Imprenditori, specie di piccole e medie aziende, ditte a volte a carattere famigliare, che si suicidano. Un fatto nuovo, grave, preoccupante. Tragico. L’area geografica maggiormente colpita dal fenomeno è il Nord con 39 casi dal gennaio 2013, oltre il 40% dei suicidi censiti in Italia fino a metà marzo; di questi, ben 27 sono stati registrati nel solo Nord Est, cioè il 30% del totale nazionale. In questa (tragica) classifica seguono il Centro con il 25,8% degli episodi, le isole con il 15,7% e il sud con il 14,6%.
In Veneto nel 2012 ne sono stati contati 23, vale a dire il 25,8% di quelli che si sono avuti in tutta Italia. A seguire la Campania con 11, la Sicilia con 9 vittime e la Puglia con 7: in totale 89 sono i suicidi del 2012 di imprenditori italiani in crisi di attività. E’ un trend in crescita: 89 in totale nel 2012; nel 2013 39 casi da gennaio a metà marzo.
Come detto sono vittime perlopiù titolari di piccole imprese, quelle con minore marginalità finanziaria, cioè capacità di aver soldi (liquidità) per sopperire a esigenze immediate imprescindibili (pagare i dipendenti, le tasse e i contributi previdenziali in scadenza, acquistare materie prime per la produzione…). E le banche hanno parametri per la concessione di prestiti, del credito, che molto spesso (quasi sempre) non possono aiutare queste piccole imprese, perché il rischio di insolvenza, in tempo di crisi, è più elevato del normale.
Come viene spiegato negli articoli che qui di seguito in questo post vi proponiamo, il motivo prevalente, vero, del fatto che un imprenditore decida un così gesto estremo, assoluto, di negazione della sua vita, è che con la crisi della sua azienda viene messa in discussione la sua credibilità, il senso dell’onore, il suo “essere” nella Comunità di appartenenza, la sua “faccia”; un successo imprenditoriale che finisce, acquisito dopo tante fatiche e tanti anni di lavoro. Viene in mente, in questo senso, come nelle società del nord Europa lo spirito religioso che ha soppiantato il cattolicesimo a favore del protestantesimo sia sorto proprio sul riconoscimento sociale dato dal successo imprenditoriale (come spiega bene Max Weber nella sua opera più importante, “Etica protestante e spirito del capitalismo”). Lo stesso contesto avviene, è avvenuto (sta avvenendo) nei piccoli dinamici imprenditori del nord Italia (ma non solo del nord: vi sono molti casi anche al centro-sud). Piccoli imprenditori ora a rischio per la crisi economica.
E in più, nel sistema degenerativo che si instaura in momenti economici delicati (e questo che viviamo lo è in modo epocale), non basta un “conto economico” aziendale positivo, perché si può morire non necessariamente di debiti che non si riesce a pagare, ma anche di crediti che non si riesce a riscuotere: per lavori effettuati, per prodotti eseguiti e già consegnati, ma dove il cliente resta insolvente: o per analoghe difficoltà dei clienti-debitori, ma ancor di più per l’essersi instaurato un modus operandi di “non pagamento”, cioè di rifiuto, tardività sistematica nell’assolvere i propri debiti (e le banche resistono nell’anticipare le somme, non scontano i crediti). E lo Stato si comporta allo stesso modo con i suoi creditori-fornitori imprenditori privati, a volte per impossibilità di pagare, pur avendo i soldi, per non andar oltre al “patto di stabilità”, ferrea regola di bilancio imposta agli enti pubblici (tentiamo qui una succinta definizione di che cos’è il Patto di Stabilità: è l’accordo che lo Stato Italiano ha assunto in sede comunitaria in base al quale anche i Comuni devono contribuire alla riduzione del debito pubblico nazionale, osservando, di anno in anno, regole sempre più restrittive, nella spesa, cioè in primis non andando oltre la “spesa storica” loro attribuita, magari privilegiando le spese di investimento risposto a quelle correnti, ma così non accade… e allora i Comuni non possono pagare i loro fornitori per non sforare le spesa stabilità dal patto di Stabilità…)
Per le rigide regole del Patto di Stabilità dei Comuni e pertanto anche del pagamento delle spesso piccole imprese che stanno soffrendo perché vantano crediti da molto tempo non pagati, un (piccolo) spiraglio sembra si sia aperto, con una decisione del 19 marzo scorso della Commissione Ue, che prevede e un allentamento dei vincoli del patto di stabilità europeo per il pagamento dei debiti commerciali delle pubbliche amministrazioni italiane: cioè appunto con lo svincolo del patto di stabilità interno per i comuni virtuosi, così da sbloccare immediatamente i pagamenti a favore delle imprese fornitrici. E con la possibilità di emettere titoli di stato in due anni per complessivi 90 miliardi di euro. Ossigeno per le imprese che lavorano con e per le pubbliche amministrazioni, con i Comuni. E magari si potranno fare lavori edilizi pubblici (la messa a norma antisismica etc. degli edifici scolastici che può far ripartire un po’ l’edilizia in senso virtuoso; nel recupero del patrimonio esistente, senza nuovo cemento….).
LA NECESSITÀ DI AIUTARE ECONOMICAMENTE MA ANCHE SOCIALMENTE GLI IMPRENDITORI IN DIFFICOLTÀ. In Veneto, come nel resto del Paese, si è creata una rete di mutuo soccorso per impedire che la catena dei suicidi si trasformi in una pandemia. La Regione Veneto ha istituito nel giugno del 2012 un team di psicologi per aiutare imprenditori in crisi (il numero verde è 800334343). Oppure c’è l’associazione IMPRESE CHE RESISTONO (www.impresecheresistono.org), un movimento spontaneo di piccole e medie aziende, creato per dare sostegno e voce a chi teme di non farcela più. Poi un caso unico e interessante c’è con la creazione, sempre in Veneto nel trevigiano, dello sportello “LIFE AUXILIUM” da parte della Confartigianato di Asolo e Montebelluna, prima tra le strutture di questo tipo allestite in questi mesi da vari altri enti e associazioni in tutto il territorio nazionale.
Nella generale e diffusa crisi del lavoro è comprensibile che la svolta, prima che economica, sia nel modo nuovo di rapportarsi al mondo, con maggior umanità e sensibilità per chi è in difficoltà; con una politica nuova di coraggio e concretezza su nuove idee. E chi è in difficoltà, chiunque sia, va aiutato concretamente. (sm)
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MORIRE A NORDEST, DOVE IL “NEMICO” È SEMPRE LA BANCA
di Silvia Favasuli, dal sito LINKIESTA (www.linkiesta.it/ ) del 5/3/2013
– Pozza (Confartigianato): costa di più pagare il funerale a un imprenditore che prestargli 8000 euro –
TREVISO – «Alle 8.30 mi ha svegliato un odontotecnico che aspetta il rinnovo di un fido di 8000 euro dalla banca. Chiedeva aiuto». La voce è quella di Mario Pozza, presidente di Confartigianato Marca Trevigiana. «Gli servono quei soldi per pagare le rate all’Agenzia delle entrate. Ma niente. La banca non fa credito. E sono solo 8000 euro per uno studio che non ha rischio d’impresa».
La voce di Pozza vibra mentre cerca di spiegare «il disastro» che dilaga nella sua Marca, il regno delle piccole imprese, dove si lotta per stare a galla e il nemico pare ora uno solo: la banca. Il segnale più forte, di questa crisi, sono i suicidi, quelli che scandiscono le settimane dei quotidiani locali: il commerciante che si è sparato quindici giorni fa, che aveva case sue ma non riusciva a venderle, ed è rimasto senza soldi.
E il proprietario di una Srl specializzata nel trattamento termico dei metalli, Stefano Busato, 47 anni, trovato impiccato dentro la sua azienda. Perché se è vero che il suicidio degli imprenditori non è cosa nuova e non è solo da attribuire a questa crisi, quel che appare sempre più certo è che la causa è quasi unica, ed è la stretta sul credito.
Alle 8.30, mentre Pozza riceveva la chiamate dell’odontotecnico, Busato ha aperto il capannone. Ha scoperto l’ennesimo incidente ai macchinari: un forno in tilt, arrivato dopo due incendi capitati nel giro di pochi mesi in quella Ebla di Quinto di Treviso dove ci lavoravano in due, Busato e il socio che lo ha trovato morto impiccato. Una srl che arrancava. Una come tante nel trevigiano. Con un imprenditore che ha gettato la spugna.
Eccola la crisi che si vive a nord est. Servono soldi, subito, servono per restare a galla, non per arricchirsi. Ma le banche non ne danno. Perché? «Hanno parametri che con le imprese non centrano nulla. Non puoi chiedere gli stessi requisiti di Basilea 2 e Basilea 3 a un odontotecnico o a un piccolo imprenditore senza dipendenti. Non posso trattare una Spa alla stessa stregua di una Srl», incalza acceso Pozza.
Servono soldi per pagare contributi, l’Imu, i materiali di fornitura. «Capisce che è un cane che si morde la coda? Ci sono tanti imprenditori che hanno ordini da fare ma non possono perché non hanno liquidità. Se non comprano il materiale non possono produrre, se non producono non vendono e se non vendono non incassano. E le banche stringono ancora di più il credito», dice Pozza tutto d’un fiato come fosse diventato ormai un ritornello macabro da ripetere ad ogni nuovo suicidio. «Lo vogliamo capire che costa di più pagare il funerale a un piccolo imprenditore che si uccide piuttosto che prestargli 8000 euro?», continua paradossale, anche se il vero paradosso pare quello di banche che non fanno più credito, nemmeno per poche migliaia.
Le banche non fanno credito e i fornitori non si fidano più. «Vogliono il pagamento subito alla consegna», spiega Pozza. E così edilizia, mobile, e trasporto sono completamente in crisi. «Come associazione andiamo incontro ai soci non facendo pagare le quote per l’iscrizione. Continuiamo a fornire gratis i nostri servizi». Sono già una novantina le aziende che non riescono più a pagarci, su 8000 circa.
«Abbiamo anche uno sportello con una psicologa che accoglie gli imprenditori per capire come aiutarli e indirizzarli nelle apposite strutture». Ne arrivano dai due-tre a settimana fino ai dieci a settimana nei periodi più intensi. «Tra poco ne arriveranno tanti: ci sono le scadenze di Tares, Imu, e Irap». Ma la psicologa non basta. «Dopo il numero verde serve l’euro. Serve il governo», incalza Pozza. Che propone la creazione di un fondo per le microimprese, ma che sia immediata. E soprattutto nuovi parametri per le banche, che sappiano distinguere tra una srl e una spa nella concessione di prestiti.
«Dobbiamo renderci conto che è un problema sociale prima che economico. O ci rendiamo conto che l’Italia è fatta anche di microimprese, e siamo disposti a fare qualcosa per aiutarle oppure qui crolla tutto. Perché non è possibile che per la Fiat ci siano sempre finanziamenti pronti e per un territorio fitto di microimprese no. Eppure – continua – sono queste a fare l’ossature del paese». (Silvia Favasulli)
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CGIA DI MESTRE: “POLITICA RISPONDA, RIDARE CREDITO”. NEL 2012 89 SUICIDI PER CRISI
della Redazione de “IL FATTO QUOTIDIANO” del 6/3/2013
– I sindacati chiedono di mettere in campo “tutte le azioni possibili e necessarie per combattere gli effetti sociali devastanti della crisi economica e arginare il clima di tensione montante nel Paese”. Il presidente del Veneto Zaia: “Tragedia impone assunzione di responsabilità” –
“Credo che la tragedia che si è consumata a Perugia sia figlia del drammatico quadro economico generale in cui versano le aziende, soprattutto quelle di piccola dimensione. Molti imprenditori stanno perdendo il lume della ragione”.
