LA CRISI DELLE DINASTIE DEL PETROLIO – ARABIA SAUDITA IN FASE DISCENDENTE – Una guerra per l’egemonia nel nuovo assetto del Medioriente – L’uso della PENA DI MORTE e della violenza per tentare di ribadire un potere totalitario e anacronistico dato dal detenere le risorse energetiche fossili (il PETROLIO)

L’IRAN BLOCCA IL PELLEGRINAGGIO ALLA MECCA (IN ARABIA SAUDITA) DOPO LE 47 DECAPITAZIONI DI SCIITI - Ogni anno la Mecca accoglie tre milioni di pellegrini in arrivo da tutto il mondo. Il pellegrinaggio alla Mecca è uno dei cinque pilastri dell’islam. Per poterlo effettuare bisogna disporre dei mezzi materiali e psicologici. Consiste in una visita dei luoghi santi della MECCA e di MEDINA (qui è sepolti Maometto) e deve avvenire durante il dodicesimo mese dell’anno dell’egira. La crisi attuale ha la sua remota origine nella contestazione, da parte degli sciiti, del monopolio saudita sui luoghi santi (i sunniti, cioè l’Arabia saudita, ha la Mecca nei suoi territori, nel suo Stato). Ora c’è la decisione iraniana di bloccare la «Umrah» (cioè il pellegrinaggio alla Mecca) durante tutto l’anno, eccetto il mese di Ramadan
L’IRAN BLOCCA IL PELLEGRINAGGIO ALLA MECCA (IN ARABIA SAUDITA) DOPO LE 47 DECAPITAZIONI DI SCIITI – Ogni anno la Mecca accoglie tre milioni di pellegrini in arrivo da tutto il mondo. Il pellegrinaggio alla Mecca è uno dei cinque pilastri dell’islam. Per poterlo effettuare bisogna disporre dei mezzi materiali e psicologici. Consiste in una visita dei luoghi santi della MECCA e di MEDINA (qui è sepolti Maometto) e deve avvenire durante il dodicesimo mese dell’anno dell’egira. La crisi attuale ha la sua remota origine nella contestazione, da parte degli sciiti, del monopolio saudita sui luoghi santi (i sunniti, cioè l’Arabia saudita, ha la Mecca nei suoi territori, nel suo Stato). Ora c’è la decisione iraniana di bloccare la «Umrah» (cioè il pellegrinaggio alla Mecca) durante tutto l’anno, eccetto il mese di Ramadan

   Quarantasette “terroristi” sono stati giustiziati (il 2 gennaio) in Arabia Saudita. Le persone messe a morte erano state condannate per aver progettato e compiuto attacchi terroristici contro civili. Almeno questa la motivazione delle autorità dell’Arabia Saudita. La quasi totalità dei condannati era di religione sciita (nel primo articolo di questo post torniamo a definire storicamente quali sono le distinzioni tra sciiti e sunniti nel mondo islamico).

   Tra i giustiziati figura anche l’imam SHEIKH NIMR AL-NIMR, leader delle proteste sciite e condannato per sedizione. L’imam sciita aveva guidato le proteste scoppiate nel 2011 nell’est del reame a guida sunnita. C’è stato uno schok nel mondo arabo-musulmano a questa uccisione (va detto che nell’Arabia Saudita i condannati a morte, che sono molti ogni anno, vengono uccisi con decapitazione). La reazione dell’Iran (di religione sciita) è dapprincipio stata di vendetta (“Raid pagherà”). Ed è stata data alle fiamme l’ambasciata saudita. Poi le autorità iraniane, condannando l’episodio della messa a fuoco dell’ambasciata, hanno mostrato moderazione. In ogni caso ci sono segnali assai pericolosi perché questa ennesima crisi mediorientale possa portare a nuove guerre, nuovi massacri, l’instabilità lì, nel Medioriente, ma di conseguenza in tutto il mondo.

ARABIA SAUDITA MAPPA - La parola SAUD, o più propriamente Al Saud, è il nome della dinastia che governa sulla Penisola arabica dal 1926, dopo l'estromissione dello sceriffo della Mecca appartenente alla famiglia Hascemita. Dai Saud prende il nome lo Stato: REGNO DELL'ARABIA SAUDITA fondato nel 1932 e già allora «protetto» dagli Usa Scontro
ARABIA SAUDITA MAPPA – La parola SAUD, o più propriamente Al Saud, è il nome della dinastia che governa sulla Penisola arabica dal 1926, dopo l’estromissione dello sceriffo della Mecca appartenente alla famiglia Hascemita. Dai Saud prende il nome lo Stato: REGNO DELL’ARABIA SAUDITA fondato nel 1932 e già allora «protetto» dagli Usa Scontro

   I segnali di crisi in tutta la regione mediorientale sono di tre tipi, tre dimensioni: militare, politico-religiosa, economica.

– MILITARE per le guerre in corso in Siria, Yemen, Iraq, per la presenza dell’Isis, degli integralisti e terroristi islamici, che tentano e realizzano un’espansione specie in queste aree (ma non solo: focolai e presenze sono in Africa, pensiamo alla Libia, al Mali, altri Stati, e nel terrorismo internazionale).

– Per quanto riguarda la dimensione POLITICO-RELIGIOSA della crisi mediorientale (ora fomentata volutamente dall’Arabia Saudita con l’uccisione dei 47 condannati a morte sciiti) si rifà, appunto, a un vero e proprio storico scontro tra sunniti e sciti. L’esecuzione dello sceicco sciita Nimr Al Nimr (come dicevamo uno dei leader religiosi e politici del movimento di protesta esploso nel 2011 nella ricca provincia orientale saudita che reclamava maggiori diritti per la più grande minoranza religiosa del paese), rischia di far deflagrare un duplice scontro, politico e religioso, nella regione. Appunto tra sunniti e sciiti. E tra le potenze confessionali, Arabia Saudita e Iran, che si sono erette, rispettivamente, protettrici di quelle stesse comunità.

Lo scontro attuale è stato innescato dall'annuncio saudita di sabato 2 gennaio: l'esecuzione di 47 condannati a morte, in maggioranza sciiti, tra cui l'imam NIMR AL NIMR (nella foto qui sopra), legato a filo doppio con il governo di Teheran
Lo scontro attuale è stato innescato dall’annuncio saudita di sabato 2 gennaio: l’esecuzione di 47 condannati a morte, in maggioranza sciiti, tra cui l’imam NIMR AL NIMR (nella foto qui sopra), legato a filo doppio con il governo di Teheran

– Ma la vera più importante motivazione (secondo noi) del voler far esplodere da parte dell’Arabia Saudita la gravissima crisi attuale, è una motivazione ECONOMICA: l’Arabia Saudita è in crisi per il venir meno di buona parte delle risorse finanziarie dovute alla vendita di petrolio, per il calo del prezzo mondiale e perché questo combustibile fossile (dominante fino a qualche anno fa) ora è in forte competizione con altre risorse energetiche (lo shale gas e shale oil, specie in America) oltreché dalla crisi economica mondiale con minor produzioni industriali.

   E l’obbiettivo saudita è anche far crollare ancora di più i prezzi del petrolio, sino a impedire gli investimenti Usa nello shale gas e nello shale oil, così da non far conseguire al Nord America l’autosufficienza energetica.

   C’è poi il fatto per l’Arabia Saudita cerca di contrastare l’imprevisto cambio di rotta americano nel sistema di equilibri di potenza del Golfo con l’alleanza di fatto stipulata con l’Iran attraverso l’accordo sul nucleare da poco chiuso a Vienna (grande vittoria diplomatica USA, ma ancor di più vittoria diplomatica iraniana, che così è “rientrata nel mondo”, cioè nel commercio e nei consumi internazionali, e nella possibilità di fare una politica mediorientale da leader)

   Un contesto nuovo che, mettendo anche insieme le novità tecnologiche sul fronte dell’estrazione, sta mettendo in ginocchio molti grandi produttori – dal Sudamerica alla Russia – e ha affossato anche i conti 2015 della monarchia saudita. Mentre Teheran, che da decenni non poteva vendere oro nero all’estero, dopo l’accordo sul nucleare firmato con la comunità internazionale si prepara a riavviare le estrazioni su larga scala e a registrare ingenti ricavi aggiuntivi.

LEGISLAZIONE SULLA PENA DI MORTE - IN AZZURRO: ABOLITA PER TUTTI I REATI - IN VERDE CHIARO: ABOLITA SALVO CASI ECCEZIONALI - IN BEIGE: ABOLITA NELLA PRASSI - IN MARRONE: PENA LEGALE E REGOLARMENTE IN USO ------ Le vittime della pena di morte nel mondo ogni anno si aggirano tra le 4.000 e le 5.000. Quando sentiamo che in Cina sono avvenute ben 4.000 esecuzioni capitali nel 2011 e 3.000 nel 2012 e 2013, secondo la Ong “Nessuno tocchi Caino”, rabbrividiamo e riteniamo tale Paese come il più persecutorio esistente sulla Terra. Ma se rapportassimo alla popolazione le esecuzioni capitali, ci accorgeremmo che le cose stanno in modo diverso. Difatti, secondo questo diverso approccio, è l’IRAN il Paese con il maggior ricorso a questa pena, contando ben 8,9 condanne a morte per milione di abitanti, seguito dall’IRAQ (5,2) e dall’ARABIA SAUDITA (4,9). La CINA rimane, così, molto più distanziata e scende al quarto posto con 2,2 esecuzioni capitali per milione di abitanti. (da www.ilfattoquotidiano.it/)
LEGISLAZIONE SULLA PENA DI MORTE – IN AZZURRO: ABOLITA PER TUTTI I REATI – IN VERDE CHIARO: ABOLITA SALVO CASI ECCEZIONALI – IN BEIGE: ABOLITA NELLA PRASSI – IN MARRONE: PENA LEGALE E REGOLARMENTE IN USO —— Le vittime della pena di morte nel mondo ogni anno si aggirano tra le 4.000 e le 5.000. Quando sentiamo che in Cina sono avvenute ben 4.000 esecuzioni capitali nel 2011 e 3.000 nel 2012 e 2013, secondo la Ong “Nessuno tocchi Caino”, rabbrividiamo e riteniamo tale Paese come il più persecutorio esistente sulla Terra. Ma se rapportassimo alla popolazione le esecuzioni capitali, ci accorgeremmo che le cose stanno in modo diverso. Difatti, secondo questo diverso approccio, è l’IRAN il Paese con il maggior ricorso a questa pena, contando ben 8,9 condanne a morte per milione di abitanti, seguito dall’IRAQ (5,2) e dall’ARABIA SAUDITA (4,9). La CINA rimane, così, molto più distanziata e scende al quarto posto con 2,2 esecuzioni capitali per milione di abitanti. (da http://www.ilfattoquotidiano.it/)

   Inoltre, con la condanna a morte dei 47 sciiti con l’Iman autorevole, i sauditi sperano in questo modo di indebolire l’ala riformista iraniana, di intensificare l’odio tra le fazioni, di soffocare i problemi interni sauditi attraverso una strategia di morte e di repressione che rischia di sconvolgere nuovamente oltre che lo scacchiere mediorientale anche i mercati delle materie prime. E dall’altra l’Iran, pur con la collera di quanto accaduto in Arabia Saudita con l’uccisione degli sciiti, non sembra cadere nel tranello di una nuova guerra, che non li conviene. Rilevanti sono state le prese di posizione dei leader iraniani di condanna e rifiuto dell’attacco alle sedi diplomatiche.

   Che dire… dopo tanti anni di predominio e ricatto energetico al mondo da parte dell’Arabia Saudita, e di una dinastia che si è fortemente arricchita e ha controllato il proprio Paese con estrema ferocia solo perché possedeva il petrolio, ebbene si è arrivati al declino: è finito cioè il tempo di chi esprime potere (violento, intollerante nei confronti del pur minimo oppositore, del mondo femminile…) solo perché ricco, e la sua ricchezza è data dall’aver saputo impossessarsi di risorse naturali così importanti (com’è stato e com’è ancora il petrolio).

   Vien da pensare che la vera ricchezza di un Paese è fatta di intelligenze vere, di rapporti umani corretti, di rispetto di regole di giustizia valide per tutti (…uguaglianza, fraternità, libertà…). Di cultura e fatica nel curare il proprio ambiente, contando sulle proprie possibilità e opportunità. Senza sprechi, soprusi e divaricazioni. (s.m.)

