La corsa alla ricerca di fonti energetiche “interne”, diverse dal gas e dal petrolio proveniente da altri Paesi, in se potrebbe essere un tentativo di incentivare fonti energetiche non dipendenti dall’esterno. Di fatto i molteplici tentativi di ricercare petrolio e gas naturale, in vari territori italiani (viene in mente in particolare la Basilicata) mostra tutti i suoi limiti: estrazioni costose e pericolose, e limitate nel tempo (cioè ridotte nelle riserve estrattive disponibili) e che non valgono il quasi sempre grande impatto nei nostri luoghi che hanno dimensioni geomorfologiche assai limitate (e pertanto con grosso impatto visivo nel “paesaggio”). E ne risente, o può risentirne, l’assetto e l’equilibrio dei territori (là dove ancora ci sono questi “equilibri”…); e poi il turismo balneare delle coste, la stessa pesca marina, dove ancora esiste in misura autorevole.
Il “fronte” delle DIECI REGIONI che il 30 settembre scorso hanno ufficialmente avviato l’iter per arrivare al REFERENDUM ABROGATIVO DI NORME CHE CONSENTONO DI EFFETTUARE ESTRAZIONI DI IDROCARBURI ENTRO LE DODICI MIGLIA MARINE E CHE DANNO ALLO STATO PIÙ POTERE NELLE AUTORIZZAZIONI DEI PROGETTI IN GENERALE è composta da: BASILICATA, MARCHE, PUGLIA, SARDEGNA, ABRUZZO, VENETO, CALABRIA, LIGURIA, CAMPANIA e MOLISE. Capofila è la Basilicata (forse la più colpita dal “sistema trivelle”).
Le richieste di referendum abrogativo anti trivellazioni, depositate il 9 e 10 novembre presso la Corte di Cassazione, sono date da delibere in tutto uguali per ciascuna Regione, approvate dai Consigli regionali delle 10 entità istituzionali interessate.
Delibere che chiedono appunto l’attivazione della richiesta di referendum abrogativi relativi ad alcune parti dell’art.38 (“Misure per la valorizzazione delle risorse energetiche nazionali”) del decreto cosiddetto “SBLOCCA ITALIA” (approvato nel novembre 2014), e dell’art. 35 (Disposizioni in materia di ricerca ed estrazione di idrocarburi) del DECRETO SVILUPPO (Decreto Legge approvato nel giugno 2012). I delegati regionali hanno firmato l’ordinanza emessa dalla Corte di Cassazione con le denominazioni (titoli) attribuite d’ufficio a SEI QUESITI REFERENDARI; e le memorie recanti osservazioni sugli stessi quesiti e la delega in favore di un unico avvocato a rappresentare le dieci Regioni (l’avvocato Stelio Mangiameli) per il deposito delle memorie relative alle ordinanze emesse lo scorso 22 ottobre dall’ufficio centrale per il referendum della Corte Suprema di Cassazione. Per richiedere i referendum bastava (costituzionalmente) la richiesta di sole 5 Regioni: ce ne sono ben dieci! Sarà ora la Corte di Cassazione a valutare se i sei referendum richiesti sono confacenti alla norma costituzionale e si può andare a votare.
LA QUESTIONE, dobbiamo dirlo, È UN PO’ CONFUSA: alcune piattaforme di trivellazione petrolifera sono oltre le 12 miglia, ma lo stesso possono essere pericolose (per l’inquinamento marino) e impattanti (visivamente). Tra l’altro, a proposito di inquinamento marino non si tratta solo di perdite di idrocarburi in mare; si dimentica che la fauna marina viene ad essere gravemente esposta, danneggiata dalle piattaforme petrolifere perché spesso viene adottata la tecnica dell’AIRGUN. L’Air gun permette l’ispezione dei fondali marini attraverso il rilascio in mare di aria compressa. Il rumore che produce tale metodo è pari a 100mila volte quello del motore di un jet e per la fauna marina è dannosissimo: può provocare lesioni permanenti letali.
Insomma la situazione è un po’ caotica, confusa, e l’opinione pubblica sembra assai disattenta alla questione “estrazioni di idrocarburi”, diffusione di trivellazioni, e ai possibili danni (al paesaggio, alla fauna marina, al turismo delle coste marine…). Ma va da se che siamo in un momento storico dove troppi accadimenti (geopolitici, ambientali, economici, di carattere “macro” o “micro”…) si sovrappongono quotidianamente.
Necessita allora “non perdere il timone della nave”, delle cose. E l’attenzione che possono portare i referendum “anti-trivellazioni” possono rappresentare un motivo di prendersi cura di più dell’ambiente, del paesaggio (anche della fauna marina di cui poco si parla). (s.m.)
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SCOPPIA LA RIVOLTA ANTI-TRIVELLE DI REGIONI E AMBIENTALISTI. GUIDI: “SONO SOLO RICERCHE”
di Liana Milella, da “la Repubblica” del 12/1/2016
– La Puglia ricorre contro il governo. Fai: “Decisione inaccettabile”. La Consulta rinvia sul referendum – Emiliano solleva un conflitto di attribuzione davanti alla Corte Costituzionale per le autorizzazioni concesse –
È “guerra” sulle trivelle petrolifere. Le Regioni contro il governo. Il ministro Guidi, titolare del Mise, contro le Regioni e a difesa dei suoi decreti del 22 dicembre per cercare petrolio nelle Tremiti, a Lampedusa, in Abruzzo, nel golfo di Taranto. Gli ambientalisti furibondi con Guidi, al punto che il Verde Bonelli chiede a Mattarella di intervenire.
Ma a sera ecco la mossa a sorpresa del governatore della Puglia Emiliano che annuncia un conflitto di attribuzione contro il governo davanti alla Corte costituzionale perché il 23 dicembre ha cambiato la legge sulle trivelle per bloccare i referendum “notriv”.
Negli stessi minuti il comitato promotore dei sei quesiti chiede alla Consulta di rinviare la camera di consiglio già fissata per domani mattina. Richiesta accolta, se ne parlerà in futuro. Nel frattempo sarà recapitato alla Corte il conflitto che dovrà essere deciso prima dell’ammissibilità del referendum.
Se la Corte dovesse dar ragione ad Emiliano e alle altre dieci Regioni, potrebbero rivivere anche gli altri 5 referendum. Ma in questo durissimo scontro non è affatto escluso che il governo possa tornare indietro sia sulla proroga dei giacimenti «fino all’esaurimento», sia sulle autorizzazioni concesse da Guidi.
Proprio quei permessi hanno scatenato la rissa. Rilasciati il 22 dicembre, prima che la legge di stabilità vietasse qualsiasi nuova perforazione entro le 12 miglia. Un blitz sotto Natale. Ovviamente Federica Guidi smentisce. Polverone pretestuoso e strumentale, non c’è nessuna nuova perforazione, ma solo permessi di prospezione geofisica». Inoltre siamo «ben oltre le 12 miglia». Ma il Verde Bonelli fa subito i conti: «Caro ministro Guidi, a voler essere pignoli a Tremiti la distanza è di 11.878 miglia, siamo al limite del limite del limite…».
Non basta Ombrina Mare, in Abruzzo, rientra nelle 12 miglia. Bonelli spiega che «prospezione» significa «un permesso per cercare petrolio attraverso l’air-gun, esplosioni devastanti che alterano il biosistema marino». Permessi «propedeutici al rilascio di quelli per la cosiddetta “coltivazione degli idrocarburi”». Il mondo degli ambientalisti è in subbuglio, Legambiente, Wwf, il Fai, che parla di una decisione «inaccettabile e incomprensibile, di cui Renzi dovrà spiegare le ragioni». Certo è una scelta che fa infuriare di brutto Michele Emiliano perché il governo «ha mentito alle Regioni».
Trama semplice. Che il governatore pugliese denuncia: «Il governo aveva promesso di ritirare tutte le autorizzazioni concesse fino a quel momento». Ancora: «In nessuna occasione sono stato avvisato dal Mise che il 22 dicembre sarebbe stata concessa la 12esima autorizzazione in Puglia». Già, quella delle Tremiti. Il retroscena è svelato. Il governo cambia la legge per evitare i referendum e promette che non ci saranno nuovi permessi, ma solo proroghe. Ma il Mise autorizza ricerche, e quindi altrettanti titoli minerari, proprio sotto il naso delle Regioni. Protesta il veneto Zaia, «non svendo Venezia per 2mila euro…». La battaglia è appena cominciata.