Il segretario della Cgia di Mestre, Giuseppe Bortolussi, colloca nel disagio profondo provocato dalla crisi economica il movente del duplice omicidio-suicidio. “Lo sconforto e l’esasperazione – spiega Bortolussi – stanno spingendo alcuni di loro a gesti sconsiderati che non sono giustificabili. Per prevenire tutto ciò non c’è che una soluzione: auspicare che la politica ritorni a fare il suo mestiere, dando risposte credibili alle esigenze di liquidità che i piccoli imprenditori vanno invocando inutilmente da più di un anno”.
Le banche da mesi hanno in pratica bloccato i prestiti alle famiglie e le imprese sono costrette a chiedere mutui agli istituti di credito per pagare le tasse.
In questo contesto di sofferenza si inseriscono anche indicatori economici “da brivido” rispetto al 2011 sottolinea la Cgia: ” – 6,2% per la produzione industriale; -4,3% il fatturato; -9,8% gli ordinativi nell’industria; -14% la produzione nelle costruzioni; -32,7 miliardi di euro di prestiti bancari alle aziende; +14,4 miliardi di euro di sofferenze bancarie in capo alle imprese”.
L’associazione ricorda anche un episodio avvenuto nel Padovano pochi giorni fa: un piccolo imprenditore, dopo la mancata erogazione di un prestito, ferì con un colpo di pistola il direttore della Banca di Credito Cooperativo di Campodarsego: “Moltissimi piccoli imprenditori – osserva il segretario della Cgia – stanno chiedendo soldi per pagare le tasse e i contributi perché i committenti non li pagano o lo fanno con ritardi spaventosi. Una situazione che sta degenerando di settimana in settimana, spingendo moltissime imprese verso il fallimento, non per debiti, ma per crediti”.
In questo contesto si inseriscono i dati di una ricerca dell’università Link campus: nel 2012 sono state 89 le persone, tra cui tre donne, che sull’orlo del fallimento e schiacciate dai debiti hanno deciso di togliersi la vita, da qui la media che sfiora le 8 persone al mese. Sono invece 48 i tentativi di suicidio registrati tra i mesi di gennaio e dicembre del 2012. “Una lunga lista di imprenditori, artigiani e disoccupati – scrive l’università in una nota – che, oppressi da gravi difficoltà economiche e soprattutto dalla paura di perdere la propria dignità, reputano la rinuncia alla vita una scelta obbligata”.
L’area geografica maggiormente colpita dal fenomeno è il Nord con 39 suicidi, oltre il 40% dei suicidi censiti in Italia dall’inizio dell’anno; di questi 27 registrati nel solo Nord Est, ovvero il 30% del totale. In questa classifica seguono il Centro con il 25,8% degli episodi di suicidio, le isole con il 15,7% e il sud con il 14,6%. L’analisi del dettaglio per regione, inoltre, mette in evidenza il Veneto con 23 suicidi nel corso del 2012, vale a dire il 25,8% dei suicidi che l’Italia conta da gennaio a dicembre 2012. A seguire la Campania con 11 suicidi registrati, la Sicilia con 9 vittime e la Puglia con 7. (…..)
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L’ANALISI DI GIUSEPPE BORTOLUSSI
«SI UCCIDONO PER IL SENSO DELL’ONORE»
da “il Corriere del Veneto” dell’8/3/2013
– Il direttore della Cgia di Mestre e autore del libro «L’economia dei suicidi»: «Si convincono di essere i “colpevoli” della crisi e si tolgono di mezzo» –
VENEZIA — «Badate bene: quelli come Elio Marcante, l’imprenditore che si è suicidato a Schio, sono dei piccoli eroi del quotidiano di cui nessuno sembra interessarsi». Giuseppe Bortolussi, direttore della Cgia di Mestre, è l’autore del libro «L’economia dei suicidi» (edizioni Marciuanum Press) che analizza il disagio che ha colpito le piccole aziende e che, dall’inizio della crisi, ha spinto cinquantasei veneti a togliersi la vita. Una scelta vista come «l’espressione estrema di reazione alle difficoltà».
Anche perché – assicura Bortolussi – il contesto sociale si sta facendo sempre più complicato. «Questi uomini sono dei caduti sul lavoro. Si suicidano quasi fosse un rito propiziatorio, nella speranza che i propri figli non si ritrovino ad affrontare le stesse difficoltà».
Come se la morte purificasse l’impresa dalla loro incapacità di affrontare la crisi economica. «Molti imprenditori veneti hanno un senso dell’onore che rapportano al successo imprenditoriale. Fallire, per loro, significa dover ammettere la propria incapacità manageriale e, di conseguenza, sentirsi un peso per l’azienda. Proprio per questo decidono di “togliersi di mezzo”: in questo modo pensano che la ditta uscirà dal tunnel. Quasi fossero loro il problema, e non capissero che, in realtà, la colpa è della crisi economica internazionale».
Nel suo libro, Bortolussi analizza una serie di episodi e di esperienze imprenditoriali, sottolineando il ruolo centrale dell’area veneta nel sistema economico italiano. Descrive le caratteristiche che ne hanno determinato il rapido sviluppo, ma anche i cambiamenti che, nel corso degli anni, hanno portato a una crisi generalizzata.
«Per molti imprenditori, il senso dell’onore ha un ruolo fondamentale nella decisione di farla finita», ribadisce il direttore della Cgia. «In uno dei casi che ho analizzato, prima di togliersi la vita l’uomo ha voluto pagare tutti i fornitori della sua azienda. Questa è stata la sua ultima preoccupazione. E dimostra quanto importante fosse il senso di responsabilità nei confronti di chi faceva affidamento su di lui».
Giuseppe Bortolussi analizza anche il «rituale » che spesso accomuna molti dei suicidi avvenuti negli ultimi quattro anni. «In tanti scelgono di impiccarsi e di farlo in azienda. In modo plateale, quindi. E questo dimostra che quel gesto vuole anche essere un grido d’aiuto e, allo stesso tempo, un atto d’accusa nei confronti del silenzio che circonda le loro fatiche quotidiane. Perché gli imprenditori si sentono soli, nella loro battaglia. E incompresi, visto che ad abbandonarli è quella stessa società che loro, attraverso l’azienda, hanno contribuito a rendere più ricca».
La «morale» che si ricava dal libro è proprio questa: «La società – spiega Bortolussi – non fa abbastanza per le aziende». La soluzione deve venire da quella politica che, fino a questo momento, non ha saputo trovare delle soluzioni che potessero sostenere le partite Iva nei momenti difficili. «Occorre intervenire – conclude l’autore – e occorre farlo subito. Occorre ridurre i tempi di pagamento da parte dello Stato, eliminare questa burocrazia che non dà respiro e, più in generale, far capire agli imprenditori che tutti noi comprendiamo e apprezziamo i sacrifici e gli sforzi fatti per costruire un futuro migliore».
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IN 105 SALVATI DA LIFE AUXILIUM LO SPORTELLO DI AIUTO CREATO DA CONFARTIGIANATO
di Enzo Favero, da “la Tribuna di Treviso”
– C’è chi non poteva pagare lo scuolabus della figlia e chi ha fatto ipotecare la casa ai familiari: il bilancio di 12 mesi di interventi presentato ieri da Confartigianato –
C’è stato il caso dell’imprenditore montebellunese nel settore edile che non aveva i soldi per pagare l’abbonamento dello scuolabus alla figlia e che per questo è stato plurimultato. Al punto che ha deciso di non mandare la ragazzina a scuola per qualche settimana, allo scopo di evitare nuove contravvenzioni. Una situazione dovuta al fatto che i creditori non pagavano e le banche non concedevano prestiti. E a pranzo c’era solo una pastasciutta.
E poi il caso del camionista residente nella Pedemontana che in famiglia vedevano sempre più cupo e le due figlie quando era in viaggio col camion gli telefonavano di continuo per il timore che facesse qualche gesto disperato.
E quello dell’imprenditore a cui avevano dato le firme fidejussorie la madre, lo zio e la sorella perché non riusciva più a far fronte ai suoi impegni con le imposte e i contributi e i parenti rischiavano di vedersi ipotecare le loro proprietà. I familiari si sono rivolti allora alla Confartigianato che li ha aiutati a uscire dal tunnel accompagnando l’azienda alla chiusura, facendo ottenere le rateizzazioni da Equitalia e un prestito in modo da salvare le case di madre e zio.
Sono i casi emblematici di una imprenditoria sempre più in difficoltà; casi portati alla luce dallo sportello Life Auxilium della Confartigianato Asolo e Montebelluna che ha presentato il bilancio dell’attività. Un’attività che ha permesso di salvare la vita a chi ha pensato seriamente di togliersela.
Lo sportello è partito il 2 marzo 2012, primo tra le strutture di questo tipo allestite da enti e associazioni. Con una caratteristica che lo differenzia dagli altri: non offre solo supporto psicologico, ma anche tecnico per risolvere il problema materiale, concreto. Ha coinvolto l’Usl 8 e la Caritas Tarvisina, ha allestito un gruppo di lavoro costituito da 3 operatori, 2 psicoterapeuti, un psicologo messo a disposizione dall’Usl 8, tre consulenti tecnici per la parte economico-finanziaria.
Ha ricevuto 105 telefonate da persone in difficoltà, ne ha inviate la maggioranza ad altre strutture competenti e si è occupato direttamente di 45 di loro. Imprenditori provenienti da Montebelluna, dagli altri paesi della Pedemontana, ma anche da Pesaro, Arezzo, Bologna, Torino, Roma e Napoli.
Imprenditori che non potevano ricorrere al credito per far fronte ai debiti, non in grado di riscuotere i crediti, insolventi rispetto alle rate dei finanziamenti, in difficoltà a sostenere le spese di famiglia. «A differerenza dello sportello della Regione che dà supporto solo psicologico, noi diamo anche supporto tecnico, accompagnandoli da Equitalia, dalle banche, fornendo consulenza», spiega il presidente Stefano Zanatta, «Nel 2013 lo sportello Life Auxilium rimarrà attivo come partner di una rete che comprende altre realtà importanti. Da questa esperienza abbiamo compreso che l’associazione deve sviluppare azioni che siano in grado di incidere positivamente sulla persona». (Enzo Favero)
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CRISI, DA GENNAIO AD OGGI: LA GIÀ TROPPO LUNGA SCIA DI SUICIDI DEL 2013
da “Il Gazzettino”, 14/3/2013
VENEZIA – A pochi giorni dal suicidio di un imprenditore nel vicentino, oggi ancora un dramma legato alla crisi. A Valdobbiadene (Treviso) un artigiano edile si è tolto la vita impiccandosi ad un albero. Un’altra tragedia dopo una lunga catena di lutti che ha visto come vittime titolari di piccole e medie imprese. Ecco i casi dall’inizio del 2013.
– 11 marzo. Si getta dalla finestra di uno stabile a Schio Alessandro Crivellaro, 47 anni, socio di una azienda di informatica. Sul posto intervengono i sanitari del 118, ma non possono fare nulla per l’uomo, morto sul colpo.