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STORIA DELL’ODIO TRA ISLAMICI

di Roberto Tottoli, da “il Corriere della Sera” del 3/1/2016

– Quei 14 secoli del lungo odio con i sunniti – La disputa sugli imam e la catena di persecuzioni – La divisione sunniti-sciiti risale alla morte di Maometto, 14 secoli fa. Subito si divisero sulla figura dell’imam che avrebbe regnato al posto del profeta. Per gli sciiti l’imam deve essere una guida anche religiosa, per i sunniti deve garantire l’unità della comunità senza ruoli religiosi. La via sunnita è quella della gran maggioranza dei musulmani. –

   La divisione tra sunniti e sciiti risale alla morte del profeta Maometto nel 632 d.C. Per il «partito di Alì», in arabo shi‘at ‘Ali , da cui deriva il nome «sciiti», il legittimo successore di Maometto doveva essere ‘Ali, suo genero. E dopo di lui dovevano regnare i suoi discendenti con il titolo di imam. Ma la questione della successione non fu solo politica:per gli sciiti gli imam erano e sono una guida anche religiosa.

   Per i sunniti, invece, i primi sovrani, chiamati «califfi», furono scelti tra i compagni di Maometto, senza alcun ruolo religioso ma solo con il dovere di garantire l’ideale unità della comunità.

   Nel corso dei secoli il sunnismo è stato la via seguita dalla stragrande maggioranza dei musulmani, mentre lo sciismo si è a sua volta frantumato in svariate sette circoscritte ad alcune regioni.

   I motivi di tali divisioni hanno sempre avuto origine intorno all’autorità religiosa, più o meno accentuata, attribuita agli imam. Gli ALAUITi di Siria o i DRUSI, oppure gli ISMAILITI guidati dall’Agha Khan ne sono gli esempi più estremi e noti. Oppure, all’opposto, vi sono correnti come quella degli ZAYDITI dello Yemen, moderati, assai vicini ai sunniti. Quasi il novanta per cento degli sciiti segue lo SCIISMO IMAMITA. Tale corrente unisce la maggioranza della popolazione irachena, ha una sua roccaforte storica nel Libano di Hezbollah ed è soprattutto religione ufficiale in Iran dal XVI secolo.

   La RIVOLUZIONE IRANIANA del 1979 ha rappresentato il momento più alto di una comunità religiosa che ha invece spesso conosciuto marginalità, persecuzioni o dissimulazioni per sopravvivere. La storia degli sciiti è infatti costellata da sofferenze ben rappresentate dalla morte dell’imam Hussein, il figlio di ‘Alì, fatto trucidare dal califfo omayyade sunnita nel 680 d.C. a Kerbela, nell’odierno Iraq.

   I sunniti hanno sempre guardato con sospetto ai sostenitori di concezioni sciite. OGGI LE POSIZIONI PIÙ MARCATAMENTE ANTI-SCIITE SONO SOSTENUTE DALL’ARABIA SAUDITA. Il WAHHABISMO è segnato da un odio feroce contro gli sciiti, trattati alla stregua di miscredenti e avversati nel loro credo e nelle forme di culto verso i venerati imam. La Rivoluzione iraniana che ha consegnato il Paese al di là del Golfo Persico al clero sciita ha acuito tensioni e rivalità.

   La minoranza sciita che vive ancor oggi in Arabia Saudita soffre tali difficoltà e una rivalità crescente. Si tratta di una presenza antica, come la presenza sciita in Bahrein, ma marginalizzata dalla realtà politica saudita, in altalenanti fasi di riavvicinamento e confronti sanguinosi. I moti di protesta nel clima delle cosiddette primavere arabe dopo il 2011 hanno ulteriormente acuito incomprensioni irrigidendo le autorità saudite.

   Allo stesso tempo, la crescita dell’influenza di CORRENTI SALAFITE sempre più avverse allo sciismo presso la corte saudita spinge per colpire la minoranza sciita con divieti e azioni coercitive. In tali condizioni e con le crisi regionali in atto, le possibilità di dialogo sembrano sempre più difficili. E le esecuzioni di sabato 2 gennaio accrescono gli storici e insanabili contrasti rischiando di infiammare ancor di più tutta la regione. (Roberto Tottoli)

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L’ARABIA ROMPE CON TEHERAN

di Guido Olimpio, da “il Corriere della Sera” del 4/1/2016

Medio Oriente – Non si placa la rabbia dell’Iran: «Sui sauditi la vendetta divina» – Sale la tensione dopo l’esecuzione dell’imam al Nimr – L’Isis mostra un nuovo Jihad’ John. L’Arabia rompe con Teheran – Evacuato tutto il personale diplomatico – Khamenei invoca la vendetta divina –

   Dopo i disordini per la morte dello sceicco al Nimr, l’Arabia taglia le relazioni con l’Iran: via tutto il personale diplomatico. Intervento di Khamenei: «Sui sauditi la vendetta divina». Isis mostra un video con un nuovo boia britannico.

   All’indomani dell’assalto all’ambasciata, secondo intervento della Guida suprema Ali Khamenei. L’Arabia rompe le relazioni diplomatiche, evacua il suo personale ed espelle quello di Teheran. Non si placa la rabbia dell’Iran «Sui sauditi la vendetta divina». Ma iI presidente Rouhani ha definito «inaccettabile» il saccheggio della sede diplomatica saudita.

   Una battaglia di parole e rottura diplomatica in attesa di una possibile guerra segreta tra Iran e Arabia Saudita. Scenario possibile, con l’entrata in scena di forze clandestine, di gruppi estremisti, di militanti. Dopo l’assalto notturno all’ambasciata saudita a Teheran, il governo di Riad ha annunciato la fine dei rapporti con l’Iran, ha ordinato ai funzionari iraniani di lasciare il paese entro 48 ore ed ha rimpatriato, via Dubai, il proprio personale.

   Mossa condita dalle accuse di terrorismo rivolte ai mullah: «Non permetteremo che la nostra sicurezza sia minata». È chiaro che nessuno è disposto a cedere. La notizia è l’epilogo di una giornata intrisa di minacce. L’ayatollah Ali Khamenei, la Guida suprema, ha invocato la «vendetta divina», «la mano di Dio che prenderà per il collo i politici» sauditi paragonati allo Stato Islamico. Il comando dell’esercito iraniano, di solito lontano dai pronunciamenti pubblici, ha promesso «una risposta adeguata al crimine». Identico il segnale dei pasdaran pronti alla rappresaglia.

   Hassan Nasrallah, leader dell’Hezbollah libanese, ha denunciato il «messaggio di sangue, un evento che non può essere preso alla leggera». Insulti seguiti da dimostrazioni a Mashhad, scontri e cortei nel Bahrein, piccolo stato dove la maggioranza sciita si ribella al regime appoggiato dall’Arabia. Tutti segnali di come la crisi si propaghi all’intera regione. Anche se non mancano i tentativi di frenare. Il presidente iraniano Rouhani ha definito inaccettabile il saccheggio della sede diplomatica saudita ed ha ordinato alla polizia di punire i responsabili.

   Una cinquantina gli arresti. Appelli alla cautela anche dagli Usa. «Vorremmo vedere passi per ridurre il settarismo da parte dell’Arabia e di altri paesi», ha auspicato il consigliere di Obama, Ben Rhodes. A Washington sono preoccupati. Devono CONTENERE L’ISIS, SALVAGUARDARE LE RELAZIONI CON LA PETRO-MONARCHIA e TUTELARE L’INTESA CON I MULLAH SUL NUCLEARE.

   Tre cose che diventano difficili se alcuni dei protagonisti si prendono a schiaffi. Un’ostilità che si alimenta con le polemiche ma anche con gli episodi. Teheran e Riad, prima ancora dell’ondata di sentenze capitali, si sono insultate per la gestione del pellegrinaggio alla Mecca. L’ultimo è stato funestato dalla morte di 2.400 fedeli, 450 provenienti dall’Iran, travolti dalla calca. Tragedia con uno strascico di accuse.

   Il pericolo è che i due governi, se non si infileranno in uno scontro armato dove hanno solo da perdere, si affidino a gesti di fazioni amiche, sempre pronte per questo tipo di missioni. In Siria e Libano ci sono già, duellano da tempo, segmento della battaglia feroce tra sostenitori e oppositori di Hafez Assad.

   L’esecuzione dello sheikh al Nimr da parte di Riad aggiunge solo odio, offre pretesti. Magari vedremo presto delle brigate dedicate al «martire», nuclei che agiscono nel nome di una causa sovrannazionale dove troveranno un’opportunità.

   I sauditi in passato hanno agito a Beirut contro l’Hezbollah, gli estremisti sciiti hanno risposto. Il numero di mujaheddin che si muovono all’interno dei due schieramenti è ampio, si agitano personaggi con contatti che vanno oltre i confini dello scacchiere.

   Esistono, purtroppo, le premesse per una lotta di servizi e per procura dove possono essere tanti a pagare. I contendenti cercheranno alleati, proveranno a creare situazioni difficili. Rispetto al conflitto convenzionale possono portare colpi senza assumersene una responsabilità diretta.

   Ecco i razzi contro una rappresentanza ufficiale, un agguato non rivendicato, un’esplosione, un funzionario rapito. La presenza poi dell’Isis aumenta la confusione, permette di nascondersi dietro le iniziative del Califfo che si starà chiedendo cosa fare. Considera gli ayatollah allo stesso livello dei «crociati» e di recente ha esortato a rovesciare gli al Saud. E c’è anche Al Qaeda che vorrà rispondere all’uccisione del suo ideologo, finito sul patibolo insieme allo sciita. Il risultato è un fronte dove talvolta sarà complicato stabilire chi sia stato. E ogni incidente avrà molte letture. (Guido Olimpo)

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Arabia-Iran, la guerra infinita

TRA TEHERAN E RIAD UNA GUERRA STRISCIANTE CENTRATA SUL PETROLIO

di Alberto Negri, da “il Sole 24ore” dell’8/1/2016

   Il preludio di un conflitto in campo aperto ha diverse definizioni dai tempi della Seconda guerra mondiale: “drôle de guerre”, la strana guerra dei francesi, “phoney war”, la guerra per finta degli inglesi. Quella tra sauditi e iraniani è una guerra strisciante che si combatte dal Medio Oriente fino ai mercati asiatici ed europei.

   Come si prepara una nuova guerra del Golfo a 25 anni da quella contro Saddam Hussein del 16 gennaio 1991? Oggi come allora quella del petrolio voluta da Riad per asfissiare l’economia di Teheran ne prelude un’altra possibile.

   «Lo escludiamo, sarebbe una catastrofe», afferma l’aitante principe Mohammed, figlio di re Salmam, ma sull’Economist invoca «che gli americani agiscano presto in Medio Oriente da potenza numero uno del mondo».

   C’è un’aria da resa dei conti tra i due rivali del Golfo. L’Arabia Saudita combatte da tempo un conflitto per procura contro Teheran nel Siraq e un altro direttamente in Yemen contro i ribelli zayditi Houti appoggiati da Teheran, tanto è vero che per ritorsione non ha esitato a bombardare l’ambasciata iraniana a Sanaa e sta aggregando i gruppi radicali sunniti, dall’Afghanistan alla Somalia.

   Perché la nuova guerra potrebbe essere anche con la guerriglia o il terrorismo, che non è certo un’esclusiva dell’Isis. Riad entrerà in guerra direttamente contro l’Iran soltanto se oltre agli Stati del Golfo troverà il via libera dell’alleato di sempre, da 70 anni l’incrollabile tutore dei custodi della Mecca e dell’ortodossia sunnita più conservatrice e retrograda, gli Stati Uniti, gli unici che oggi non vogliono un conflitto in un anno elettorale e sono riluttanti a farlo persino contro II Califfato.

   Solo Washington, che non ha punito i sauditi neppure per l’11 settembre 2001, può fermare la nuova guerra del Golfo ma forse non riuscirà a frenare quella strisciante già in atto. II bellicismo dei due contendenti appare evidente incrociando la spesa militare e i dati sul petrolio.