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I RISCHI – I rischi ambientali di esplorazioni e trivellazioni offshore Le esplorazioni di depositi sottomarini di idrocarburi vengono effettuate con la tecnica dell’airgun L’esplorazione oUna nave lancia delle onde rumorose di aria compressa verso il fondale marino ogni dieci secondi 24 ore al giorno per diversi giorni. Le onde, riflesse dai depositi di gas e petrolio, permettono di scoprirne presenza e posizione. Secondo gli ecologisti l’airgun provoca alterazioni al comportamento di diverse specie marine, in particolare i cetacei. Secondo l’Istituto norvegese dl ricerca marina, intorno alla sorgente sonora dell’airgun la quantità dl pescato diminuisce fino al 50 per cento. Le perforazioni possono danneggiare i fondali marini, in particolare quelli corallini, mentre il processo di estrazione del petrolio rilascia nell’aria sostanze nocive come l’idrogeno solforato e nitrati. Pozzi e oleodotti vengono cementificati e isolati, ma questo non basta sempre per scongiurare perdite di idrocarburi nel mare.
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LA CASSAZIONE DICE SEI VOLTE “SÌ” – REFERENDUM NO TRIV SEMPRE PIÙ VICINO
Un nuovo successo (dopo la decisione di cinque regioni) del movimento che si oppone a una delle più pesanti minacce contenute nel famigerato decreto “Salva Italia”. Ma la strada da percorrere per vincere è ancora lunga, e non è in discesa. Qui il comunicato del COORDINAMENTO NAZIONALE NO TRIV
COMUNICATO STAMPA (28 Novembre 2015)
I sei quesiti referendari contro le trivelle in mare e su terraferma hanno superato indenni l’esame di regolarità della Corte di Cassazione. Con due ordinanze adottate il 26 novembre 2015 la Corte di Cassazione ha accolto i sei quesiti referendari così come deliberati dalle Assemblee Regionali di Basilicata, Abruzzo, Marche, Campania, Puglia, Sardegna, Veneto, Liguria, Calabria e Molise.
Le ordinanze verranno comunicate al Presidente della Repubblica, al Presidente della Corte Costituzionale ed ai Presidenti delle Camere, e verranno notificate ai delegati dei dieci Consigli Regionali proponenti. L’ultimo scoglio da superare sarà l’esame di legittimità costituzionale della Suprema Corte che si pronuncerà entro febbraio 2016.
I sei “SI'” giungono a coronamento di una lunga fase di impegno per la formulazione dei quesiti e della pressione democratica dal basso esercitata da oltre 200 associazioni italiane. L’abnegazione ed il merito della proposta complessiva hanno consentito di intercettare prima l’unanime consenso della Conferenza dei Presidenti delle Assemblee elettive regionali e, successivamente, lo storico risultato delle 10 delibere di richiesta referendaria, da parte di altrettanti Consigli regionali.
Compiuto questo nuovo passo, è giunto dunque il momento di consolidare il risultato ottenuto preparandosi alla costruzione di un sistema di alleanze -il più ampio e trasversale possibile- e di un percorso organizzativo che consenta di portare al voto la maggioranza degli aventi diritto, senza mediazioni con il Governo su un referendum che ha un obiettivo molto chiaro e non emendabile, se non a rischio di stravolgerne e affievolirne senso e scopo.
La via referendaria è l’unica che possa raggiungere nel breve termine l’obiettivo sia di fermare nuovi progetti petroliferi sia di contenere e ridimensionare il ruolo delle energie fossili nel mix energetico nazionale.
Ma anche qualora le richieste di modifica normativa in senso No Triv venissero avanzate in buona fede, bisognerebbe tener conto della maggiore efficacia del referendum rispetto a quella, più limitata, dell’abrogazione per via legislativa. I divieti introdotti dal Decreto Prestigiacomo non furono forse rimossi per numerosi progetti petroliferi in mare proprio dall’art. 35 comma 1 del Decreto Sviluppo?
Quindi, non si persegua la strada della modifica per via legislativa delle norme che, per mezzo del referendum abrogativo, è invece possibile cancellare stabilmente dall’ordinamento.
Il Referendum non è nella disponibilità del Governo.
L’Assemblea “Verso il Referendum” dell’8 novembre scorso, rappresentativa delle associazioni vere promotrici del Referendum, ha stabilito in modo unitario ed inequivocabile che nessuno è legittimato a “mediare” o a dialogare con un Governo che più di ogni altro ha dimostrato fredda determinazione nel portare a compimento il contenuto fossile della Strategia Energetica Nazionale e che si appresta ad assestare un colpo mortale al coinvolgimento delle comunità locali e delle Regioni nelle scelte strategiche che determinano il futuro dei territori e del Paese.
Il Referendum è di tutti e ciò significa che nessuno può disporne oltre la Corte Costituzionale e, ovviamente, i Cittadini.
Prossima tappa intermedia sarà l’incontro a Roma, il 9 dicembre prossimo, tra i delegati delle Assemblee delle dieci Regioni che hanno deliberato la richiesta di referendum ed i rappresentanti delle associazioni promotrici del Referendum: in quella sede verranno messi a fuoco i principali aspetti organizzativi e discusse le prime soluzioni che dovranno portarci al voto di primavera.
La strada è tracciata. Adesso tocca percorrerla tutti assieme per arrivare al risultato per anni inseguito: liberare il mare e la terraferma da nuove trivelle ed aprire la strada ad una nuova politica energetica, economica ed ambientale. Coordinamento Nazionale No Triv Roma, 28 novembre 2015
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DIECI REGIONI E 200 ASSOCIAZIONI DICONO NO ALLE TRIVELLE
di Pasquale Esposito, 5/10/2015, da http://www.mentinfuga.com/
In questi mesi le posizioni ambientaliste dirette a bloccare le trivellazioni in mare, alla ricerca di idrocarburi, sono state contestate con un argomento in particolare. Quello che spesso è stato usato anche per il nucleare: «se i nostri vicini trivellano perché non dovremmo farlo anche noi perdendoci importanti opportunità economiche?».
Nel caso delle trivellazioni il nostro vicino è la Croazia. Ebbene, anche questa scusante, sta crollando miseramente perché i contratti con le compagnie petrolifere, a cui sono stati assegnati i lotti, non sono stati firmati. Potrebbe essere il nuovo governo a doversene occupare, infatti, il Parlamento croato, prima dello scioglimento, non se ne è occupato.
Del resto «nei mesi precedenti la Marathon Oil e la OMV, titolari di ben sette su dieci delle concessioni nell’Adriatico croato, avevano già rinunciato definitivamente a procedere con i loro piani. E’ probabile che anche la INA faccia un passo indietro. Se fosse così l’unico lotto che manterrebbe qualche chance di sfruttamento – in futuro – sarebbe quello assegnato al consorzio ENI e MedoilGas, la stessa compagnia che avviò il progetto Ombrina Mare in Abruzzo» [1].
Non solo ma sempre qualche settimana fa il caso dell’Artico avrebbe dovuto indurre a qualche riflessione in più da parte dell’esecutivo di marca renziana e schierata dalla parte delle compagnie petrolifere. Infatti dopo quasi dieci anni di preparazione, sette miliardi di investimenti, l’inizio dei lavori appoggiati dal Presidente Obama e milioni di persone che si sono opposte al progetto la Shell ha deciso di abbandonare il progetto di trivellare l’Artico di fronte all’Alaska. Secondo i dirigenti della multinazionale anglo-olandese le perforazioni sarebbero troppo onerose in rapporto alla quantità di gas e petrolio che si possono estrarre.
Il Governo Renzi con il decreto Sblocca Italia continua a considerare la ricerca di petrolio e gas nei mari italiani strategica per il futuro energetico del paese. Il Belpaese rischia di diventare un colabrodo visto che sono già più di quattrocento i procedimenti di ricerca ed estrazione, tra quelli avviati e in partenza. Nella sola Basilicata ne sono in funzione settanta.
Ma qualche giorno fa dieci Consigli regionali (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Liguria, Marche, Molise, Puglia, Sardegna e Veneto, che rappresentano i due terzi delle regioni costiere, hanno deliberato a favore del referendum anti-trivelle. Non era mai accaduto che dieci Regioni presentassero quesiti referendari e comunque sarebbero bastati cinque Consigli regionali secondo i dettami dell’articolo 75 della Costituzione (5 consigli regionali) per poter depositare i requisiti in Cassazione.