– 7 marzo. Un imprenditore, Elia Marcante, 65 anni, si impicca nel suo capannone, a Schio, dove produceva da anni macchine per la lavorazione del legno distribuite in tutto il mondo. Marcante era molto noto anche come ex patron della locale squadra di calcio. A trovare il cadavere, nella tarda serata del 6 marzo, è la figlia dell’uomo: accanto al corpo un biglietto di scuse.
– 6 marzo. Tragedia negli uffici della Regione Umbria, dove Andrea Zampi, imprenditore di 43 anni, a Perugia uccide due impiegate e poi si uccide. L’uomo era titolare di un’impresa di formazione nel campo della moda. Nei giorni precedenti la Regione gli aveva respinto la richiesta di accreditamento che gli avrebbe permesso l’accesso a un finanziamento.
– 5 marzo. Un imprenditore di 47 anni, Stefano Busato, si uccide impiccandosi nella sua azienda a Quinto di Treviso. A trovare il corpo dell’uomo è il personale a inizio turno. L’uomo lavorava per un’azienda che si occupa di trattamenti termici. Di recente nell’azienda un forno che si era danneggiato due volte e si erano verificati problemi per un lavoro non andato a buon fine.
– 5 marzo. Un anziano imprenditore uccide la moglie e si toglie la vita nella notte a Segrate, nel Milanese. L’uomo, imprenditore in pensione di 76 anni, spara alla donna, di 67 anni, mentre è a letto e poi si uccide con la sua pistola, regolarmente detenuta. Alla base del gesto presumibilmente motivi economici. La coppia abitava nel quartiere San Felice di Segrate, comune alle porte di Milano.
– 28 febbraio. Un imprenditore cinese di 40 anni viene trovato morto nel suo poltronificio di via Meucci, nella zona industriale di Coriano a Forlì. Sul posto i sanitari del 118 non possono fare altro che constatare il decesso, concludendo che si è trattato di un suicidio. L’ipotesi ritenuta più accreditata è che il gesto sia legato al lavoro in forte crisi economica.
– 26 febbraio. Le continue telefonate dalla banca non lo lasciavano in pace. Il problema era sempre lo stesso: saldare un fido scoperto, coprire un conto in rosso. Per Gianfranco Mazzariol, 58 anni, commerciante conosciutissimo a Treviso, c’era anche la percezione di vivere questa situazione come una sorta di umiliazione. Così è arrivato alla conclusione più drammatica: una fucilata all’interno della sua abitazione a Paese. Mazzariol era titolare, con il fratello Giancarlo, 67 anni, del ristorante “Al Mercato” di Treviso e del “Birrificio trevigiano” di Vascon di Carbonera.
– 24 febbraio. Il titolare 50enne di una piccola azienda di imballaggi e falegnameria viene trovato, dalla propria moglie, impiccato all’interno della sua ditta che ha sede ad Alfonsine, in provincia di Ravenna. La donna, che non lo vedeva dalla sera prima, era andata a cercarlo e scoprendo così che il marito si era tolto la vita. L’imprenditore avrebbe avuto alle spalle problemi depressivi e difficoltà economiche legate alla conduzione dell’azienda e al fisco.
– 14 febbraio. Agostino Cantarello, che avrebbe compiuto 46 anni ad agosto, si è ucciso impiccandosi nella cucina del suo appartamento, in via Trilussa a Mejaniga di Cadoneghe (Padova). Un vissuto difficile e tormentato anche quello di Agostino, che negli ultimi anni l’aveva portato a tentare di farla finita già diverse volte. Da tre anni era disoccupato; unica fonte di reddito una pensione che gli era stata riconosciuta per un’invalidità civile.
– 12 febbraio. Si è lasciata andare nel vuoto dal terzo piano dell’hotel Maggior Consiglio di Treviso, dove era alloggiata. Maria Risalvato, 40 anni, nata a Portogruaro (Venezia) da genitori siciliani avrebbe dovuto prendere l’aereo nel tardo pomeriggio di domenica per raggiungere i congiunti. Negli ultimi mesi aveva aumentato il suo impegno aggiungendo all’attività di insegnante precaria una lunga sfilza di concorsi per una cattedra di inglese o tedesco, materie nelle quali si era laureata. E sarebbe stato proprio il precariato, i continui test e i concorsi ad aver minato la sua tranquillità spingendola a compiere il gesto estremo.
– 11 febbraio. Suicidio nel Padovano. Ieri sera, poco dopo le 21, un imprenditore di 55 anni, Albino Mazzaro, titolare di un’azienda con sede a Vigonza, si è ucciso impiccandosi all’interno del suo capannone. L’uomo si è recato in azienda e qui, con lucida disperazione, si è ucciso. L’uomo ha lasciato un biglietto di addio alla famiglia, in cui ha scritto “Non ce la faccio più”. Alla base della decisione di togliersi la vita ci sarebbero le difficoltà economiche degli ultimi tempi: aveva dovuto chiedere la cassa integrazione per i suoi dipendenti, in tutto una decina. Il corpo dell’imprenditore è stato trasportato all’obitorio dell’ospedale dove sarà effettuata l’autopsia nei prossimi giorni.
– 11 febbraio. Una 41enne ha scelto di farla finita a Venezia nel sestiere di Castello. Ha preso una corda, l’ha legata al montante della porta d’ingresso e si è impiccata. Stava passando un brutto periodo: il lavoro che non c’era, lo sfratto che incombeva. Non riusciva più a sopportare il fatto di essere disoccupata, il fatto di aver tentato di avere un impiego qualsiasi purché onesto e dignitoso che le consentisse di guadagnare un po’ di soldi. Nulla. E poi aveva cominciato quel malessere psichico o anche sociale che giorno dopo giorno l’ha minata nel profondo, mettendo in crisi i rapporti familiari e pure quelli sentimentali, portandola al rompere col fidanzato.
– 3 febbraio. Un uomo di 62 anni, titolare della filiale della Dhl di Frosinone, si impicca nella notte nell’azienda. A trovare il corpo, la mattina, nel capannone, è un dipendente. Su un tavolo vengono trovate due lettere, una per il commercialista e una per il figlio in cui l’imprenditore spiega i motivi del tragico gesto, legati alle preoccupazioni sul futuro della filiale: la sede centrale, probabilmente, non avrebbe rinnovato l’appalto in franchising e la sorte dell’azienda sembrava segnata.
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«VA SUPERATA LA CONCEZIONE DELL’IMPRENDITORE MACHO»
di Elvira Sigliano, da “il Mattino di Padova” del 8/3/2013
– Marco Nicolussi, presidente dell’ordine degli psicologi di Padova è stato per due anni coordinatore del numero verde destinato agli imprenditori che cadono in depressione –
PADOVA. Come salvare la vita degli imprenditori veneti. Questa la vocazione di Marco Nicolussi, presidente dell’ordine degli psicologi di Padova, coordinatore per 2 anni del numero verde messo a disposizione dalla Camera di Commercio per gli imprenditori in crisi. L’esperimento, dal 2011 al 2012, ha registrato migliaia di richieste di aiuto (con punte vertiginose di 100 telefonate al giorno per le prime 2 settimane), ma nessun suicidio.
Dottore, qual è la strategia vincente?
«Lo sportello era vincente e dovrebbe essere ripristinato nel territorio. Adesso è stato assorbito dalla Regione Veneto, mentre in tempi così difficili c’è bisogno di un servizio territoriale. Stavamo funzionando perché con Roberto Furlan (presidente Camera Commercio) avevamo capito l’importanza di metterci in rete con le associazioni di categoria, psicologi, avvocati, commercialisti, istituzioni, centro per l’impiego e servizi sociali».
Qual è l’identikit dell’imprenditore in difficoltà, ammesso che sia possibile delinearla?
«La stragrande maggioranza era attanagliata dalla mancata comprensione della portata reale dei problemi. Il primo contatto con il numero verde era il più delle volte cercato dalla famiglia di fronte a cari depressi o aggressivi senza apparente motivo. Dietro spesso c’era una gestione poco oculata dell’azienda: gestire i rapporti con i dipendenti, con le banche, contare i propri debiti. Invece è fondamentale coinvolgere chi lavora con noi».
Bisogna quindi superare l’idea dell’imprenditore “macho”?
«Assolutamente sì. Nell’immaginario dell’imprenditore veneto c’è la difficoltà a manifestare delle debolezze: siamo umani e possiamo sbagliare. Gli uomini d’affari veneti sono determinati e cocciuti, tuttavia questi stessi caratteri che spesso ne determinano il successo, possono essere anche un’arma a doppio taglio».
Un carattere troppo forte diventa improvvisamente fragile?
«Può capitare. L’importante è non perdere la speranza perché c’è sempre qualcosa da fare. Che siano corsi di formazione o ricollocazione, bisogna credere che non tutto il male viene per nuocere e non tutto il bene per aiutare. Rivolgersi ad uno psicologo non è un fallimento, va concepita come una semplice consulenza, alla stregua di un’analisi finanziaria. E’ cambiato il modello di fronte a te? Devi solo cambiare anche tu l’approccio perché, tu che ti sei costruito da solo, hai le risorse per farlo. L’imprenditore in crisi spesso dedica corpo, anima e cuore all’impresa, ma poi non si gode la villa né la fuoriserie».
Cosa si deve fare di fronte alla crisi?
«Sapere che una crisi comporterà dolore e sofferenza vale per il mondo del lavoro come per gli affetti, ma è transitorio. Le prime mosse sulla scacchiera della rinascita sono aprirsi, condividere, chiedere aiuto e fare le cose con gli altri senza rimanere chiusi in noi stessi».
Un consiglio?
«Continuare a perseguire le cose in cui si crede avendo chiarito a noi stessi cosa sono le cose importanti, quelle che veramente vogliamo fare». (Elvira Sigliano)
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«IO, IMPRENDITORE NEI GUAI, HO DENUNCIATO GLI STROZZINI»
di Francesca Nicastro, da “la Tribuna” di Treviso
«Il suicidio è una casa a cui molti lavorano: c’è chi dà il permesso, chi la costruisce, chi la demolisce, chi sta a guardarla e se ne frega». Ha buttato giù un intero piano di quella “casa di morte” il giornalaio che una mattina, dopo molto tempo che non lo vedeva, gli ha detto: «So quello che è successo, purtroppo la vita è così, basta che tu stia bene».
Loris (nome di fantasia), 50 anni, è ancora vivo. Non è più titolare di una nota impresa metalmeccanica che fino al 2008 aveva commesse in tutta Italia. Ora è un operaio a chiamata. Senza più auto, con l’abitazione messa all’asta. Ma con ancora una moglie e i figli che gli vogliono bene. All’uomo che vende giornali è tornato indietro a stringere la mano.