   L’Arabia Saudita, secondo il Military Balance dell’Istituto strategico di Londra, spende per la difesa oltre 80 miliardi di dollari, 12% del Pil, ed è al quarto posto mondiale dopo Washington, Pechino e Mosca. Il suo maggiore fornitore sono ovviamente gli Stati Uniti con 90 miliardi negli ultimi quattro anni. E anche se il Regno wahabita paga con un bilancio di austerity il crollo dei prezzi da lui stesso voluto, nel 2016 spenderà 60 miliardi nella difesa: non si può avere il braccino corto quando bisogna soffocare le rivolte interne degli sciiti e rimediare il fiasco della guerra in Yemen.

   Non solo, il ministro della Difesa Mohammed bin Salman è andato a Mosca a corteggiare Putin, alleato di Teheran e di Assad, facendo scivolare nella tasca dello zar 10 miliardi di dollari di investimenti sauditi. Sono tempi duri e servono nuovi amici.

   L’Iran, che presenta dati alquanto opachi, spende 30 miliardi l’anno per la difesa, cifra triplicata dal 2012 quando è dovuto intervenire in forze in Siria e Iraq. Ma il dato più interessante è che il 70% del budget va ai Pasdaran, le Guardie della Rivoluzione, potenza militare ma anche economica che controlla alcune delle maggiori industrie e Fondazioni della repubblica islamica: i Pasdaran oltre a difendere l’influenza iraniana proteggono interessi giganteschi, ed è questo che rende i suoi generali ancora più tetragoni.

   E veniamo al petrolio, carburante delle ambizioni di queste due potenze. Riad produce circa 10 milioni di barili, l’Iran circa 3 ma può arrivare a 4,5 (più o meno come l’Iraq) e con la prevista cancellazione delle sanzioni ha offerto nuovi allettanti contratti alle compagnie petrolifere straniere.

   Aumentando la produzione e facendo crollare i prezzi con una domanda in calo, Riad intendeva indebolire i produttori americani di shale oil e la Russia, secondo estrattore del mondo. Ma soprattutto ha puntato ha contrastare in ogni modo il ritorno sul mercato di Teheran: ha così offerto sconti ai consumatori europei ma anche a Cina e India, naturali clienti dell’Iran.

   Riad ha fatto saltare il banco dell’Opec, un cartello che aveva resistito alla guerra Iran-Iraq degli anni ’80, finanziata con i soldi sauditi, e anche all’invasione di Saddam del Kuwait nell’agosto del ’90. Con il petrolio in saldo i bilanci sauditi e iraniani sono in picchiata: come potranno fare la guerra se già sono, indirettamente, in guerra? Con le riserve (e i debiti): 64o miliardi di dollari i sauditi, cinque di meno gli iraniani. Ecco perché il tempo stringe, anche quello di una mediazione: nel Golfo si lotta per sopravvivere con una guerra a tappe e strisciante. (Alberto Negri)

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DEMOCRAZIA, LIBERTÀ, DONNE, CULTURA: ARABIA SAUDITA-IRAN, DUE ISLAM A CONFRONTO

da http://www.corriere.it/esteri/

Un regime sunnita e uno sciita, entrambi definiti «non liberi» da organizzazioni non governative come Freedom House e da associazioni come Amnesty International e Human Rights Watch. Due Paesi con storie diverse: quella del Regno saudita lunga 83 anni, quella dell’Iran passata anche per la monarchia costituzionale. La differenza più grande? Forse è la presenza in Iran di una società civile attiva e forte, che l’Arabia Saudita non possiede.

Democrazia, libertà, in ARABIA SAUDITA – L’ultimo rapporto di Freedom House sulla democrazia conta l’Arabia tra i 12 Paesi peggiori al mondo per i diritti civili e politici. È una monarchia assoluta dove si applica la sharia (la legge islamica). Non c’è Carta costituzionale: il Corano e la Sunna (la tradizione del Profeta Maometto) sono la Costituzione. Il governo è nominato dal re, vietati i partiti politici, il dissenso è criminalizzato. Ogni 4 anni, il re nomina il Majlis al Shura, un parlamentino consultivo di 150 membri. L’unico caso di voto popolare è quello per i consigli municipali. Alle ultime elezioni, l’affluenza era irrisoria: 700 mila su 30 milioni.

   Il regime saudita controlla contenuti e quote di proprietà dei media (è saudita Al Sharq Al Awsat, il più diffuso quotidiano arabo). È vietato ai media offendere le autorità politiche e religiose. Nel tentativo di limitare l’influenza dei nuovi media ha bloccato l’accesso a oltre 400 mila siti web considerati immorali o politicamente sensibili. Dal 2011 è necessaria una licenza per aprire blog e siti web. I social media non sono bloccati ma molti scrittori e attivisti sono stati incarcerati. È anche vietata ogni pratica pubblica di religioni diverse dall’Islam (e vi sono limitazioni per gli sciiti) e la diffusione dell’ateismo.

   Per la prima volta a dicembre le donne saudite hanno votato e si sono candidate nelle elezioni municipali: 20 hanno vinto. Nel 2013, in 30 sono entrate nel parlamentino consultivo. Nel 2012 due hanno partecipato alle Olimpiadi. Nel 2011 il governo ha ordinato di assumerle nei negozi di lingerie. Passi storici, ma le donne sono tuttora trattate come minorenni: è vietato guidare, possono lavorare, studiare, viaggiare, curarsi in ospedale solo con l’assenso del «guardiano» (marito, padre o figlio). Spetta loro la metà dell’eredità dei fratelli; la testimonianza di un uomo è pari a quella di due donne. Molte studiano ma l’occupazione femminile è al 15%.

   In Arabia Saudita non esistono cinema ma i film e le serie tv sono accessibili via canali satellitari, video, Internet. Il principe saudita Walid bin Talal ha un canale tv importantissimo, Mbc, con sede a Beirut e finanzia generosamente il cinema egiziano. La cultura e le arti pongono l’enfasi sulle tradizioni, non solo coraniche: c’è un importante festival di corsa dei cavalli, inaugurato spesso dal re in persona; le gare di poesia nabati, un genere beduino, sono popolari. I giovani crescono in una società tribale e collettivista, ma anche ascoltando musica in Rete e superando i muri via Instagram, Snapchat, Twitter.

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Democrazia, libertà in IRAN – Freedom House indica l’Iran tra i «Paesi non liberi», un gradino sopra l’Arabia Saudita. Ci sono un presidente e un Parlamento, ma la Guida suprema è in cima alla piramide del potere politico e religioso. È comandante delle forze armate, dirige la politica estera, nomina il capo della magistratura, della tv di Stato, la metà dei membri del Consiglio dei Guardiani (gli altri sei li nomina il capo della magistratura). Il Consiglio ha potere di veto sui candidati alle elezioni. Solo ai partiti fedeli all’ideologia della Repubblica Islamica è permesso operare. Nella Costituzione, basata su quella del 1907, è stato inserito il principio di preminenza della sharia.

   La tv di Stato è controllata dai conservatori, i giornali e le riviste sono soggetti a censura. Come negli anni Novanta sotto il presidente riformista Khatami, anche dopo l’elezione di Rouhani nel 2013 diversi giornali hanno ricevuto nuove licenze. Ma allo stesso tempo molti sono stati chiusi per ordine delle autorità giudiziarie, come per esempio Zanan (Donne). Diversi giornalisti sono stati arrestati, tra cui il corrispondente del Washington Post. Ma gli intellettuali e gli artisti hanno imparato a «camminare sul filo». Decine di migliaia di siti web sono filtrati, inclusi Twitter e Facebook, eppure sono usati dal presidente e dallo stesso Khamenei.

   In Iran le donne sono politicamente attive sin dai primi del 1900. Il velo è obbligatorio come in Arabia, ma molte iraniane al chador nero preferiscono veli che lasciano scoperta gran parte del capo. Le studentesse superano i maschi in facoltà come Medicina, e sono presenti in quasi tutti i settori lavorativi, nel Parlamento e nel governo (ma non tra i giudici, e le candidate alla presidenza sono state squalificate). La sharia anche qui prevede metà dell’eredità dei fratelli per le figlie; la testimonianza vale la metà di un uomo; in caso di divorzio la custodia dei figli va al marito. Mentre Riad non ha età minima per il matrimonio, in Iran è 13 anni.

   L’ayatollah Khomeini denunciava la velenosa influenza culturale occidentale. Nel 1979 la teocrazia bandì musica, danza, arte moderna. Il museo nazionale di arte contemporanea di Teheran relegò in cantina i Picasso, Pollock, Warhol. Ma il governo è stato costretto ad allentare le restrizioni. Dopo la morte di Khomeini sono tornati i concerti, poi le opere teatrali. I copioni hanno bisogno di approvazione governativa ma l’Iran è patria di grandi registi da Kiarostami a Farhadi. Le contraddizioni sono tante: sei iraniani sono stati condannati per un video su YouTube in cui danzavano sulle note di Pharrell Williams.

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IL FATTORE «T» NELLE MOSSE SAUDITE

di Vittorio Emanuele Parsi, da “il Sole 24ore” del 5/1/2016

– Il fattore «T» nelle mosse saudite – Lotta contro il tempo dell’Arabia Saudita per mantenere la leadership – Come nel 1914 Il raffreddamento dell’alleanza con gli Usa spinge Riad a cercare di intrappolare Washington incatenandola in un crescendo di tensione –

   Non è certo stata casuale l’esecuzione dell’imam sciita saudita al Nimr né è sostenibile che la veemente reazione iraniana giunga imprevista. Con ogni evidenza lo scopo della sanguinaria mossa saudita era proprio provocarla, nel disperato tentativo di invertire l’inerzia politica della regione, che dopo il raggiungimento dell’accordo sul nucleare tra Iran e i “5 +1” sta sempre più volgendo a favore di Teheran.

   I Sauditi hanno ingaggiato una disperata lotta contro il tempo, nel tentativo di intercettare e bloccare questo movimento che rischia di disegnare un nuovo status quo regionale, all’interno del quale il loro ruolo sarebbe ridimensionato a tutto vantaggio del nemico iraniano. La loro risolutezza è “giustificata” dai fattori che stanno modificando l’ordine della regione del Golfo e del Levante e che determinano la scelta da parte di Riad di giocare il tutto per tutto, in un’escalation che potrebbe anche portare alla guerra tra Iran e Arabia Saudita.

  • Il primo, acutizzatosi proprio sul finire dello scorso anno con gli attentati parigini, è il riallineamento degli attori rispetto alla minaccia strategica costituita dall’Isis. La devastante capacità operativa dimostrata dai seguaci di al-Baghdadi nel cuore d’Europa ha scosso allineamenti consolidati, convincendo i Paesi occidentali che la minaccia principale all’ordine regionale (e l’alimentazione al terrorismo che ne consegue) non è più rappresentata dall’Iran sciita e dal suo opaco programma nucleare, ma dalla vivida presenza dello Stato Islamico sunnita.

Tale nuova consapevolezza ha portato all’ammissione dell’Iran nei colloqui viennesi sulla Siria, all’accettazione tacita della relazione sempre più stretta tra Iraq e Iran, alla riconsiderazione dello stesso ruolo del regime siriano. Nel frattempo, la Russia ha stretto l’embrione di un’alleanza di fatto con l’Iran proprio in Siria e coordina le sue azioni militari con la Francia. A completare un quadro già di per sé negativo per gli interessi sauditi, è il peggioramento della relazione con l’America, ormai indipendente dal petrolio del Golfo e disposta a sfidare l’ira di Riad (e di Tel-Aviv) pur di portare a casa l’accordo sul nucleare iraniano.

  • Proprio quest’ultimo, ecco il secondo fattore, ha provocato un vero e proprio mutamento dell’equilibrio di potere nella regione: l’Iran non è più lo Stato parìa del medio Oriente e il nemico della comunità internazionale: anzi, il suo peso strategico cresce di settimana in settimana. Nei prossimi giorni è atteso il via libera da parte dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica alla revoca delle prime sanzioni nei confronti dell’Iran. Se l’accordo reggerà, ogni giorno che passa l’Iran sarà un attore un po’ più forte, più ricco e più credibile: un interlocutore imprescindibile per la realizzazione di un nuovo status quo mediorientale (del quale sarà un protagonista),che porrà fine del sogno egemonico della monarchia saudita.
  • Il terzo fattore è rappresentato dalla crescente fragilità interna del Regno, alle prese con una non facile successione dinastica (momento, per definizione, di elevata instabilità per un regime come quello saudita) caratterizzata all’apparenza da un’oscillazione del pendolo del potere interno a favore delle autorità religiose piuttosto che verso la monarchia.