La novità non è solo quella della forza propositiva ma anche quella di una scelta politica condivisa che guarda allo sviluppo in totale rispetto dell’ambiente e delle economie locali. Indubbiamente è anche uno scontro con l’esecutivo e con il premier in particolare visto che le votazioni sono di consigli anche con presenza PD come quello della Puglia di Emiliano.
Per il coordinamento nazionale No Triv e altre 200 associazioni che da tempo sono in trincea con una comunicazione costante, proteste e manifestazioni, è uno straordinario successo. E non sarà questo passaggio a fermarli a cominciare dall’opposizione per bloccare la piattaforma Vega B prevista di fronte al litorale di ragusano del canale di Sicilia o la mobilitazione contro Ombrina Mare un’altra piattaforma con raffineria galleggiante che nascerebbe a poche miglia dalla costa della provincia di Chieti, sulla costa dei Trabocchi, di cui si discuterà al ministero dello Sviluppo economico il 14 ottobre prossimo.
Sono sei i quesiti referendari depositati in Cassazione con i quali si vuole abrogare l’articolo 38 dello Sblocca Italia e di diversi suoi commi e dell’articolo 35 del Decreto sviluppo. In sostanza si tratta di impedire pozzi entro le 12 miglia e che siano ripristinati i poteri delle Regioni e degli enti locali, «mettendo inoltre i cittadini al riparo dalla limitazione del loro diritto di proprietà rispetto alle società estrattrici» come ha spiegato il presidente del Consiglio regionale della Basilicata, Piero Lacorazza. Una battaglia vinta ma, come ha scritto Serena Giannico «la strada verso le urne è irta di ostacoli. E poi, come si farà a raggiungere il famigerato quorum? Molti, inoltre, i coordinamenti e i movimenti ecologisti che hanno bocciato l’idea referendaria sul nascere. Perché? «Ci darà in pasto al Pd che farà di noi ciò che vuole», tuonano da più parti. «Per essere precisi… — spiegano invece i «No Ombrina» — in mare attual¬mente ci sono 88 procedimenti in itinere (escludendo le concessioni già vigenti per le quali sarà possibile continuare a scavare pozzi…). Di questi un terzo (31) sono in tutto o in parte nelle 12 miglia. Dei 31 solo 8 sono totalmente dentro le 12 miglia, mentre 23 parzialmente, per cui, in caso di vittoria con il referendum, sarebbero solamente riperimetrate (piazzando un’eventuale piattaforma a 12,1 miglia…). Inoltre, tra oggi e l’eventuale referendum, alcune delle concessioni potrebbero andare in porto (come Ombrina) … Allora di che stiamo parlando?». (Pasquale Esposito)
[1] “Le trivellazioni offshore? Ormai piacciono solo a Renzi!”, http://www.greenpeace.it, 30 settembre 2015
[2] Serena Giannico, “Via libera dalle regioni. Sarà referendum No triv”, http://www.ilmanifesto.info, 25 settembre 2015
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Fauna marina vittima dell’Airgun
Posted by Redazione Fatto&Diritto on 3 agosto 2015 in Marche da Urlo | 6 Views | Leave a response
FIRME PER VIETARE LA TECNICA ISPETTIVA
– ROMA – di Giampaolo Milzi –
L’AIRGUN permette l’ispezione dei fondali marini attraverso il rilascio in mare di aria compressa. Il rumore che produce tale metodo è pari a 100mila volte quello del motore di un jet e per la fauna marina è dannosissimo: può provocare lesioni permanenti letali. Chiediamo al Governo di vietare l’utilizzo dell’airgun per la ricerca di idrocarburi in mare, che non porta vantaggi alla collettività in termini economici, di conoscenza scientifica e ambientali, ed è a favore solo delle compagnie che detengono titoli e concessioni minerarie.
Negli ultimi anni la comunità scientifica internazionale ha iniziato a porre attenzione all’inquinamento acustico in ambiente acquatico, arrivando alla conclusione che questa attività ha effetti negativi sulla fauna marina, in particolare sui cetacei. Gli impatti possono essere di tipo fisiologico, comportamentale, percettivo, cronico e indiretto. Ci sono casi in cui rumori molto forti, come le esplosioni a breve distanza, hanno prodotto danni fisici permanenti anche ad organi diversi da quelli uditivi, portando in alcuni casi al decesso dell’esemplare colpito.Si sono verificati, anche di recente, diversi casi di spiaggiamento di cetacei e studi hanno accertato la connessione con le ricerche petrolifere attraverso airgun attive nell’area.
Il tema dell’airgun è stato al centro del dibattito parlamentare durante l’iter di approvazione della legge n.68 del 19/5/2015 che inserisce i reati ambientali nel codice penale, e i rappresentanti di tutti i gruppi parlamentari si sono schierati contro l’airgun. Per questo chiediamo al Governo e alla maggioranza che lo sostiene di dare attuazione agli impegni presi nel dibattito parlamentare e ai diversi ordini del giorno approvati in materia al Senato e alla Camera.
Per firmare la petizione:
https://www.change.org/p/fermiamo-l-airgun-salviamo-i-cetacei-stopoilairgun
(articolo tratto da Urlo – mensile di resistenza giovanile)
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LA RIVOLTA DELLE REGIONI CONTRO LE TRIVELLAZIONI IN MARE
da la Stampa del 30/9/2015
– BASILICATA, MARCHE, PUGLIA, SARDEGNA, ABRUZZO, VENETO, CALABRIA, LIGURIA, CAMPANIA e MOLISE hanno depositato in Cassazione 6 quesiti referendari –
«Diciamo “no” alle trivellazioni entro le 12 miglia, cioè nelle acque nazionali, e che siano ripristinati i poteri delle Regioni e degli enti locali per mettere i cittadini al riparo dalla limitazione del loro diritto di proprietà perché lo “sblocca Italia” prevede che per ben dodici anni possa essere concesso il permesso di ricerca sui terreni privati», ha spiegato Pino Lacorazza presidente dem del Consiglio regionale della BASILICATA, capofila dell’iniziativa referendaria. «Crediamo – ha aggiunto – che la politica energetica dell’Italia debba raccordarsi con l’Unione europea: anziché trivellare, dobbiamo limitare i consumi energetici e costruire edifici evitando che disperdano calore».
Il referendum interviene, ha spiegato il presidente del Consiglio regionale della SARDEGNA Gianfranco Ganau, «su alcune norme del Decreto Monti, quelle contenute nell’art. 35 che estendono il divieto di trivellazione in mare alle 12 miglia, riattivando contestualmente i procedimenti bloccati dal governo Berlusconi, 25 progetti che prevedono attività di ricerca ed estrazione entro le 12 miglia». «L’abrogazione di alcune norme dell’art. 37 del decreto Sblocca Italia – ha proseguito Garau – pone invece l’attenzione su un altro tema legato alla partecipazione delle Regioni, dei territori e delle popolazioni alle decisioni assunte dallo Stato su temi che li riguardano da vicino come la pianificazione di studi, la ricerca e l’estrazione di idrocarburi». Il senso dell’azione referendaria, ha riassunto Garau, «è il blocco di tutti i progetti in essere e la sua approvazione farà sì che il divieto sia assoluto e non superabile, in quanto non potrà più essere introdotta alcuna norma che lo consenta».
Il VENETO, già “scottato” dalle trivelle non vuole fare il bis. «Abbiamo già subito i danni da trivellazione negli anni ’50 e ’60, in laguna e nel delta del Po, dove la costa in molti tratti era calata di due metri e mezzo, anche tre: abbiamo dovuto innalzare gli argini con una spesa che oggi sarebbe di due miliardi di euro», ha ricordato Roberto Ciambetti presidente leghista del Consiglio regionale del Veneto. «I 60 milioni di turisti che ogni anno arrivano a Venezia non vogliono certamente un paesaggio trivellato».
La trasversalità dell’iniziativa referendaria è stata messa in luce da Giovanni Pastorino consigliere regionale della LIGURIA di “Rete a sinistra”: «Indica quanto sia sentita la necessità di un riequilibrio dei poteri dello Stato, soprattutto per difendere il patrimonio ambientale italiano, un ambito per il quale non è assolutamente possibile spodestare le regioni del diritto a decidere».
Anche la CAMPANIA, regione “capofila” per numero di abitanti, si è fatta sentire. «È surreale che un governo che vuole che regioni e enti locali siano la `seconda Camera´, elimini la voce delle regioni su una scelta importante come le trivellazioni», hanno obiettato i consiglieri regionali Francesco Emilio Bonelli (verdi) e Antonella Ciaramella (Pd).