Loris è uno dei 445 imprenditori che ha avuto il coraggio di digitare l’800.334343, il numero verde anti-suicidi della Regione. Lo ha fatto un pomeriggio di settembre dopo aver trovato i lucchetti nuovi di zecca a sigillare il capannone della sua impresa. «A novembre avrei festeggiato i 30 anni di attività, invece ho portato i libri in tribunale», racconta. «Ma avevo capito che per me era finita già l’autunno prima, dopo la manovra d’estate del governo di allora. Ho resistito un anno per cercare di tenere in piedi il lavoro di una vita». L’impresa, una trentina di addetti, forniva macchinari, manutenzione e servizi a fornitori della pubblica amministrazione e a privati
In quell’anno di limbo è successo di tutto, anche cose di cui oggi l’ex titolare si pente. In pesante crisi finanziaria, i suoi consulenti lo avevano spinto ad accettare denaro facile da gente rivelatasi poco raccomandabile. Delinquenti in doppio petto che, invece di salvare l’azienda, l’avevano definitivamente spolpata. «Tre-quattrocento mila euro di macchinari spariti nel giro di qualche mese», ricorda Loris, che ha deciso di denunciare alle forze dell’ordine il giro di malaffare in cui era caduto dopo il colloquio con la psicologa. «Quando ho visto i lucchetti mi sono sentito perso. Ho chiamato, sono stato aiutato, ho trovato il coraggio di sporgere denuncia».
«Al suicidio ho pensato sì, più di una volta», continua. «Quando viaggiavo in autostrada speravo che un camion mi “chiudesse”. Volevo sparire, liberarmi di quel fardello».
«Il fallimento è stato uno shock. Ma ho avuto tre fortune», prosegue, «non mi ero mai montato la testa, dentro ero rimasto l’umile operaio degli inizi, sapevo di avere intorno a me gente che mi voleva bene, la mia famiglia soprattutto, e la fede in Dio che è cresciuta in questo ultimo anno».
Ci sono fatti, però, che l’ex imprenditore non dimentica. Cose che fanno male e segnano per sempre. «Lavori per una vita, ti fai in quattro, dai lavoro agli altri. Quando però gli affari cominciano ad andare male il mondo ti si rivolta contro. Le banche, dopo aver mangiato sulla tua attività, ritirano i fidi, i fornitori ti assillano di telefonate, i dipendenti, con cui ti sei sempre comportato bene, scrivono insulti fuori dalla fabbrica, i sindacalisti con cui per dieci anni avevi bevuto insieme il caffè, ti montano contro gli operai. Se mi rimprovero qualcosa? Sì, di aver voluto bene a troppa gente e di essermi fidato di chi mi consigliava».
E poi c’è la questione dell’adeguatezza di un modello aziendale che mette sulle spalle di uno, o di pochi, tutta la responsabilità della conduzione dell’impresa: lungi dall’essere un bene privato, è invece un bene sociale da cui dipende il benessere di molte famiglie. «Nel momento in cui l’impresa comincia a navigare in acque cattive, manca un sistema di intervento solidale, di affiancamento gestionale e di supporto finanziario, e l’imprenditore si trova solo. Non è tanto la mancanza di denaro, è la mancanza di supporto: ti trovi completamente solo. E dalle istituzioni l’aiuto arriva solo a parole». (Francesca Nicastro)
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(appunti…)
PICCOLE IMPRESE VENETE NEL TUNNEL DELLA CRISI
Le piccole imprese venete sono ritornate nel pieno della recessione e il 77,4% di quelle intervistate da Fondazione Impresa dichiara di non essere uscita dalla crisi. Si tratta di una quota molto più elevata rispetto a quanto rilevato nel II semestre del 2011, quando le piccole imprese venete in crisi erano meno del 65%. Le piccole imprese venete soffrono comunque di meno rispetto a quanto si rileva per il Nord Est dove più di 8 piccole imprese su 10 (l’82,0%) stanno vivendo la crisi.
Come emerge da questa indagine – commentano i ricercatori di Fondazione Impresa – la crisi sta colpendo duramente anche le aree più dinamiche e tale risultato si evince dalle difficoltà che stanno riscontrando le piccole imprese venete in tutti i principali settori economici. Considerando la crisi come un tunnel lungo 100 metri, le piccole imprese venete si ritrovano al metro 70,2 e retrocedono di 1,8 m rispetto a quanto registrato nel II sem del 2011. La magra consolazione – rimarcano i ricercatori di Fondazione Impresa – riguarda la performance meno negativa registrata dalle imprese venete rispetto alle altre realtà territoriali; infatti, nel tunnel della crisi sono più avanti i piccoli imprenditori veneti (70,2m) che si posizionano meglio del Nord Est (69,8m) ma soprattutto delle altre aree geografiche: le piccole imprese del Nord Ovest sono al metro 66,7 mentre nel Centro e nel Sud Italia non viene superata la soglia dei 60m.
Nonostante le principali variabili economiche risultino in flessione le esportazioni delle piccole imprese venete e del Nord Est continueranno a crescere nella seconda parte del 2012 (+2,0% e +1,2% rispetto al I sem 2012); i mercati internazionali – richiamano i ricercatori di Fondazione Impresa – rappresentano attualmente l’unica valvola di sfogo per le piccole imprese venete e nordestine che con il loro contributo stanno limitando i danni di un anno di recessione.
E alla crisi si aggiungono altre criticità: i tempi di pagamento sono ancora troppo elevati (in media 106,7 con la Pubblica Amministrazione e 85,6 con i privati). Il recepimento della Direttiva Europea sui pagamenti da parte dell’Italia prevede che dal 1° gennaio 2013 le imprese vengano saldate entro 30 gg o al massimo 60 gg; si tratta – per i ricercatori di Fondazione Impresa – di una boccata d’ossigeno per le piccole imprese anche se i tempi di pagamento sui crediti pregressi rimangono elevati.
I PRINCIPALI RISULTATI
In Veneto il 77,4% delle piccole imprese (meno di 20 addetti) è nel pieno della crisi economica. Le piccole imprese venete vanno tuttavia meno peggio delle altre realtà territoriali: sono al metro 70,2 del tunnel della crisi, meglio della media del Nord Est (69,8m) ma soprattutto del Nord Ovest (66,7m).
Le esportazioni delle piccole imprese continuano a crescere: nel I sem 2012 +2,6% in Veneto e + 2,2% nel Nord Est e, in previsione, +2,0% in Veneto e +1,2% nel Nord Est nel II semestre del 2012.
Le previsioni sono poco incoraggianti e appena il 14,6% delle piccole imprese venete ritiene di uscire dalla crisi entro la fine dell’anno (il 15,3% per il Nord Est).
I tempi di pagamento sono lunghi e una piccola impresa veneta deve attendere 106,7 giorni con la PA.
Questi i principali risultati di un’indagine condotta da Fondazione Impresa su un campione di 1.200 piccole imprese in Italia. Per il Veneto si è effettuato un sovra campionamento della regione in modo da raggiungere le 250 unità intervistate.
IMPRESE VENETE NEL PIENO DELLA CRISI | Appena 2 piccole imprese venete su 10 (il 22,6%) ritengono di essere uscite dalla crisi economica. Il dato preoccupa in quanto il 77,4% delle piccole imprese venete si trovano nel pieno della recessione: la quota di aziende in crisi è aumentata di più di 12 punti % rispetto a quanto registrato nel II sem 2011 (era al 64,7%). Il Nord Est va peggio con più di 8 piccole imprese su 10 (l’82,0%) dentro il tunnel della crisi.
TUNNEL DELLA CRISI | Rappresentando la crisi economica come un tunnel lungo 100 metri, si è chiesto alle piccole imprese di indicare a che punto si posizionano. Le piccole imprese del Nord Est soffrono meno delle altre; si ritrovano al metro 69,8 del tunnel, più prossime alla luce rispetto alle “cugine” del Nord Ovest (66,7m) e staccano nettamente quelle del Centro e del Mezzogiorno (a 59,3m e 57,6m). Le piccole imprese venete si comportano meglio di quelle del Nord Est posizionandosi oltre la soglia dei 70 metri, grazie alle performance registrate nelle province di Vicenza e di Padova che contrastano i risultati poco incoraggianti di Belluno e Rovigo.
SETTORI ECONOMICI | Per le piccole imprese venete la crisi è più evidente nel commercio (qui i piccoli imprenditori si posizionano a 65,2 metri) e nell’artigianato (67,3m) mentre per la piccola impresa manifatturiera e i servizi la situazione è un po’ meno preoccupante: entrambi i settori si collocano al di sopra dei 70m (rispettivamente 72,6m e 73,1m) ma è evidente come, rispetto al II sem del 2011, la situazione sia peggiorata (sono arretrati di 2,1m e di 1,5 m). Dal momento che tutti i settori arretrano (rispetto al II sem del 2011) la crisi è ormai una triste realtà anche per gli imprenditori veneti.
VARIABILI IN FLESSIONE | L’avvento della crisi viene confermato dall’andamento delle principali variabili economiche rilevate presso le piccole imprese. A livello congiunturale (rispetto al II sem del 2011), le piccole imprese venete hanno registrato cali della produzione/domanda (-0,4%), del fatturato (-0,2%) e dell’occupazione (-0,3%). Gli ordinativi sono scesi addirittura dello 0,8% e tale risultato si tradurrà in una contrazione della produzione e del fatturato nel semestre in corso (-0,3% e -0,2% secondo le previsioni rispetto al I sem del 2012).
LA SPINTA DELL’EXPORT | Le notizie positive vengono dalle esportazioni: le piccole imprese venete registrano una crescita sostenuta dell’export (+2,6% nel I sem 2012 rispetto al II sem 2011) e i mercati internazionali hanno consentito di limitare la performance negativa generale. Le previsioni per il semestre in corso sono incoraggianti: l’export delle piccole imprese venete dovrebbe crescere ancora del 2,0%, un tasso quasi doppio di quanto fatto registrare dalle piccole imprese del Nord Est (+1,2%).
QUANDO L’USCITA DAL TUNNEL? | Le previsioni per la fine dell’anno sono poco incoraggianti e appena il 14,6% delle piccole imprese venete ritiene di uscire dalla crisi entro la fine dell’anno in corso nonostante la previsione di leggera ripresa degli ordinativi (+0,2% rispetto al I sem 2012). Per i piccoli imprenditori veneti la luce è lontana tant’è che il 43,6% di loro ritiene di uscirne dopo il 2012 (verosimilmente nel 2013) e il 35,3% sostiene che le difficoltà perdureranno per molto tempo (per più anni).
TEMPI DI PAGAMENTO TROPPO LUNGHI | Anche le piccole imprese del Veneto stanno vivendo il dramma dei tempi di pagamento: con la PA queste devono aspettare mediamente 106,7 giorni (85,6 giorni con i privati). Nel raffronto con i tempi registrati per il Nord Est, le piccole imprese venete soffrono di più nei rapporti tra privati (incassando mediamente in 85,6 giorni rispetto agli 80,0 giorni del Nord Est) mentre la PA è leggermente più puntuale con le piccole imprese venete (106,7
giorni vs 108,3 giorni per il complesso delle piccole realtà imprenditoriali del Nord Est). Artigianato e piccola impresa manifatturiera attendono più di 4 mesi: la PA impiega mediamente 123,5 giorni per saldare un’impresa
artigiana veneta e 124,9 giorni per una piccola impresa manifatturiera. Nel I sem del 2012 i tempi di pagamento si sono ridotti leggermente ma rimangonocomunque elevati e rispetto al I semestre del 2011 (19,5 giorni in più per le piccole imprese venete da parte della PA e 20,9 giorni in più nei rapporti tra privati).
