO IN CINQUE PAESI SENZA MAI LASCIARE IL SUO VILLAGGIO.» Un caldo opprimente grava sulla borgata di TYACHIV, situata sul FIUME TISZA, nella zona pedemontana occidentale del massiccio dei CARPAZI.

   Oggi in Ucraina, la TRANSCARPAZIA fu a lungo parte integrante dell’Impero austro-ungarico, prima che il TRATTATO DI TRIANON del 4 giugno 1920 cedesse la regione alla Repubblica cecoslovacca costituita di recente.

   Cittadino ucraino di origine ungherese, l’ex doganiere Sándor Igyártó aspira a lungo una sigaretta americana. Qualche goccia di sudore gli imperla la fronte. «Dopo il ritorno degli ungheresi, nel 1938, mio nonno venne mobilitato nell’esercito ungherese durante la seconda guerra mondiale per andare a combattere sul fronte orientale, e fu deportato in Siberia durante l’annessione sovietica, nel 1944. È potuto tornare solo dopo la morte di Stalin.»

   A TYACHIV CONVIVONO CHIESE CALVINISTE, CATTOLICHE, GRECO-CATTOLICHE, E ORTODOSSE. Sulla piazza centrale si ergono monumenti in onore dei partigiani della «grande guerra patriottica» (1), dei militari sovietici caduti in Afghanistan, e dei soldati austroungarici della prima guerra mondiale.

   BENVENUTI AL CENTRO DELL’EUROPA – almeno secondo i calcoli dei geografi austroungarici che, nel 1887, posero una stele qualche chilometro più a ovest, nei pressi del villaggio di Rakhiv. OGGI, LA TRANSCARPAZIA È UNA FRANGIA DIMENTICATA, ALLA FRONTIERA ORIENTALE DELL’UNIONE EUROPEA, incastrata DIETRO LA «LINEA SCHENGEN» CHE SEPARA L’UNGHERIA, LA SLOVACCHIA, E LA POLONIA DALLA ROMANIA E DALL’UCRAINA.

   Per gli abitanti della regione, l’Europa è a portata di mano, dietro una frontiera che separa e fa vivere al tempo stesso, dall’altro lato dell’ultimo «muro» del continente. Come dappertutto in Europa centrale, la Transcarpazia è rimasta a lungo multiculturale, popolata da UNGHERESI, da RUTENI, da UCRAINI, da TEDESCHI, da ROM, e da EBREI.

   Ma il PROCESSO DI SEMPLIFICAZIONE IDENTITARIA, iniziato all’alba del XX secolo, si è accelerato con l’indipendenza dell’Ucraina, nel 1991. Secondo il censimento del 2001 (2), restano solo centocinquantamila ungheresi in Transcarpazia, ossia circa il 12% della popolazione totale, a fronte del 17% nel 1921 (3). «Ogni anno, dalle cinque alle seimila persone emigrano in Ungheria – continua Igyártó – perché qui non c’è nessuna prospettiva, la situazione economica è drammatica.»

   Nella città frontaliera di Chop, ex porta ferroviaria dell’Unione sovietica, nel punto in cui si toccano l’Ucraina, l’Ungheria, e la Slovacchia, molte ricche dimore sono tuttavia spuntate in questi ultimi anni. «Non c’è nessun mistero: quelli che hanno delle belle case fanno dei traffici – racconta un giornalista locale che desidera mantenere l’anonimato. Principalmente di SIGARETTE e di MIGRANTI.»

   Isolati da Kiev dalle montagne dei Carpazi e da oltre ottocento chilometri di strade in cattive condizioni, gli ungheresi di Transcarpazia si sono risolutamente volti verso ovest: guardano la televisione ungherese e vivono secondo l’ora di Budapest, vale a dire un’ora in meno del fuso orario di Kiev.

   La NO MAN’S LAND che una volta separava l’Unione sovietica dalla Repubblica popolare di Ungheria è difesa da poliziotti, cani, e rilevatori termici. Una barriera che ogni anno tentano di varcare centinania di migranti venuti dal Pakistan, dall’Afghanistan, o dalla Somalia. «Il passaggio costa circa 5.000 euro, e attraversare è praticamente impossibile senza dare soldi alla polizia di frontiera», spiega con semplicità Haruni, un somalo che aspetta di passare, da due anni, nella città di Oujgorod, la capitale regionale.

   Nell’estate 2012, sono stati scoperti DUE TUNNEL VERSO LA SLOVACCHIA e sequestrate tredicimila stecche di sigarette di contrabbando – un bottino di circa 130.000 euro. «La maggioranza delle persone sopravvive solo grazie a piccoli traffici al di là della frontiera – conferma il sociologo Antal Örkény – in quanto, DOPO SCHENGEN, QUESTE POPOLAZIONI SONO TAGLIATE FUORI DALL’UNIONE EUROPEA PIÙ CHE IN PASSATO.»