Sul piede di guerra anche il MOLISE che, con il consigliere regionale Nico Ioffredi di Sel, boccia il progetto trivelle «miope e non lungimirante sia dal punto di vista ecologico che economico: fra cento anni l’impresa ittica e quella turistica ci saranno ancora mentre gli idrocarburi, ammesso che ci siano nel nostro mare, hanno un orizzonte di vita di pochi lustri».
«Questa iniziativa è importante – hanno aggiunto i consiglieri delle MARCHE Andrea Biancani dei dem e Sandro Bisonni di M5s – perché finalmente le regioni fanno parlare non per gli scandali di “rimborsopoli” ma per temi che riguardano la vita dei cittadini». Plauso da Legambiente e da Roberto Speranza della minoranza dem.
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Da “Il Fatto Quotidiano”:
AIRGUN KILLER
Una questione, quella delle trivellazioni in mare, tornata di grande attualità dopo che, già nel maggio 2012, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) aveva sottolineato in un rapporto tecnico sulla “Valutazione e mitigazione dell’impatto acustico dovuto alle prospezioni geofisiche nei mari italiani” i problemi provocati utilizzando la tecnica dell’airgun, l’indagine geofisica usata per la ricerca petrolifera e considerata particolarmente nociva per l’ecosistema marino. Dai danni ai tessuti corporei degli organismi acquatici alla soppressione del loro sistema immunitario, passando per una diminuzione permanente della capacità uditiva e del tasso riproduttivo fino allo spiaggiamento. Eppure il divieto di applicare questa tecnica è scomparso persino dalla legge sugli ecoreati, approvata in via definitiva dal Parlamento il 19 maggio scorso: introdotto inizialmente, è stato poi rimosso alla Camera senza ulteriori ripensamenti al Senato. Con il benestare del premier, contrario alla norma nonostante i mal di pancia del presidente della commissione Ambiente di Montecitorio, Ermete Realacci (Pd).
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MARE MONSTRUM
Ad oggi, secondo i dati forniti da Legambiente, sono 52 le istanze di permesso di ricerca e prospezione presentate dalle diverse compagnie petrolifere fra Adriatico, Ionio e Canale di Sicilia, per un totale di oltre 122 mila chilometri quadrati. Cioè l’estensione di tutta Inghilterra. Quarantaquattro di queste sono concentrate nelle mani di 13 compagnie: 6 italiane (fra cui Eni, Edison e Shell), 4 del Regno Unito, 2 australiane e una irlandese. E così, per esempio, in Adriatico ci sono 78 concessioni già attive per l’estrazione di gas e petrolio, 39 delle quali in Alto Adriatico, alle quali vanno aggiunte le tre richieste di coltivazione (due di Agip e una di Eni) in fase di valutazione d’impatto ambientale. Altre 21 concessioni di estrazione di gas e petrolio sono poi attive fra le Marche e la Puglia, dove sono presenti 8 piattaforme e 34 pozzi produttivi per un totale di 1.127 chilometri quadrati di estensione. I danni all’ecosistema? Incalcolabili, dicono a Legambiente (e non solo). Secondo gli studi del Norvegian Institute of Marine Research l’impatto delle attività petrolifere rischiano di portare ad una diminuzione del pescato del 50% nelle aree circostanti la sorgente sonora che utilizza airgun.
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SCACCO AL MARE
Le cose non vanno tanto meglio nel canale di Sicilia, dove sono oltre 12.500 i chilometri quadrati di mare sotto scacco delle compagnie petrolifere e dove, nel 2014, la produzione di greggio è stata di poco superiore a 232 milioni di tonnellate: il 31% della produzione nazionale in mare. Stavolta sono 8 le istanze di permesso di ricerca attive, per un totale di quasi 3.600 chilometri quadrati di mare. Ultima in ordine di tempo quella della Nautical Petroleum, che il 12 giugno di quest’anno ha ricevuto il parere positivo del ministero dell’Ambiente malgrado le osservazioni presentate da Legambiente e dalla Provincia di Ragusa, secondo cui lo studio di impatto ambientale presentato dalla compagnia britannica risulta “scarso e inadeguato” perché basato su “studi generici” e “fonti bibliografiche datate”. Non solo. L’area è oggetto di attività anche da parte di Eni ed Edison. Come nel caso dell’offshore “Ibleo”, il progetto di trivellazione in mare delle due compagnie nazionali che prevede 8 pozzi, una piattaforma e vari gasdotti al largo della costa delle province di Caltanissetta, Agrigento e Ragusa. Come se non bastasse, alla metà di aprile il ministero guidato da Gian Luca Galletti ha concesso il nulla osta alla nuova piattaforma di Edison Vega B, a poche miglia di distanza dalla città di Pozzallo. Un affare da 100 milioni di euro. Nonostante, anche in questo caso, il parere contrario di cittadini, associazioni, amministratori locali e operatori turistici.
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ISOLA DEL TESORO
Che dire, poi, della Sardegna? L’isola è tornata al centro dell’attenzione dopo l’istituzione della ‘zona E’, l’area compresa fra la costa orientale dell’isola e le Baleari (oltre 20 mila chilometri quadrati), istituita il 9 agosto 2013 col decreto firmato dall’allora ministro dello Sviluppo economico, Flavio Zanonato (Pd), nella quale è autorizzata la ricerca e l’estrazione di idrocarburi. In questo caso, sono due le prospezioni già attive nel settore occidentale dell’isola, tra Oristano e la Corsica, portate avanti dalla multinazionale americana Schlumberger (la più grande società per servizi petroliferi al mondo) e dalla norvegese Tgs-Nopec Geophysical Company. Entrambe le compagnie detengono due distinti titoli ricadenti nella stessa area e perfettamente sovrapponibili. Quindi, fa notare Legambiente, queste andranno a ripetere due volte le stesse indagini con modalità riconosciute dalla comunità scientifica internazionale come altamente impattanti per l’ecosistema marino. Utilizzando, manco a dirlo, la tecnica dell’airgun.
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CIAO EUROPA
Anche il Mar Ionio è preso di mira dalle attività di ricerca finalizzate all’estrazione di idrocarburi. Con tutti i rischi ad esse connesse. Nonostante, fino al 2011, fossero vietate. Poi, grazie ad un emendamento al testo di recepimento della direttiva europea sui reati ambientali, si è riaperto anche questo tratto di mare alle attività estrattive. Le 15 istanze di permesso di ricerca presentate finora (8 in fase decisoria e 7 in corso di valutazione ambientale) appartengono a dieci diverse società di settore, tra cui figurano la statunitense Global Med Llc, che ne detiene addirittura 6, Nautical Petroleum, Eni, Edison e Appennine Energy. Quest’ultima ha ricevuto anche un permesso di ricerca nel tratto di fronte alla costa di Sibari all’interno del quale è stata presentata un’istanza di autorizzazione per un pozzo esplorativo chiamato ‘Liuba1 Or’.
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LOBBY ALL’ATTACCO
“Ecco perché, mappa delle trivellazioni alla mano, fermare l’estrazione e la ricerca di petrolio è nell’interesse generale dell’Italia”, spiega a ilfattoquotidiano.it Andrea Minutolo, coordinatore dell’ufficio scientifico di Legambiente. “Continuare a rilanciarla è il risultato di una strategia insensata che non garantisce nessun futuro energetico per il nostro Paese – aggiunge –. È tempo che questo governo si svincoli davvero dal passato e pensi seriamente al futuro dell’Italia piuttosto che agli interessi delle lobby dell’oro nero”. E non basta: “Proprio in questi giorni -aggiunge Minutolo- è arrivata dalle Regioni una presa di posizione in favore dei territori, che lancia un segnale politico chiaro, visto che finora l’esecutivo non ha mai accolto le istanze locali volte a fermare le estrazioni petrolifere in mare e a terra”. Per Minutolo, “ora serve un ulteriore sforzo da parte delle amministrazioni per chiedere una moratoria che blocchi qualsiasi autorizzazione relativa alle attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi. Negli ultimi mesi sono stati diversi i pareri positivi rilasciati dai ministeri competenti alle richieste delle compagnie petrolifere: Renzi si renda conto che con la sua politica a favore delle fonti fossili va contro il volere dei cittadini”.