NEL 2013 TEMPI DI PAGAMENTO A 30 GIORNI PER LA PA
L’Italia è stato il primo grande Paese a recepire con alcuni mesi di anticipo la Direttiva Europea sui pagamenti (il terzo in ordine di tempo dopo Cipro e Malta). Il termine per il recepimento della direttiva era fissato al 16 marzo 2013 ma con l’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri del decreto legislativo che recepisce la direttiva 2011/7/UE sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali tra imprese (e tra Pubbliche Amministrazioni e imprese) viene attuata la delega conferita al Governo con l’articolo 10 della legge n. 180 del 2011 (Statuto delle imprese). La disciplina del decreto legislativo 9 novembre 2012, n.192 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 15/11/2012) si applica ai contratti conclusi a partire dal 1° gennaio 2013. In particolare:
i pagamenti della PA (salvo alcune eccezioni, vedasi punto 2) non potranno superare i 30 giorni dal ricevimento della fattura (oppure, quando non c’è data certa di arrivo della fattura, 30 gg dalla consegna della merce o dalla prestazione dei servizi).
E’ prevista tuttavia la proroga a 60 gg. per le imprese pubbliche e altre Pubbliche Amministrazioni ma questa deve essere giustificata “dalla natura e dall’oggetto del contratto” e previo accordo espresso e scritto delle parti; per le aziende pubbliche sanitarie è previsto invece un termine di 60 gg; i tempi di pagamenti tra imprese potranno superare i 30 gg ma non i 60 gg; eventuali pagamenti oltre i 60 giorni potranno essere pattuiti solo alla condizione che non siano “gravemente iniqui per il creditore” e la clausola deve essere provata per iscritto; gli interessi di mora decorrono in automatico dal giorno successivo alla scadenza del termine di pagamento (non è quindi necessario una richiesta scritta del debitore di adempiere all’obbligo); le Pubbliche Amministrazioni non possono più derogare all’applicazione degli interessi legali di mora che dunque sono vincolanti; i privati possono, in alcuni specifici casi, riservarsi della facoltà di derogare all’applicazione degli interessi legali di mora, previo accordo tra le parti (applicazione di interessi moratori cioè liberamente determinati dalle parti); gli interessi legali di mora sono calcolati su base giornaliera ad un tasso pari al tasso di riferimento della BCE (operazioni di rifinanziamento principali) maggiorato di 8 punti percentuali.
Si auspica che queste misure contribuiscano a ridurre i tempi di pagamento risolvendo i problemi di scarsa liquidità che stanno vivendo le piccole imprese italiane, specie per quelle che hanno rapporti commerciali con la PA. (da www.fondazioneimpresa.it/)
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(appunti)
DALLA UE OSSIGENO ALLE IMPRESE
di Luigi Chiarello, da DIRITTO E FISCO di ITALIA OGGI del 19/3/2013
– La Commissione non aprirà la procedura di infrazione per sforamento del tetto debito/pil – Svincolo del patto di stabilità e titoli di stato per 90 mld –
Svincolo del patto di stabilità interno per i comuni virtuosi, così da sbloccare immediatamente i pagamenti a favore delle imprese fornitrici. Ed emissione di titoli di stato, in due mega-tranche: un prima, da 50 miliardi di euro, per il 2013 e una seconda, da 30-40 miliardi di euro, nel 2014.
Il tutto sulla falsariga di quanto fatto in Spagna. Secondo quanto risulta a ItaliaOggi, sono queste le ipotesi di lavoro giunte da Roma sul tavolo della Commissione Ue, dopo l’allentamento dei vincoli del patto di stabilità europeo per il pagamento dei debiti commerciali delle pubbliche amministrazioni italiane. Decisione assunta giovedì mattina dai commissari europei Olli Rehn e Antonio Tajani, il primo incaricato di presiedere agli affari economici e monetari dell’Unione, il secondo all’industria e imprenditoria. Decisione assunta sulla base di un semplice principio, che una fonte della commissione a ItaliaOggi spiega così: «Non è accettabile che lo Stato italiano si finanzi a basso costo sulla pelle delle imprese».
Ergo, presto partirà un piano straordinario per pagare le imprese creditrici della Pubblica Amministrazione. E Bruxelles chiuderà un occhio sulla ulteriore formazione in Italia di debito pubblico e deficit. Infatti, secondo stime Ue il piano di pagamento dovrebbe portare allo sfondamento del 130% del rapporto debito/pil. A fronte di ciò, però, la commissione europea si è impegnata a non aprire verso l’Italia alcuna procedura di infrazione per debito eccessivo. Derogando così agli stretti vincoli imposti dal «Six-Pact»; quel pacchetto legislativo composto da sei regolamenti in materia economico-finanziaria, entrato in vigore il 12 dicembre 2011 per costringere gli stati membri a politiche di bilancio più rigorose.
Fonti della Commissione europea spiegano a ItaliaOggi, che «si tratta di una decisione una tantum, presa dalla Commissione Ue con la ratio di far applicare definitivamente la direttiva europea sui pagamenti della p.a. (2011/7/Ue del 16 febbraio 2011, recepita in Italia col dlgs 192/2012)». Ma che, comunque, non si tratta di qualcosa di anomalo o fuori dalle leggi. Piuttosto, spiegano, «è una deviazione temporanea di percorso, che utilizza strumenti già esistenti nel patto di stabilità europeo». Ma vediamo come è maturata la decisione Ue, giunta nei giorni in cui il governo Monti è alle battute finali. Cioè all’ordinaria amministrazione, in attesa che il rinnovato parlamento dia vita ad un nuovo esecutivo.
IL CONTESTO. Lo scenario è quello di un’Europa scossa dalla decisione Ecofin del 16 marzo scorso, che garantisce aiuti per circa 10 mld di euro al governo di Nicosia (Cipro), in cambio di un pesante prelievo forzoso sui depositi bancari (9,9% su tutti i depositi superiori a 100 mila euro e 6,75% per quelli inferiori).
In pieno allarme mediatico-finanziario, ieri giungeva da Bruxelles una nota congiunta dei commissari europei Olli Rehn e Antonio Tajani, che recita: «La liquidazione di debiti commerciali (dello Stato in favore delle imprese creditrici, ndr) potrebbe rientrare tra i fattori attenuanti (del patto di stabilità e crescita, ndr)».
Si tratta di una piccola frase dalle enormi ricadute perché, se diventa conseguenziale presso i rubinetti di cassa delle pubbliche amministrazioni, potrebbe spalancare le porte della ripresa. Secondo alcune stime circolanti, infatti, i debiti pregressi della p.a. italiana verso le imprese fornitrici ammonterebbero a una cifra compresa tra 70 e 100 mld di euro. E il pagamento degli stessi potrebbe far ripartire investimenti per 15-16 mld di euro. Con effetti benefici anche per lo spread.
La dichiarazione dei due commissari va inquadrata nel più ampio scenario relativo all’entrata in vigore della nuova direttiva Ue sui pagamenti della p.a. La normativa, nota anche come direttiva Tajani, impone alle amministrazioni pubbliche pagamenti a 30 giorni, anche quando i debiti riguardino edilizia e lavori pubblici. Cioè le costruzioni. Ma che possono diventare 60 giorni nel caso in cui a pagare debbano essere Asl e ospedali.
Questa direttiva però, spiegano i due commissari, «non si applica necessariamente all’ammontare del debito commerciale pregresso». In particolare, rilevano Rehn e Tajani, «nel caso dell’Italia, le autorità hanno deciso che le nuove regole si applicheranno solo ai contratti conclusi a partire dal 1° gennaio 2013».
E il debito precedentemente accumulato? I commissari europei la spiegano così: «Una soluzione realistica al problema dell’ammontare di debito commerciale pregresso (che si stima essere di notevoli dimensioni) deve, probabilmente, prevedere un piano di liquidazione avente come obiettivo quello di portare tale ammontare di debito pregresso a livelli non attribuibili a ritardi nei pagamenti (livelli fisiologici) in tempi relativamente brevi».
Che tradotto, significa: bisogna varare un piano straordinario per pagare al più presto le imprese e normalizzare i debiti delle p.a. Un piano, spiegano Rehn e Tajani, che «preveda adeguate misure contro il rischio di comportamenti opportunistici da parte delle pubbliche amministrazioni titolari del debito pregresso». Comportamenti che i commissari bollano apertamente come «azzardo morale».
Il problema, però, resta il come pagare. Ai due commissari non sfugge che «la liquidazione del debito commerciale pregresso» determini «un corrispondente aumento nel debito pubblico». Di più: «La parte di questo (debito) corrispondente a spesa per investimenti» impatta direttamente «sul deficit pubblico». Cosa non tollerabile dai trattati in vigore, per via degli stretti vincoli del patto di stabilità e crescita. Quindi che fare?
La via d’uscita che Rehn e Tajani indicano nella nota congiunta è uno slalom tra le regole: «Il quadro normativo europeo in tema di sorveglianza di bilancio pubblico», scrivono, «non prevede uno speciale trattamento per specifiche voci di spesa che incidono sul debito e sul deficit».
Al contrario, «il patto di stabilità e crescita permette di prendere in considerazione fattori significativi in sede di valutazione della conformità del bilancio di uno Stato membro con i criteri di deficit e di debito del patto stesso».
In sostanza, Bruxelles ventila una maggiore elasticità del patto di stabilità, che consenta di contabilizzare «la liquidazione di debiti commerciali», in modo tale che rientrino «tra i fattori attenuanti» dello stesso. E, di conseguenza, non facciano scattare la procedura d’infrazione.
Sia come sia, intanto, la Commissione si è detta pronta «a cooperare con le autorità italiane per aiutare l’attuazione tecnica del piano di liquidazione del debito commerciale pregresso». E ha aggiunto che «accoglierebbe con favore la disponibilità di informazioni più dettagliate ed aggiornate sull’attuale ammontare di tale debito da parte di ogni livello di amministrazione pubblica».
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(appunti)
IL REDDITO MINIMO? SI PUÒ FARE
(L’ESPERIENZA DEL TRENTINO)
di Gianfranco Cerea, da LA VOCE.INFO (www.lavoce.info) del 15/3/2013
– Si torna a parlare di reddito minimo, dopo l’infelice esperienza del reddito di inserimento e quella discutibile della social card. Ma quanto può costare? E come evitare la “trappola della povertà”? Come impedire gli abusi e l’accesso ai soliti furbi? L’esperienza promossa dalla provincia autonoma di Trento.-
L’ESPERIENZA DEL TRENTINO
Le politiche di reddito minimo tornano (finalmente) a comparire nel dibattito politico. Dopo l’infelice esperienza del reddito di inserimento e quella discutibile della social card è confortante sapere che qualche cosa si potrebbe fare rispetto a una importante forma universale di tutela, che ancora manca nel nostro ordinamento. Come sempre accade quando ci si confronta con misure di carattere innovativo i dubbi e le incertezze possono però esercitare una azione paralizzante. Quanto può costare? Come evitare la “trappola della povertà”, ovvero la tendenza a permanere nella condizione di eleggibilità? Come impedire gli abusi e l’accesso ai soliti furbi? Può perciò essere interessante guardare all’esperienza promossa dalla provincia autonoma di Trento.
Nel corso del 2009 la provincia autonoma di Trento ha rivisto le proprie politiche assistenziali, introducendo, a partire dall’ottobre dello stesso anno, il “reddito di garanzia”. L’intervento prevede l’erogazione di un beneficio monetario il cui importo è pari alla differenza tra l’effettiva condizione economica del nucleo e la soglia di povertà relativa, definita in base alle caratteristiche del nucleo stesso. Ad esempio, una famiglia di tre componenti, con un reddito di 700 euro mensili ha diritto a una integrazione di circa 400 euro. La somma spettante è poi eventualmente integrata di un importo per il sostegno del canone d’affitto. L’intervento è per quattro mesi, rinnovabili dopo verifica e per non più di tre volte in due anni.