«UNA MINACCIA PER LA SICUREZZA DELL’UCRAINA» – Una cinquantina di chilometri più a sud, la cittadina di BEREHOVE (4) sembra assopita già da molto tempo. Un gruppo di cani gira nei vicoli del centro. Il tempo ha fatto sbiadire i colori pastello dei vecchi fabbricati ungheresi. Anche qui, i posti di lavoro si fanno rari, tranne qualche fabbrica tessile italiana dove i salari arrivano al massimo a 250 euro al mese. «Tentiamo di trattenere i giovani, ma molti emigrano in Ungheria finiti gli studi – dichiara Ildikó Orosz, la direttrice dell’Istituto ungherese di Transcarpazia Francesco-II-Rákóczi. Nelle regioni in cui siamo minoranza, i bambini frequentano le scuole ucraine e vengono poco a poco assimilati, mentre una volta nessuno parlava ucraino nella regione.»

   In questi confini a lungo contesi, le comunità slave utilizzavano principalmente il RUTENO, lingua la cui specificità è contestata dai nazionalisti ucraini. «Abbiamo sofferto molto nel corso del XX secolo; la nostra élite intellettuale è stata decimata. Con questo istituto, aperto nel 1996, i giovani ungheresi di Transcarpazia possono garantirsi un’educazione completa nella loro lingua madre. L’università ucraina non offre questa possibilità.»

   Sulla strada che collega Berehove a Oujgorod si erge il castello di Palanok, un tempo feudo del principe Francesco II Rákóczi, che dal 1703 al 1711 guidò una guerra d’indipendenza contro gli Asburgo. «Gli ungheresi hanno sempre vissuto qui, mentre l’Ucraina ha appena 20 anni. Oggi si cerca di presentarci come un’anomalia, ma noi abbiamo le nostre scuole, i nostri partiti politici, le nostre associazioni. Naturalmente, viviamo tutti insieme e ci comportiamo bene con le autorità attuali. Ma non ci aspettiamo nulla dallo Stato ucraino», butta là Betty Henkel, giovane diplomata disoccupata.

   UN SISTEMA AUTONOMO che il vice-rettore dell’università di Transcarpazia a Oujgorod, Roman Ofitsynskyi, non vede di buon occhio: «Il ciclo di studi dell’istituto di Berehove non offre sbocchi. Non solo l’ungherese non serve a niente per trovare un lavoro in Ucraina, ma i loro programmi mettono l’accento sulla filologia o la storia, a scapito di formazioni concrete. Di quanti professori di storia hanno bisogno? Nella nostra università, disponiamo di un dipartimento di studi ungheresi, e alcune borse di studio sono riservate agli studenti magiarofoni, spesso per inciso a spese degli altri studenti. Loro parlano di discriminazione, ma in realtà sono estremamente privilegiati.»

   INDIPENDENTE DAL 1991, L’UCRAINA È UN PAESE DALL’IDENTITÀ IN COSTRUZIONE. Le fratture linguistiche tra l’est del paese, in maggioranza russofono, e l’ovest, dove vivono insieme gli ucrainofoni e numerose minoranze nazionali, permettono tutte le manipolazioni politiche. «Durante il periodo sovietico, funzionari e soldati russi si sono stabiliti in Transcarpazia, e noi abbiamo subito una “russificazione” massiccia.

   Nel 2004, gli ungheresi di Ucraina hanno dunque appoggiato la “RIVOLUZIONE ARANCIONE” condotta da VIKTOR JUŠČENKO e JULIJA TYMOŠENKO – racconta István Csernicskó, il vice-rettore dell’Istituto ungherese di Berehove. Ma il nuovo potere non aveva intenzione di favorire il regionalismo in Transcarpazia, per evitare che l’est del paese ottenesse troppa autonomia. Al contrario, ha imposto l’ucraino ovunque era possibile. Le minoranze sono ostaggio di questi scontri identitari.»

   Tornato in campo nel 2010, dopo la sconfitta della Tymošenko alle presidenziali, Viktor Janukovyč ha firmato nell’agosto 2012 una legge che concede uno statuto ufficiale alle lingue minoritarie nelle regioni nelle quali esse sono parlate da più del 10% della popolazione. Un buon modo, a poche settimane dalle legislative del 28 ottobre, per mobilitare l’elettorato russofono e assicurarsi i voti delle minoranze. Questa legge è stata ratificata dal parlamento regionale di Transcarpazia il 24 dicembre scorso.