Twitter: @Antonio_Pitoni @GiorgioVelardi
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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TRIVELLE, IN ATTESA DEL REFERENDUM REGIONI FANNO MURO. MINISTERO: “RISCHIO PARALISI”
di Elena Veronelli, da “Il Fatto Quotidiano” del 25/10/2015
– In Basilicata una società ha vinto il ricorso al Tar contro lo stop a un progetto di ricerca di idrocarburi. L’ente non si arrende e contesta altri permessi, mentre si muovono anche Abruzzo e Veneto. Ma la riforma costituzionale che attribuisce competenza esclusiva sull’energia allo Stato spunta le armi dei governatori –
Aspettando il referendum contro lo “sblocca trivelle”, continua su più fronti e in più sedi lo scontro sull’estrazione di petrolio e gas nei territori nostrani. Davanti alla giustizia amministrativa, in Parlamento e nelle sedi regionali. Con le compagnie petrolifere che prendono forza e ottengono sempre più permessi di ricerca e le Regioni che sono sulle barricate e approvano provvedimenti ad hoc per limitare la possibilità di cercare idrocarburi nelle loro terre. E il futuro non sembra più roseo: secondo gli ambientalisti “siamo solo all’inizio”.
Da annotare innanzitutto la vittoria della società Rockhopper nel ricorso al Tar della Basilicata contro lo stop della Regione al progetto di ricerca di idrocarburi “Masseria La Rocca”. La società aveva chiesto la proroga dell’esclusione dalla Via concessa nel 2009 per il permesso di ricerca e la giunta lucana aveva rifiutato. Il tribunale ha ora stabilito che a decidere se la compagnia potrà proseguire i lavori sarà il ministero dell’Ambiente. La Regione dovrà quindi inviare tutti gli atti al ministero, proprio sulla base di quanto stabilito dall’articolo 38 dello Sblocca Italia (il cosiddetto “sblocca trivelle”) che accentra dai territori a Roma il potere di rilasciare le autorizzazioni per le nuove attività di ricerca ed estrazione di idrocarburi.
Sconfitta su questo fronte, la Basilicata non demorde e continua la sua battaglia contro il proliferare di nuovi pozzi di oro nero. In questi giorni si è rivolta al Tar per un’altra storia: contro i recenti decreti del ministero dell’Ambiente di valutazione d’impatto ambientale positiva per due istanze di Shell Italia per altrettanti permessi di ricerca di idrocarburi al largo delle coste lucane e calabresi. La Giunta regionale, si legge in una nota, “ha dato mandato al proprio ufficio legale di produrre ricorso al Tar contro le autorizzazioni concesse alla società Shell per la ricerca di idrocarburi liquidi e gassosi nel mar Jonio”. Soddisfatta Legambiente Basilicata, che però chiede di più a tutte le amministrazioni regionali: “Si impegnino per chiedere fin da subito una moratoria che blocchi qualsiasi autorizzazione relativa alle attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi”. Perché “le conseguenze dello Sblocca Italia sarebbero appena cominciate, consentendo di fare a terra quello che sta valendo per il mare, ovvero togliere ruolo e potere vincolante agli enti locali”.
Su questa strada stanno effettivamente cercando di muoversi alcune Regioni. Il consiglio regionale abruzzese ha approvato all’unanimità una legge che estende il limite delle 12 miglia introdotto nel 2012, entro il quale le attività di ricerca sono vietate, ai progetti che erano stati fatti salvi perché già in itinere. L’estensione del divieto è uno degli obiettivi dei quesiti referendari all’esame della Cassazione. Tra i progetti interessati c’è Ombrina Mare di Rockhopper, sulle coste abruzzesi, da anni nel mirino dell’opposizione locale. “Restituire il divieto di ricerca, prospezione e coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi entro le 12 miglia dalla linea di costa ci consente di proseguire nella nostra strategia che si è concretizzata con la presentazione del referendum”, ha commentato l’assessore all’Ambiente Mario Mazzocca. In Veneto, invece, la commissione Ambiente ha approvato il progetto di legge del consigliere Pd Graziano Azzalin che mira a escludere ogni tipo di ricerca di idrocarburi nell’area del Parco del Delta del Po.
Dal canto suo il governo Renzi non arretra di un passo e prosegue la sua corsa verso lo sblocco dei pozzi di petrolio e gas della Penisola. Anche perché, ha detto a Il Mattino il direttore generale per le Risorse minerarie ed energetiche del ministero dello Sviluppo economico Franco Terlizzese, nel caso i referendum siano dichiarati ammissibili il rischio è quello di “un ritorno a un sistema di produzione di gas e petrolio degli anni ’90”. Insomma, secondo Terlizzese si potrebbe andare verso una paralisi del settore.
L’esecutivo è comunque ora forte della riforma del Titolo V della Costituzione votata in Senato nei giorni scorsi, che tra le altre cose prevede il ritorno alla competenza esclusiva dello Stato in materia di energia e toglie ogni potere alle Regioni. I proponenti del referendum si appellavano proprio al Titolo V, nella sua versione originale, per vincere la loro causa. La strada è però lunga e tutto è ancora da vedere. Il provvedimento deve infatti tornare a Montecitorio e attendere sei mesi prima di essere sottoposto nuovamente all’approvazione delle due Camere. Dopo sarà sottoposto al referendum popolare e al giudizio della Corte Costituzionale.
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NO TRIVELLE: COSA C’È DIETRO LE PROTESTE CONTRO RENZI ALL’AQUILA
Di fronte alle coste abruzzesi dovrebbe sorgere Ombrina Mare, uno dei progetti più grandi di estrazione di petrolio dell’Adriatico. C’è chi dice no
di Lidia Baratta da LINKIESTA del 27/8/2015
Questo non è un Paese per fossili. Da Sud a Nord, il movimento contro le trivellazioni per la ricerca di gas e petrolio guadagna ogni giorno sostenitori, tra cittadini, ambientalisti, scienziati e politici da destra a sinistra. Lo scorso 25 agosto i “No Triv” hanno contestato Matteo Renzi nel corso della sua visita a L’Aquila. Al largo delle coste abruzzesi dovrebbe sorgere Ombrina Mare, uno dei più grandi progetti di estrazione, trattamento e stoccaggio di idrocarburi liquidi e gassosi previsti nel mare Adriatico.
Dopo il decreto sblocca Italia del governo Renzi, diventato legge a novembre 2014, negli ultimi mesi le istanze per la ricerca, prospezione e coltivazione (estrazione) di idrocarburi sulla terraferma e in mare si sono moltiplicate. Dalla Pianura Padana alla Romagna, i progetti riguardano tutte le coste adriatiche fino al Salento, ma anche Campania, Basilicata, il golfo di Taranto e il Canale di Sicilia. E anche gli amministratori locali si sono messi di traverso, impugnando quello che è stato ribattezzato “sblocca trivelle” davanti alla Corte Costituzionale. L’ultima proposta arriva dall’assessore all’Ambiente della Regione Abruzzo, che ha chiesto al consiglio regionale di discutere la possibilità di indire un referendum per l’abrogazione di un comma (il primo dell’articolo 35) del decreto sviluppo del governo Monti, che per primo ha resuscitato le trivellazioni entro le 12 miglia.
Il coordinamento nazionale No Triv, che oggi raccoglie più di 150 tra associazioni e comitati, nasce proprio nel 2012. Il decreto sviluppo dell’allora ministro Corrado Passera fu in pratica una sanatoria per i progetti petroliferi bloccati dall’ex ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo, che aveva previsto lo stop a tutte le attività entro le 5 miglia marine ed entro le 12 miglia in presenza di un’area marina protetta, fermando i procedimenti allora in corso. Monti estese il limite delle 12 miglia a tutte le coste. Ma in più salvò “i procedimenti in materia di idrocarburi off-shore che erano in corso alla data di entrata in vigore del cosiddetto correttivo ambientale”.
Poi è arrivato il decreto sblocca Italia del governo Renzi, che a sua volta ha velocizzato e snellito l’iter burocratico per la richiesta di ricerca ed estrazione, esautorando le regioni dai pareri vincolanti e mettendo in pratica di fatto le previsioni della Strategia energetica nazionale del 2012 che chiedeva una semplificazione degli “iter autorizzativi”. Come si legge nel dossier “La politica energetica italiana nella XVII legislatura”, lo sblocca Italia “contiene significative disposizioni che vanno nella direzione di rilanciare la ricerca e la coltivazione degli idrocarburi”, indicata come “attività di interesse strategico”, stabilendo che il “titolo autorizzativo comprende la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità e urgenza dell’opera”, tanto che “se le opere da eseguire comportavano variazione degli strumenti urbanistici, ha anche l’effetto di variante urbanistica”.