L’erogazione (mensile) della spettanza è garantita entro la fine del mese entro cui è stata effettuata la procedura amministrativa, contestuale alla domanda per gli anziani e tutti coloro che lavorano o hanno perso da poco l’occupazione. Per gli altri soggetti l’erogazione è invece subordinata a una valutazione puntuale da parte dei servizi sociali.
La condizione economica dei richiedenti è valutata in base a reddito (al netto delle imposte, delle spese mediche e dell’affitto/rata del mutuo, ma comprensivo di sussidi e di ogni altra voce d’entrata del nucleo) e patrimonio (con la sostanziale sterilizzazione della prima casa), affiancati da indicatori di consumo (auto, ampiezza dell’abitazione, affitto), in base ai quali circa il 17 per cento delle situazioni è stato dichiarato incongruo.
I BENEFICIARI
Da quando la misura è stata introdotta nel 2009 e sino a dicembre 2012, i nuclei beneficiari sono stati complessivamente circa 10 mila, con una media di “ingressi” mensile pari a 251 unità. La misura ha mediamente interessato il 3,9 per cento della popolazione.
Rispetto agli stranieri, ha riguardato il 17 per cento dei soggetti, contro il 2 per cento della restante popolazione. Oltre il 60 per cento dei nuclei interessati è rappresentato da famiglie con minori, mentre quelle di soli ultra 65enni sono il 12 per cento. I casi interessati dai servizi sociali sono l’8 per cento. A dicembre 2012 risultavano assistiti 3.448 nuclei familiari, per un complesso di 10.591 persone.
Il 25 per cento dei nuclei beneficia della misura una sola volta per quattro mesi. Per due volte è il 20 per cento e per tre il 12 per cento. Ciò significa che, nonostante la crisi economica, la misura tende ad avere un carattere provvisorio, ovvero risulta coerente rispetto all’idea di realizzare un ammortizzatore, rispetto alle condizioni di bisogno, che comunque promuova la responsabilizzazione dei soggetti interessati.
Al riguardo occorre osservare che la normativa del reddito di garanzia prevede la sottoscrizione di un impegno alla ricerca attiva di un lavoro e la dichiarazione di disponibilità immediata all’accettazione di un impiego per tutti i componenti del nucleo che non lavorano, pur essendo in grado di farlo.
Per quanto concerne l’efficacia del reddito di garanzia, le analisi mostrano che le famiglie beneficiarie appartengono effettivamente alla fascia di popolazione più deprivata e che il ricorso alla misura avviene non solo per superare episodi transitori di difficoltà economica, ma anche per far fronte a condizioni di povertà strutturale. (1) Inoltre, i risultati preliminari dello studio di valutazione controfattuale basato sulla tecnica del difference in differences hanno messo in luce come il reddito di garanzia abbia:
indotto cambiamenti nei comportamenti di consumo di alcune categorie specifiche di beni, come quelli durevoli;
causato lievi aumenti della spesa destinata a beni primari come i generi alimentari;
lasciato pressoché inalterata la partecipazione al mercato del lavoro.
Sul piano più generale, da quando è stato introdotto il reddito di garanzia la quota di soggetti poveri rilevata dall’Istat si è sostanzialmente dimezzata, qualificando il Trentino come l’area con la minor incidenza della povertà in Italia.
L’ENTITÀ DEGLI INTERVENTI E I COSTI DEL REDDITO DI GARANZIA
Assumendo a riferimento l’anno 2012, l’integrazione media erogata per nucleo familiare risulta di poco inferiore ai 2mila euro, corrispondenti a circa 631 euro a componente. A livello complessivo, l’onere è stato di 21,4 milioni di euro, dei quali 16,3 a favore delle famiglie con minori. I richiedenti di cittadinanza non italiana hanno assorbito quasi i due terzi delle somme erogate.
L’onere per abitante è stato di circa 40,3 euro. Per avere un termine di paragone, le pensioni assistenziali, erogate in Trentino dall’Inps a cittadini con oltre 65 anni, senza reddito o con reddito inferiore ai limiti di legge, ammontano a circa 15 milioni di euro, associati peraltro a una erogazione media che colloca i beneficiari sotto la soglia di povertà (l’importo base mensile della pensione è pari a 336,79, quello dell’assegno a 408,66 euro).
UNA PREVISIONE A LIVELLO NAZIONALE
Quanto è esportabile l’esperienza di Trento? Con quali costi?
Secondo l’indagine dell’Istat, nel Centro-Nord l’incidenza della povertà è pari al 5,3 per cento della popolazione. Un dato abbastanza prossimo a quello del Trentino, se ai locali poveri censiti dall’Istat si aggiungono i beneficiari del reddito di garanzia. Al Sud e nelle Isole la quota quasi quadruplica, portandosi al 21,5 per cento.
La tabella riporta la stima del costo del reddito di garanzia “modello Trento”, ottenuta moltiplicando la spesa per abitante del Trentino per la popolazione delle singole Regioni, corretta in base alla diversa incidenza relativa della povertà – rispetto a quanto osservato a Trento.
L’onere complessivo, che emerge da questa simulazione, è pari a 5,3 miliardi di euro così ripartiti: 1 miliardo al Nord, 0,6 miliardi al Centro e 3,7 miliardi nel Mezzogiorno. La Regione con la spesa maggiore sembrerebbe la Sicilia, con un costo stimato che supera 1 miliardo di euro, ovvero tanto quanto sarebbe richiesto per finanziare la spesa di tutto il Nord Italia.
Se si volesse contenere la spesa l’entità degli interventi potrebbe essere adattata ai differenti contesti territoriali, prevedendo soglie di “garanzia” che tengano conto del diverso costo della vita almeno a livello di grandi circoscrizioni. Ulteriori economie si potrebbero poi ottenere restringendo l’intervento ai soli nuclei con figli minori.
Alla luce degli assetti costituzionali, il “reddito di garanzia” dovrebbe rientrare fra le competenze regionali dell’assistenza e, come tale, gravare sul bilancio di questi enti. Le Regioni a statuto speciale dovrebbero provvedere con risorse proprie, senza cioè richieste di finanziamenti ulteriori allo Stato.
Adottando alcuni accorgimenti e attivando la misura con una certa “prudenza” i costi potrebbero effettivamente risultare contenuti e del tutto paragonabili a quanto lo Stato già sopporta per il sostegno agli anziani attraverso la pensione sociale. (GIANFRANCO CEREA)
(1) http://irvapp.fbk.eu/sites/irvapp.fbk.eu/files/IRVAPP_PR_2011-05_0.pdf.
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(appunti)
Dalla rivista mensile UNA CITTÀ (di Forlì), n. 192 / 2012 Marzo (http://www.unacitta.it/ )
INTERVISTA A CARLO RAPICAVOLI, REALIZZATA DA BARBARA BERTONCIN
CHI FA COSA
– Il ritorno alla Tesoreria unica, che va a penalizzare proprio gli enti virtuosi; la situazione, emblematica, della Provincia di Treviso che, pur avendo in cassa 50 milioni di euro, non può pagare ditte che hanno già svolto il lavoro, e il problema degli enti inutili; perché il federalismo può fare bene al sud. Intervista a Carlo Rapicavoli. –
Carlo Rapicavoli è Direttore Generale della Provincia di Treviso. Segretario Generale dell’Upi Veneto, Unione Regionale delle Province del Veneto, è componente, in rappresentanza delle Province Italiane, del Comitato di attuazione costituito presso il Ministero della Pubblica Amministrazione e l’Innovazione per valorizzare la produttività del lavoro pubblico, l’efficienza e la trasparenza delle Province; e del Tavolo Tecnico Permanente per la Valutazione, la Trasparenza e l’Integrità delle Amministrazioni Pubbliche. È autore di numerose pubblicazioni e articoli su diritto amministrativo e degli enti locali e sulla normativa ambientale.
Lei è stato tra i primi a denunciare gli effetti del ritorno alla Tesoreria unica presente nel decreto liberalizzazioni, che va a penalizzare proprio gli enti locali più virtuosi e mette a repentaglio lo stesso spirito del federalismo. Può spiegare?
Nel decreto liberalizzazioni c’è una norma che dovrebbe servire a favorire i pagamenti arretrati dello Stato. Questo è sicuramente un dato positivo. Lo Stato ha un debito di decine di miliardi di euro nei confronti delle imprese e, soprattutto in un periodo di crisi, un’accelerazione dei pagamenti è assolutamente urgente. Il problema è che, nell’ambito di questa norma, all’articolo 35 del decreto liberalizzazioni, viene previsto il ritorno alla cosiddetta Tesoreria unica. Si tratta di una questione abbastanza tecnica (e anche difficile da spiegare) che cerco di sintetizzare nel modo più semplice possibile. Il vecchio regime di Tesoreria unica prevedeva che tutti gli enti, Comuni, Province, Regioni, università, aziende sanitarie, eccetera avessero un conto corrente dedicato presso la Banca d’Italia.
Il regime della Tesoreria mista introdotto nel 1997 (per passare a regime nel 2000) stabiliva invece che gli enti pubblici (mantenendo un conto dedicato presso la Banca d’Italia per i trasferimenti diretti dallo Stato all’ente), per la gestione delle entrate proprie, potessero aprire un proprio conto di tesoreria presso una delle banche individuate attraverso le normali gare per l’affidamento di servizi.
Si tratta di un passaggio importante. In questi anni, infatti, tutti gli enti hanno ottenuto dalle banche tassi di interesse molto significativi, oltre a tutta una serie di servizi (di cui beneficiavano anche i cittadini) molto vantaggiosi e assolutamente impensabili con il vecchio sistema della Tesoreria unica.
Ora, il decreto liberalizzazioni sospende l’applicazione dell’attuale regime di tesoreria, consolidato ormai da oltre un decennio, per tornare al vecchio. Il Governo ha infatti disposto che entro il 29 febbraio gli enti locali dovevano versare il 50% della liquidità disponibile nel conto della Banca d’Italia per poi completare questa operazione entro aprile o giugno a seconda se ci sono degli investimenti in titoli.
Questo provvedimento rappresenta una grossa limitazione per le autonomie degli enti e va sicuramente controcorrente rispetto a tutta la legislazione che è maturata negli ultimi vent’anni, a partire dalla riforma del Titolo V della costituzione del 2001 che appunto riconosce l’autonomia di Comuni, Province e Regioni.
In questo modo viene privata del tutto l’autonomia finanziaria, con delle ripercussioni negative immediate sugli stessi bilanci degli enti, soprattutto quelli con maggiore liquidità, che non potranno più contare sugli interessi attivi dei depositi presso le tesorerie.
Oltre al fatto che le banche -private della liquidità degli enti- metteranno in discussione i contratti di tesoreria che oggi consentono di erogare mutui a tassi agevolati per i cittadini, o servizi aggiuntivi a costi ridotti per particolari categorie svantaggiate. Questo spiega anche le reazioni delle ultime settimane della generalità degli enti, al di là dell’appartenenza politica.
Perché è un provvedimento che pesa più sugli enti del Nord che del Sud?