   Presidente della Federazione democratica degli ungheresi di Ucraina (Umdsz), uno dei due partiti politici che rappresentano la comunità ungherese in Transcarpazia (5), il sindaco di Berehove, István Gajdos, è stato eletto alla Verkhovna Rada, il parlamento ucraino, nella lista del Partito delle regioni del presidente Janukovyč. «L’ungherese è ormai la lingua ufficiale del distretto e della municipalità. Per noi era essenziale potere utilizzare la nostra lingua madre nella nostra città. La legge ci autorizza a rendere bilingui la segnaletica e i comunicati ufficiali. Sono cosciente del fatto che non tutti i dipendenti dell’amministrazione sanno parlare l’ungherese, ma la conoscenza della lingua ormai si avvia a diventare un criterio di assunzione.»

   Una decisione inaccettabile per il partito di estrema destra ucraino Svoboda, che ha conseguito un risultato storico del 10% alle legislative del 28 ottobre, mandando per la prima volta trentotto deputati nel parlamento ucraino. Per Oleh Kutsin, il capo della sezione regionale del partito, la «rimagiarizzazione» di Berehove illustra le velleità separatiste degli ungheresi di Transcarpazia, e l’imperialismo di Budapest.

   «L’Ungheria spende un milione di dollari l’anno per lo sviluppo degli ungheresi di Ucraina, e il consolato distribuisce passaporti ungheresi a tutto spiano, anche se un cittadino ucraino può avere una sola cittadinanza! Budapest fa di tutto per isolare i distretti ungheresi dal resto dell’Ucraina, per unirli, prima o poi, al proprio territorio. È un problema grave per la sicurezza del nostro paese.»

   Dal 2001, una «CARTA DI STATUS UNGHERESE» permette di studiare e di lavorare più facilmente in Ungheria, e un accordo tra Kiev e Budapest autorizza i residenti frontalieri domiciliati a meno di cinquanta chilometri dalla frontiera a recarsi in Ungheria senza visto Schengen. Dal gennaio 2011, i due milioni e mezzo di magiari che vivono fuori dall’Ungheria, in particolare in Romania, in Slovacchia, in Serbia, e in Ucraina, possono inoltre chiedere il passaporto ungherese, persino in Ucraina, che teoricamente vieta la doppia nazionalità.

   «La giustizia ucraina non punisce i cittadini che sono in possesso di due passaporti, se la cosa non viene resa pubblica», si giustifica prudentemente István Tóth, il console generale a Berehove. Rifiuta di fornire il numero di cittadini che hanno chiesto la nazionalità magiara in Ucraina (6), ma riconosce l’aiuto finanziario massiccio fornito da Budapest: soldi che permettono di far vivere l’università, le associazioni culturali, e i partiti politici degli ungheresi di Transcarpazia.

   «È del tutto normale che il governo ungherese si preoccupi degli ungheresi dell’estero, ma questo non è abbastanza – constata, rassegnato, Miklós Kovács, il presidente del Partito ungherese in Ucraina (Kmksz ), affiliato al Fidesz del ministro-presidente magiaro Viktor Orbán. Noi siamo ogni anno meno numerosi, ed è sempre più difficile mobilitare gli ungheresi per la difesa dei loro interessi. Siamo in grado di mantenere una certa attività culturale, ma questo rientra più nel folklore. Fra qualche anno, noi scompariremo, non necessariamente in quanto comunità, ma in quanto oggetto politico. E la questione ungherese sarà definitivamente risolta in Ucraina.»

   Viktor Orbán preoccupa i suoi vicini. Per molti, Orbán, non potendo lottare contro la crisi economica nel suo paese, attizza il nazionalismo ungherese all’estero. Tornato al potere grazie a una vittoria schiacciante sul Partito socialista alle legislative del 2010, moltiplica da anni le dichiarazioni clamorose dirette ai nostalgici della «Grande Ungheria» – uscite che preoccupano i paesi rivieraschi dove vivono comunità magiare.

   La Legge fondamentale sull’Ungheria, la nuova Costituzione votata il 25 aprile 2011, ricorda le radici cristiane e la storia «millenaria» del paese, affermando al tempo stesso che «l’Ungheria porta la responsabilità della situazione degli ungheresi che vivono fuori dalle frontiere del paese». Un discorso che mobilita, in un paese duramente colpito dalla crisi economica e ancora traumatizzato dal trattato di Trianon, che, nel 1920, amputò i due terzi del Regno di Ungheria (7).

UNA DEMOGRAFIA UNGHERESE A MEZZ’ASTA. Nella città di Miskolc, il maggiore centro industriale dell’est dell’Ungheria, a circa centocinquanta chilometri dalla frontiera ucraina, le carcasse delle industrie siderurgiche finiscono di cadere in rovina. Agli inizi degli anni ’80, l’acciaieria Lenin impiegava più di diciottomila lavoratori, e i due terzi dei duecentomila abitanti della città vivevano direttamente dell’industria pesante. Questo mondo è crollato con il passaggio all’economia di mercato.

   «Negli anni ’90, la disoccupazione colpiva il 30% della popolazione attiva – riferisce György Mike, responsabile delle imprese pubbliche della municipalità di Miskolc, conquistata dal Fidesz alle ultime elezioni. Le industrie tessili e le banche si sono poco a poco sviluppate, subentrando all’industria pesante, ma la gente si è indebitata e molti di loro oggi sono rovinati.»