Per Ombrina Mare, ad esempio, «la produzione stimata inciderebbe sul consumo nazionale per percentuali irrisorie
«Non a caso in questo ultimo periodo le istanze sono cresciute in maniera esponenziale, e con queste la richiesta di conversione dei titoli in “titoli concessori unici”», spiega Stefano Pulcini, portavoce del Coordinamento nazionale No Triv. «Così come sono cresciuti i decreti di compatibilità ambientale». Quello per Ombrina Mare della Rockhopper Italia, di fronte alle coste abruzzesi, è arrivato lo scorso 7 agosto, a ridosso delle ferie estive. Il progetto prevede da quattro a sei pozzi, la realizzazione di un serbatoio galleggiante per il trattamento e lo stoccaggio di olio, oltre che una piattaforma di produzione di gas e olio.
«La nostra contrarietà», spiega Pulcini, «non deriva solo da questioni ambientali. Ne facciamo un discorso sistemico, incardinato sui principi della conversione ecologica dell’economia e delle attività produttive. Il governo punta sulle trivellazioni, mentre il mondo intero va verso direzioni alternative, con riduzioni significative degli investimenti in energia da fonti fossili». Secondo la Bloomberg New Energy Finance, mentre nel resto del mondo gli investimenti in fonti rinnovabili nel 2014 sono aumentati del 16%, in Italia hanno invece subito un tracollo del 60 per cento.
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Anche le royalty, cioè i guadagni che lo Stato ha per le concessioni alle aziende private, sono bassi: 10% sul valore di vendita dei prodotti estratti a terra; mentre sul mare sono del 7% per il gas e 4% per il petrolio
Contro il Decreto Sblocca Italia è intervenuto anche un gruppo di scienziati di Bologna, riuniti nel Comitato “Energia per l’Italia”, che ha inviato una lettera pubblica a Matteo Renzi sostenendo che il decreto «non prende in considerazione la necessità di creare una cultura del risparmio energetico e più in generale della sostenibilità ecologica». Tanto più, dicono, in un Paese che «non ha carbone, ha pochissimo petrolio e gas, non ha uranio, ma ha tanto sole e le tecnologie solari altro non sono che industria manifatturiera, un settore dove il nostro Paese è sempre stato all’avanguardia». Secondo i calcoli di Legambiente, le riserve di petrolio ancora a nostra disposizione sono di circa 130 milioni di tonnellate. L’anno scorso ne abbiamo estratto circa 6 milioni di tonnellate, oltre a 5 di gas. Insomma, dicono gli scienziati, si ridurrebbero mare e terra a una groviera per poche gocce di energia, che potrebbero garantirci l’autonomia per non più di un paio d’anni.
«Le risorse certe a nostra disposizione sono limitate», dice Pulcini, «e non giustificano azioni come quelle che si stanno mettendo in atto e che si protrarranno per lunghissimi periodi». Per Ombrina Mare, ad esempio, «la produzione stimata inciderebbe sul consumo nazionale per percentuali irrisorie – lo 0,2% per il petrolio e 0,001% per il gas – così come l’occupazione prevista sarà marginale: l’azienda stessa dichiara soli 14 assunti per un impianto di dimensioni mostruose». E anche le royalty, cioè i guadagni che lo Stato ha per le concessioni alle aziende private, sono bassi: 10% sul valore di vendita dei prodotti estratti a terra; mentre sul mare sono del 7% per il gas e 4% per il petrolio. Nel 2014, nelle casse delo Stato sono entrati 402 milioni di euro di royalty a fronte di un valore delle estrazioni di oltre 7 miliardi. Per fare un confronto, in Danimarca il prelievo per lo Stato dalla tassazione totale delle attività estrattive oscilla tra il 64 e il 77 per cento.
Tra le società che hanno avuto il lasciapassare di recente ci sono, tra le altre, anche la Spectrum Geo Limited, autorizzata alle indagini sui giacimenti di un’area di oltre 30mila metri quadri nel mare Adriatico, la Enel Longanesi, che lavorerà nel golfo di Taranto, e la Appenine Energy, autorizzata a cercare il petrolio al largo delle coste marchigiane. Ma laddove dovrebbero esserci nuove trivellazioni sono nati da Nord a Sud comitati, associazioni e gruppi locali “No Triv”, a cui hanno fatto seguito diverse azioni delle amministrazioni locali. La Puglia per prima è ricorsa al Tar contro le autorizzazioni ambientali concesse per le estrazioni nell’adriatico. E il 14 luglio i governatori di Basilicata, Puglia e Calabria hanno partecipato a Policoro a una manifestazione contro le trivelle nel mar Ionio. La provincia di Teramo, i comuni della costa teramana e due comuni marchigiani il 7 agosto scorso hanno invece depositato ricorso al Tar del Lazio contro il progetto di prospezione con il cosiddetto “air gun” della Spectrum nell’Adriatico, sostenendo che l’area destinata all’attività sfiora il limite delle 12 miglia, arrivando a 4-5 miglia dalla costa. L’air gun è una tecnica di ricerca degli idrocarburi tramite spari continui di aria compressa che inviano poi informazioni sulla composizione del sottosuolo. La tecnica all’inizio era contenuta nel disegno di legge sugli ecoreati, ma a maggio la Camera ha votato tre emendamenti che hanno cancellato il divieto.
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TRIVELLAZIONI IN MARE: IN CROAZIA DUE SOCIETÀ RINUNCIANO A CONCESSIONI, IN ITALIA SI CHIEDE MORATORIA
29/7/2015 da http://www.qualenergia.it/
Due compagnie petrolifere a cui erano state assegnate sette delle dieci aree di ricerca idrocarburi in Croazia hanno rinunciato alle concessioni. Si tratta dell’austriaca OMV e della statunitense MARATHON OIL. La rinuncia è arrivata a pochi giorni dalla firma del contratto con il governo croato. Le altre tre licenze sono state concesse alla società pubblica croata Ina, all’ungherese Mol e al consorzio tra l’italiana Eni e l’inglese Medoilgas (già attiva in Basilicata).
L’annuncio di questo clamoroso doppio abbandono è arrivato per voce del ministro croato dell’Economia, che l’anno scorso aveva avviato la corsa alle trivellazioni sul versante orientale del Mare Adriatico. La motivazione ufficiale è che non è stata ancora risolta la disputa sui confini marittimi tra Croazia e Montenegro. Ma Greenpeace ritiene che le ragioni siano ben altre.
“Con il prezzo del petrolio in discesa e una rivolta contro le trivelle che ormai comprende non solo Croazia e Italia, ma anche comunità e cittadini dei Paesi vicini (Austria, Slovenia, Ungheria e Slovacchia), evidentemente i petrolieri non se la sentono più di rischiare per due gocce di greggio”, commenta Alessandro Giannì, Direttore delle Campagne di Greenpeace Italia. “È bene che se ne renda conto anche il governo italiano, promuovendo una moratoria immediata delle trivellazioni nei nostri mari».
Greenpeace e altre associazioni ambientaliste (Federazione Pro natura, Legambiente, Marevivo, Touring Club Italiano, WWF) hanno inviato una nota ai presidenti delle Regioni, indirizzata in particolare ai governatori di Abruzzo, Basilicata, Calabria, Marche, Molise e Puglia che si sono incontrati al Ministero dello Sviluppo Economico con il sottosegretario Simona Vicari per chiedere di sostenere una moratoria alle trivellazioni.
La moratoria si giustifica soprattutto per tre ragioni. La prima è che oggi le Regioni non hanno praticamente voce in capitolo sulle autorizzazioni delle ricerche petrolifere offshore, mentre secondo giurisprudenza su questi temi si impone una forte intesa bilaterale tra lo Stato e la Regione interessata.
In secondo luogo, in Italia, a differenza della Croazia, non è mai stata fatta una Valutazione Ambientale Strategia (VAS) sulle ricerche offshore di idrocarburi, che dovrebbe definire anche in quali aree sensibili queste ricerche non possono essere eseguite. Per esempio, una VAS ben fatta dovrebbe impedire che si richiedano autorizzazioni per attività con airgun (sistemi di analisi geofisica che producono esplosioni devastanti) in aree note per la riproduzione di specie ittiche di importanza commerciale.