   II sodalizio tra autorità politiche e autorità religiose è plurisecolare ma non per questo privo di ambiguità e frizioni. In questi mesi, il tentativo di prendere le distanze dall’Isis è stato comunque “bilanciato” da un giro di vite autoritario, qual a voler rassicurare i settori più tradizionalisti che “tutto cambia affinché nulla cambi”.

Non vanno poi scordati il ruolo sempre più preoccupante dell’estremismo interno e le tensioni con la discriminata minoranza sciita. Nel frattempo, la politica di ribasso del prezzo del petrolio – perseguita dai sauditi per strappare quote di mercato ai concorrenti con costi di estrazione e raffinazione più elevati – ha comunque avuto conseguenze considerevoli in termini di aumenti del deficit pubblico, riduzione delle sovvenzioni statali e calo di depositi, liquidità e riserve auree.

   A fronte di tutto ciò, invece, in Iran stiamo assistendo alla riarticolazione del rapporto tra Guida suprema e presidente, attraverso un processo non conflittuale che potrebbe consolidare la struttura della repubblica islamica. In questo quadro, è proprio il raffreddamento dell’alleanza con gli Usa che spinge Riad ad affrettare i tempi nel cercare di “intrappolare” Washington, incatenandola a se stessa attraverso l’escalation della tensione regionale. È il medesimo schema visto all’opera nel 1914, quando l’irricevibilità dell’ultimatum austroungarico alla Serbia mirava proprio a costringere la Germania ad abbandonare ogni ipotesi di mediazione e schierasi a fianco di Vienna nella prospettiva di una guerra imminente.

   La differenza rispetto ad allora è che la Germania non aveva altri alleati possibili a parte Vienna, mentre per l’America oggi la situazione è parzialmente diversa: ma mollare i sauditi, al di là degli evidenti contraccolpi economico-finanziari, rischierebbe di far crollare l’intero sistema del Golfo, centrato proprio sull’Arabia. Con queste promesse una de-escalation è necessaria, ma altamente improbabile, mentre resta alto il rischio di un conflitto tra Teheran e Riad.

   Se è vero infatti che l’Iran ha tutto l’interesse a calmare le acque, non vale lo stesso per i Sauditi. La proposta di mediazione russa (una garanzia per Teheran) offre la possibilità di una mossa congiunta americana(per rassicurare gli arabi), che però segnerebbe anche il riconoscimento definitivo del fatto che Mosca ha tratto i vantaggi strategici maggiori dall’accordo nucleare e porrebbe fine al progetto obamiano di un ordine americano per il medio oriente in cui convivessero Tel-Aviv, Riad e Tehran. Ma proprio questo è quanto Washington non è ancora disposta ad accettare. (Vittorio Emanuele Parsi)

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L’analisi

LA SUCCESSIONE SAUDITA ACCENDE LA GUERRA DEL PETROLIO

di Giulio Sapelli, da “il Messaggero” del 5/1/2016

   Non v’è dubbio che le condanne a morte eseguite nei giorni scorsi in Arabia Saudita siano un tentativo per nascondere i profondi problemi in cui è immersa la dinastia saudita. La crisi interna alla monarchia rischia così di trasformarsi nella classica scintilla che dà fuoco a una più vasta prateria.

   La dinastia dei Saud attraversa infatti un periodo di transizione difficile. Da un lato sta entrando in crisi il complicato regime di successione poligamico a discendenza tra fratelli per cui è il meno vecchio rispetto al regnante a essere preposto quale successore; una tradizione che oggi è confusa dal fatto che l’attuale re sembra più incline a favorire il proprio figlio a svantaggio del primo fratello minore e questa novità accresce enormemente i motivi di tensione, che fatalmente scaricano sull’apparato militare il compito di sedare la situazione interna aggravando però tutti i contrasti con “esterno, così tentando d’indebolire le opposizioni al clan dominante patrilineare.

   Ma tutto ciò amplifica i conflitti in corso e di fatto internazionalizza ancor più lo scisma islamico. Salman bin Abdelaziz al Saud, nuovo re dell’Arabia Saudita dal 6 gennaio 2015, dopo la morte di Re Abdullah, fa parte del resto di quel potente gruppo chiamato «I sette Sudairi’, formato da tutti i figli che il capostipite Abdulaziz ibn Saud ebbe con Haassa al Sudairi, una principessa proveniente da un potente clan della regione centrale di Najd, una grande famiglia che ha sempre sviluppato un forte spirito di potenza unitaria.

   Re Salman si trova ora a dover affrontare una situazione regionale e internazionale molto complessa e foriera di minacce per la stabilità del Regno. In primo luogo due situazioni molto difficili ai suoi confini meridionale e nord-orientale: a sud lo Yemen sta attraversando una grave crisi politica che potrebbe portare alla presa del potere dei ribelli sciiti Houthi, appoggiati dall’Iran, il grande nemico dei sauditi. A nord-est l’Iraq, d’altro canto, è controllato per circa un terzo del suo territorio dai miliziani del Daesh, contro cui l’Arabia Saudita ha cominciato una campagna aerea militare insieme agli Stati Uniti e agli altri paesi della coalizione, disvelando la contraddizione profonda in cui il Regno si dibatte, perché la vittoria dell’esercito iracheno rafforza di fatto una potenza, l’Iraq, che oggi a differenza del passato diverrà, una volta sconfitto il Daesh, alleata dell’Iran sciita, sconvolgendo l’equilibrio nel Golfo e in tutto l’Heartland, ossia nelle terre dalla Turchia all’India.

   Non a caso l’Arabia Saudita ha tentato in tutti i modi di chiamare a sé, attraverso azioni militari congiunte, la potenza del Pakistan, anch’esso Stato a dominazione sunnita, ma l’intelligence americana e la pressione dello stesso Obama hanno sventato questa minaccia che avrebbe internazionalizzato sino ai confini dell’India la crisi del Golfo, con conseguenze imprevedibili.

   È noto quale sia stata e sia l’arma principale, tuttavia, di questo tentativo di fermare l’ascesa della potenza dell’Iran, nazione sciita, ma soprattutto rivoluzionaria come orientamento internazionale, ossia con truppe combattenti al di fuori dei confini della madre patria e decine di martiri di altissimo livello esaltati nel loro sacrificio in terra irachena e siriana.

   E dunque, l’arma principale dei sauditi avrebbe dovuto essere la rottura del patto che ha retto l’Opec per più di due decenni, ossia il regolare congiuntamente l’offerta del petrolio, così da concordare un prezzo tra tutti i paesi produttori che ne fanno parte. L’Arabia Saudita ha preso, come è noto, una posizione oltranzista diretta invece ad aumentare le quote di produzione, in una situazione di prezzi calanti, sia dal punto di vista degli intermediari finanziari sia delle quantità fisiche, per via della recessione mondiale da cui ancora non si è usciti e che, anzi, si sta solo ora prepotentemente affacciando nei paesi emergenti.

   L’obbiettivo saudita è far crollare i prezzi sino a impedire gli investimenti Usa nello shale gas e nello shale oil, così da non far conseguire al Nord America l’autosufficienza energetica e contrastare in tal modo l’imprevisto cambio di rotta americano nel sistema di equilibri di potenza del Golfo con l’alleanza di fatto stipulata con l’Iran attraverso l’accordo sul nucleare da poco chiuso a Vienna tra mille polemiche e mille ostacoli, tutti superati grazie all’intransigenza Usa e all’intelligenza politica dell’establishment iraniano.

   Ma l’attacco saudita è rivolto anche contro la Russia, già indebolita dalle sanzioni economiche per la crisi ucraina e che vede nel crollo dei prezzi del petrolio una ulteriore difficoltà economica. I sauditi sperano in tal modo d’indebolire l’asse siriano-russo, non comprendendo che tale asse è indistruttibile pena la perdita del prestigio e dell’influenza russa nei mari caldi e che per i russi esso è vitale e irrinunciabile, soprattutto da quando i rapporti con Ankara sono diventati pessimi.

   I russi non possono cedere, seguendo in questo l’insegnamento di Evgenij Maksimovic Primakov, scomparso di recente, il più intelligente dei diplomatici mondiali dopo Kissinger (del quale non a caso era grande amico). Primakov, prima di morire, aveva benissimo compreso che l’unico modo per ridare alla Russia dignità internazionale era riprendere la strategia di un altro grande dell’era zarista: Aleksandr Michajlovic Gorcakov, ministro degli Esteri della Russia dal 1856 al 1882 e protagonista dell’espansione dell’impero russo in Asia Centrale. Gorcakov riuscì a far annullare (dopo la sconfitta francese del 1870 nella guerra contro la Germania), le pesanti clausole imposte alla Russia dal Trattato di Parigi del 1856, per via della sconfitta subita dallo zarismo nella guerra di Crimea. In tal modo consentì al suo paese, grazie all’ottenuta neutralità dell’Austria, l’attacco della Russia all’Impero ottomano nel 1877.

   Putin persegue proprio quell’obbiettivo, che oggi si traduce nella stabilità dell’influenza russa nell’Asia Centrale ed è per questo che non può evitare il conflitto con Ankara. Il «Grande gioco» è di nuovo iniziato e l’Arabia Saudita entra in esso nel peggiore dei modi e, se si vuole, anche in quello più infantile, ma non per questo meno spietato e pericoloso: uccidendo i suoi oppositori, a cominciare dai loro capi spirituali. I sauditi sperano in questo modo di indebolire l’ala riformista iraniana, di intensificare l’odio tra le fazioni, di soffocare i problemi interni sauditi attraverso una strategia di morte e di repressione che rischia di sconvolgere nuovamente oltre che lo scacchiere mediorientale anche i mercati delle materie prime. (Giulio Sapelli)

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L’analisi

L’AZZARDO DI RE SAUD SUL PREZZO DEL GREGGIO

di Fabio Nicolucci, da “il Messaggero” del 4/1/2016

   Le esecuzioni, tutta politica dell’Imam sciita Nimr al-Nimr in Arabia Saudita, come dimostra anche l’assalto organizzato all’ambasciata saudita a Teheran, segna un ulteriore escalation nella guerra a tutto campo e con ogni mezzo tra l’Iran e la potenza sunnita.

   Una guerra per l’egemonia nel nuovo assetto del Medioriente certo divampata con il frantumarsi di quello vecchio dopo le cosiddette “primavere arabe”, ma nata molto prima, almeno con la rivoluzione iraniana del 1979.

   Una lotta che proprio per essere geopolitica ha molte dimensioni. Tre le più importanti.

   LA PRIMA è quella MILITARE, ovviamente la più visibile. Una contesa tutt’altro che recente. Basti pensare alla guerra Iran-Iraq e al milione di morti che causò. Per quanto riguarda l’oggi, essa si gioca in una guerra per procura su molti teatri. Il più importante è quello siriano, dove l’Iran ha una partecipazione sia diretta, con ufficiali e mezzi e truppe dei Pasdaran, sia indiretta, con la forte partecipazione di Hezbollah nel suo primo intervento fuori terra libanese.

   VI È POI IL TEATRO YEMENITA, non meno sanguinoso anche se del tutto fuori dal cono di attenzione dell’opinione pubblica occidentale, dove truppe saudite di un mai ufficializzato corpo di spedizione combattono con gli yemeniti avversari della minoranza sciita una feroce guerra a questi ultimi e al sostegno iraniano che ricevono.

   Non di minore importanza, poi, è IL TEATRO IRACHENO, dove tale guerra allo sciismo politico in ascesa, che tanto turba i sonni delle potenze sunnite, si mischia ad una indicibile compartecipazione e corresponsabilità nell’affermarsi dell’Isis. Con un patto mefistofelico che appare di giorno in giorno più gravoso e da cui vi sono recenti tentativi di uscire, anche se ancora per lo più di facciata.

   Vi è poi UNA SECONDA DIMENSIONE POLITICO-RELIGIOSA, che è quella che va in scena quando il confronto viene tematizzato come esistenziale, ed è quella a cui sono ricorsi i governanti sauditi non perdonando – come molti osservatori ritenevano invece probabile – l’Imam saudita Nimr al-Nimr, della minoranza sciita che popola l’est dello Stato guidato da re Salman bin Abdelaziz al Saud.