   Da quando è scoppiata la crisi economica, nel 2008, i negozi del centro chiudono uno dopo l’altro; le sovvenzioni europee, che hanno ad esempio permesso di ristrutturare il municipio, non sono più sufficienti a rilanciare l’economia. «L’ex sindaco socialista ha triplicato l’indebitamento della città, non possiamo più chiedere prestiti – continua Mike. Di fronte al deteriorarsi delle loro condizioni di vita, quelli che una volta erano operai votano in massa per il Fidesz.»

   Ex baluardo «rosso» negli anni ’90, Miskolc è così diventata una terra privilegiata del partito di estrema destra Jobbik (Movimento per una migliore Ungheria), che ha ottenuto il 16,67% dei voti e quarantasette seggi in parlamento alle ultime elezioni legislative, nell’aprile 2010. In un piccolo ufficio sistemato in centro, il dirigente locale del partito, Miklós Arpád, guarda pensieroso una mappa della «Grande Ungheria» attaccata al muro.

   «L’Ucraina ha ottenuto la Transcarpazia in modo ingiusto, e gli ungheresi di Slovacchia o di Transilvania non volevano sicuramente essere tagliati fuori dalla loro madrepatria. L’Ungheria è stata la maggiore vittima dei trattati di pace – dichiara. Molti ungheresi vivono ancora in queste regioni. Il ruolo del nostro paese è di proteggerli.» Distribuendo passaporti agli ungheresi dell’estero, Orbán cercherebbe soprattutto di attirare un elettorato che gli sarebbe favorevole a priori, cercando al tempo stesso di ridinamizzare la demografia del suo paese.

   L’Ungheria ha perduto trecentocinquantamila abitanti dagli inizi degli anni ’90, e l’indice di fecondità arriva al massimo attorno a 1,3 figli per donna, mentre il rinnovo generazionale è assicurato solo a partire da 2,1. Attirare gli ungheresi dell’estero sarebbe così un modo di rimediare alla crisi demografica.

   Una teoria confutata dal sociologo Zoltán Kántor, che considera il «passaporto Trianon» una «affermazione nazionale naturale». «Prima dell’integrazione europea, alla fine degli anni ’90, la distribuzione di passaporti avrebbe potuto incitare gli ungheresi dell’estero a stabilirsi in Ungheria, ma oggi non più, perché le frontiere sono aperte – afferma. Tuttavia, mettendo sul tavolo la questione delle comunità ungheresi che vivono nei paesi limitrofi, Orban si è appropriato di uno dei principali temi della campagna elettorale del Jobbik, il che gli permetterà forse di bloccare l’avanzata di questo movimento.»

«I MATRIMONI MISTI SONO NUMEROSI IN SLOVACCHIA». In Slovacchia, la gara al rialzo nazionalista dei politici ungheresi viene osservata con inquietudine, dato che gli incidenti fra i due paesi sono frequenti. Robert Fico, il presidente del governo slovacco, in coalizione durante il suo primo mandato con i nazionalisti del Partito nazionale slovacco (Sns), riteneva nel 2010 (8) che il Fidesz voleva «tornare alla Grande Ungheria precedente a Trianon, (…) il che presenta un rischio per la sicurezza della Slovacchia.

   Immaginate che migliaia di cittadini prendano la nazionalità ungherese: i politici ungheresi si comporterebbero come se il sud della Slovacchia fosse parte integrante del loro territorio!».

   Nel luglio 2009, la Slovacchia aveva già bandito l’uso dell’ungherese dall’amministrazione e da tutti gli spazi pubblici, e dal 2010 è vietato possedere due passaporti, pena la perdita della cittadinanza slovacca. Una decisione accolta favorevolmente dal Sns, il cui leader, Ján Slota, aveva definito gli ungheresi «cancro nel corpo della nazione slovacca».

   «Questa misura è assolutamente legittima – ritiene Cyril Lesko, il leader del Sns nella città di Presov. Altrimenti, la minoranza ungherese potrebbe essere tentata dalla secessione.» Circa cinquecentomila ungheresi vivono in Slovacchia, in maggioranza nel sud del paese, lungo le regioni frontaliere con l’Ungheria. Dopo il villaggio di Velké Raskovce, a qualche decina di chilometri da Kosice, una pianura paludosa si estende a perdita d’occhio.

   Il sole cala lentamente. Jakab Elemér lascia errare lo sguardo verso sud, in direzione della frontiera ungherese. «Noi siamo ungheresi, ma cittadini slovacchi: rivendichiamo diverse identità. Non accettiamo di farci dettare le nostre scelte da Budapest.» Elemér è uno dei quattordici deputati del Most-Hid (9) alla Národná Rada, il Parlamento slovacco. «Siamo usciti nel 2009 dal Partito della coalizione ungherese (Smk) per creare una nuova formazione politica, in quanto non ci consideriamo un partito “etnico”: incoraggiamo l’integrazione nella società slovacca, senza per questo rinnegare le nostre radici e la nostra cultura», argomenta.