In terzo luogo, la proposta di recepimento della Direttiva offshore dell’Unione Europea (dir. 30/2013) avanzata dal governo italiano è irricevibile. Anzitutto perché intende affidare a organismi ministeriali quella che, secondo la stessa direttiva, deve essere invece una “agenzia di controllo indipendente” sulle attività petrolifere. Inoltre, continua a tollerare che in Italia la Valutazione di Impatto Ambientale (VIA) per le trivelle consideri solo rischi secondari (come lo sversamento in mare di qualche metro cubo di idrocarburi) senza affrontare l’analisi dei rischi per gli incidenti rilevanti, come l’esplosione nel 2010 della Deepwater Horizon in Louisiana (l’evento che aveva spinto alla scrittura della direttiva). (…..)
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LA RIVOLTA DEI NO-TRIV: VENDEREMO CARA LA PELLE
di Serena Giannico www.eddyburg.it 9/8/2015
– Adriatico. La rabbia dell’Abruzzo dopo il via libera del governo alle trivellazioni petrolifere. Al via ricorso al Tar ma la lotta non si ferma: «Così si distrugge turismo e agricoltura» –
È «Ombrina» la parola che, più d’ogni altra, attualmente fa imbestialire l’Abruzzo e il suo milione e 332mila abitanti. E nelle scorse ore il governo Renzi, col Pd, con i suoi fedelissimi, ha regalato ad una società delle Falkland l’ok alla distruzione di uno dei tratti più belli dell’Adriatico.
Il ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti e il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini, l’altro ieri, hanno infatti firmato il decreto di compatibilità ambientale per la costruzione della piattaforma «Ombrina mare» della multinazionale Rockhopper al largo della Costa dei Trabocchi, in provincia di Chieti. È l’ultimo atto amministrativo — a parte il decreto di concessione del ministero dello Sviluppo economico che, però, a questo punto diventa mera formalità — prima dell’avvio dei lavori per la nascita dell’impianto petrolifero. Un progetto contestatissimo e combattuto da anni, da movimenti e comitati, e dai cittadini che il 23 maggio scorso a Lanciano (Ch) – erano in 60 mila — e il 13 aprile 2013 a Pescara – in 40 mila — sono scesi in massa in piazza per ribadire che questa regione non vuole diventare il regno delle trivelle. Un fiume di no ad Ombrina e alla politica energetica del premier che, tra un tweet e un selfie, sta trasformando il Belpaese in Texas. In barba alla volontà delle popolazioni. «Se ci penso… è folle… a pochi chilometri da riva, nel mezzo di un mare chiuso, vicino alle spiagge, di fronte al costituendo Parco nazionale della Costa Teatina. Ma che razza di ministero dell’Ambiente approva queste cose? – chiede la ricercatrice Maria Rita D’Orsogna – . E quale salvaguardia ci si può attendere da un ministero dei Beni culturali che, in 53 pagine più allegati, autorizza uno scempio del genere?». Il progetto di «sviluppo del giacimento Ombrina», come spiega proprio lo sciagurato decreto numero 0000172 del 7 agosto, prevede la realizzazione «a circa 6,5 chilometri dalla costa, su un fondale di circa 20 metri, prevalentemente sabbioso», di «una piattaforma per la produzione di gas pliocenico» e petrolio «da cui si dipartiranno da un minimo di 4 ad un massimo di 6 pozzi di produzione»; di «un serbatoio galleggiante» (nave Fpso che sarà sempre in funzione con fumi, torce e termodistruttori) «per il trattamento e lo stoccaggio» del petrolio; di circa 25 chilometri di condotte sottomarine o «sealines per il trasferimento del greggio dai pozzi alla nave desolforante e del metano». La concessione era stata originariamente rilasciata alla Medoilgas, che l’ha ceduta a Rockhopper. «La struttura – spiega Antonio Massimo Cristaldi, ingegnere di Monza, esperto in materia – porterà al rilascio di sostanze tossiche in mare, come è prassi in tutte le installazioni offshore del mondo. “Ombrina” abbraccerà ben due riserve di pesca, finanziate con fondi pubblici e comunitari, che saranno interessate da fenomeni di bioaccumulo di inquinanti gravi, fra cui mercurio e cadmio. Nel luglio 2008 – evidenzia -, le prove di produzione provocarono l’intorbidimento del mare attorno ad essa. L’Agenzia regionale di tutela ambientale (Arta) dimostrò che mentre lontano da “Ombrina” le acque erano “buone”, quelle attigue erano passate ad “inquinamento medio”.
E ciò in soli tre mesi. Secondo i documenti forniti dalla ditta proponente ai suoi investitoti – spiega ancora Cristaldi – il petrolio in quest’area non è facile da estrarre e per ciò si prevede l’uso di tecniche aggressive, fra cui quelle della acidizzazione del pozzo, di violente tecniche di stimolazione, tra cui la fratturazione; dell’utilizzo di fanghi diesel di perforazione, i più impattanti che esistano. Questi fanghi sono vietati nei mari del Nord dal 2000, a causa dell’inquinamento che comportano, a seguito della convenzione Ospar. Vogliamo parlare anche dell’inceneritore installato sulla Fpso? Emetterà di continuo sostanze tossiche, come l’idrogeno solforato, un veleno ad ampio spettro. E c’è anche il pericolo di subsidenza».
L’impianto sorgerà nel cuore di una riviera che sta puntando «ad una rinascita turistica», con il proliferare di attività ricettive – soprattutto hotel e bed and breakfast – , con gite in barca, con vela e surf , con la cucina tipica e la ristorazione sugli antichi trabocchi, che attraggono turisti da ogni parte del pianeta. Minacciata anche la fiorente produzione vitivinicola.
«A Matteo Renzi e ai suoi – riprende D’Orsogna — piacciono le trivelle, e non c’è democrazia, o intelligenza o buon senso che tenga. Nessuno mette navi desolforanti così vicino a riva nel mondo civile, ma in Italia sì. Le prescrizioni all’impresa? Fanno ridere. Ci sono tanto perché ci devono essere…».
«Il parere positivo di Valutazione d’impatto ambientale (Via) – tuona il coordinamento “No Ombrina” -, da una prima analisi, mostra falle clamorose e un’illogica inversione procedurale riguardante l’Analisi del rischio che, per un progetto in cui basta un incidente per massacrare l’intero Adriatico, non è oggetto di valutazione preventiva ma si fa… dopo il decreto! Cioè prima si rilascia il parere favorevole e poi si studiano, da parte dell’azienda interessata, gli effetti devastanti di un incidente. Inaudito…».
Anche su altri aspetti fondamentali, «come le modalità di scavo di chilometri di reti sottomarine per gli idrocarburi, quelle per l’ancoraggio della meganave Fpso lunga 330 metri e addirittura per il piano di smantellamento delle opere, il decreto rimanda a fasi progettuali successive». «Tra l’altro – sottolinea Augusto De Sanctis, del Forum Acqua — questo progetto non è stato sottoposto a Via transfrontaliera secondo quanto prevedono precise norme internazionali quando è evidente che uno scoppio o un incendio potrebbe coinvolgere le acque e le coste degli altri Paesi. Un provvedimento – aggiunge – che è solo il sigillo a scelte antidemocratiche di un governo mai eletto e che sta portando avanti politiche mai oggetto di consultazione popolare». Perché decisioni così importanti sono state prese a ridosso di ferragosto? «Sembra quasi che gli stessi estensori di tali atti si vergognino delle loro scelte. O probabilmente sperano di passare inosservati. Ma questo non è certamente possibile per “Ombrina” che è l’opera meno amata dagli abruzzesi negli ultimi anni»’: scrivono Wwf, Legambiente, Fai, Italia Nostra, Marevivo, Pro Natura e Arci. Sotto attacco, oltre al governo, la COMMISSIONE VIA NAZIONALE, che precedentemente, a primavera, ha dato il nulla osta ad “Ombrina”. «E’ inquietante quanto emerge da interrogazioni di eurodeputati di L’Altra Europa con Tsipras e di parlamentari del Movimento 5 Stelle – afferma Maurizio Acerbo, di Rifondazione — sui componenti del comitato nazionale per la Via. Ci si aspetterebbe che a esaminare i progetti fossero fior di esperti e scienziati e invece si scoprono personaggi che poco hanno a che fare con l’ambiente e con biografie poco rassicuranti. Un vero caravanserraglio: indagati per corruzione, sospettati di legami con la ’ndrangheta, pidduisti… Quando ci raccontano che le grandi opere sono state sottoposte a tutte le verifiche ricordiamoci che razza di gente è questa». Il decreto – sostiene ancora il coordinamento “No Ombrina” — è uno schiaffo per il presidente della Regione, Luciano D’Alfonso: la linea dialogante con il governo è bocciata inesorabilmente. A lui domandiamo: quando si romperà definitivamente con Renzi, che non ha timore di costruire un enorme gasdotto sulle faglie sismiche più pericolose d’Europa passando anche per L’Aquila?». Il decreto emesso obbliga da un lato la società Rockhopper a realizzare il progetto entro 5 anni, nello stesso tempo ammette il ricorso al Tribunale amministrativo regionale, entro 60 giorni dalla pubblicazione in Gazzetta ufficiale, e al Capo dello Stato, entro 120 giorni. E su questo si sta già lavorando. «Stiamo studiando, con un gruppo scientifico e con le associazioni, il doveroso ricorso al Tar avverso detto atto governativo. Parimenti procederemo anche contro l’eventuale futuro decreto concessorio — dichiara l’assessore regionale all’Ambiente, Mario Mazzocca -. Il modello di sviluppo che vogliamo si basa su criteri improntati ad una reale sostenibilità. Per l’affermazione di questo modello di crescita la Regione, questa Regione, si batterà fino in fondo. E venderà cara la propria pelle».