   A cui Teheran ha risposto con un altro simbolo, le violenze all’ambasciata saudita. Che ricorda i toni di uno scontro altrettanto esistenziale come quello che cominciò con gli Usa con l’assalto all’ambasciata americana del 1980.

   Anche questa dimensione non è di oggi, basti ricordare i ricorrenti disordini talvolta fomentati dagli iraniani durante i pellegrinaggi alla Mecca, di cui si contesta implicitamente la custodia e il conseguente titolo di “custodi dei due luoghi Santi” da parte della dinastia saudita, con il connesso corredo di autorevolezza in tutto il mondo islamico.

   LA TERZA DIMENSIONE, che gira come quella militare attorno al perno del confronto per il potere politico-religioso, È QUELLA ECONOMICA. Che si gioca intorno alla gestione e al controllo dell’unica vera risorsa della regione: gli idrocarburi. GAS E PETROLIO. Quando lo scontro politico non è esistenziale, di solito la guerra mediante il petrolio non è rilevabile in quanto è sotto soglia, perché troppo importanti sono le entrate garantite da questa risorsa per le casse e dunque la stabilità di questi Stati sunniti del Golfo.

   Il fatto che invece in questo momento lo scontro per il potere stia diventando una guerra mediante il prezzo del petrolio, con i sauditi che approfittano dei loro bassi costi di estrazione per cercare di mandare in bancarotta chi lo produce a costi maggiori, come gli iraniani, sconvolgendo i loro piani di una nuova era di prosperità con la fine delle sanzioni legate all’accordo sul nucleare, indica a quale livello parossistico sia oramai arrivato lo scontro politico-religioso tra le due potenze.

   Mentre però gli iraniani vivono questa contesa come un’opportunità dopo anni di isolamento, e dunque con una certa serenità, i sauditi sono sopraffatti dall’angoscia di perdere tutto. Come se invece di un riallineamento tra potenze si trattasse per i sunniti nel nuovo Medioriente di diventare o meno minoranza.

Pronti dunque a far crollare il prezzo del greggio ai minimi. Come a sfidare gli iraniani a chi resiste di più sott’acqua senza prendere fiato. Il calcolo però può rivelarsi azzardato, e non solo perché basato su angosce e non su reali pericoli. Ma soprattutto perché nessuno potrebbe in futuro venire in soccorso ai sauditi, malgrado il crollo dei prezzi abbia danneggiato anche le estrazioni americane e fermato del tutto la ricerca estrattiva e l’evoluzione della sua tecnologia. Perché al momento l’occidente si avvantaggia anche di questa nuova guerra tra poveri, e potrebbe poi scegliere dei nuovi partner dovessero i sauditi indebolirsi troppo nella reciproca contesa. (Fabio Nicolucci)

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Le esecuzioni a Riad

SCIITI E SUNNITI: LO SCONTRO SECOLARE CHE INCENDIA IL MEDIO ORIENTE

di Renzo Guolo, da “la Repubblica” del 3/1/2016

   L’esecuzione di Al Nimr rischia di far esplodere le tensioni tra le due confessioni musulmane e tra Arabia Saudita e Iran, potenze che negli ultimi trent’anni si sono combattute in lunghe guerre per procura.

   La frattura religiosa ha assunto un peso ancor più rilevante nel 1979, quando Khomeini ha preso il potere a Teheran facendosi paladino anche delle minoranze sciite “oppresse” nella Mezzaluna. Arrestato nel 1963 e in esilio dal 1964, Khomeini fece trionfale ritorno in Iran nel 1979 diventando la massima autorità politica e religiosa e proclamando l’Iran Repubblica islamica.

   L’esecuzione dello sceicco sciita Nimr Al Nimr, uno dei leader religiosi e politici del movimento di protesta esploso nel 2011 nella ricca provincia orientale saudita che reclamava maggiori diritti per la più grande minoranza religiosa del paese, rischia di far deflagrare un duplice scontro, politico e religioso, nella regione. Tra sunniti e sciiti. E tra le potenze confessionali, Arabia Saudita e Iran, che si sono erette, rispettivamente, protettrici di quelle stesse comunità.

   Il contrasto tra Arabia Saudita e Iran ha una storia lunga. Si nutre dell’avversione religiosa che il movimento wahabita, egemone dottrinalmente nella penisola arabica, nutre nei confronti degli sciiti, considerati non tanto musulmani quanto veri e propri apostati. Per aver contestato, sin dagli albori dell’Islam, la linea di successione profetica che i sunniti, in maggioranza nel mondo islamico, hanno legato al consenso dei compagni e dei primi seguaci del Profeta, mentre gli sciiti invocavano la qualificazione carismatica della stirpe ritenendo legittima solo la leadership che traeva origine dalla famiglia di Alì, cugino e genero di Maometto. Una differenza che, nel tempo, si è accentuata.

   Per sopravvivere alla catastrofe teologica legata alla scomparsa del dodicesimo Imam, figura che contrariamente a quanto avviene nel sunnismo non è una semplice guida della preghiera ma un mediatore tra sacro e profano, gli sciiti hanno elaborato una particolare dottrina: la teologia dell’Occultazione. E dato vita, contrariamente al sunnismo, a un vero e proprio clero stratificato per sapere religioso. Un ceto di specialisti che, tra l’altro, deve interpretare il significato nascosto del messaggio coranico, considerato testo che ha anche una dimensione esoterica e non solo, come per i sunniti, essoterica o letterale.

   I wahabiti, fautori di un intransigente monoteismo e ostili ad “associare” figure come i Dodici imam a qualsiasi forma di adorazione divina, hanno sempre considerato gli sciiti idolatri da reprimere o condannare alla marginalità. Questa frattura religiosa non si è mai colmata. E, pur avendo diversa intensità in paesi con storie diverse, ha assunto un peso ancora più rilevante nel 1979, quando lo sciismo khomeinista ha preso il potere in Iran. Facendosi paladino non solo della Rivoluzione islamica — la cui “esportazione” è stata bloccata sia dal suo minoritario carattere sciita, sia dalla guerra condotta dall’Iraq di Saddam Hussein con l’appoggio degli Stati Uniti — ma anche delle minoranze sciite “oppresse” nel mondo della Mezzaluna: dal Golfo al Libano, dall’Iraq all’Afghanistan.

   Lo sciismo rivoluzionario rappresenta una minaccia per i sauditi perché mette in discussione sia il loro ruolo di “custodi dei luoghi santi” sia una dottrina, come quella wahabita, ritenuta ferrea depositaria di una tradizione religiosa fondata sull’ingiustizia e la persecuzione nei confronti dello sciismo. Il sistema di alleanze internazionali poi ha accentuato le divergenze.

   L’Arabia Saudita è, dal 1945, un alleato, anche se poco limpido e oggi relativamente autonomizzato, di quell’America che, dal sequestro degli ostaggi nell’ambasciata di Teheran sino alla lunga e tormentata partita sul nucleare, è stata agli occhi degli iraniani “il Grande Satana”. Negli ultimi tre decenni sauditi e iraniani si sono, così, combattuti in lunghe e estenuanti guerre per procura, sostenute sul campo da movimenti e Stati alleati. È accaduto, e accade, in Libano, in Iraq, in Siria, nello Yemen, in Bahrein.

   Mandando a morte Al Nimr i sauditi inviano ora al mondo un messaggio che definisce una precisa tassonomia del Nemico: categoria a cui ascrivere non solo i simpatizzanti sunniti di Al Qaeda, ma anche gli oppositori sciiti,  giustiziati insieme ai primi.

   Un discorso rivolto, brutalmente, anche all’Iran perché comprenda che non verrà tollerata nessuna “interferenza”, statuale e confessionale, nel giardino di casa saudita: a partire dal Golfo. Un messaggio che, secondo il ministro degli Esteri iraniano, costerà caro alla dinastia saudita, qualificata come “criminale” e che, secondo lo stesso leader della Repubblica islamica Khamenei, non impedirà il “risveglio” sciita.

   Le proteste esplose nel mondo sciita, nel Bahrein oltre che nelle province orientali saudite, in Libano come nel Kashmir, sono solo un’avvisaglia delle nuove tensioni che l’esecuzione di Al Nimr può innescare. Anche perché sia le dinamiche connesse all’autoattribuito rango di potenze confessionali, sia la battaglia senza esclusione di colpi per conquistare il ruolo di potenza regionale dominante, mandano oggettivamente in rotta di collisione strategica Teheran e Riad.

    Alimentando il conflitto settario. Anche in contesti dove, di fatto, sauditi e iraniani sono membri di uno schieramento, come quello fondato sulla “doppia coalizione”, che ha lo stesso nemico: l’Is.

   Sino a quando la duplice frattura, religiosa e di potenza, alimenterà la sfida tra i due giganti mediorientali, il vero nodo politico gordiano dello scenario mediorientale, non sarà possibile stabilizzare l’area. Come rivela la stessa costituzione, su impulso saudita, di un alleanza militare sunnita che ha come esplicito obiettivo il contrasto al terrorismo.

    Termine con il quale Riad non si riferisce solo all’Is o a Al Qaeda ma anche, più o meno esplicitamente, a movimenti sciiti come l’Hezbollah libanese o gli Houthi in Yemen, all’opposizione alide in Bahrein o nelle stesse province orientali del Regno. E, soprattutto, al loro grande protettore: l’Iran. Una dottrina politica e della sicurezza che, unita alle ambizioni iraniane, rischia di far deflagrare il già incendiario panorama regionale. (Renzo Guolo)

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PETROLIO, DIETRO LE TENSIONI ARABIA SAUDITA-IRAN IL CROLLO DEI PREZZI

di Felice Meoli, da “il Fatto Quotidiano” del 3/1/2016

– Ecco le conseguenze per i grandi produttori – Petrolio, dietro le tensioni Arabia Saudita-Iran il crollo dei prezzi – Teheran si prepara a riprendere le esportazioni mentre Ryad ha chiuso il 2015 con un deficit record a causa del calo dei ricavi. Sullo sfondo i contrasti all’interno dell’Opec, che ha tenuto alta la produzione per mettere fuori gioco la produzione di shale oil degli Usa, e la crisi di Russia, Brasile e Venezuela. L’Isis invece ha diversificato fin dall’inizio le fonti di entrate –

   Le scintille di inizio anno tra Arabia Saudita e Iran non sono (solo) l’ultimo capitolo dello scontro secolare tra le due anime dell’Islam. Ma anche il risultato di tensioni più recenti che toccano gli interessi economici delle due potenze: quelli legati alla produzione e all’esportazione del petrolio. I cui prezzi nei giorni scorsi hanno raggiunto i minimi dal 2004, dopo aver perso circa il 70% dal giugno 2014. Una rivoluzione che, intrecciata con le novità tecnologiche sul fronte dell’estrazione, sta mettendo in ginocchio molti grandi produttori – dal Sudamerica alla Russia – e ha affossato anche i conti 2015 della monarchia saudita. Mentre Teheran, che da decenni non poteva vendere oro nero all’estero, dopo l’accordo sul nucleare firmato con la comunità internazionale si prepara a riavviare le estrazioni su larga scala e a registrare ingenti ricavi aggiuntivi. E l’Isis? Lo Stato islamico ha ampiamente diversificato le proprie fonti di entrate, per cui risente relativamente del crollo delle quotazioni del petrolio.

– Il barile potrebbe scendere fino a quota 15 dollari – Diciotto mesi fa, Brent e Wti superavano i 100 dollari al barile. Oggi si attestano in area 35 dollari. E secondo alcuni analisti, tra cui il responsabile della ricerca sulle commodity di Goldman Sachs Jeffrey Currie, l’eccesso di offerta continuerà anche nel 2016, con la possibilità di vedere un barile di greggio a 20 dollari. Una sensazione confermata dai dati provenienti dal New York Mercantile Exchange e dallo Us Depository Trust & Clearing Corporation, che segnalano acquisti in massa da parte degli investitori di opzioni di vendita nella fascia compresa tra i 30 e i 20 dollari al barile per il prossimo dicembre. E addirittura fino a un livello di 15 dollari.

   Il clima mite di questo inverno ha contribuito a ridurre la domanda di greggio, ma la sovrapproduzione appare un vero e proprio obiettivo dei Paesi produttori e in particolare dell’Opec, l’organizzazione che rappresenta il 35% dell’offerta globale.