   Una scelta politica originale, dal momento che la maggioranza dei partiti ungheresi dell’estero sono strettamente legati ai politici di Budapest, ma che ha dato i suoi frutti. Alle elezioni parlamentari slovacche del giugno 2010, il partito ha ottenuto l’8,12% dei voti, contro meno del 5% per lo Smk, sostenitore di una linea nazionalista più dura. «AL CONTRARIO DI QUANTO SUCCEDE IN UCRAINA O IN ROMANIA, I MATRIMONI MISTI SONO NUMEROSI IN SLOVACCHIA – dice Örkeny. Le minoranze ungheresi sono socialmente meno influenti, esse hanno dunque tutto l’interesse a integrarsi nella società slovacca.» Per il sociologo, le strategie identitarie delle minoranze dipendono dunque largamente dalle circostanze socio-economiche.

   In Ungheria, a pochi chilometri da Miskolc, Istvánné Szöllösi, il rappresentante del Consiglio nazionale slovacco del villaggio di Bükkszentkereszt, mostra orgoglioso il salone dove vengono organizzati concerti di musica folkloristica slovacca. «I nostri antenati sono arrivati alla metà del XVIII secolo per lavorare nelle fonderie di vetro che si stabilivano intorno a Miskolc –racconta. Oggi, queste industrie hanno chiuso, ma noi siamo integrati molto bene in Ungheria. Nessuno pensa di lasciare la regione.»

   Nel villaggio, sempre meno abitanti parlano ancora la lingua dei loro genitori, anche se esiste ancora una scuola elementare in slovacco. «Se la situazione economica in Ungheria dovesse deteriorarsi e diventasse interessante emigrare in Slovacchia, non c’è dubbio che gli abitanti di Bükkszentkereszt penseranno seriamente a tornare alle loro radici», pronostica Örkeny.

   Nel 2004, all’epoca dell’integrazione degli ex paesi del blocco dell’Est nell’Unione europea, SI VOLEVA CREDERE CHE LA RINASCITA DELLE IDENTITÀ NAZIONALI osservata dagli inizi degli anni ’90 SI SAREBBE ATTENUATA con la scomparsa progressiva delle frontiere. L’integrazione doveva insomma concretizzare la rinascita di una Mitteleuropa largamente idealizzata. Tuttavia, la crisi economica e l’insuccesso delle politiche europee non hanno permesso di superare le contingenze nazionali. Inoltre, l’indipendenza del Kosovo, proclamata nel 2008, ha creato un precedente, mostrando che I PROCESSI DI COSTRUZIONE NAZIONALE NON ERANO CONCLUSI SUL CONTINENTE. E che le frontiere statali potevano ancora evolvere.

note:
(1) Nome che i sovietici danno alla seconda guerra mondiale.
(2) Il prossimo censimento in Ucraina è previsto per il 2013.
(3) Slovenský náucný slovník («enciclopedia slovacca»), vol. 1, Litevna, Bratislava, 1932.
(4) La città di Berehove ha circa venticinquemila abitanti, la metà dei quali si dichiara ungherese.
(5) L’Umdsz è affiliato al partito socialista ungherese, il Mszp.
(6) Trecentomila ungheresi dell’estero avrebbero chiesto la nazionalità ungherese, e centottantamila passaporti sono stati rilasciati dalle autorità di Budapest. I dati ufficiali relativi all’Ucraina non sono pubblici.
(7) Si legga Michael Minkenberg, «All’Est, l’ossessione delle frontiere», Le Monde diplomatique/il manifesto, gennaio 2011.
(8) «Robert Fico: “La Hongrie exporte sa peste brune”», Le Figaro, Parigi, 3 giugno 2010.
(9) Dallo slovacco most e dall’ungherese híd, che significano «ponte». (Traduzione di O. San.)

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ALLA RICERCA DELLA NAZIONE RUTENA

di Laurent Geslin e Sébastien Gobert, da “LE MONDE DIPLOMATIQUE” aprile 2013

   In una saletta per i consulti dell’ospedale di Mukačeve, il dottor Yevhen Zupan, presidente del Consiglio nazionale ruteno, posa gli occhiali sulla scrivania prima di prendere la parola con gravità. «Lo Stato non ci riconosce come una nazionalità a pieno titolo, ma come una sottocategoria di ucraini. Eppure siamo un popolo, con una lingua e una cultura distinte.»