In sei contro la petrolizzazione: Abruzzo, Molise, Basilicata, Calabria, Marche e Puglia hanno deciso di far fronte unico in difesa dell’Adriatico e dello Ionio. Nei giorni scorsi, infatti, a Termoli (Cb) i vertici di queste Regioni si sono riuniti «per concordare una linea comune in difesa dell’ambiente marino a rischio trivellazioni a seguito dello Sblocca Italia» e per dar vita ad un coordinamento. Al summit i presidenti delle Regioni Abruzzo (Luciano D’Alfonso), Basilicata (Marcello Pittella), Molise (Paolo di Laura Frattura), Puglia (Michele Emiliano); il vicepresidente della Regione Marche, Anna Casini, e, per la Calabria, l’assessore all’Ambiente, Antonella Rizzo. Erano inoltre presenti gli assessori all’Ambiente di Abruzzo (Mario Mazzocca), Basilicata (Aldo Berlinguer) e Molise (Vittorino Facciolla). All’incontro anche l’europarlamentare croato Ivan Jakovcic che ha espresso «preoccupazione per quello che sta succedendo in Adriatico e per il futuro… nero a cui esso va incontro». «E’ necessario – ha sottolineato – che le Regioni si facciano portavoce presso il Governo affinché venga elaborata una nuova strategia di sviluppo in grado di favorire una crescita compatibile». «Le Regioni — afferma Mazzocca, — hanno valutato l’idea di intraprendere il referendum abrogativo previsto dall’articolo 75 della Costituzione. L’obiettivo è di eliminare, tra l’altro, quella parte del Decreto Sviluppo relativa a: «dichiarazione di strategicità, indifferibilità ed urgenza delle opere». I presidenti si ritroveranno il prossimo 18 settembre a Bari. L’obiettivo è di coinvolgere nelle iniziative anche Campania ed Emilia Romagna. se. gian.
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NO OIL – STOP SEA DRILLING
UN IMPEGNO COMUNE PER IL FUTURO DEL MAR ADRIATICO
leggi il manifesto / english version
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Sono 36.823 i kmq del Mar Adriatico croato suddivisi in 29 macro aree da investigare per la ricerca di idrocarburi. Un’attività che andrebbe ad aggiungersi alle 9 le piattaforme di estrazione di gas in acque croate e a quelle presenti nelle acque italiane. Qui le aree interessate da attività di ricerca petrolifera ammontano a quasi 12.000 kmq. Sono 6 le piattaforme già attive per l’estrazione di greggio. Nell’Alto Adriatico italiano, invece, sono attive 39 concessioni per l’estrazione di gas, da cui si estrae il 70% del metano prodotto in Italia. La strada intrapresa da alcuni Paesi, Croazia e Italia in primis, giustificata secondo la logica di incrementare la propria economia e la propria indipendenza energetica nazionale, è miope, di breve durata ed anacronistica. Le quantità di idrocarburi in gioco, infatti, inciderebbe di poco sull’economia e sull’indipendenza energetica dei singoli Stati, la maggior parte del guadagno andrebbe a compagnie private, che vedrebbero incrementare le proprie casse personali mentre i rischi e i possibili danni ricadrebbero sulla collettività.
Il Mar Adriatico è un ambiente estremamente fragile per le caratteristiche proprie di “mare chiuso” che definiscono un ecosistema molto importante e già messo a dura prova. In questo contesto si inseriscono le nuove attività di ricerca ed estrazione di idrocarburi con tutti gli impatti che comporterebbero non solo per l’ecosistema marino, ma anche per le attività che oggi costituiscono un’importante ricchezza per i Paesi costieri come la pesca e il turismo. Inoltre la questione della sicurezza delle attività estrattive è al centro della direttiva 2013/30/UE che prevede un rafforzamento delle condizioni di sicurezza ambientale per la ricerca e lo sfruttamento in mare nel settore degli idrocarburi. Un altro riferimento importante è anche la direttiva 2008/56/CE, riguardante la Strategia marina, che ha tra gli altri l’obiettivo del buono stato ecologico del mare (GES) al 2020 e prevede di valutare anche l’impatto cumulativo di tutte le attività per una gestione integrata del sistema marino-costiero.
La direttiva 2014/89/EU, che istituisce un quadro per la pianificazione dello spazio marittimo (MSPD), richiama, poi, l’istituzione di una maggiore cooperazione transfrontaliera. Inoltre, molte aree dell’Adriatico rispettano i criteri delle aree marine ecologicamente o biologicamente significative (EBSAs) della Convenzione sulla Diversità Biologica: l’Adriatico del Nord e l’area speciale Jabuka Pomo Pit e lo Stretto dello Ionio del Sud Adriatico.
(Legambiente, Coalizione S.O.S. per l’Adriatico (Greenpeace Croatia, Green Action / Friend of the Earth, WWF Adria, Sunce, Green Istria), Coalizione Italiana Parigi 2015: mobilitiamoci per il clima (Acli, Aiab, Aiig, Arci, Arci Caccia, Arci Servizio Civile, Asud, Auser, Cevi – Centro di Volontariato Internazionale di Udine, Cgil, Cia, Coldiretti, Cts, Federconsumatori, Fiab, Fiom, Focsiv, Fondazione Culturale Responsabilità Etica, Forum Italiano Dei Movimenti per l’acqua, Greenpeace, Isde-Medici per l’ambiente, Istituto Nazionale Urbanistica – Inu, Italian Climate Network, Kyoto Club, La Nuova Ecologia.it, Lega Pesca, Legambiente, Link, Lipu, Lunaria, Marevivo, Movimento Consumatori, Movimento Difesa Cittadino, Oxfam, Pro Natura, Rete degli Studenti Medi, Rete della Conoscenza, Rete per la Pace, Rinnovabili.It, Rsu Almaviva, Salviamo il Paesaggio, Sbilanciamoci, Sì Rinnovabili No Nucleare, Slow Food Italia, Spi – Cgil, Touring Club Italiano, Uil, Uisp, Unione Degli Studenti, Unione degli Universitari, Wwf Italia), ADP-ZID (Montenegro), AdriaPAN – Adriatic Protected Areas Network, ANEP (Albania), Association de volontariat Touiza de la wilaya D’Alger (Algeria), Centar za zivotnu sredinu – (Bosnia Herzegovina), Croatian scuba-diving club Neum (Bosnia Herzegovina), CNA Balneatori, Consorzio Balneatori Marina di Levante – Viareggio, Donnedamare, Ecodes (Spagna), Energia per l’Italia, France Nature Environnement (Francia), focus (Slovenia), Green Italia, Greenpeace Slovenia (Slovenia), green home (Montengero), legambiente vlore (Albania), Lega Pesca, Mediterranean Center for Environmental Monitoring (Montenegro), Osservatorio Balcani Caucaso , Rete Imprese Marina del Parco di Viareggio, Skupina 85, SIB – Confcommercio (Sindacato Italiano Balneatori), Zona22)
Sono convinta che i terremoti che ci sono oggi siano causati da queste trivellazioni come era successo nella mia regione io sono di Modena dopo che hanno smesso non abbiamo più scosse e Modena non è vero che è stata rasa al suolo 500 anni fa il nostro Duomo e del 1000