– L’Opec spaccata tra falchi e colombe non controlla più la produzione – Dopo aver rinunciato ad avere un prezzo target, durante l’ultimo vertice di Vienna l’Opec ha abdicato alle quote produttive dei singoli Paesi e anche a un tetto di produzione collettivo: una decisione che deriva dalla spaccatura tra i “falchi” capitanati dall’Arabia Saudita, che spingevano per il rialzo della produzione, e le “colombe” come Algeria e Venezuela che avevano invece chiesto un taglio per adeguarsi alla riduzione della domanda.

   L’obiettivo, non troppo nascosto, è mettere fuori gioco la produzione di shale oil degli Stati Uniti, cioè l’estrazione di idrocarburi non convenzionali, più costosa (tra i 45 e i 55 dollari al barile) di quella tradizionale. Una novità che ha spinto Washington, sempre a dicembre, a una decisione storica: l’eliminazione del bando alle esportazioni, introdotto 40 anni fa per favorire l’indipendenza energetica del Paese.

– Negli Usa già nove gruppi in bancarotta e altri a rischio sotto il peso dei debiti – Gli effetti combinati di questa situazione si stanno facendo sentire. Il boom dello shale oil e i tassi di interesse vicini allo zero hanno favorito nel recente passato l’accumulo di debito da parte delle compagnie petrolifere, che hanno inoltre emesso obbligazioni ad alto rendimento (tecnicamente “high-yield”, ma anche “junk“, spazzatura, in quanto poco sicure), coperte da contratti di hedging con prezzi prefissati anche a 90 dollari, per finanziare le nuove trivellazioni.

   Il petrolio a sconto, unito al recente rialzo dei tassi da parte della Federal Reserve (il primo dal 2006), oggi mette a rischio questo impianto. Standard & Poor’s ha calcolato a fine novembre che oltre il 50% dei junk bond energetici sono “distressed”, ovvero a rischio default. Complessivamente, negli Stati Uniti circa 180 miliardi di dollari di debito sono a rischio default, il livello più alto dal 2009, e la maggior parte fa riferimento proprio al settore Oil & Gas. Secondo quanto riportato dalla Federal Reserve di Dallas, sono almeno nove le compagnie energetiche che nel quarto trimestre del 2015 sono andate in bancarotta, per un debito complessivo di oltre 2 miliardi di dollari, con una perdita di 70mila posti di lavoro dall’ottobre del 2014.  Per Jeffrey Gundlach, fondatore della società di investimenti DoubleLine Capital e “Re dei Bond” secondo la rivista americana Barron’s, i downgrade dei titoli emessi dalle compagnie energetiche stanno già accelerando e proseguiranno con ulteriori default se i prezzi del greggio non ritorneranno sopra quota 50 dollari.

– Arabia Saudita e Oman per la prima volta fanno i conti con l’austerity – Ma la strategia dell’Opec non è senza conseguenze né per gli stessi Paesi di quello che molti analisti considerano già un ex cartello, né per gli altri. Inedita la condizione dell’Arabia Saudita, che ha presentato per il 2015 un disavanzo di 98 miliardi di dollari (circa il 15% del Pil) a fronte di entrate petrolifere in calo del 23%, e si appresta a varare un articolato piano di austerity che prevede il taglio dei sussidi energetici, il rincaro del prezzo della benzina, delle bollette elettriche e dell’acqua, valutando inoltre l’introduzione dell’Iva e l’aumento delle accise su bevande e tabacco. Notizie simili provengono anche dall’Alaska e dall’Oman: lo Stato americano sta studiando la reintroduzione delle imposte sui redditi, dopo 35 anni di esenzione per i residenti, mentre il Sultanato ha già annunciato tagli alla spesa pubblica del 15,6 per cento.

– Con il calo dei ricavi si aggrava la crisi di Venezuela e Brasile – Situazione critica per il Venezuela, il cui ministro del Petrolio ha chiesto la convocazione di un vertice tra i Paesi Opec e non Opec in gennaio per discutere nuovamente di azioni che possano dare impulso al prezzo del greggio, a cui è legata a filo doppio la fragile economia di Caracas.

   Il presidente Nicolas Maduro, che ha appena incassato la prima sconfitta elettorale del partito di governo da diciassette anni a questa parte, è alle prese con un’inflazione che nel 2015 ha raggiunto il 150%, con stime per l’anno in corso che puntano al 200 per cento.

   Sempre in Sudamerica, il Brasile sta attraversando uno dei momenti più difficili della sua storia recente. Il 2015 si è chiuso in forte recessione (-3,2%), con disoccupazione e inflazione crescenti, moneta svalutata del 35%, una richiesta parlamentare di impeachment per il presidente Dilma Rousseff e lo scandalo corruzione di Petrobras che si trascina ormai da oltre un anno. Il crollo del prezzo del petrolio ha colpito chirurgicamente lo Stato di Rio de Janeiro aggravando una crisi già profonda, alle porte dei prossimi giochi olimpici. La sanità ha già sofferto di numerosi tagli, gli stipendi non vengono pagati da mesi e i pazienti negli ospedali vengono rispediti a casa. E siccome Rio è responsabile del 67% della produzione di greggio (oltre al 40% di gas), per recuperare all’incirca 500 milioni di dollari è stata lanciata una flat tax da 0,69 dollari per ogni barile prodotto. Condizione simile per la Nigeria: il greggio vale il 75% delle entrate statali e quasi il 90% delle esportazioni del Paese. Anche qui si registrano impiegati pubblici senza stipendio e paradossalmente, per il maggior esportatore africano di petrolio, nonché uno dei maggiori del mondo, blackout energetici e mancanza di carburante per la popolazione.

– L’asse Russia-Iraq-Iran e la strategia di Teheran – Ma da un punto di vista geopolitico i riflettori sono puntati su quanto sta accadendo in Russia, Iraq e Iran. Mosca, che a novembre ha visto il proprio Prodotto interno lordo contrarsi del 4% anno su anno, fa affidamento per quasi la metà delle sue entrate statali su petrolio e gas.

   Colpita anche dalle sanzioni economiche, la Federazione, che ha accusato l’Arabia Saudita di destabilizzare il mercato, dovrebbe aver chiuso il 2015 con una contrazione del Pil del 3,8%, con un budget che fissava il prezzo del barile a 50 dollari. Sono solidi i rapporti del presidente Vladimir Putin con Baghdad e Teheran, due protagonisti della cosiddetta Mezzaluna Sciita. Per finanziare la guerra allo Stato Islamico l’Iraq nel 2015 ha spinto sull’acceleratore dell’estrazione del greggio, ma l’atteso surplus di ricavi è stato assorbito dal calo dei prezzi. Ma ora anche l’Iran punta forte sulla produzione dell’oro nero. Il Paese, detentore della quarta riserva mondiale di petrolio, dopo l’accordo dello scorso luglio nel 2016 dovrebbe veder superate le sanzioni ed è pronto a produrre nel giro di una settimana fino a 500mila barili al giorno, per arrivare a quota 1 milione dopo un mese.

   Questa strategia, accompagnata dalle dichiarazioni di Mehdi Assadli, delegato iraniano all’Opec, che ha svelato un costo di produzione per barile da parte di Teheran inferiore ai 10 dollari al barile, potrebbe incrementare ulteriormente le pressioni sui prezzi e condurre a un muro contro muro ribassista proprio con Ryad.

– Lo Stato islamico ha già diversificato – Meno esposto degli altri, al crollo dei prezzi del greggio, sembrerebbe invece lo Stato Islamico. A giugno, con il barile a 60 dollari, l’Is vendeva sul mercato nero a 30 dollari a barile. Ai prezzi odierni, che oscillano intorno ai 35 dollari, lo Stato Islamico vende intorno ai 20 dollari, registrando dunque un calo meno che proporzionale rispetto ai mercati ufficiali.

   E se fino allo scorso ottobre il commercio dell’oro nero rappresentava la sola fonte di entrate, anche a seguito degli attacchi alle infrastrutture da parte delle potenze occidentali e alla difficoltà di ripristino e manutenzione degli impianti l’Is (o Daesh) ha già provveduto a diversificare le proprie attività. La società di consulenza Ihs ne segnala infatti altre in grande sviluppo: in primis la confisca di terre e proprietà e le estorsioni nei territori sotto controllo (che raccolgono circa il 50% del totale delle entrate), oltre al traffico di droga e reperti archeologici, attività criminali come rapine in banca e riscatti a seguito di sequestri di persona, piccoli business legati a trasporti, elettricità e attività immobiliari e infine donazioni e sovvenzioni.

Per non parlare del fatto che in un documento risalente a gennaio 2015, reso noto da Reuters, il consiglio degli ulema che risponde direttamente al sedicente califfo Abu Bakr al Baghdadi dà il via libera al traffico di organi dei prigionieri. Il volume d’affari complessivo di tutte queste attività è stimato attorno agli 80 milioni di dollari al mese, mentre il petrolio varrebbe oggi, percentualmente, meno della metà delle entrate totali. (Felice Meoli)

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COSÌ L’ANTICA RIVALITÀ TRA SCIITI E SUNNITI ALLONTANA IL SOGNO DELLA MECCA

di TAHAR BEN JELLOUN, da “la Repubblica” del 6/1/2016

– L’Arabia Saudita ha stabilito delle quote per ogni Paese per accedere al luogo santo, scelti solitamente per sorteggio – La rottura tra i due clan risale alla morte di Maometto nel 632. Ma oggi, come ha detto Khomeini, “l’Islam è politica” –

   Il pellegrinaggio alla Mecca è uno dei cinque pilastri dell’islam. Per poterlo effettuare bisogna disporre dei mezzi materiali e psicologici. Consiste in una visita dei luoghi santi della Mecca e di Medina e deve avvenire durante il dodicesimo mese dell’anno dell’egira.

   La data è fissata nella seconda settimana del mese di Dhu-l-Hijja. La visita consiste prima di tutto nella purificazione. Fare le abluzioni, non portare abiti cuciti, per le donne non truccarsi; praticare l’astinenza sessuale; niente litigi; niente insulti; niente collera. Dopodiché, il pellegrino va sul monte Arafat, poi a Muzdalifah e a Mina, dove deve sostare tre giorni durante i quali lapiderà Satana e sgozzerà una pecora in sacrificio per rendere omaggio ad Abramo. Poi deve girare intorno alla Kaaba, dove si trova la pietra nera, e percorrere diverse volte la distanza che separa le due colline di Safa e Marwa. Prima o dopo di questo rituale, il pellegrino deve andare a Medina e stare una settimana in raccoglimento sulla tomba del profeta Maometto.

   Ogni anno la Mecca accoglie tre milioni di pellegrini in arrivo da tutto il mondo. L’Arabia Saudita ha stabilito delle quote per ogni paese. Il Marocco, per esempio, ha l’autorizzazione per il pellegrinaggio di 25.000 credenti, che vengono scelti per sorteggio. Ci sono talmente tante richieste che la gente passa giorni e notti a pregare perché il proprio nome sia tra quelli estratti. Ora che Teheran ha sospeso seppure temporaneamente l’Umra Hajji, “il pellegrinaggio minore” che si può fare in ogni periodo dell’anno, si può immaginare il timore delle migliaia di candidati al pellegrinaggio annuale che vengano annunciati nuovi blocchi.

   La crisi attuale ha la sua remota origine nella contestazione, da parte degli sciiti, del monopolio saudita sui luoghi santi. Appena salito al potere, l’ayatollah Khomeini aveva espresso il desiderio di vedere i luoghi santi gestiti a turno da sunniti e sciiti. Per i sauditi, l’ipotesi di cedere quel ruolo — che gli assicura uno status politico e religioso (Guardiano dei luoghi santi) ed entrate cospicue — è fuori discussione.    Un musulmano, un credente, non vive assolutamente il pellegrinaggio alla Mecca come un obbligo o un dovere, ma lo considera il desiderio più caro, il sogno più ambito. Una volta compiuto, il pellegrinaggio conferisce al credente una sorta di “sacralizzazione” che fa di lui un “hajj”: colui che ha lavato i propri peccati e che si prepara a fare ritorno nel proprio paese con il cuore e lo spirito pacificati, colmi di virtù e di umanità.