   Al censimento del 2001, diecimila persone si sono dichiarate «ruteni» in Transcarpazia. «I dati sono stati falsificati, perché siamo ottocentomila – rettifica il dottor Zupan. I nazionalisti ucraini hanno paura che un giorno chiediamo l’autonomia territoriale.» Alla caduta dell’Unione sovietica, nel 1991, l’Ucraina aveva tenuto un referendum sull’indipendenza.

   Venne allora posta una domanda particolare agli abitanti della Transcarpazia, invitandoli a pronunciarsi su un’eventuale autonomia della regione. Circa il 78% della popolazione si pronunciò a favore dell’autonomia, ma questa non venne mai concessa. «Che importa, gli Stati passano, i ruteni, loro, restano», si rassicura Zupan. I

   l 24 dicembre 2012, la Transcarpazia ha comunque concesso al ruteno lo status di lingua ufficiale. Secondo lo storico americano d’origine rutena Paul Robert Magocsi (1), i ruteni sono un popolo slavo che ritroviamo sul versante occidentale dei Carpazi, in Ucraina, in Slovacchia, in Polonia, e anche in Vojvodina, nel nord della Serbia. Parlano una serie di dialetti slavi orientali, utilizzano l’alfabeto cirillico, e appartengono tradizionalmente al rito cristiano orientale, sia uniate che ortodosso. Le stime sul loro numero variano tra novecentomila e un milione di individui.

   Per i nazionalisti del partito Svoboda, tuttavia, di riconoscere la specificità di questa comunità non se ne parla. «I ruteni sono ucraini – si arrabbia Oleh Kutsin. Quelli che affermano il contrario sono pagati dalla Russia per indebolire la nazione ucraina.» Allora come definire i ruteni? Agli inizi del XX secolo, queste popolazioni erano considerate russe o ucraine. Altri affermavano che i ruteni erano slovacchi, e anche degli ungheresi slavizzati.

   Tuttavia, a credere ad alcuni teorici del nazionalismo come Ernest Gellner (2), che afferma che le nazioni sono «i prodotti delle convinzioni, delle lealtà, e delle solidarietà degli uomini» e che gli individui che condividono una cultura formano una nazione «se si riconoscono reciprocamente», non si può fare a meno di constatare, dalla caduta del blocco sovietico, la (ri)costruzione di un’idea nazionale rutena nell’Europa dell’Est.

   Questa identità specifica era d’altronde riconosciuta dalla Jugoslavia di Tito (3), e fu a lungo mantenuta negli ambienti della diaspora negli Stati uniti e in Canada. Agli inizi degli anni ’90, il movimento ruteno inizia a strutturarsi grazie al riconoscimento di questa nazionalità da parte dello Stato slovacco. Dal 1995, viene codificata in Slovacchia una lingua, a partire dal dialetto della regione di Zemplin.

   «Era la forma di ruteno meno influenzata dalle altre lingue – spiega Anna Ulishkova, dell’Istituto ruteno di Presov. Tuttavia, per rispettare le differenze regionali, abbiamo adottato la metodologia utilizzata per codificare il romancio (4), creando norme linguistiche differenti per la Slovacchia, l’Ucraina, la Polonia, e la Serbia, lavorando simultaneamente a una quinta norma che ci possa riunire tutti.»

   L’Istituto ruteno di Presov è un’università finanziata dallo Stato slovacco, con il sostegno della diaspora negli Stati uniti. «In Slovacchia, esistono undici scuole elementari e medie, un liceo, e i diplomi dell’Istituto sono stati riconosciuti ufficialmente nel 2009», si entusiasma la Ulishkova. Il futuro dirà se la (ri)nascita di questa cultura è abbastanza importante per sviluppare un sentimento identitario coerente e strutturato. Come tante altre in Europa, la nazione rutena è un’ipotesi che solo il tempo potrà confermare.

note:
(1) Paul Robert Magocsi, «Une nouvelle nationalité slave: les ruthènes de l’Europe du Centre-est», Revue des études slaves, vol. 69, fasc. III, Parigi, 1997.

(2) Ernest Gellner, Nazioni e nazionalismo, Editori Riuniti, 1997
(3) Si legga Jean-Arnault Dérens, «I “piccoli popoli” dimenticati dei Balcani», Le Monde diplomatique/il manifesto, luglio 2003.
(4) Il romancio è la quarta lingua ufficiale della Svizzera (assieme al tedesco al francese, e all’italiano). (Traduzione di O. San.)

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NEL CUORE DELL’EUROPA, AI MARGINI DI SCHENGEN

da UNINEWS, https://uninews.unicredit.eu/ , 18/12/2013

   E’ un viaggio ai margini di Schengen quello in cui ci accompagnano due giornalisti francesi, Laurent Geslin e Sébastien Gobert, con il loro articolo pubblicato su “Monde diplomatique” (appena qui sopra riportato in questo post, ndr) con il quale si sono aggiudicati l’edizione dei dieci anni di Writing for CEE.