Perché sono le amministrazioni del Nord ad avere più disponibilità in cassa. Al Sud purtroppo la maggior parte delle amministrazioni basa la propria attività sui trasferimenti dello Stato quindi opera già in gran parte in Tesoreria unica. Invece le amministrazioni del Nord, vivendo con risorse proprie, hanno una gestione finanziaria autonoma.
Nella relazione tecnica al decreto si iscrivono otto miliardi e seicento milioni circa. In realtà sono molti di più: sentendo le dichiarazioni dei vari responsabili delle banche la stima è attorno ai trenta miliardi. Una cifra importante che viene meno. La Provincia di Treviso si trovava con una liquidità intorno ai cinquanta milioni di euro; liquidità che garantiva un’entrata di bilancio per interessi attivi pari a ottocentomila euro all’anno. Questi erano prodotti esclusivamente dal contratto di tesoreria e venivano investiti in servizi.
Nella Tesoreria unica non è previsto un tasso di interesse?
Il conto della Banca d’Italia per i trasferimenti dallo Stato verso gli enti è infruttifero; quello dove gli enti depositano le loro risorse al massimo arriva all’1%. Noi eravamo riusciti ad avere interessi attivi vicino al 4%. C’è una bella differenza! La Regione Veneto complessivamente ha più di un miliardo di liquidità da trasferire. Insomma parliamo di cifre importanti.
Per evitare il danno, la Provincia di Treviso la settimana scorsa ha deciso di investire trenta milioni in titoli di Stato. In questo modo non li trasferiamo; certamente non creiamo un danno allo Stato e ci garantiamo un interesse. Abbiamo cercato di dare un’interpretazione alla norma sperando che si arrivi ad un ripensamento, perché effettivamente è una grossa limitazione per l’autonomia degli enti.
Sono consapevole che negli anni qualche ente ha abusato di tale autonomia, ma allora bisogna intervenire su quei casi, non penalizzare indistintamente tutti gli enti.
Molte di queste scelte sono prese in nome dell’emergenza e della crisi…
Capisco, ma in nome dell’emergenza non si può stravolgere l’assetto costituzionale! L’attuale struttura organizzativa dello Stato riconosce pari dignità agli enti. Vogliamo tornare indietro? Allora bisogna però chiedersi se davvero un ritorno al centralismo sia quello di cui l’Italia ha bisogno. L’attuale crisi è dovuta a tanti fattori, però il nostro debito pubblico -che è la debolezza maggiore dell’Italia- non è stato certo determinato dai Comuni, dalle Province e in generale delle autonomie locali. È un debito che ci trasciniamo dalla gestione centralistica della spesa pubblica. Tornare al modello che ha determinato l’attuale situazione di crisi francamente non mi sembra la soluzione migliore. Occorre sempre stare attenti ai provvedimenti di emergenza…
È chiaro che siamo in una situazione straordinaria, che richiede interventi urgenti. Penso, tuttavia, che un maggiore confronto e collaborazione fra tutti gli enti che costituiscono questo Stato sarebbe stato utile. Da operatore dell’autonomia locale devo dire che questo continua a mancare. Spesso i provvedimenti del governo si leggono solo sul giornale, senza che vengano attivate le procedure di concertazione e confronto (previste tra l’altro dalle leggi attuali) come la conferenza Stato Regioni. La vicenda della riforma delle Province è emblematica.
Lei si è espresso negativamente anche rispetto all’abolizione delle Province. Può raccontare?
L’abolizione delle Province è un altro esempio di come sull’onda dell’emergenza si possano fare degli interventi molto discutibili, perché -di nuovo- non rientrano in una riforma organica dell’assetto costituzionale. Cioè, non si può prendere una parte di una struttura e tagliarla pensando di lasciare inalterato il resto. Che poi non si sta neanche parlando di un effettivo taglio. La proposta è che l’apparato politico venga sostituito con un’elezione di secondo grado, per cui l’attuale Presidente della Provincia e i consiglieri, anziché essere eletti dal popolo, sarebbero eletti direttamente dai consiglieri comunali. È questa la soluzione? Ne dubito! Si rischia veramente di fare dei danni. Io nutro sempre qualche paura quando si assimilano i costi della politica con i costi della democrazia. Sono due cose molto diverse.
Se facciamo passare il principio che per ridurre i costi bisogna tagliare la rappresentanza democratica, allora oggi tagliamo le Province, domani (anzi è già in corso) tagliamo tutti i piccoli Comuni, poi taglieremo le Regioni… Beh, se spingiamo quest’idea all’eccesso -ovviamente parlo per assurdo- allora basterebbe una sola persona!
Tra l’altro, quando si vanno a tagliare il numero dei consiglieri comunali in un piccolo comune non si risparmia praticamente nulla. Un consigliere di un comune di diecimila abitanti costa duecentocinquanta euro all’anno! Un sindaco di un comune della medesima dimensione avrà un costo di 1500 euro lordi al mese e ci dedica tutto il suo tempo. Tra l’altro, il cittadino percepisce la presenza dello Stato attraverso il sindaco, non certo attraverso un parlamentare.
In ogni caso non vorrei cadere in questo dibattito sulla casta e i costi della politica. Ci sono gli sprechi, ci sono cose inaccettabili soprattutto in un momento di crisi, però bisogna stare attenti a fare del populismo di questo genere.
Tornando alle Province, è chiaro che una riforma era necessaria, ma è una riforma che deve partire dall’assetto generale e dalle competenze. Il vero problema del nostro paese è che non viene mai definito esattamente “chi fa cosa”. Per la stessa competenza è presente una miriade di enti. Sfido chiunque a dire quanti enti pubblici intermedi di varia natura (con piccole competenze) insistono a livello regionale, interprovinciale o comunale. Le finanziarie degli ultimi anni hanno tutte proclamato la soppressione di questi fantomatici “enti inutili”, ma non si è riusciti a sopprimerne neanche uno!
Questo comporta che, ad esempio, se noi come amministrazione pubblica costituzionalmente riconosciuta vogliamo realizzare un’opera pubblica, una strada o una scuola, dobbiamo fare una conferenza di servizi e invitare una molteplicità di enti perché se si trova in area protetta, c’è la soprintendenza, poi c’è l’ente parco, il consorzio di bonifica, l’autorità di bacino, l’Ato delle acque e via dicendo. Tutti enti pubblici, ma non soggetti al controllo dei cittadini. I cittadini non sanno neanche che esistono. Ognuno col proprio Consiglio di amministrazione, che nessuno sa bene cosa faccia, né quanto costi in direttore, strutture, sedi. È lì che bisogna intervenire.
Sono bacini di clientelismo…
Allora, però, bisogna essere onesti. Non si può affermare di fare un intervento significativo sui costi della politica, togliendo un ente rappresentativo come la Provincia, senza invece intervenire su questa molteplicità di enti che non rispondono praticamente a nessuno se non al politico di turno. In una fase di emergenza bisogna avere il coraggio di affrontarle -ma davvero- queste questioni.
La riforma delle Province, così come pensata, è inattuabile perché è stata fatta senza prendere in considerazione cosa fanno le Province oggi.
Quali sono le competenze della Provincia?
Partiamo dalle funzioni principali. La viabilità: togliendo le autostrade e la viabilità comunale, la maggior parte della viabilità è provinciale. La Provincia ha la responsabilità per la gestione delle strade, la manutenzione, lo spazzamento della neve, ecc.
A chi può andare questa competenza? Non certo al Comune. Se prendiamo una strada provinciale di collegamento, cosa facciamo? La spezzettiamo e ogni Comune si gestisce un tratto di strada? È impensabile e certamente antieconomico. Oppure la riportiamo alla Regione? Ma la Regione deve essere l’ente che legifera, non fare la gestione. Ci sono le scuole superiori: in ogni provincia i centri maggiori ospitano gli istituti scolastici superiori che evidentemente hanno un bacino sovracomunale. Il liceo classico di Treviso serve un bacino di 20-30 comuni; non può gestirlo un Comune. Vogliamo affidare alla Regione la manutenzione degli edifici scolastici? Non ha senso. Poi ci sono i Centri per l’impiego e tutte le politiche del lavoro. Facciamo un ufficio del lavoro in ogni comune? La formazione professionale (che in un periodo di crisi economica ha un ruolo fondamentale, soprattutto per l’inserimento degli espulsi dal mondo del lavoro e la riconversione) la deve fare ogni singolo comune? Ricordo che parliamo di una realtà in cui la maggior parte dei comuni sono sotto i cinquemila abitanti. Come fanno? È impensabile!
Anche tutta la gestione dell’ambiente, dei rifiuti, dell’urbanistica è a livello provinciale. Oggi la Provincia approva i piani regolatori o di assetto del territorio dei comuni (Pat). Se non c’è più la Provincia o questa diventa ente di secondo grado gestita dai sindaci, i sindaci diventano controllati e controllori; si approvano i loro piani? Non ha senso. Nel caso di una regione di piccole dimensioni, si potrebbe anche ipotizzare di riportare la pianificazione a livello regionale, ma in una regione come il Veneto che va dalle Dolomiti fino alla laguna di Venezia, con realtà e bisogni territoriali completamente diversi, anche questo mi sembra improponibile. Oggi in tre mesi la Provincia approva i piani regolatori di un comune. Prima quei piani rimanevano fermi in Regione per anni. Cosa facciamo? Torniamo indietro? Queste sono le funzioni principali, ma ce ne sono molte altre. Ecco, è su questo che bisognerebbe discutere.
Come si rimedia allora a una situazione in cui innegabilmente ci sono stati degli sprechi?
Bisogna partire dalle competenze. Se stabiliamo che serve un ente intermedio tra la Regione e il Comune, bisogna anche dire quali funzioni deve svolgere, che sono più o meno quelle che ho appena elencato. Alcune, probabilmente, come le competenze in materia di turismo, di sport, possono anche essere trasferite al Comune, magari in cambio di altre.
Sicuramente si può intervenire sul numero delle Province. Negli ultimi vent’anni sono state create delle Province che hanno una popolazione inferiore ai cinquanta-sessantamila abitanti. Si può sicuramente discutere sulla dimensione minima degli enti, si può procedere a degli accorpamenti. Sono ormai vent’anni che si parla di città metropolitane. La mia non è una difesa a oltranza della una situazione esistente. Una dimensione accettabile potrebbe essere trecento-quattrocento mila abitanti. Questo porterebbe le attuali 107 province a circa 70, che potrebbe essere un numero accettabile.
In alcuni casi specifici -in base alle peculiarità territoriali- si potrebbe avere anche un numero di abitanti inferiore. Questo va tenuto presente.
Non occorre inventarsi chissà che cosa. Forse basterebbe prendere le province storiche, quelle che esistono da prima dell’Unità d’Italia, ed eliminare quelle che sono state create dopo, non certo per ragioni storiche, ma politiche. Così forse si arriverebbe a un numero sostenibile, senza stravolgere situazioni consolidate.
Non bisogna infatti dimenticare che tutta la nostra organizzazione è fatta su base provinciale: dalla Prefettura alle Questure, i sindacati, i partiti politici, le associazioni di categoria. Siamo un paese di comuni e di province; è la nostra organizzazione territoriale.
Ma cosa si può fare contro questa moltiplicazione degli enti?