   Il pellegrinaggio è anche la conferma di quanto dice il Corano: «Dio vi ha creati in popoli diversi perché vi incontriate e vi conosciate». Il credente vive sul posto la diversità intorno alla stessa fede e allo stesso messaggio, quello della pace e dell’importanza della spiritualità rispetto ai beni materiali.

   Vive una grande solidarietà, perché popoli venuti da tutti i continenti, molti dei quali non parlano arabo, si ritrovano intorno alla stessa speranza.    In quest’ottica, la rottura delle relazioni tra l’Arabia Saudita e l’Iran è un colpo fatale per tutti quelli che si apprestavano a partire per la Mecca. Per loro, sciiti o sunniti che siano, si tratta di suggellare il loro attaccamento alla religione musulmana.

   Gli sciiti rappresentano circa il 10% dei musulmani nel mondo. Dopo la morte di Maometto, nel 632, alcuni hanno contestato il califfato di Abu Bakr, preferendogli Alì, genero e cugino del profeta.    I musulmani ortodossi ricordano che Maometto è l’ultimo profeta e che la sua successione è una prerogativa di Dio e non degli uomini. La rottura tra i due clan risale ad allora. Alì accederà al califfato ma cinque anni più tardi sarà assassinato da un ribelle. Gli sciiti sono eternamente in lutto per quella morte.

   Oggi i credenti iraniani devono accettare di non poter andare temporaneamente alla Mecca. Dopo tutto è una questione politica e Khomeini ha detto e ripetuto che «L’Islam è politica o non esiste più». (Tahar Ben Jelloun, traduzione di Elda Volterrani)

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“GLI ATTIVISTI TACCIONO: A RIAD SI VA IN CARCERE PURE PER UNA PAROLA”

di Maysaa Al Amoudi, da “la Repubblica” del 6/1/2016

– Le prigioni sono piene di stranieri e giornalisti – I social sono pieni di insulti contro gli sciiti – MAYSAA AL AMOUDI, una giornalista di 34 anni, ha trascorso un anno in carcere in Arabia Saudita per aver guidato una macchina al confine tra gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita –

intervista di Raffaella De Santis

Non conoscevo le persone uccise, la loro storia, ma so che ciò che è accaduto non dovrebbe mai accadere”. Eppure in Arabia Saudita tutto tace. Domina il silenzio. Maysaa Al Amoudi è una giornalista di 4 anni, finita in carcere un anno fa per aver guidato una macchina al confine tra gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita. Ha letto delle 47 esecuzioni, mentre era in Italia. Maysaa è un volto popolare della tv araba, questa è la prima intervista che rilascia da quando è stata liberata.

   È una donna coraggiosa, luminosa. Si è tolta il velo quando tutte lo portavano, è diventata giornalista anche se alle donne non era consentito, ma stavolta pesa ogni parola. È chiaro che teme conseguenze per i suoi familiari, che sono ancora lì.

Come mai non si registrano reazioni importanti da parte degli attivisti sauditi contro il governo?

«Anche una parola in più potrebbe essere di troppo. In carcere c’è ancora il nipote dell’imam sciita ucciso Nimr Al Nimr e per la minoranza sciita la situazione è difficile da gestire. Quello che posso dire è che detesto ogni forma di violenza e che non vorrei mai vedere scorrere tanto sangue».

Nessuno parla per paura di finire in prigione?

«Le carceri sono piene di lavoratori stranieri e giornalisti. Dentro ci sono sia sunniti che sciiti, sono trattati tutti allo stesso modo, ma le differenze si vedono nelle aule dei tribunali. Persino i social media sono pieni di insulti razziali contro gli sciiti. Io non sono sciita, ma ho subito due processi dopo essere stata arrestata per aver guidato una macchina, il che è vietato alle donne dalla legge saudita. Il secondo processo al tribunale di Riad prevedeva anche l’imputazione per terrorismo, ma l’avvocato è riuscito ad evitare l’accusa. In realtà avevo solo tentato di andare in soccorso dell’attivista blogger LOUJAIN ALHATHOUL. Stava guidando dagli Emirati Arabi Uniti verso l’Arabia Saudita ed era bloccata al confine. Mi sono messa al volante e le ho portato cibo e altre cose utili».

Avete entrambe scontato 73 giorni di carcere. Come l’ha cambiata quell’esperienza?

«Durante la prigionia ho imparato a meditare. Cercavo di cancellare i ricordi del mondo esterno. Quando sono uscita non ricordavo niente, la mia taglia, il mio profumo, le facce dei miei amici. Un giorno una guardia mi ha permesso di vedere la luna e il cielo, è stato bellissimo. Oggi so che voglio lottare per i diritti umani in generale, non solo per le donne».

Ma la situazione per le donne in Arabia Saudita va migliorando?

«Alle recenti elezioni amministrative dove le donne sono state ammesse per la prima volta, molte candidate sono state cancellate dalle liste, tra cui la stessa Loujain Alhathoul e l’attivista Nassima Al Sada, senza dare motivazioni. Non tutte le donne però hanno capito l’importanza del voto. Sono abituate a vivere sotto il controllo di guardiani uomini, si fidano di loro».

A Dubai conduceva un programma tv sui diritti delle donne. Cosa si aspetta dal futuro?

«Non voglio tornare in Arabia Saudita. Vorrei vivere in un Paese libero e sicuro, essere una giornalista normale e non una giornalista impaurita. In carcere ci sono tuttora molti giornalisti sconosciuti che non fanno notizia».

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«IL GESTO DI RIYADH RIVELA DEBOLEZZA»

di Chiara Cruciati, da “il Manifesto” del 6/1/2016

– Arabia saudita. Intervista ad ALI AL-AHMED, analista saudita e fondatore del Gulf Institute: «La petromonarchia voleva risollevarsi dalla crisi ma ha peggiorato le cose. Sulla Siria è isolata, in Yemen bloccata e a poco serve fomentare lo scontro sciiti-sunniti. La parabola saudita è ormai nella sua fase discendente» –

   La brutalità della “giustizia” di Stato, il boicottaggio del compromesso, la benzina gettata sul fuoco mediorientale sono sintomo di una debolezza strutturale. La parabola saudita è nella sua fase discendente, la stella della Riyadh del XXI secolo è destinata a spegnersi.

   Ne è specchio l’esecuzione di massa di sabato 2 gennaio: 47 giustiziati. Tra loro Nimr al-Nimr, religioso sciita leader delle proteste a Qatif. In prigione da tre anni è stato decapitato per ragioni politiche ed economiche: la zona a maggioranza sciita è la più ricca di greggio. Uccidendo al-Nimr, Riyadh manda tanti messaggi: all’Iran, all’Occidente, alla minoranza sciita.

   Ne è convinto ALI AL-AHMED, noto analista saudita, consulente per Cnn, Ap e Washington Post, fondatore del Gulf Institute e voce critica delle politiche dei Saud. Lo abbiamo raggiunto al telefono a Washington.

Perché Riyadh ha proceduto proprio in questo momento all’uccisione del religioso sciita al-Nimr?

“L’Arabia saudita è nei guai: aveva bisogno di segnare qualche punto per riprendersi dalla grave crisi economica che sta vivendo. Pochi giorni prima delle esecuzioni Riyadh ha reso pubblico uno dei peggiori budget della sua storia. Una crisi economica dovuta a diversi fattori: l’abbassamento del prezzo del petrolio, la corruzione strutturale che olia poteri che crescono come funghi, lo stallo nella guerra yemenita che in 10 mesi (il periodo più lungo di conflitto vissuto dal paese) ha bruciato tra gli 80 e i 100 miliardi di dollari, l’arretramento nella lotta all’Isis, l’avanzata dell’Iran, i finanziamenti a favore dell’Egitto. Togliendo la vita a quelle persone e in particolare ad una figura come Sheikh Nimr al-Nimr, i Saud speravano di mandare un messaggio: siamo ancora potenti, siamo ancora in ballo”.

La percezione è che cerchino di farlo accendendo il conflitto regionale tra sunniti e sciiti, che però pare artificialmente creato proprio dalle potenze mediorientali più che dalle comunità di base.

“Il confronto tra sunniti e sciiti, oggi descritto come “storico”, è solo in piccola parte frutto di una propensione della base. Al contrario è stato creato e radicato dai poteri regionali. Dall’Iran con la nascita della Repubblica Islamica e dall’Arabia Saudita che lo ha sempre sfruttato a partire dalla guerra tra Iraq e Iran e poi per dividere la regione. Oggi la usano per motivi strategici: l’economia va male, la guerra in Yemen non trova uno sbocco, il ruolo in Siria è sempre più debole. I sauditi sono maestri nel deviare l’attenzione dai problemi strutturali verso questioni “minori”. Accaparrano consenso creando la minaccia sciita e convincendo i sunniti di un pericolo fittizio”.

A 20 giorni dal negoziato siriano, questa esecuzione di massa danneggerà il dialogo?

“Danneggerà il ruolo saudita. Oggi tutti cercano il compromesso, tranne i sauditi che lo boicottano. Ma sono soli: gli Stati Uniti non intendono seguirli in tale radicalizzazione, né l’Unione Europea né tantomeno la Russia. Hanno dato vita ad una battaglia già persa”.

Tale perdita di autorità, dovuta alla crisi economica e al ritorno in auge dell’Iran, è irrimediabile?

“Riyadh ha costruito se stessa sulla base delle relazioni economiche e personali con i poteri occidentali. Questo gli ha permesso di godere dell’impunità necessaria a portare avanti certe politiche, dentro e fuori il paese. Ha speso miliardi di dollari per assumere il controllo sia di compagnie private occidentali che di singoli individui. Fa business direttamente con i poteri di questi paesi, finanziando la Fondazione Clinton, la Fondazione Carter, i membri della famiglia Bush. Gode di collegamenti diretti e strettissimi con chi guida l’Occidente. Ma la crisi cambierà tutto: i sauditi non potranno più pagare tutti, ma magari potrà farlo l’Iran, spostando l’ago della bilancia verso il proprio piatto. La stella saudita si sta spegnendo, Riyadh ha perso l’influenza che ha avuto per decenni. Un potere fondato sul libretto degli assegni di cui oggi però non ha più il monopolio. La sua capacità di influenzare la regione è in costante calo ed è difficile che risalga nel breve periodo”.

Un tentativo di mostrare un volto nuovo si era avuto un mese fa: alle elezioni municipali le donne hanno votato per la prima volta. Che significato ha avuto quel voto?

“Le elezioni municipali di dicembre non hanno alcun significato politico, tantomeno lo ha il voto femminile: la stragrande maggioranza della popolazione non si è recata alle urne, in molti lo hanno boicottato, tanto che ci sono stati candidati eletti con tre soli voti. Perché? La ragione sta nella totale mancanza di potere in mano ai consigli municipali. Sono elezioni farsa, si è votato per istituzioni prive di qualsiasi tipo di autorità e potere decisionale, essendo questi tutti concentrati nelle mani della famiglia reale. Perché si dovrebbe perdere tempo e energia per scegliere tra una delle tante galline del pollaio? I consigli municipali non inficiano in alcun modo nella vita quotidiana della popolazione. Quel voto è stato usato solo per una questione di immagine, per ripulirla agli occhi del mondo”.

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SPUNTANO LE PROVE: L’ARABIA SAUDITA HA PROGETTATO IL CAOS

di Chiara Cruciati, da “il Manifesto” del 6/1/2016

– Medio Oriente. In un documento dei servizi segreti sauditi si ammette la consapevolezza della destabilizzazione che sarebbe stata generata dalle esecuzioni. Il Kuwait ritira l’ambasciatore dall’Iran, l’Onu manda l’inviato per la Siria a Riyadh e Teheran –

   Non si spegne lo scontro a distanza tra Teheran e Riyadh. Il casus belli resta il religioso Nimr al-Nimr, leader delle proteste sciite del 2011 e 2012, sfruttato a dovere dalle due potenze regionali. Sulla sua morte specula l’Iran, con cui il religioso non aveva né cercava contatti diretti, preferendo interrompere la corsa al massacro dei settarismi interni e fondando la sua lotta su questioni politiche ed economiche piuttosto che religiose.