Il premio giornalistico dell’ammontare di 5.000 euro, sponsorizzato dalla Austrian Press Agency (APA) e da UniCredit Bank, è stato consegnato lo scorso novembre nel corso di una cerimonia a Vienna.
L’articolo che si è aggiudicato il premio racconta di una striscia di terra in Ucraina un tempo considerata come possibile centro geografico dell’Europa ma che si trova oggi ai margini di Schengen. Il Presidente della giuria Ambros Kindel ha spiegato come la scelta definitiva della giuria internazionale si sia basata sulla precisione sia linguistica sia giornalistica con cui gli autori hanno descritto una regione dell’attuale Ucraina che, nel corso della storia, è appartenuta a ben cinque stati diversi e che, ai giorni nostri, risulta completamente marginalizzata. “Il giornalismo deve guardare dove gli altri distolgono lo sguardo. Deve scoprire come vivono i nostri vicini che sono scomparsi al di là di ogni muro o palizzata” ha dichiarato il responsabile degli affari esteri.

   Sébastien Gobert ha affermato che l’Europa è ancora in pieno cambiamento e il giornalismo deve assumersi il compito di descrivere questo stato costante di fluidità, lo smantellamento e la ricostruzione, cercando di capire questo processo in profondità. Lo spirito dell’Europa, ha poi spiegato, non pervade ancora appieno tutti i Paesi della UE, un aspetto questo che è risultato particolarmente evidente durante la recente crisi economica e che si riflette nei problemi che l’Unione Europea si è trovata ad affrontare nel tentativo di dare vita a una politica europea comune.

Su queste tematiche UniNews ha intervistato SÉBASTIEN GOBERT.:

IERI IL CENTRO DELL’EUROPA, OGGI UNA REGIONE DIMENTICATA AI MARGINI ORIENTALI DELL’UNIONE EUROPEA. COSA È SUCCESSO ALLA TRANSCARPAZIA, IL SOGGETTO A CUI È DEDICATO IL REPORTAGE VINCITORE DEL PREMIO? E PERCHÉ AVETE DECISO DI DEDICARE IL VOSTRO LAVORO A QUESTA STRISCIA DI TERRA IN UCRAINA?
«Innanzitutto per un interesse personale. Nel mio percorso formativo, mi sono specializzato nello studio dei nazionalismi, dei diritti e della protezione delle minoranze e dell’integrazione europea. La Transcarpazia è uno di quei luoghi che racchiude in sé tutti i miei interessi.
Da un punto di vista geopolitico, questa contraddizione interna tra quello che una volta era il centro dell’Europa ed è finito oggi per essere un pezzo di terra dimenticata ai margini dell’Unione europea, di Schengen e delle nuove nazioni-Stato in via di formazione, è davvero unica. Non si tratta solo di una striscia di terra. L’attuale configurazione della Transcarpazia e le sfide che ne derivano, su cui ci siamo concentrati nell’articolo, possono essere considerate come un esempio significativo delle difficoltà insite, direi intrinseche, nel processo di integrazione europea. Sottolineano altresì i limiti dello sviluppo degli Stati-nazione in una regione che fino ai tempi più recenti era dominata da imperi multinazionali».
ALL’INTERNO DEI CONFINI DELL’UE I CITTADINI RIVENDICANO ANCORA LE PROPRIE IDENTITÀ NAZIONALI. PENSA CHE POPULISMO E NAZIONALISMO SIANO QUALCOSA PIÙ CHE UNA MERA TENTAZIONE NELL’EUROPA IN CUI VIVIAMO?
«Sono convinto che tutte le entità, in qualsiasi manifestazione, tanto locale, che regionale, nazionale, religiosa, sociale, culturale o di altra natura, siano un valore positivo da preservare, nutrire e promuovere. L’umanità può solo trarne arricchimento. L’idea che sottende l’attuale processo di integrazione europea, sintetizzata nel motto Diversitatis Unita/Uniti nella diversità, è un fondamento essenziale che non si può mettere in dubbio. La costruzione di un’Europa uniforme e standardizzata sarebbe senza dubbio una perdita tragica per l’intero continente.
Il populismo e il nazionalismo riguardano, invece, più la sfera politica e l’affermazione della supremazia di un gruppo di persone sulle altre. Sono idee ovviamente pericolose dal punto di vista del processo di integrazione europea, poiché incoraggiano i popoli a rinchiudersi in se stessi e non già a costruire reti di rapporti e aprirsi agli altri. Tendenze che oggi possiamo riscontrare in Europa. Tuttavia, ritengo che populismo e nazionalismo siano più i sintomi che le vere cause della malattia. Una malattia che, nel nostro caso, si configura come una profonda crisi economica e sociale che ha colpito duramente tutto il continente. È necessario trovare soluzioni per ripristinare la fiducia, le reti sociali e per creare opportunità di lavoro e prospettive economiche. Sono convinto che il cosiddetto nazionalismo sia destinato a sparire con il ritorno della prosperità. Di conse guenza, la situazione corrente richiede più integrazione in Europa, non certo meno».
LA CRISI DELL’EURO HA RIVELATO CHE ANCHE DOPO LA COSTITUZIONE DELL’UE LE CONTRADDIZIONI NAZIONALI NON SONO SCOMPARSE. LO SPIRITO STESSO DELL’EUROPA È ANCORA UN WORK IN PROGRESS. QUALI SONO I MAGGIORI PROBLEMI, IN PARTICOLARE NELL’EUROPA CENTRO-ORIENTALE? L’EUROPA RESTA ANCORA UN SOGNO PER LA GENTE?
«Direi proprio di sì. Se prendiamo in considerazione aspetti storici e geopolitici, molte popolazioni, tra la Germania e la Russia, si considerano assolutamente europee. Eppure si sentono come europei al di fuori dell’Europa. Ciò a cui aspirano, in primo luogo, è un riconoscimento della loro identità europea, come accade ora a Maidan Nezalezhnosti, a Kiev, in Ucraina. Non significa però che questi gruppi siano europeisti convinti, ossia che siano pronti a sostenere l’ingresso nell’Unione Europea dei rispettivi Paesi e tutto il carico di riforme e sacrifici economici che ne consegue. Ma l’idea di Europa è stata sfruttata come uno slogan a indicare modernità, maggiori comodità e infrastrutture, un sistema giuridico e giudiziario più efficiente, ecc. Non a caso per gli appartamenti rimodernati in Ucraina si parla di euro-remont, ovvero di una ristrutturazione secondo i criteri e gli standard europei. Un centro clinico, moderno, efficiente e pulito, quanto meno più di molti degli ospedali pubblici, a Kiev porta il nome di EuroLab. E questi non sono che un paio di esempi, che puntano a un’immagine evidentemente positiva dell’integrazione europea».
L’ ARTICOLO SI CHIUDE CON L’AFFERMAZIONE CHE LA DICHIARAZIONE DI INDIPENDENZA DEL KOSOVO, NEL 2008, DIMOSTRA CHE I CONFINI NAZIONALI POSSONO ANCORA CAMBIARE. COSA SIGNIFICA?
«Il continente europeo, così come lo conosciamo, sembra essere concepito affinché i suoi confini non possano più mutare. Un elemento questo che ha giustificato lo sviluppo dei diritti delle minoranze e di peculiarità linguistiche. La storia del Kosovo e, più in generale, la disgregazione della Jugoslavia, mostra come questa sorta di immutabilità non possa essere data per scontata. Come abbiamo descritto nel nostro reportage, gli ungheresi in Transcarpazia vivono ancora riferendosi al fuso orario di Budapest e molti di loro non parlano né ucraino né russo. Spesso trascorrono più tempo a Budapest che a Kiev, una città lontana, oltre le montagne. Per quanto ancora questa situazione resterà sostenibile? Credo che dipenda effettivamente dallo stato dei confini, se sono facili o difficili da attraversare. In ogni caso, i confini sono cambiati nel corso dei secoli in questa regione e sarebbe da ingenui ritenere che ormai siano fissi».
I DIRITTI UMANI E LA LIBERTÀ DI STAMPA SONO ANCORA QUESTIONI FONDAMENTALI IN EUROPA E NELLE SUE AREE PERIFERICHE?
«Certamente. Soprattutto se teniamo presente il declino degli standard democratici nella regione (Ucraina, Bielorussia, Russia) negli ultimi anni. Qui, così come in altri Paesi, la nascita dei social network ha cambiato significativamente il paradigma precedente, incentrato sulla dicotomia libertà di parola contro censura».
SECONDO LEI QUALE PUÒ ESSERE IL CONTRIBUTO DEL GIORNALISMO NEL PROCESSO DI COSTITUZIONE DELL’UNIONE EUROPEA?
«Direi che è uno degli elementi essenziali dell’integrazione europea. Lo sviluppo della sfera pubblica moderna, soprattutto all’interno dei neo-costituiti Stati-nazione, è stato alimentato dal giornalismo che ha contribuito a creare e rafforzare svariate interconnessioni di pensiero e reazione. Leggere un giornale era definito come un momento nazionale nel senso che ogni fruitore delle notizie, in una determinata sfera dei media, diciamo in uno Stato-nazione, consuma le medesime notizie. Il giornalismo è essenziale per la costruzione di una sfera pubblica europea. Per spiegare le differenze e ribadire le somiglianze. Per mostrare che ciò che accade in un Paese europeo può influire in qualche modo su un altro. Ovviamente il giornalismo non è che uno degli elementi del processo. La politica, l’economia, la cultura, i programmi di scambio che coinvolgono gli studenti e molti altri aspetti ancora sono fondamentali per lo sviluppo di aree di interesse comune e per crearne di nuove».

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