È dal ‘96 (forse anche da prima) che ogni anno nella legge finanziaria c’è una norma che richiede la soppressione degli enti inutili e, come ricordavo, non ne è stato soppresso neanche uno. Hanno trovato tutti i criteri possibili. Ogni volta che usciva l’elenco, qualcuno protestava perché il tal ente non poteva essere soppresso. La finanziaria di due anni fa voleva eliminare gli enti con meno di settanta dipendenti, poi si sono accorti che c’erano degli enti che non potevano essere soppressi e che avevano sessantacinque dipendenti.
Il fatto è che fino adesso -insisto su questo punto- si è ragionato soltanto in termini di soppressione di un ente, senza porsi il problema di cosa fa. Io dico: andiamo a vedere che cosa fanno, perché se non fanno niente di importante, niente di rilevanza pubblica, vanno soppressi e basta.
Io vedo la necessità di unire attorno agli enti fondamentali, che sono Comuni, Province, Regione, Stato, tutto l’esercizio delle funzioni, applicando la costituzione per quello che dice, in base al principio di sussidiarietà, di cui non si parla più.
Il principio di sussidiarietà dice che tutto va fatto il più vicino possibile al cittadino. Quello che non può fare il Comune per la natura delle funzioni, lo fa la Provincia; quello che ha una rilevanza superiore al livello provinciale lo fa la Regione, e così per lo Stato. Non è più accettabile che esista questa miriade di enti strumentali che sfuggono al controllo di tutti. È assurdo che gli organi eletti si vedano le opere pubbliche bloccate per anni perché il tal consorzio non esprime potere favorevole, portando alla paralisi, con costi incontrollabili. Più che della casta, bisognerebbe occuparsi di questi aspetti, difficilissimi da controllare anche per chi fa giornalismo d’inchiesta; è più facile sparare sul politico in questo momento -ci sono anche tante buone ragioni, ma bisogna stare attenti… Togliamo piuttosto al politico la possibilità e il potere di creare aziende partecipate, aziende speciali, consorzi e di nominare migliaia di persone in tutti questi Cda, allora sì che avremo fatto la vera lotta alla casta.
Anche il federalismo fiscale ha subìto una battuta d’arresto…
L’Imu, l’imposta municipale, che doveva essere il primo elemento di attuazione del federalismo fiscale, produrrà un gettito che verrà gestito per metà dallo Stato.
Tra l’altro, lo Stato si è già assicurato il suo reddito, quindi i comuni che, nello stretto margine di differenziazione dell’aliquota, decideranno di applicare delle agevolazioni, perderanno quelle somme per intero. Questo non è federalismo!
Non solo: l’ultimo “milleproroghe” ha spostato in avanti le scadenze relative a una questione fondamentale, quella dei costi e fabbisogni standard, che deve diventare la base per valutare gli eventuali fondi di perequazione e quant’altro. Cioè bisogna passare definitivamente dal criterio della spesa storica a quello del fabbisogno standard. Fino ad oggi chi ha speso di più ha avuto comunque garantita quella capacità di spesa, a prescindere dai risultati. Questo ha determinato una crescente sperequazione che ha portato a delle esasperazioni anche fra il Nord e il Sud. D’altra parte, se una siringa nell’ospedale del Veneto mi costa dieci, perché in un’altra regione mi costa trenta? Se quella che costa dieci funziona ed è efficiente sulla base dei criteri generali standard, tutti si devono allineare a quel costo. Se poi un’altra realtà preferisce spendere venti perché opta per un prodotto più performante spiegherà ai suoi cittadini che pagheranno di più ma a fronte di un servizio migliore. Ecco, era iniziato un percorso funzione per funzione per individuare i fabbisogni standard sulla base di alcuni parametri, ma adesso è stato tutto prorogato al 2013.
Lei è convinto che il federalismo faccia bene anche al Sud…
Io non sono trevigiano, vengo da Catania, ma sono fortemente convinto che il federalismo farà bene al Sud. Federalismo significa autonomia di gestione, ma anche responsabilità; responsabilità di avere una gestione oculata perché se sfori, rispetto ai costi standard, devi aumentare le tasse locali e questo lo devi spiegare ai tuoi cittadini.
Soltanto puntando sulla responsabilità di chi amministra si può venir fuori da una situazione che non è più sopportabile. Come dicevo, la Provincia di Treviso ha circa sessanta milioni in cassa di entrate proprie e non può spenderli. È un assurdo! Noi potremmo costruire delle scuole, potremmo realizzare delle strade, delle opere necessarie, far ripartire l’economia, dare ossigeno alle aziende in difficoltà. Invece non possiamo farlo perché il Patto di stabilità ce lo impedisce.
La norma sulla Tesoreria unica ha fatto venir fuori qual è il problema: nel bilancio complessivo dello Stato, i sessanta milioni della Provincia di Treviso vanno a colmare un buco di bilancio di qualche altro ente. Questa è una cosa che non può più essere accettata.
Cioè noi qui -pur avendo i soldi in cassa- facciamo sempre più fatica ad assicurare il trasporto scolastico, la mensa e i servizi sociali per gli anziani. Intanto il Comune di Catania, la mia città, ha fatto un buco di bilancio di oltre duecento milioni di euro che il governo ha deciso di ripianare. Con l’ulteriore assurdità che il Comune di Catania, non avendo fatto investimenti, formalmente non ha violato il patto di stabilità, mentre qui -per pagare un’azienda che ha realizzato un’opera- si rischia di subire delle sanzioni. E questo in un territorio dove ormai da anni non riceviamo più un euro di trasferimento dallo Stato. È inaccettabile! È proprio la deresponsabilizzazione degli amministratori che ha portato al disastro al Sud. Occorre che ognuno impari a gestire i servizi direttamente con le proprie entrate, sulla base di costi e fabbisogni standard. Se poi ci sono delle zone in difficoltà bisogna studiare le forme di compensazione, solidarietà, perequazione -chiamiamole come vogliamo- per assicurare a tutti una parità di trattamento.
Come funziona il Patto di stabilità?
Il Patto di stabilità, introdotto nella nostra legislazione con la legge del 1998, deriva dal processo di integrazione economica e monetaria dell’Unione europea e non riguarda soltanto gli Stati nazionali ed i loro equilibri finanziari, ma coinvolge tutto il sistema delle autonomie territoriali, cioè Regioni, Province e Comuni.
Gli obiettivi imposti dalle regole del Patto di stabilità e crescita devono essere condivisi da tutti i soggetti pubblici coinvolti, chiamati a porre in essere comportamenti coerenti al fine del loro raggiungimento di tali obiettivi. Questa condivisione e cooperazione tra Stato, Regioni e autonomie locali comporta la necessità di programmare la propria finanza allo scopo di partecipare alla realizzazione dei complessivi equilibri della finanza pubblica (in armonizzazione con le politiche economiche e monetarie pensate a livello europeo). In sintesi i vincoli impongono il raggiungimento dell’equilibrio di parte corrente e la progressiva riduzione del rapporto tra il debito dell’ente e il prodotto interno lordo nazionale. Il Patto di stabilità prevede insomma il concorso degli enti locali alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica. Per rispettarlo ci sono due modalità: la riduzione delle spese correnti o la riduzione del pagamento degli investimenti.
Ora, cos’è avvenuto? Che soltanto qualche ente virtuoso è riuscito a ridimensionare la spesa corrente riducendo il numero delle assunzioni, bloccando il turn-over, facendo una gestione più oculata. Altri (la gran parte) hanno mantenuto la spesa corrente inalterata o addirittura l’hanno aumentata, assumendo, costituendo società e quindi tutto il peso del patto di stabilità si è tradotto in minori investimenti (cosa che ha contribuito fortemente alla situazione crisi) o nel ritardo nei pagamenti. L’amministrazione paga dopo 3-4 anni e intanto l’azienda fallisce.
La Provincia di Treviso in quattro anni ha ridotto il numero dei dipendenti del 20-25%, bloccando le nuove assunzioni. Consideri che noi siamo una provincia di 900.000 abitanti e abbiamo cinquecento dipendenti; ci sono province di pari numero che hanno tremila dipendenti.
Il federalismo comporta una rivoluzione culturale da parte dei cittadini, che dovrebbero appassionarsi di più alla cosa pubblica, ma anche da parte degli enti pubblici, a cui viene chiesto di cambiare mentalità. Sta cambiando qualcosa?
No, non sta cambiando niente, perché ancora non si vedono gli effetti in concreto.
Il federalismo prevede che i sindaci abbiano maggiore responsabilità, ma anche più capacità di decisione. Tuttavia, le finanziarie degli ultimi tre anni, con la politica dei tagli lineari, hanno tolto ogni autonomia all’ente locale: le decisioni vengono tutte calate dall’alto. Estremizzando -ma neanche troppo- possiamo dire che tutti gli enti locali sono commissariati; il bilancio è talmente vincolato che la capacità di determinare delle scelte è ridotta a zero.
La capacità che hanno gli enti è solo quella di far quadrare i conti. Tutti gli sforzi di fantasia si esauriscono nel cercare di attuare la minima parte di quel che avremmo in mente con le risorse a disposizione. È frustrante. Finché manca una capacità effettiva di poter gestire, non ci può essere l’effetto vero del federalismo, che è quello appunto di avvicinare i cittadini agli amministratori.
Adesso bisognerà spiegare ai cittadini che torneranno a pagare la tassa sulla prima casa e che, però, non vedranno nessun miglioramento a livello di servizi. Anzi, probabilmente, per far quadrare i bilanci -coi vincoli della finanziaria 2012- vedranno aumentare le tariffe, le rette scolastiche, il trasporto degli alunni.
È vero, siamo in una situazione critica. Ma la soluzione non può essere quella di tagliare sui sindaci e sugli gli assessori dei piccoli comuni. Quelle non sono cariche politiche di potere, bensì un mettersi al servizio. Nelle piccole comunità il sindaco e i due assessori sono quelli che -se c’è bisogno- vanno a pulire le strade. Dopodiché non ci si deve stupire se i sondaggi dicono che metà dei cittadini si sentono lontani dalla politica.
Le realtà locali si stanno svuotando ogni giorno di più. Al di là della sorte della Provincia, è proprio l’impostazione generale che mi preoccupa perché se svuotiamo le autonomie perdiamo ogni contatto con i cittadini. Credo che per chiunque, qualunque ruolo abbia all’interno della pubblica amministrazione, questa dovrebbe essere la preoccupazione maggiore.
Dal Governo tecnico mi sarei aspettato qualcosa di diverso, una maggiore attenzione verso le realtà locali. Capisco la necessità di dare segnali forti all’Europa, ai mercati, però…
L’unica speranza è che i cittadini sentano il bisogno di riappropriarsi della gestione del proprio territorio, dei propri servizi. Se c’è una coscienza dal basso forse anche i nostri politici si sveglieranno. È l’unico modo per superare questa fase di emergenza. Non certo tagliando indistintamente dal basso. Bisognerebbe anzi andare a sentire di più chi ogni giorno cerca di mantenere in piedi quello che oggi è lo Stato. Perché se oggi chiediamo al cittadino cos’è lo Stato, ci risponderà che per lui lo Stato è quello che vede ogni giorno: la sua azienda sanitaria, gli uffici comunali o provinciali. Chi opera sa quali sono i problemi. Dovrebbero ascoltarci un po’ di più. (dalla rivista mensile UNA CITTÀ -di Forlì-, n. 192 / 2012 Marzo –http://www.unacitta.it/–)