   E su di lui ha speculato anche il suo boia: secondo un documento redatto poche ore prima le esecuzioni dai servizi segreti sauditi e ottenuto dall’organizzazione britannica per i diritti umani Reprieve e dal The Independent, le autorità erano ben consapevoli degli effetti che quelle morti avrebbero provocato, tanto da cancellare tutti gli eventi pubblici previsti per l’inizio dell’anno. Ovvero, l’obiettivo dell’esecuzione di al-Nimr era una destabilizzazione politica.

   Se il fine è palese, le sue conseguenze lo sono di meno: il gioco è scappato di mano al giocoliere. Riyadh non ne uscirà rafforzata come sperava, in un periodo di crisi economica e politica. Pochi giorni fa il governo ha reso pubblico il budget finale del 2015: un deficit da 98 miliardi di dollari, record negativo per la petromonarchia che fonda l’85% delle proprie entrate sulla vendita di greggio.

   Non è un caso che la Provincia Orientale, la sola a maggioranza sciita, sia la più ricca di petrolio del paese: schiacciando le proteste guidate da al-Nimr non sono state schiacciate solo le aspirazioni democratiche della minoranza, ma soprattutto le sue ambizioni economiche. La testa del religioso è un messaggio a chiunque pensi di sollevarsi contro la dittatura saudita: non c’è spazio per le proteste, tantomeno quando la crisi è in casa.

   Oggi le autorità saudite corrono ai ripari aumentando del 50% i prezzi interni di petrolio, acqua, elettricità. Ma sul fronte regionale si indebolisce: l’Iran – la cui attuale forza deriva dalla nuova legittimità di cui gode dopo l’accordo sul nucleare e per il ruolo diplomatico giocato in Siria – preferisce contrattaccare alla sospensione delle relazioni diplomatiche da parte di Riyadh con le parole. Il presidente Rowhani ieri è tornato a criticare l’avversario: l’Arabia saudita «non può nascondere il suo crimine, la decapitazione di un leader religioso, interrompendo le relazioni politiche con l’Iran».

   Nel confronto sembrava fosse entrato anche uno dei pilastri dell’Islam, il pellegrinaggio alla Mecca, già ragione di scontro tra Iran e Arabia saudita a fine settembre, quando a Mina morirono oltre 2.400 fedeli.

    Ieri il capo dell’organizzazione iraniana del pellegrinaggio, Saeed Ohadi, ha chiarito: l’organizzazione del viaggio in Arabia saudita in occasione della festività dell’Hajj sarà direttamente gestita dal governo e le modalità della partecipazione iraniana saranno definite dal leader supremo, l’Ayatollah Khamenei. Il comunicato stampa è stato rilasciato dopo la notizia circolata online (e che aveva scatenato il web) di una presunta sospensione dei pellegrinaggi per i fedeli iraniani.

   Si amplia intanto il fronte saudita: interviene anche il Kuwait che ieri ha annunciato il ritiro del proprio ambasciatore dall’Iran definendo gli assalti alle sedi diplomatiche «una grave violazione del diritto internazionale». Resta però a Kuwait Ciy l’ambasciatore iraniano.

   Fa un passo in più anche il Bahrein che, dopo aver interrotto lunedì le relazioni diplomatiche con Teheran, ieri ha sospeso i voli diretti.    Nello scontro tra Iran e Arabia saudita entrano anche le istituzioni internazionali. La Lega Araba terrà domenica al Cairo una riunione di emergenza dietro la richiesta di Riyadh di condannare le violazioni iraniane, ovvero gli assalti alle ambasciate della petromonarchia. E questo la Lega Araba, spesso burattino nelle mani della famiglia Saud, farà: secondo il vice segretario generale, Ahmed Bin Haly, «il meeting condannerà le interferenze iraniane negli affari interni dei paesi arabi». L’ennesimo doppio standard: a marzo la Lega Araba avallò senza remore l’operazione militare saudita contro lo Yemen, oggi al suo decimo mese di guerra.

   Interviene anche l’Onu: se subito dopo le esecuzioni la segreteria generale aveva espresso «profondo sconcerto» per le uccisioni, lunedì il Consiglio di Sicurezza ha preferito l’ala confortevole dei sauditi limitandosi a condannare gli attacchi alle ambasciate in Iran ma senza fare menzioni dei 47 decapitati. Lunedì il segretario Ban Ki-moon ha mandato l’inviato Onu in Siria, Staffan de Mistura, ad incontrare i governi di Iran e Arabia saudita per trovare una via d’uscita diplomatica ad una crisi che rischia di far saltare il già traballante tavolo siriano. De Mistura è a Riyadh in questo momento e volerà a Teheran nei prossimi giorni.

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L’IRAN BLOCCA I PELLEGRINAGGI ALLA MECCA. I SAUDITI INTENSIFICANO LA GUERRA IN YEMEN

di Lorenzo Cremonesi, da “il Corriere della Sera” del 6/1/2016

– Teheran mostra in tv il nuovo missile «Imad». Anche il Kuwait richiama l’ambasciatore –

   Blocco dei pellegrinaggi iraniani verso la Mecca, propaganda guerriera con tanto di missili mostrati alla televisione di Teheran, nuove mosse di rottura tra i due fronti, eppure anche timidi messaggi di possibile dialogo. E’ ancora scontro aperto tra Iran e Arabia Saudita. L’esecuzione voluta da Riad sabato scorso dello sceicco sciita Nimr al Nimr (assieme ad altri 46 detenuti, di cui 43 sunniti) e l’attacco di rappresaglia della folla il giorno seguente contro le sedi diplomatiche saudite in Iran hanno inasprito le tensioni inter-islamiche già molto acute tra universo sciita e sunnita.

   Domina la decisione iraniana ieri di bloccare la «Umrah», che è il pellegrinaggio alla Mecca durante tutto l’anno, eccetto il mese di Ramadan. Una misura che era già nell’aria dopo gli incidenti dello scorso 24 settembre, quando oltre 1.500 pellegrini persero la vita schiacciati nella calca alla Mecca. Almeno 450 erano iraniani.

   Oggi però la scelta iraniana è di sfida alla tradizionale aspirazione della casa reale saudita a legittimo custode dei luoghi più sacri dell’Islam. Ad essa si coniuga il linguaggio esplicito della minaccia militare. I media iraniani hanno diffuso per la prima volta le immagini del nuovo missile «Imad», con raggio d’azione superiore ai 1.700 chilometri, pronto al lancio dal suo silos sotterraneo, in grado di raggiungere Riad e le altre capitali sunnite nel Golfo.

   La guerra guerreggiata s’indurisce invece in Yemen, dove da oltre due anni l’esercito saudita interviene direttamente contro le milizie sciite Houthis sostenute dall’Iran. Nelle ultime 48 ore l’aviazione di Riad ha lanciato ripetuti raid, bombardando anche la regione di Aden e causando vittime.

   Continua nel frattempo la campagna di boicottaggio diplomatico orchestrata da Riad presso i propri alleati contro Teheran. Oltre all’Arabia Saudita, Bahrein e Sudan hanno tagliato le relazioni con l’Iran, interrompendo anche i voli di linea. Gli Emirati Arabi Uniti riducono i contatti. Il Kuwait ha richiamato il proprio ambasciatore, al momento non chiede il ritiro di quello iraniano.

   Non vanno però ignorati i segnali di dialogo. Espliciti quelli del presidente iraniano. «I sauditi non possono nascondere la gravità della scelta criminale di assassinare lo sceicco al Nimr tagliando le relazioni diplomatiche… Noi comunque crediamo che la diplomazia e i negoziati siano il modo migliore per risolvere i problemi tra i Paesi. Possiamo salvare la regione dal pericolo del terrorismo mostrando l’unità tra noi», ha dichiarato Hassan Rouhani incontrando il ministro degli Esteri danese.

   Rilevanti anche le prese di posizione iraniane di condanna e rifiuto dell’attacco alle sedi diplomatiche. Una macchia che infanga l’immagine del regime: dopo la storica presa di ostaggi americani nel 1979, è seguito l’attacco all’ambasciata del Kuwait nel 1987, a quella saudita nel 1988, danese nel 2006 e britannica nel 2011. Nonostante il regime ufficialmente consideri ancora festa nazionale l’anniversario annuale dell’irruzione contro la rappresentanza americana, questa volta le critiche sono nette.

   Rouhani punta il dito verso gli «estremisti». Dagli ambienti delle Guardie della Rivoluzione giungono accuse contro «agenti stranieri». «E’ stata un’azione molto sbagliata, scorretta. Non può assolutamente venire giustificata», tuona uno dei comandanti a Teheran, generale Mohsen Kazemeini.

   Intanto la diplomazia è all’opera. A New York gli ambasciatori iraniano e saudita mostrano di gradire la mediazione delle Nazioni Unite. «Siamo pronti a riprendere le relazioni con l’Iran se cessa di interferire nei nostri affari interni» sostiene il rappresentante di Riad. Anche l’inviato dell’Onu Staffan de Mistura si dice certo che i due Paesi saranno pronti a cooperare alla conferenza sulla Siria prevista a Ginevra il 25 gennaio.

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FRONTE SUNNITA CONTRO L’IRAN

04/01/2016, da AGI http://www.agi.it/estero/

RIAD – La rottura delle relazioni diplomatiche tra Teheran e Riad provoca un effetto domino tra i paesi sunniti: Bahrein, Emirati Arabi e Sudan seguono l’iniziativa del regno saudita.     MANAMA (capitale del Bahrain, ndr), dove una famiglia sunnita governa la maggioranza della popolazione sciita, ha intimato ai diplomatici iraniani di lasciare il Paese entro 48 ore. Si tratta dell’ultimo sviluppo delle tensioni crescenti tra I DUE GIGANTI DEL GOLFO, LA SUNNITA ARABIA SAUDITA E LA SCIITA IRAN, dopo che sabato è stato ucciso a Riad l’imam sciita Nimr al Nimr e a Teheran e’ stata data alle fiamme l’ambasciata saudita. In una dichiarazione ufficiale le autorita’ barelite spiegano che la decisione e’ stata innescata dal “codardo” attacco contro l’ambasciata saudita a Teheran e “alle crescenti e flagranti ingerenze” di Teheran negli affari interni dei Paesi del Golfo.

   I governanti del Bahrein sono molto legati a Riad. Nel 2011 solo grazie all’intervento armato delle truppe saudite venne domata una rivolta della maggioranza sciita a Manama.    La mossa del Bahrein sara’ probabilmente seguita dalle altre petromonarchie sunnite del Golfo e membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo, acuendo sempre piu’ la tensione tra le due grandi famiglie dell’Islam: la sunnita, maggioritaria, e quella sciita. Tra i Paesi del golfo Abu Dhabi, per il momento, ha preferito una misura meno drastica di quella presa da Riad e Manama: ha ridotto il livello delle relazioni diplomatiche e il personale nell’ambasciata. Khartum, invece, ha annunciato che i rapporti con Teheran saranno interrotti “immediatamente”.    Il braccio di ferro per la conquista della leadership della regione e’ in pieno corso. L’Iran, che ieri aveva preannunciato la “vendetta di Dio” contro Riad, oggi ha accusato quest’ultima di alimentare tensione nella regione.

   Riad, ha affermato un portavoce del ministero degli Esteri, “e’ alla ricerca di crisi e confronti e tenta di risolvere i propri problemi interni esportandoli e alimentando tensione e scontri nella regione”. “Decidendo di rompere le relazioni diplomatiche”, aveva affermato in precedenza il vice ministro Hossein Amir Abdollahian, l’Iran “non potra’ far dimenticare il grande errore commesso giustiziando un religioso”.

   Gli spazi di mediazione tra le due capitali per adesso quasi non esistono. Si e’ fatta avanti senza molta convinzione Mosca, pronta a ospitare un incontro tra i capi della due diplomazie, il saudita Adel al-Jubeir e l’iraniano Mohammad Javad Zarif. La Farnesina ha chiesto a Riad e a Teheran di “abbassare la tensione”, ricordando qual’e’ il nemico comune: il terrirismo.

   Lo scontro non e’ solo diplomatico, ma affonda le proprie radici in uno scisma secolare che infiamma ancora oggi le folle di musulmani. Due moschee sunnite sono state fatte saltare in aria nell’area irachena di Hilla, a circa 80 km da Baghdad. Un muezzin (colui che e’ incaricato di chiamare i fedeli alla preghiera giornaliera) e’ stato ucciso a Iskandariyah. (AGI)

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